Archivio mensile:Maggio 2015

Il Crepuscolarismo e Guido Gozzano

 

I primi vent’anni della ma vita li ho trascorsi al mio paese, Sant’Agata sui due Golfi. Vivevo, insieme con i miei genitori e mia sorella, al secondo piano di un palazzetto giallo. Il balcone della mia camera da letto affacciava su un panorama mozzafiato: a sinistra, la collina di Santa Maria della Neve, dove potevo vedere l’edificio in cui avevo frequentato le scuole elementari, poi, il Monte San Costanzo, dalla cui cima si gode uno degli spettacoli più belli del mondo, 20150210_172906al centro della scena, l’isola di Capri e sulla destra, il colle del Deserto, col suo cupo monastero. Fin da bambino, mi incantavo, poggiato sulla ringhiera, a guardare, tra ottobre e novembre, il sole tramontare tra Capri e il mare. Ho quasi sempre accostato questa immagine al ricordo della mia infanzia e della mia terra bellissima ogniqualvolta, essendone lontano, ho pensato ad esse. Anche il termine Crepuscolarismo mi rimanda a questa dolce memoria per cui, a prescindere, ne sono affezionato. In qualche modo, questa definizione ha a che fare con il tramonto, perché fu adoperata per definire quella tendenza poetica che si sviluppò in Italia nei primi quindici anni del Novecento. Gabriele D’Annunzio aveva celebrato la poesia eroica, ponendo il poeta nella posizione di animatore della storia e creatore delle forze del futuro (il solito megalomane!). I crepuscolari, al contrario, rifiutavano questa concezione del poeta e della poesia, ripiegando su temi e movimenti più semplici, di declino, smorzati e spenti, comuni e usuali, come il sole che tramonta, appunto. Ecco il perché del termine Crepuscolarismo. Non so se avete mai fatto caso a ciò: in letteratura, funziona come in fisica, perché, ad ogni azione, corrisponde una reazione uguale e contraria. E allora, dopo il Petrarchismo c’è stato il Barocco, dopo il Barocco, l’Arcadia, dopo l’Arcadia, l’Illuminismo, dopo l’Illuminismo, il Romanticismo, dopo il Romanticismo, la Scapigliatura, dopo la Scapigliatura, il Verismo, dopo il Verismo, la poesia dannunziana, dopo la poesia dannunziana, il Crepuscolarismo and so on, come dicono gli inglesi. guido_gozzanoOgnuno di questi movimenti poetici deve qualcosa a quello che lo ha preceduto, soprattutto perché, ne viene fuori come contrapposizione, quasi a dire: “Io sono così, perché tu sei stato colì!” È un po’ come alle elezioni, dove ogni partito o coalizione si proclama diverso e migliore di chi era prima al governo, ma nei fatti, poi, non cambia mai niente. In letteratura per fortuna, non funziona così. Ogni singola stagione culturale ha dato qualcosa di importante alla sua storia. Comunque, torniamo ai nostri crepuscolari. Il più famoso tra essi fu senza dubbio Guido Gozzano. Nato a Torino nel 1883, studiò con poco profitto alle scuole superiori, si iscrisse all’Università senza, però, laurearsi. Si interessò soltanto alla letteratura, praticamente. Visse molto poco, 33 anni, distrutto dalla tisi, malattia che tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, fece strage non solo di poeti e letterati, ma anche di gente comune perché, a differenza dei concorsi pubblici, dove si fa a chi figlio e a chi figliastro, come si suol dire, la tisi non ha mai guardato in faccia a nessuno, né ha accettato raccomandazioni: per questo infame morbo erano tutti figli di NN! Il suo compendio poetico che vale la pena leggere è “Colloqui”. La poetica di Gozzano risente della malattia e del continuo confrontarsi con essa, dell’incertezza del futuro e del rifugio in un passato tutto da ricordare. Avrebbe desiderato solo essere felice, poter amare ed essere amato, ma la tisi glielo impedì. Ne sono dimostrazione due tra le sue liriche migliori:

Loreto impagliato ed il busto d’Alfieri, di Napoleone
i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto),
il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti,
i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,
un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,
gli oggetti col monito, salve, ricordo, le noci di cocco,
Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po’ scialbi,
le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici,
le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature,
i dagherottìpi: figure sognanti in perplessità,
il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone
e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto,
il cùcu dell’ore che canta, le sedie parate a damasco
chèrmisi… rinasco, rinasco del mille ottocento
cinquanta!

(L’amica di nonna Speranza, vv. 1 – 14)

«Piccolino, ti piaccio che mi guardi?
Sei qui pei bagni? Ed affittate là?»
«Sì… vedi la mia mamma e il mio papà?»
Subito mi lasciò, con negli sguardi
un vano sogno (ricordai più tardi)
un vano sogno di maternità…
«Una cocotte!…»
«Che vuol dire, mammina?»
«Vuol dire una cattiva signorina:
non bisogna parlare alla vicina!»
Co – co – tte… La strana voce parigina
dava alla mia fantasia bambina
un senso buffo d’ovo e di gallina…
Pensavo deità favoleggiate:
i naviganti e l’Isole Felici…
Co – co – tte… le fate intese a malefici
con cibi e con bevande affatturate…
Fate saranno, chi sa quali fate,
e in chi sa quali tenebrosi offici!
Un giorno –  giorni dopo –  mi chiamò
tra le sbarre fiorite di verbene:
«O piccolino, non mi vuoi più bene!…»
«È vero che tu sei una cocotte?»
Perdutamente rise… E mi baciò
con le pupille di tristezza piene.

