Archivio mensile:Giugno 2015

Pazzia

 

Il mio corso, così ampio a percorrersi,
ha maggiore influsso che alcuno non sappia.
Per me si annega nel mare torbido;
per me si è rinchiuso nel carcere oscuro;
per me si è strozzati e per la gola impiccati;
per me mormorano e si ribellano i ribaldi;
per me mormora e segretamente avvelena:
e quando la mia stanza è nel segno del leone,
imprendo vendetta e aperto castigo.
Per me rovinano gli alti castelli,
precipitano le torri e le mura.
Per me si soffrono gelidi mali.
Dal mio sguardo si ingenera pestilenza.

(Franco Cuomo)

 

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Estate

 

Dov’è finita la leggerezza, dove sono finite le risate, le stronzate. Dove siete finiti viaggi disperati incontro all’estate, dove sono morte tutte le notti e le albe, fare l’amore sulla sabbia con gli schizzi delle onde, vedere il sole e poi andare a dormire. Dove sono tutti quei discorsi, i vaffanculo gridati, le strade e i negozi, le promesse, i litigi, dove sono quelle canzoni, l’unità, le pupille limpide, le creme solari, i panini col tonno, il torcicollo, il sale e poi la doccia, qualcosa di bianco, dov’è l’ombra che trema in una pineta, tu esuberante, io perduto. E vivo.

Patrick Gentile

 

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Il recinto della vanità

 

C’è sempre un epilogo per queste storie, per questi racconti e quest’ultimo ne racchiude il senso, la verità sapete qual’è? La verità è che non siamo ancora stati salvati. Sì, siamo stati addomesticati tutti quanti e oggi viviamo tutti in una specie di recinto, di parco protetto e custodito. Siamo guardati a vista sempre, ogni giorno, tutti i giorni, C’è chi si illude di volersi bene e di auto gratificarsi, chi insegue il sogno di essere sempre giovane e scattante anche a settant’anni, con piccole punturine e parrucchini vari, chi insegue progetti di lavoro, ma l’unica realtà è che siamo tutti dentro un recinto che non è neanche più un hortus conclusus. Tutti su un treno in corsa, tra stazioni diverse, si sale si scende, non ci si guarda in faccia, ci si urta, si impreca l’uno contro l’altro e il treno sferraglia rumoroso in un recinto chiuso: abbiamo tutti l’illusione di andare da qualche parte, ma in realtà nessuno va da nessuna parte. Se per molti solo un dio poteva salvarci, io, guardando tutti i visi che ho incontrato in questi anni, ne ho dedotto che non siamo ancora stati salvati, ma che, forse, non è più neanche il caso di attendere, perché non c’è nessuna salvezza, tranne l’illusione di coltivare la propria vanità. Si chiamava Domenico, lo trovavo nel treno già seduto al suo posto, minuto, femmineo nei modi, un libro tra le mani tutte le mattine. Conoscevo il suo nome perché una mattina una signora lo aveva salutato chiamandolo: ecco, quell’uomo femmineo coltivava compiaciuto le sue vanità: era talmente preso di sé che pensava di essere superiore a tutti quelli che gli stavano intorno, ma, nello stesso tempo, dai discorsi che gli sentii fare con la signora – una biondona molto cheap – ostentava una finta umiltà edificante e un finto altruismo e una finta bontà che lui praticava compiaciuto e con compunzione: ecco, Domenico si compiaceva di se stesso metodicamente. Tutte le mattine lui dava il buon giorno a tutti, regalando sorrisi fioriti e buoni propositi, ma, in realtà, era solo a lui che pensava. Bastava un nonnulla in quel vagone sgangherato per smascherare quel minuetto che lui inscenava tutte le mattine. Come una mattina che aggredì violentemente un signore un po’ goffo, che inavvertitamente aveva fatto gocciolare il suo ombrello sulle sue scarpe, o un’altra mattina, con fare disgustato, aveva sbattuto in faccia ad una poverina un: “Signora! Ma lei non si lava e che diamine! Si vendono tanti deodoranti e profumi, potrebbe pure usarne qualcuno!”. La malcapitata, che, poverina, io vedevo tutte le mattine, come tanti su quel treno, lo guardò con commiserazione, evidenziando il pensiero, come in un fumetto sulla sua testa che conteneva queste parole: “Ci tocca pure questo al mattino, non basta tutto il resto!”, cambiò posto e andò a dormicchiare su un altro sedile. In realtà, Domenico odiava il mondo e tutti quelli che gli stavano intorno. Le sue abitudini, cresciute nel segreto, coltivavano una oscura avversione per l’umanità che lo circondava, a meno che non si trattasse di un bel giovanotto: se ne adocchiava uno, erano tutte mossettine e gentilezze e ammiccamenti, trascurando anche la biondona, che manifestava tutto il suo disappunto serrando le labbra in una smorfia, che come una ferita gli tagliava il viso. Lui era un costruttore identitario di egoismo puro. Tutte le mattine, tranne il sabato, con la signora bionda tutto il mondo era passato al setaccio, tra raccapriccianti luoghi comuni e leziosismi stomachevoli. Erano insegnanti entrambi. Una mattina, con discrezione, ma in cuor mio non ne potevo più di ascoltare quelle scemenze sull’amore per tutti gli essere viventi, sull’azzurro del cielo e su quanto fosse bella la Penisola Sorrentina e i suoi scorci, azzardai un intervento del tipo: “Mi scusi, sono sinceramente colpito dalle cose che lei dice con tanta certezza, ma non le viene qualche volta il dubbio che forse il mare non è sempre azzurro e il cielo non è sempre blu, che la Penisola Sorrentina sta affogando nel cemento, che amare tutti gli essere viventi incondizionatamente è una enunciazione di principio ma che riesce difficile da realizzare e dunque non la realizza nessuno, a parte di non essere San Francesco o Gesù (cha amava solo l’umanità, ma non l’animalità) o Buddha (che amava di più l’animalità e meno l’umanità)?”. La biondona che era con lui, si girò di scatto, con fare stizzito, quasi a dire: “Ma come si permette? Ma non si rende conto di quello che ha detto?”. Lui, con uno sguardo che sembrò lanciasse saette, girandosi lentamente sul sedile, a gambe strette e piedi uniti, accennando ad un sorriso finto e contenendo tutta la rabbia che avrebbe voluto fare esplodere contro di me che avevo osato distruggergli tutti gli oggetti della sua vanità, disse, come se stesse distillando  perle di saggezza: “Piacere a tutti, del resto, significherebbe non piacere a nessuno. Ma la cosa fondamentale è piacere a se stessi, volersi bene”. Questa frase, che forse sarebbe stata credibile se pronunciata con un altro tono, evidenziò tutta la vistosa stonatura di quell’uomo dai modi femminei e tutta la sua rabbia dall’esser stato contraddetto da me. In fondo, chi ero io se non un tizio qualsiasi che viaggiava su un treno sgangherato come lui? Ma, soprattutto, fece venir fuori la sua vanità e il suo egoismo praticato con metodo: lui, tutte le mattine, voleva solo piacere a se stesso e voleva bene solo a se stesso.