(Cocotte, vv. 19-43)

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Gozzano non si atteggiò mai a grande poeta, perché verseggiò con tristezza, quasi piangendo. Come me. Una volta, scrissi una poesia di getto, per una donna che mi aveva abbandonato improvvisamente, dopo due mesi che eravamo insieme. Impiegai meno di dieci minuti a comporla e lo feci con le lacrime che grondavano dagli occhi, nel vero senso della parola. Dovetti tenerli quasi chiusi, per non allagare la tastiera del computer. Non è crepuscolare, ma esprime, comunque, il bisogno di impedire il crepuscolo di una passione. Voglio farvela leggere:

La perla e il pescatore

Seppure raccogliessi tutto il silenzio che ti è succeduto,
per farne un’unica parola d’amore
che recasse il tuo nome,
seppure avessi la possibilità,
un’unica, sola, possibilità ancora
di averti davanti e guardarti sorridere,
seppure pensassi di annegare il mio cuore
nel dolore che piango
al ricordo incomparabile dei tuoi occhi,
seppure maledicessi quelle mani che mi carezzavano,
quelle labbra che baciavano le mie
e i raggi di luna in una notte d’inverno,
e seppure permettessi alla rabbia di gridare,
per provare a trovare una ragione,
che sia pure vana e illusoria,
potrò mai dimenticarti?
Non voglio! Non voglio che il silenzio diventi parola,
che il tuo sorriso, i tuoi occhi, le tue mani, le tue labbra
siano solo ricordo.
Non voglio una perla,
voglio pescare lì dove il mare è profondo,
dove mi troverai quando risalirò dall’abisso
in cui la tua assenza mi ha fatto sprofondare.

 

 

Sigur Rós

 

Se l’emozione avesse un nome, con ogni probabilità, si chiamerebbe Sigur Rós. La musica della Rosa della Vittoria (così, Sigur Rós viene tradotto dall’islandese all’italiano) è il genuino frutto dell’incontro tra tanti stili e suggestioni artistiche. Sigur RósUn decadente e romantico mix tra psichedelia, shoegaze, dream pop e post rock, con una strizzatina d’occhio all’eleganza senza tempo della musica classica. Il risultato è una musica più unica che rara, tremendamente sentimentale, tormentata, fragile, capace di emozionare fino ai brividi e fortemente istintiva. Una musica che ha fatto innamorare mezzo mondo, proiettando i Sigur Rós su palcoscenici sempre più importanti. La storia della band comincia nel 1994 in Islanda. Inizialmente, il gruppo è un terzetto formato da un chitarrista cantante, Jónsi Birgisson, un bassista, Georg Hólm, e un batterista, Ágúst Ævar Gunnarsson. La loro carriera prende il volo in men che non si dica, grazie alla connazionale Bjork (cantante e produttrice discografica), che nota subito la grande abilità della band nel creare una musica semplice ma disarmante e inserisce una loro canzone in un’antologia per celebrare i 40 anni dell’indipendenza islandese dalla Danimarca. Qualche anno dopo, l’album di debutto: Von. Il disco mette subito in chiaro la propensione della band verso atmosfere psichedeliche ed è solo l’inizio di un percorso artistico, coronato da successi in ogni dove e vendite da capogiro. Una carriera ancora attiva e coronata, ultimamente, da Kveikur, il loro disco più rock. Ma il capolavoro, forse la pietra miliare della band, l’album Sigurros()che più di tutti rappresenta il manifesto per eccellenza del loro modo di fare musica, è ( ) (copertina a sinistra), FatCat Records. ( ) è il terzo lavoro in studio degli islandesi, datato 2002. Il disco mette a nudo i Sigur Rós, rinunciando sia alla sperimentazione psichedelica del primo lavoro (Von), sia alle partiture orchestrali del suo predecessore (Agaetis Byrjun). La band islandese, con questo lavoro, punta al più totale minimalismo: nessun titolo, nessuna informazione, nessuna lingua con cui esprimersi (come già accaduto per i Cocteau Twin). Birgisson, infatti, non utilizza alcuna parola, ma solo suoni insensati e improvvisati, finendo per usare la voce come un altro strumento, che si aggiunge al già straordinario sound. L’album si compone di otto lunghe tracce, in cui si possono trovare le più disparate influenze, dai Radiohead al post rock e allo slowcore dei Low. Ci sono, ovviamente, anche echi dei Pink Floyd e di un certo modo di fare psichedelica. La più grande forza dei Sigur Rós sta proprio nel riuscire a mescolare tante influenze, reinventandole in un sound personalissimo, che ancora oggi è tra i più innovativi della scena rock mondiale. In questo disco c’è solo la musica, una musica che emoziona come poche e che affiora lenta e inesorabile, intensa, fragile e struggente. I brani non hanno nomi e non ci sono testi. L’ascoltatore è padrone di dare qualsiasi titolo alle otto tracce del disco e di inventare qualsiasi testo. L’unica pecca di questo album è forse un’eccessiva tendenza al melenso e al lacrimevole, ma, per fortuna, questa è eccedente solo nella prima traccia (ascolta), una struggente e ripetitiva frase di piano, sulla quale il cantato di Birgisson sembra quasi far male al cuore.sigur_ros La seconda traccia (ascolta), forse la più astratta del disco, è composta da tenui gemiti campionati, sui quali si inseriscono gli altri strumenti, con una calma e una lentezza quasi straziante. La traccia numero tre (ascolta), invece, è pura poesia, un lento crescendo di piano, che regala sei minuti di emozioni pure, sei minuti di tregua e di pace, sei minuti lontani da un mondo sempre più alieno e crudele. Poi, c’è la quarta traccia (ascolta), una tenerissima e melodica marcia, che avanza piano fino a quando una paradisiaca melodia di tastiera non introduce la parte finale, basata su un sound più duro e una batteria che picchia più minacciosa. Ma in questo disco non c’è solo pace. Dalla traccia numero sette (ascolta), i Sigur Rós cominciano ad alternare momenti di quiete e di tempesta. Emblematico, in tal senso, è il caso dell’ottava e ultima traccia (ascolta), che sul finire viene brutalmente travolta da una cavalcata di suoni psichedelici e dall’incalzare di una batteria massiccia e metallica.15e4d2c0-162c-11e3-a5c8-720952d2a5e4 ( ) è, in definitiva, l’album della maturità artistica e stilistica dei Sigur Rós. Con esso, la band finalmente trova la sua dimensione sonora ideale. L’unico scopo di ( ) è regalare un’emozione sincera e genuina, far tornare bambini, innocenti e candidi, liberare dal peccato. ( ) ci offre un aiuto per estraniarci da quella prigione che noi umani abbiamo costruito con le nostre stesse mani. E’ un disco da ascoltare nel buio della nostra stanza, con gli occhi chiusi e il cuore aperto verso il magico mondo che ci offre, un mondo fatto di maestosi paesaggi, visioni paradisiache, fate, folletti e gnomi. Un mondo libero, colmo di gioia infantile e amore.