Franco Cuomo

 

foto (30)Franco Cuomo, “Lady Goldenberg”

 

 

Solitudine

 

Penso che si possa guarire dal male di vivere solo trovando in solitudine i nostri medicamenti più appropriati. In solitudine e, se necessario, nel confronto arioso col prossimo. In ogni caso le cure principali per la nostra anima devono poter venire da noi, non importa come. Importa solo che a un certo punto arrivino. Potrei arrendermi facilmente al dolce veleno della tentazione esistenzialista, ma so che non ci riuscirei. Sono fin troppo leopardiano per scendere a un tale compromesso.

Patrick Gentile

 

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20 giugno 2015. Sorrento. Libreria Indipendente

 

Serata di teatro leggero. Quattro situazioni comiche e non solo, intervallate da letture di poesie, e portate in scena nel ristretto spazio che concede una libreria.
Quattro scene nelle quali, più che il corpo, contano il viso, lo sguardo, la voce e le parole. E la musica.
In apertura, “L’attore”, breve pièce scritta da Mimmo Bencivenga, interpretata da Marilena Altieri e Nino Casola. Due poesie di Totò, “Ludovico e Sarchiapone” e “’A livella”, lette da Pasquale Carrino. A seguire, “La separazione” di Ambrogio Coppola, divertente sketch interpretato da Nino Casola e dai bravissimi coniugi Teresa e Armando Simioli. Ancora letture di poesie, questa volta di Raffaele Viviani: “’O vico”, recitata da Pasquale Carrino; “’O muorto ‘e famme”, interpretata da Armando Simioli, e “’A caravana”, declamata da Benedetta De Nicola. In conclusione, un’altra breve pièce di Mimmo Bencivenga, speculare a quella di apertura, “L’attrice”, interpretata da Marilena Altieri e Nino Casola.
Introduzione al mondo del racconto recitato e intermezzi di Riccardo Piroddi. Organizzazione generale e commento musicale di Mimmo Bencivenga, proprietario della Libreria Indipendente.