Pier Luigi Tizzano

 

 

Le tempeste solari e la tecnologia sulla Terra

 

Eventi si stanno manifestando in maniera costante da tempo e potrebbero causare seri danni a tutto ciò che di tecnologico è disponibile sul globo terrestre: le tempeste solari. La tempesta solare o tempesta geomagnetica è un fenomeno generato dall’attività del Sole e può creare disturbi alla magnetosfera della Terra. 4257598333Il Sole è una massa fluida in costante movimento. Regolarmente, si assiste a ciò che viene chiamata espulsione di massa coronale, cioè a qualcosa che somiglia allo scoppiare di una bolla d’acqua, quando questa, in una pentola, è messa sul fuoco in attesa di calarvi gli spaghetti. A differenza della pentola sul fuoco, il Sole non libera acqua ma particelle cariche, elettroni e protoni, che lasciano la sua atmosfera, formando il cosiddetto “vento solare”. Dalla Terra, queste attività di espulsione sono visibili sotto forma di macchie solari. Gli effetti possono essere pericolosi, come le radiazioni, dannose anche per l’uomo. Sono rischi remoti, ma numerosi scienziati, in questi giorni, stanno lanciando l’allarme. Un po’ di storia: il primo settembre del 1859, fu registrata la più grande tempesta geomagnetica della storia. L’evento produsse effetti su tutta la Terra, dal 28 agosto al 2 settembre. All’epoca, l’elettronica a disposizione era quasi inesistente, eppure notevoli disturbi furono causati alla tecnologia del telegrafo, provocandone l’interruzione delle linee per ben 14 ore. Molto intenso fu anche il flare solare del 4 agosto 1972, quando le comunicazioni telefoniche a lunga distanza vennero interrotte tra alcuni stati degli Stati Uniti. aurora_borealeQuesta circostanza suggerì la riprogettazione del sistema di comunicazione per i cavi transatlantici. Il 13 marzo 1989, un imponente brillamento solare lasciò senza energia elettrica sei milioni di persone in Quebec, Canada, per nove ore. Questo brillamento non era paragonabile, per intensità, all’evento del 1859, per cui è facile capire come i danni causati ad una società tecnologicamente più avanzata siano notevolmente superiori. Altri casi si sono manifestati fino ad oggi, con conseguenze quali corti circuiti a satelliti in orbita, black-out radio e danneggiamenti ai dispositivi GPS. Noi siamo al sicuro? Nessun rischio pare esserci per la salute: nonostante il flusso di particelle ad alta energia emesse dal Sole possa anche essere letale per un essere umano (critici soprattutto i protoni, che possono superare i 30 MeV di energia iniziale), l’atmosfera e la magnetosfera terrestre ci proteggono piuttosto efficacemente. Un rischio maggiore esiste per chi viaggia ad alta quota (il personale di volo, del resto, assorbe regolarmente dosi di radiazioni superiori alla media). Per questo, in concomitanza con fenomeni solari particolarmente violenti, il traffico aereo viene deviato, per evitare le zone polari, dove l’intensità di radiazione è massima (in corrispondenza dei poli la schermatura magnetica terrestre è, infatti, meno efficace). satellitiLo scienziato Pete Riley, sulla rivista Space Weather, ha formulato una previsione su un modello matematico, giungendo alla conclusione che esista solo il 12% di possibilità che la Terra venga colpita da una tempesta solare nei prossimi 10 anni. Alcuni studiosi della NASA, invece, hanno parlato di un fenomeno che, due anni fa, avrebbe rischiato di colpire la Terra, provocando gravi conseguenze. Il Sole, infatti, avrebbe generato due enormi nubi, le quali, colpendo la Terra, avrebbero potuto originare pericolosi effetti. Si sarebbe trattato della tempesta più forte degli ultimi 150 anni e avrebbe potuto provocare un blackout quasi totale di tutte le nostre tecnologie, satelliti compresi. Incredibili sarebbero state le conseguenze, con interruzioni di corrente, un impatto economico di proporzioni incredibili e danni per oltre 2000 miliardi di dollari. Cosa ci riserverà il futuro? Dobbiamo iniziare a preoccuparci?

Edoardo Morvillo

 

16 maggio 2015. Sorrento. Libreria Indipendente

 

Reading del racconto “Nomidi Mimmo Bencivenga ed esibizione musicale dei Rua Port’Alba.
Un racconto delicato ma potente sulla strage di Portella della Ginestra, compiuta dalla banda di Salvatore Giuliano il primo maggio del 1947. Il lirismo dell’Autore eterna i nomi delle vittime, persone comuni, lavoratori che si stavano recando a far festa, la loro festa. Chi furono i mandanti di quell’eccidio? I latifondisti e i mafiosi siciliani o i servizi segreti statunitensi, preoccupati per l’avanzata del social-comunismo in Italia?
Massimo Mollo e Marzia Del Giudice, fondatori dei Rua Port’Alba, poeti e cantori militanti delle tradizioni napoletane e non solo, con le loro canzoni, le storie e i personaggi di queste, hanno tracciato il proprio percorso artistico, radicato nelle lotte del passato e proiettato verso il futuro.
Letture di Marilena Altieri e Pasquale Carrino. Riflessioni letterarie sul racconto “Nomi”, analisi storiche sulla strage di Portella della Ginestra e intervista ai Rua Port’Alba di Riccardo Piroddi. Organizzazione di Mimmo Bencivenga, proprietario della Libreria Indipendente.

 

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Giuseppe Gioachino Belli: er poeta de Roma

 

Ma cche Ffajòla, Cristo, è ddiventata
sta Roma porca, Iddio me lo perdoni!
Forche, che state a ffà, ffurmini, troni,
che nun sscennéte a ffanne una panzata?