 

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Le foto delle performances sono state scattate da Carlo Alfaro

 

La redenzione informale, ovvero, quando la filosofia diventa compostaggio

 

Diciamo che non mi va più di occuparmi di futilità, diciamo anche che non vale la pena spendere le proprie energie quando nessuno ti ascolta o quando, alle spalle ti parlottano dietro e allora, coltivo i miei amori di sempre: filosofia, letteratura, arte, mi danno molto di più e mi aiutano a volermi un po’ più bene che non è cosa da poco.

IMG_2941Giovanni Cuter, “Furore e Redenzione”

Dunque: “Come ci insegna Adorno, anche la filosofia contemporanea può invecchiare. Le opere filosofiche più significative, dopo la morte degli autori, attraversano uno stadio intermedio in cui non sono né attuali, né canoniche e fluttuano in una dissoluzione spettrale. I temi che una volta si raccoglievano sotto un nome proprio, ora si svincolano da questo rappresentante, si decompongono e attraversano uno stadio che è simile a quello del compostaggio. Cominciano così a moltiplicarsi radicalizzazioni arbitrarie di singoli temi e nuove diverse combinazioni dei singoli elementi scomposti, e il resto sprofonda in un passato irrecuperabile. Soltanto nell’attimo della sua dissoluzione sembra mostrarsi veramente il modo in cui è costruita una sintesi filosofica. Questa analisi, che procede attraverso lo smontaggio, funziona anche se l’autore, come ad esempio Adorno, tenta di sottrarre il proprio testo a un tale destino, professandosi antisistematico (come oggi fanno un poco tutti n.d.r.). La decomposizione difatti non riguarda soltanto i sistemi propriamente detti, ma anche il pensiero informale, che riflette la sua struttura allentata, nel costituirsi non come sistema, ma come un’écriture”. Questo passo di Peter Sloterdijk è tratto dal suo testo “Non siamo stati ancora salvati. Saggi dopo Heidegger”, pubblicato per Bompiani nel 2004, tradotto da Anna Calligaris e Stefano Crosare, citato a pag. 185, con una bella prefazione di Pier Aldo Rovatti, il titolo originale è “Nicht gerettet. Versuche nach Heidegger”. Dunque, la filosofia invecchia ed è caduca come tutto, Sloterdijk, però, ci dice pure come essa continua la sua missione, attraverso la trasformazione dei suoi elementi costitutivi, fino ad una “redenzione informale”. “Così accadde dopo Hegel, dopo Husserl […], dopo Heidegger”, lo stesso Theodor Adorno, e con lui parte della Scuola di Francoforte, che voleva ritenersi immune da questa decomposizione, è stato forse il primo ad essere stato dimenticato con gli altri appartenenti della famosa scuola che tanto peso ebbe per le generazioni di studenti negli anni ‘60 e ’70. Per Adorno però, proprio perché fortemente contestualizzato, la dissoluzione della sintesi non avviene per il contrasto con i suoi successori, ma per “perdita di pressione” storica. Se l’aver coniugato Heidegger, Freud e Marx insieme con Hegel e Nietzsche era già molto bizzaro e improbabile, ora, dopo un quarto di secolo dalla morte di Adorno tutta quella riflessione appare addirittura improponibile. Cosa reste allora di quel pensiero decomposto? Cosa resta della grande rappresentazione della caduta della metafisica raccontata nella Dialettica negativa e poi insieme a Max Horchkeimer nella Teoria critica? Rimangono i resti trasformati di una teoria dell’arte, rimane solo l’opera d’arte e le sue possibili interpretazioni filosofiche come unico rifugio contro gli eccessi della metafisica, ma rimane anche – adattata alla odierna reificazione dei corpi e delle coscienze  contemporanei – la lettura decostruita del suo capolavoro assoluto che, abbandonando il rigore della filosofia abbraccia l’ambigua doppiezza della letteratura: I “Minima Moralia“.  