(Campa e llassa campà, vv. 1 – 4)

Romano de Roma, come pochissimi altri nella storia della Letteratura Italiana, nacque nel 1791. Non aveva compiuto 16 anni, che entrambi i genitori erano già morti: il padre di colera, la madre non si sa, ma, certamente, non di vecchiaia. Il giovanotto allora, dovette abbandonare gli studi gioacchino_bellie mettersi a lavorare, esercitando la professione di famiglia, il contabile. Si arrangiò in ogni modo possibile, facendo sempre salti mortali per portare qualche soldino a casa. Per arrotondare, dava lezioni private di italiano, geografia e aritmetica. Nel 1816, sposò una vedova, Maria Conti, molto più anziana di lui. Si buttò a capofitto nella vita matrimoniale anche perché, la dote della moglie, gli permise di vivere un po’ più tranquillamente. Di tanto in tanto, viaggiò, ebbe tempo sufficiente per soddisfare le sue curiosità letterarie, partecipò alla vita culturale romana, entrando a far parte dell’Accademia Tiberina, di cui fu anche segretario e presidente. Trascorse il resto della vita a comporre poesie in romanesco, fino a quando, la sera del 21 dicembre 1863, un ictus lo stroncò. Qualche tempo prima di morire, aveva detto al figlio: “Ah Ciro, me raccomanno, quanno moro devi da bbrucià tutte ‘ste cartacce mia, ‘a capito!”. “Sì ah papà, nun te preoccupà, quanno che sarà ‘o farò!”. Per fortuna, Ciro non lo ascoltò.

Torzetto l’ortolano a li Serpenti
prometteva oggni sempre ar zu’ curato
c’a la su’ morte j’averìa lassato
cinquanta scudi e ccert’antri ingredienti.

Quanto, un ber giorno, lui casc’ammalato;
e ccurreveno ggià cquinisci o vventi
tra pparenti e pparenti de parenti
a mmostrajje un amore indemoniato.

Ecchete che sse venne all’ojjo – santo;
e ‘r curato je disse in ne l’ontallo:
“Ricordateve, fijjo, de quer tanto…”

Torzetto allora uprì ddu’ lanternoni,
e jj’arispose vispo com’un gallo:
“Oggne oggne, e nnu mme roppe li cojjoni.

(Er testamento der Pasqualino)

Belli è stato, senza dubbio alcuno, il poeta del popolo romano. In oltre 2000 sonetti, lo cucinò in tutte le salse, ce ne ha fatte sapere di tutti i colori, dando voce ai plebei, facendogli parlare il loro linguaggio, pieno di parolacce, insulti e scurrilità, con i quali essi lamentavano01_02_Cat i loro bisogni, mostrando i maltrattamenti e le prepotenze subite dal clero e dalla nobiltà. La comicità che ne viene fuori è spesso esilarante, ma la sua produzione rappresenta anche uno specchio fedele e profondo della Roma del Papa Re, una città alquanto arretrata, sporca, con le greggi di pecore che andavano a brucare l’erba tra le rovine dell’antico impero, stracolma di bordelli e di furfanti, mendicanti e pover’uomini ad ogni angolo della strada, forche dalle quali pendevano malfattori e spesso sventurati innocenti, gente che si arrangiava come poteva, furbescamente e un po’ truffaldinamente, ma, tutto sommato, con un grande cuore. Questo è concentrato nella poesia di Belli.

Accidenti a l’editti, a cchi l’inventa,
chi li fa, chi li stampa, chi l’attacca,
e cchi li legge. E a vvoi st’antra patacca
schiccherata cor brodo de pulenta!

E addosso all’ostarie! ggente scontenta,
fijji de porche fijje d’una vacca!
Si all’ostaria ‘na purcia sce s’acciacca,
cqua ddiventa un miracolo diventa!

Papa Grigorio, dì ar Governatore
che sto popolo tuo trasteverino
si pperde l’ostarie fa cquarc’orrore.

Noi mànnesce a scannatte er giacubbino,
spènnesce ar prezzo che tte va ppiù a ccore,
ma gguai pe ccristo a cchi cce tocca er vino.

(L’editto de l’ostarie)

Come lui stesso ebbe a dire: “Vojo fà de a plebe romana, monumento.” E ci è riuscito, perché nei suoi sonetti quella plebe c’è tutta, parla, si sbraccia, cerca attenzione e la ottiene. I suoi concittadinibelerma1 lo ricambiarono, erigendogli un bel monumento nella piazza omonima, proprio all’ingresso del rione Trastevere (foto a sinistra). Tanto per sorridere ancora un po’: nel 1827, Giuseppe Gioachino Belli raggiunse Milano perché in molti, a Roma, gli avevano detto che nella capitale del Lombardo – Veneto avrebbe potuto trovare tanti uomini di lettere e bravi rimatori come lui. Ed infatti, vi conobbe il poeta Carlo Porta. Sarebbe stato bello poterli sentire tutt’e due, uno in milanese e l’altro in romanesco, scambiarsi versi e versacci. Forse per rispondergli con le rime, o, forse, per imitazione, Belli compose un sonetto simile a Dormiven dò tosann tutt do attaccaa di Porta (a breve, un articolo su questo letterato milanese). Il “nobile” argomento è sempre lo stesso:

Àghita, sai? je l’ho ggià ddetto a cquello:
e llui s’è sbottonato li carzoni,
e mm’ha ffatto vedé ccome un budello
attaccato a ddu’ ova de piccioni.

Quer coso disce che sse chiama uscello,
oppuro cazzo, e ll’antri dua cojjoni.
Io je fesce: “E cch’edè sto ggiucarello?
E sti du’ pennolini a cche ssò bboni?”

Mo ssenti, Àghita mia, quello che rresta.
Disce: “Fa ddu’ carezze a sto pupazzo.”
Io je le fesce, e cquello arzò la testa.

Perantro è un gran ber porco sto sor cazzo,
perché ppoi, strufinannome la vesta,
ce sputò ssopra, e mme sce fesce un sguazzo.