Franco Cuomo

 

 

Il giudizio estetico al di là della rappresentazione

 

L’analitica del sublime in Kant, al di là di una critica del gusto, tenta una ridefinizione dei luoghi dell’apparizione. Così in questa foto:

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La Piazza del Plebiscito 1953. Una giovane donna accovacciata accanto ad un bambino che piange. La giovane donna è elegante in un tailleur scuro (la foto è in bianco e nero, seppia ad essere precisi), sicuramente blu, ha capelli nerissimi raccolti, un sorriso con rossetto e una spilla d’argento sul bavero della giacca, sandaletti nabuck. Il bambino ha un completino – nella foggia di allora – calzoncini corti bianchi, scarpe di camoscio bianche e calzini, giacchino corto azzurro: guarda da qualche parte o sta per piangere spaventato, mentre un coppo di mangime per colombi si è rovesciato attirando attorno a sé i famelici volatili: il bambino ha due anni. Capelli biondissimi e occhi azzurri. Alle spalle la chiesa di S. Francesco di Paola che non appare ripresa e pochi passanti sullo sfondo ignari, mentre forse spaventato si tiene alla mamma nonostante la mamma gli stringa la mano. Ecco, il giudizio estetico attiene alla descrizione e la descrizione èImmanuel-Kant una critica che va al di là della critica stessa, elaborando le condizioni della critica del giudizio. Questo è il giudizio estetico, il giudizio estetico sembra essere per Kant (immagine a destra) il giudizio per eccellenza. Questo giudizio è tale perché esso va al di là dell’oggetto stesso che descrive. Il pensiero è suscettibile di affettività e il giudizio estetico si pronuncia sullo stato del pensiero nel piacere o nel dispiacere entrambi gli stati fanno si che il pensiero elabori il giudizio di gusto. L’immaginazione è la potenza di una rappresentazione, qualunque essa sia. L’estetica kantiana si mantiene più distante dall’estetica di Baumgarten. E’ in questa distanza che il sublime arriva in una euforia che ci presenta un altro sentimento estetico di natura eterogenea rispetto a quello del bello. Può essere allora che il sublime sia un esempio perfetto del differente e la differenza è tutta nella capacità di pensare, di rappresentare e di andare oltre ciò che si rappresenta. Nel sublime accade che la ragione presenti un assoluto, l’immaginazione si sforza di trascendere l’oggetto rappresentato, ma non riesce a descriverlo, perché la ragione che determina l’immaginazione è – per Kant – limitata. Essa non è l’immaginazione romantica, non è la fantasia: l’immaginazione può comprendere, abbracciare, descrivere, ma rimane muta davanti al sublime.

Franco Cuomo

 

 

Aprile 1986

 

Imparai a memoria “L’aquilone” di Giovanni Pascoli in terza media. E mi sconvolse la coincidenza di quel compito col funerale di un ragazzo di un’altra classe cui dovemmo andare con l’intera scuola. Pioveva e mi pare fosse di giovedí, e tutti pensavamo alla radioattività. Io pensavo al bambino emaciato che corre dietro l’aquilone, poi si ammala. La domenica spesso andavamo al cimitero del Verano coi miei. Io lo chiamo campo santo in realtà. E c’era quell’odore che fanno i fiori tra le tombe. Ma la domenica mattina a questo serviva: ad andare a Villa Ada o a Porta Portese o al Verano. E una volta mi ero fissato che volevo assolutamente uno di quei pulcini neri infilati nelle scatole di cartone. Solo che i miei non me lo presero mai.

Patrick Gentile

 

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Se c’è una cosa davvero difficile a questo mondo è sapere come stare vicini a qualcuno che soffre (qualcuno che soffre più di noi in quel momento, voglio dire). Quando io soffro molto, per esempio, spengo la luce. Significa che non riesco più a parlare, né ad ascoltare. Molto triste come cosa, specialmente per i miei amici del cuore, i quali a un tratto non sanno più come o dove trovarmi, e se mi trovano, leggono la scritta “chiuso”.
Stranamente però ci sono delle persone, non so bene come ci riescano, le quali sanno fendere il buio. Non fanno domande, non danno consigli, non ricattano, né subiscono. Sanno solo come starti intorno. Non so bene come ci riescano. Loro non leggono la scritta “chiuso”. Loro sono sempre al di qua del cartello. Sono dentro. Non so come ci riescano.

Patrick Gentile

 

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