(Le confidenze de le ragazze)

 

 

Indian Jewelry

 

Strana e bizzarra saga quella degli Indian Jewelry. Ma anche misteriosa e inafferrabile perché, in realtà, nessuno sa con precisione quanti siano i musicisti di questa band di culto della psichedelia underground. Si sa solo che sono un collettivo ad espansione continua e provengono dal Texas. Si sa che viaggiano on the road, come gloriosi hippie del passato, reclutando musicisti in ogni dove, esibendosi in performance musicali che sono, di fatto, un vero e proprio show allucinogeno. A dirigere l’orchestra sono in quattro: ij-truck-2la polistrumentista e cantante Erika Thrasher, il factotum Tex Kerschen, il batterista Rodney Rodriguez e il chitarrista Brandon Davis. Sono loro i titolari di questo psychedelic dream in salsa hippie, dove ognuno può entrare e uscire liberamente, come ci si trovasse in una comune, contribuendo, così, a creare un sound sempre più ricco e particolare e a rendere i live sempre più imprevedibili e originali, veri e propri circhi della follia umana. Nel corso degli anni, la band si è cimentata in progetti folli e originali, arruolando, di volta in volta, i più strabilianti personaggi incontrati sulle strade dell’America selvaggia. E, nonostante l’entrata e l’uscita di tanti e diversi musicisti, con background spesso contrastanti, il sound di base di questo maestoso progetto ha sempre mantenuto un comune denominatore: una devastante psichedelia di fondo. Forse devastante è dir poco.indianJewelry-640x428 Bisogna mettere subito in chiaro le cose: con gli Indian Jewelry non si scherza affatto. La loro musica è quanto di più psichedelicamente malato sia mai stato concepito nella storia del rock. Ci troviamo di fronte a droni, loop, drum machine, riverberi, chitarre, tastiere e rumori assordanti, che formano allucinanti agglomerati di suoni, capaci di violentare letteralmente le orecchie dell’ascoltatore. Tuttavia, pur rinnegando il formato-canzone classico e seguendo una sorta di anarchia strumentale, in cui tutto sembra essere concesso, i nostri eroi mostrano una insospettabile abilità melodica e un barlume di lucidità nel riuscire ad abbozzare linee geometriche in questo ammasso di devastazione psichedelica. La loro storia inizia nel 2003 e, oggi, la band è ancora in attività.Indian_Jewelry_-_Free_Gold! Uno dei momenti più alti della carriera l’hanno toccato nel 2008, quando hanno dato in pasto al pubblico il loro terzo disco, “Free Gold!”, We Are Free (copertina a destra), un vero e proprio viaggio spazio-temporale come insegna la tradizione psichedelica, un disco visionario e violento, terribilmente allucinogeno, la dimostrazione che la psichedelia non è morta nei ‘70, la prova tangibile che ci sono ancora una miriade di terre inesplorate da questo genere di nicchia e mai compreso a pieno. L’apertura del disco è affidata a “Swans” (ascolta) e “Temporary famine ship” (ascolta), veri e propri manifesti propagandistici, relativi a questo modo di fare musica, dove loop (campioni musicali che si ripetono in continuazione) ruvidissimi fungono da base a una voce “in trance” e a chitarre distorte, che sembrano quasi farsi guerra tra un assolo acido e un altro a seguire ancora più acido e così via. “Seasonal economy” (ascolta), altro manifesto psichedelico, capace di sconvolgere i sensi dell’ascoltatore, di disorientare e confondere. Ma nel disco non mancano momenti di quiete, pezzi più “classici”. Parliamo di “Pompeii” (ascolta) e “Everyday” (ascolta), ballate acide ed eteree, in cui sembra di trovare sia i rumorismi dei Sonic Youth, sia la decadente malinconia dei Velvet Underground. Tra i momenti di follia più pura, “Walking on the water” (ascolta), una canzone lenta e a tratti sognante, una tenue psichedelia che sembra venire direttamente da un mondo sconosciuto e cullare indianjewelryl’ascoltatore in sogni felici e spensierati. A seguire, “Too Much HonkyTonking(ascolta) propone atmosfere meno sognanti, più angosciose e claustrofobiche, in cui i singoli strumenti si sovrappongono caoticamente, stordendo e spiazzando. Da menzionare sicuramente, anche l’esperimento di psichedelia tribale di “Hello Africa” (ascolta) e “Seventh Heavean” (ascolta), pezzo di chiusura del disco, che si sviluppa in strabilianti rintocchi di chitarra e synth, che disegnano uno scenario cosmico, degno del kraut rock tedesco degli anni ‘70. In conclusione, “Free Gold!” è una piccola ma preziosissima pietra della psichedelia underground, un album ultrasperimentale, violento e viscerale, visionario e allucinogeno. E’ un’odissea crudele e stralunata, una deriva di suoni violenti e perversi, capaci di far rizzare i capelli all’ascoltatore per le visioni cui lo conducono. “Free Gold!” è il figlio legittimo degli hippie anni ‘70 e gli Indian Jewelry sono la dimostrazione che i sogni rivoluzionari non sono morti del tutto. Sono l’ultimo baluardo di uno stile di vita ispirato da alti ideali e idee universali di giustizia e libertà. Quattro maledetti sognatori innamorati e testardi, tutt’ora attivi musicalmente. E chissà, a quest’ora, mentre leggete quest’articolo, dove saranno e quale bizzarro personaggio staranno ingaggiando per i loro live. Lunga vita agli hippie del nuovo millennio!

Pier Luigi Tizzano

 

 

Trattati, cronache e storie tra il ‘200 e il ‘300

 

Secondo quel modo di scrivere tipicamente medievale, a partire dal 1100, furono composte, in Europa e in Italia, vastissime opere che trattavano di tutto e di più. Quando, ad esempio, un letterato scriveva un libro di storia, non si limitava a raccontare quanto era accaduto ai suoi tempi o, al massimo, nell’arco di qualche secolo, come accade oggi in gran parte dei testi di storia che si studiano a scuola, ma cominciava da quando Dio che creò il mondo, fino al momento in cui staccava definitivamente la penna dal foglio.im099 Allo stesso modo, chi metteva insieme animali, piante e pietre preziose, in particolari raccolte dette bestiari, erbari o lapidari, non catalogava solo quello che aveva sotto gli occhi, ma vi inseriva mostri, belve feroci, animali mitologici, finti e inventati, piante che non sarebbero esistite nemmeno nel più attrezzato orto botanico del mondo, come i Kew Gardens a Londra, erbe magiche, fiori che divoravano gli uomini, pietre dai poteri meravigliosi, che si trasformavano in oro, che rendevano invisibili, il tutto arricchito con mille significati e allegorie. Questa particolare tendenza dello scrivere è stata detta enciclopedismo, perché, ogniqualvolta venisse in mente a qualcuno di mettersi a fare lo scrittore, doveva stendere un’enciclopedia. Giusto per fare due nomi, cito Vincenzo di Beauvais, autore dello “Speculum (specchio) Maius“, diviso in naturale, doctrinale e historiale, che rifletteva proprio tutto, e Ristoro d’Arezzo, redattore di una “Composizione del mondo con le sue cascioni“, due capitoloni difficilissimi e di una noia mortale. Molti furono anche i trattati di matematica, come quelli di Lorenzo Fibonacci, che nel tempo libero inventava sequenze numeriche per Dan Brown, e quelli di medicina, di astronomia e di astrologia.

I lettori di allora avevano poco tempo e ancor meno voglia di sfogliare libroni che non avrebbero mai finito, pieni di cose che non gli interessavano affatto. download (2)Avrebbero preferito leggere qualcosa che gli raccontasse come andassero le cose in modo spicciolo. Anch’essi volevano interessarsi di politica, sapere chi avesse perso la battaglia, chi fosse stato stato eletto re o nominato vescovo. Volevano leggere i settimanali scandalistici dell’epoca, come Novella 2000 o Chi, i quali rivelavano l’ultimo fidanzato della contessa o con chi era scappata la figlia del vassallo, promessa in sposa al principe reale.  Fu per questo, che tra la fine del ‘200 e gli inizi del ‘300, qualche storico furbo e un po’ curioso, pensò bene di scrivere cronache di quello che era successo e succedeva in quegli stessi anni, cui aveva potuto assistere con i suoi occhi o, al massimo, si era fatto raccontare da qualcuno che era stato presente.

Salimbene de Adam e la Cronica

Monaco francescano contro la volontà del padre, Salimbene, il quale, in realtà, si chiamava Ognibene, nacque a Parma nel 1221. Durante la sua vita si spostò molto tra il Nord Italia e la Francia.download Quando fu troppo stanco per continuare, si fermò e scrisse la “Cronica“. Morì nel 1287. A Salimbene due persone gli erano antipatiche che più antipatiche non si può: i francesi e Federico II. Non perse mai occasione, soprattutto ai primi, di combinarli male: “Quando bevono – diceva – le sparano grossissime, strillando che possono prendersi il mondo in un colpo solo e, pure quando non bevono, pensano di essere migliori di tutti gli altri popoli.” Come i francesi di oggi, dunque! Contro l’imperatore, invece, scrisse un libello intitolato “XII scelera Friderici imperatoris“, (Dodici pazzie di Federico imperatore) che, purtroppo, è andato perduto, dove lo accusava di essere uno spilorcio, di non aver avuto amici a causa proprio della sua avarizia e di aver combattuto la Chiesa solo per confiscarne le proprietà. La “Cronica” di Salimbene narra i fatti storici accaduti tra gli ultimi trent’anni dell’XII secolo fino alla sua morte. Rimane una delle fonti più importanti per la storia del ‘200, piena di eventi, con lo sguardo volto alle ingiustizie e alle miserie della società del tempo e con il grande rispetto per i personaggi che quella storia stavano facendo.

Dino Compagni e la Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi

Guelfo bianco, ricco borghese e sindacalista dell’Arte della Seta, Dino Compagni visse a Firenze tra il 1255 e il 1324. Fu gonfaloniere di giustizia e priore e, proprio per questo, quando i suoi compagni di partito, tra cui Dante, furono esiliati, cacciati dai neri, poté rimanere in città, grazie ad una sorta di immunità parlamentare, ma fu costretto ad abbandonare la vita politica.download (1) Non avendo più da lavorare, quindi, saputo che l’imperatore Arrigo VII stava scendendo in Italia, pensò di dare notizia di quanto fosse successo a Firenze dal 1280 al 1312. Illustrando in modo particolare la lotta tra i guelfi bianchi e neri e la vittoria di questi ultimi, Compagni dichiarò di trattare solo “il vero delle cose certe“, pure perché non aveva intenzione di scrivere falsità. Per questo, si servì solo di ciò che aveva visto e sentito di persona o che gli aveva riferito qualche galantuomo. Per di più, non voleva raccontarla a modo suo. Ma non riuscì ad essere imparziale. La sconfitta ancora gli bruciava e, accanto alla narrazione dei fatti, inserì predicozzi contro i suoi concittadini e contro la malvagità e l’infamia dei neri e del loro capo Corso Donati. Anziché una cronaca, quest’opera sembra un diario segreto, dove la passione adoperata per descrivere quanto è richiamato va al di là del fatto storico. I giudizi violenti contro personaggi potenti ancora in vita si sprecano e l’Autore, per paura che questi gliela facessero pagare tendendogli un agguato con i loro sgherri, nascose il manoscritto in un buco nel muro in cantina. Non disse niente ad alcuno e, per caso, 150 anni dopo, questo fu ritrovato.   

Giovanni Villani e la Nuova Cronica di famiglia

Sicuramente riuscì ad essere molto meno parziale di Dino Compagni, anche perché, nel frattempo, a Firenze, i tempi erano mutati. A comandare c’erano i neri, i bianchi erano in esilio e si stava tutti un po’ più tranquilli. Giovanni Villani nacque nella città dell’Arno nel 1280. Figlio del popolo, fu mercante, banchiere socio dei Peruzzi e dei Buonaccorsi e priore un paio di volte, simpatizzando per i neri. Fu accusato falsamente di aver sgraffignato danari pubblici durante la costruzione delle nuove mura della città e, a seguito del fallimento del Banco Buonaccorsi, fu incarcerato per qualche mese. VillaniMorì durante l’epidemia di peste del 1348, quella di cui Boccaccio si servì per dare inizio al “Decameron“. Villani divise la sua “Nuova Cronica” in dodici capitoli: non seppe resistere al fascino dell’enciclopedia e, nei primi sei, raccontò la storia del mondo, dalla Torre di Babele fino al 1265, con lo scopo di vantare, in maniera esagerata, le origini romane di Firenze. Negli ultimi sei, invece, riportò quanto successo nella sua città dal 1265 all’anno della morte. L’Autore non si perde in chiacchiere. Non gli interessa dire la sua sull’accaduto, quanto soltanto raccontare come sono andati i fatti. Piena di documenti d’archivio, di informazioni sulla popolazione e su come si svolgevano i commerci in città, essa contiene anche le prime notizie biografiche su Dante, con la soddisfazione di poter annoverare, tra i cittadini fiorentini, un così illustre poeta. Sul letto di morte, col corpo pieno di bubboni per la peste, Giovanni si fece promettere dal fratello Matteo la continuazione dell’opera. Matteo proseguì fino al 1363 e chiese, poi, la stessa cosa a suo figlio Filippo il quale, però, evidentemente poco interessato a questa pratica di famiglia, aggiunse soltanto il 1364.

 

 

Fibra ottica: così Telecom ci tiene nell’età del rame

 

Da mesi non si parla d’altro nel mondo delle telecomunicazioni italiane. Il lodevole progetto del Governo Renzi di dotare larghissima parte del Paese, entro il 2020, della vecchia (nuova solo per noi) fibra ottica, rischia di subire una brusca frenata, a causa degli interessi opposti di Telecom Italia. La vicenda, surreale, è in sintesi questa: il piano del Governo prevede circa 6 miliardi di euro di investimenti pubblici (tra Italia e Unione Europea) con l’idea iniziale di coinvolgere tutti gli operatori in Metroweb (società già attiva nel cablaggio di alcune città del Nord patuano-telecome partecipata, a maggioranza, dalla Cassa Depositi e Prestiti) per la realizzazione delle infrastrutture. Tutto bene, peccato solo che alla partita partecipi anche Telecom Italia. Sull’azienda guidata da Marco Patuano (foto a destra) pesa un enorme debito, salito nell’ultimo trimeste, a 29 miliardi di euro, garantito da una rete in rame che vedrebbe quasi del tutto azzerato il suo valore nel caso si realizzassero i propositi del Governo. Da qui, l’idea “geniale” di Telecom di aderire al progetto solamente alle sue condizioni: entrare con una quota del 60% in Metroweb Sviluppo, con una limitazione dei diritti di voto al 40%, per arrivare a detenere, una volta terminati gli investimenti, il 100% del capitale. L’intento è quello di possedere l’intera rete in fibra ottica, ricostituendo, così, una situazione di monopolio simile a quella già esistente per il rame. Il niet è arrivato immediatamente dall’Antitrust e a tale follia si è da subito opposta anche la Cassa Depositi e Prestiti, la quale, nonostante abbia aperto alla possibilità di concedere a Telecom la maggioranza in Metroweb, esclude categoricamente la cessione dell’intera proprietà della struttura di rete alla stessa. Posizione ribadita, anche di recente, dal Presidente della Cassa metroweb-logo-171571Depositi e Prestiti Franco Bassanini: “Telecom rivestirebbe, comunque, il ruolo più importante, perché è la società più importante, noi mettiamo il capitale”. Del resto, c’è da dire che in Telecom di capitali da investire ne restano ben pochi: nel bilancio trimestrale, il gruppo ha mostrato ancora segnali di rallentamento, con un utile più che dimezzato (da 222 a 80 milioni, anche per ragioni straordinarie), ricavi in calo (-2,6% a 5,1 miliardi), un margine operativo lordo in flessione (-7,7% a 2 miliardi) e un aumento del debito a 29 miliardi, dai 27 del dicembre 2014, legato ad una “negativa generazione di cassa operativa nel trimestre”. Ciò nonostante, Telecom vuole restare il padrone dell’infrastruttura di rete e si rifiuta di entrare in un “condominio” di operatori per sviluppare la fibra ottica sotto la guida e la garanzia della Cassa Depositi e Prestiti. Così, per portare avanti i suoi programmi di sviluppo, il Governo sta valutando un piano alternativo, che presupporrebbe l’aiuto di ENEL Terna. La più importante azienda energetica italiana, per quanto non abbia intenzione di rimettersi in gioco sulla telefonia, ha in atto un piano per la sostituzione dei vecchi contatori, che potrebbe tornare molto utile per portare la fibra ottica in tutte le case degli italiani, tramite tecnologia Ftth (Fiber to the home). Per Metroweb, insomma, i potenziali partner per realizzare la nuova infrastruttura a banda ultralarga non mancano, ma la partecipazione di Telecom renderebbe tutto più semplice. Per questo, Palazzo Chigi non ha rinunciato all’idea di ricucire lo strappo con Telecom, la quale, intanto, va avanti per la022795-fastweb_telecom sua strada. Di qualche giorno fa, infatti, è la notizia dell’accordo con Fastweb per la commercializzazione, nel 2016, di una “innovativa” Adsl (Vdsl enhanced) su architettura Fttc (Fiber to the cabinet), ovvero fibra fino all’armadietto di strada per poi raggiungere le case, tramite la vecchia linea in rame, con una velocità che si riduce drasticamente all’aumentare della distanza tra la cabina e l’abitazione. Un chiaro concretizzarsi della minaccia di procedere al cablaggio di 40 città, in diretta concorrenza a Metroweb. Una mossa disastrosa, la quale, al di là dell’assurdità di un doppio cablaggio, rischia di costar caro al nostro Paese, a causa delle norme europee che impediscono l’utilizzo di fondi pubblici se vi è un privato ad operare nello stesso settore e sullo stesso territorio. Morale della favola? Se Telecom andrà avanti con i suoi propositi, nelle città in cui vorrà installare la sua fibra non potranno essere usati soldi pubblici per le infrastrutture di rete e la grande opera strategica per il futuro del Paese rischia di essere bloccata o, almeno, ostacolata dagli interessi privati di un’azienda. Noi, nell’attesa, possiamo continuare ad impiccarci con il doppino di rame. Grazie Telecom!

Giuseppe De Simone

 

Questo articolo fa seguito a La banda ultra larga in Italia di Edoardo Morvillo. I nostri collaboratori si stimolano a vicenda, dando origine a scambi di idee e informazioni, a beneficio dei lettori, nello spirito di questo sito-blog!

 

 

9 maggio 2015. Sorrento. Libreria Indipendente

 

Presentazione del romanzo di Mariolina BencivengaIl pesce viola”, Edizioni Duemme, 2010.
Dino potrebbe essere un pesciolino che nuota tutto solo, con la bocca aperta, per mandare fuori tante… tante grosse bolle d’acqua colorata… bolle di colore rosso quando è allegro e nere quando è arrabbiato… un pesce insomma… un bellissimo pesce viola…”.
Un romanzo delicato, dal lirismo descrittivo senza pari. La storia di un ragazzino autistico e della sua meravigliosa insegnante. La storia del loro rapporto. Un romanzo che sembra una galleria d’arte. Un romanzo che invita alla riflessione sulla condizione dei bambini autistici e dei loro insegnanti.
Letture di Marilena Altieri e Pasquale Carrino. Relatore Riccardo Piroddi. Organizzazione di Mimmo Bencivenga, proprietario della Libreria Indipendente.

 

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Mogwai

 

Dotati di un istinto primordiale e animalesco, impulsivi e imprevedibili, i Mogwai hanno coniato un inconfondibile marchio post – noise – rock. Tra digressioni furiose, feedback e una continua alternanza tra quiete e turbamento psichico, sono una delle realtà più singificative del panorama underground a cavallo tra gli anni ‘90 e i 2000. mogwai“La nostra unica arma è l’istintività. È per questo che non ci sentiamo assolutamente intellettuali, né pretendiamo di essere artisti”. Queste le parole usate da Stuart Braithwaite, chitarrista e responsabile della composizione della maggior parte dei pezzi dei Mogwai, per descrivere l’aspetto più importante della loro musica. La band scozzese deve certamente molto agli Slint, i maestri di Louisville, soprattutto per quel che riguarda la scelta di fare un rock rigorosamente strumentale, salvo rarissimi interventi vocali, più parlati che cantati. I Mogwai nascono ufficialmente a Glasgow nel 1995. Inizialmente, l’organico è formato da tre elementi, ma dopo pochi mesi, è reclutato un secondo chitarrista, per dare più energia al sound che giocherà molto sulle sovrapposizioni chitarristiche e su distorsioni caotiche e furibonde. mogwai-come-on-die-young-deluxeNel 1997, viene prodotto il primo Lp, dal titolo “Ten rapid”, grazie al quale il pubblico britannico conosce e apprezza la loro “strana musica strumentale”. Una musica che sembra più improvvisata che studiata, stracolma, quasi fino alla noia, di feedback e distorsioni, che turbano e squartano l’animo dell’ascoltatore. Ma in questa “strana musica” non mancano momenti di pace, dominati da soavi melodie, sulle quali si innesca, in sottofondo, un parlato calmo e rasserenante. Grazie a “Ten rapid” la fama della band inizia a crescere, i live si moltiplicano e i fans pure. MogwaiyoungteamPresto ottengono un contratto discografico. Assoldato il terzo chitarrista, pubblicano, nell’ottobre del 1997, il loro primo album, “Young Team”, Chemikal Underground (copertina a sinistra). Questo disco è solo l’inizio di un’epopea senza fine, di una straordinaria carriera che non vedrà mai bassi. Otto album (quelli pubblicati finora, ma la band è ancora in attività e, con ogni probabilità, non smetterà di stupire e incantare), che possono definirsi otto perle all’insegna delle emozioni e di un’instancabile ricerca sonora. Otto piccoli gioielli da custodire gelosamente, inestimabile patrimonio dell’umanità ai tempi della generazione senza valori e senza speranze. Scegliere un album e parlarne è un’impresa tutt’altro che facile. Verrebbe voglia di raccontarli uno ad uno, come fossero preziose storie da tramandare con orgoglio di generazione in generazione. Ma in questa sede mi è consentito recensire un solo disco, e allora parlerò di “Young Team”, il primo album da me acquistato, il disco che mi ha fatto conoscere i ragazzi di Glasgow, facendomene innamorare. Il disco parte con “Yes! I am long way from home” (ascolta), una triste ballata che si evolve in un crescendo di suoni impetuosi e distorti. Poi c’è “Like Herod” (ascolta), una lunga odissea che inizia morbida e pacata anche se nervosa e tesa. D’improvviso la canzone sembra finita, ma è proprio lì che comincia il bello: riff di chitarre distorte irrompono sulla scena, come un fulmine che squarta un cielo grigio carico di pioggia. Subito dopo, altri due brani all’insegna di saliscendi chitarristici: “Katrien” (ascolta) e “Summer” (ascolta). mogwai_071Nella prima, risulta presente anche una sorta di parlato incomprensibile, ma che si rivela prezioso nell’aiutare le chitarre a metter su un crescendo nevrotico e confuso, emotivamente instabile. Segue “Tracy” (ascolta), un pezzo dall’atmosfera quasi sognante, simile a quello che la band proporrà nei successivi lavori in studio. “With Portfolio” (ascolta), invece, inizia pacatamente, con un piano che sembra quasi ispirarsi alla musica classica, ben presto soppiantato, senza pietà, da distorsioni colossali a turbare, ancora una volta, la psiche, a violentare una quiete che nei Mogwai non è mai reale, ma sempre apparente. Con “R u still in 2 it” (ascolta), il disco torna a farsi morbido e d’atmosfera, proponendo una sorta di folk sognante e malinconico, sul quale si staglia il cantato di Aidan Moffat degli Arab StrapInfine, ci sono i due minuti di piano di “A cheery wave with stranded youngsters” (ascolta), che sembrano essere un preludio al finale lancinante di “Mogwai fear satan” (ascolta), dove, su una base ritmica veloce e tambureggiante, si elevano i soliti muri di distorsioni furibonde e inquiete, vero marchio di fabbrica della band. maxresdefaultYoung Team” è un piccolo grande disco, un elogio alla tristezza, narrato con una musica unica, cruda e toccante. E’ forse la perfetta sintesi di un decennio musicale inquieto e senza grandi ideali, un tentativo di rappresentare gli stati d’animo di una generazione allo sbando, di figli di nessuno alla ricerca di un qualcosa sempre più inafferrabile. Inafferrabile e vago, proprio come la loro musica strumentale, ma non per questo, brutto o indegno. E’ un disco che pone le basi per un percorso sonoro umile, che non vuole proporsi come avanguardia, ma come una semplice ricerca della melodia e delle più intime emozioni. Perché, in fondo, la musica dei Mogwai è emozione. Un’emozione naturale, genuina, innocente, spontanea. Bella!

Pier Luigi Tizzano