Archivio mensile:Febbraio 2016

Il 33 giri

 

Dodicimila lire. Vinte a sette e mezzo il pomeriggio di Santo Stefano. Il prezzo del primo album che comprai l’indomani, ossia la colonna sonora di “Staying Alive”. I Bee Gees, Frank Stallone, sapete. Undici anni, un soldo di cacio. Ma con quella sensazione di aver finalmente compiuto il passo decisivo verso l’età adulta: il fatidico rito di transizione dall’infanzia racchiusa nell’innocenza martellante del 45 giri alla maturità incarnata dal ben più impegnativo formato 12 pollici. Finì con la puntina sul primo solco di “The woman in you” in un freddo mattino d’inverno del 1983 l’egemonia materna a base di John Lennon e Bob Dylan e Kim Carnes e Lucio Dalla. E iniziò la mia: la spumeggiante epopea degli Anni Ottanta, cioè gli ultimi anni moderni della nostra storia. Gli anni in cui la musica pop era una faccenda seria. Gli anni in cui essere pop aveva uno specifico senso politico. Una connotazione eversiva. Gli anni in cui bisognava forgiare al di qua del Muro un linguaggio nuovo e indipendente. Un fare alternativo e spiazzante. Un credo che sfuggisse all’occhio-spia del Grande Fratello di “1984”. 
Il long-playing. Quella gigantesca custodia, i testi stampati sulla busta satinata, la carica elettrostatica del vinile una volta che mi decisi a sfilarlo da lì dentro e poi partì la musica. Senza ancora il pulviscolo. Il pulviscolo enorme che sarebbe venuto invece dopo. Negli anni successivi alla caduta del Muro. Quando non volendolo eravamo diventati tutti come Winston e Julia.

Patrick Gentile

 

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Infelicità

 

In noi adulti l’infelicità si affaccia tra le cose fatte da ragazzi, poi mollate in qualche angolo, molto lontane da noi. Sale dagli scantinati in cui abbiamo sigillato i nostri giocattoli, i nostri primi amori, certe grandi passioni che d’un tratto reputammo avvizzite invece dovevano ancora fiorire. Dai ripostigli in cui abbiamo nascosto vecchi amici come fossero strofinacci lisi. Dalle soffitte in cui abbiamo abbandonato quel modo che avevamo di vedere lo sviluppo della nostra vicenda umana, la nostra stessa fervida immaginazione. Oggi camminiamo tra le lapidi di tutto quel che, per imbarazzo e pudore, non siamo stati in grado di far durare nel tempo. Eppure alla fine abbiamo capito. Che crescere significa imparare una cosa poi rinnegarla poi rimpiangerla. Questa è la storia dell’uomo. Questa e poco altro.

Patrick Gentile

 

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12 febbraio 2016. Sant’Agata sui Due Golfi. Risto-Bar Centrale

 

Ciak, si legge! Quarto appuntamento con la rassegna letteraria-cinematografica, organizzata dall’Associazione Giovanile “361°”. Dal romanzo di Oscar Wilde, “Il ritratto di Dorian Gray” (1890), al film di Oliver Parker, “Dorian Gray” (2009), con Ben Barnes, Colin Firth, Ben Chaplin e Rebecca Hall.
Un filo tra i libri e il cinema, tra la letteratura e i grandi film. Un filo che lega tutta la serie di appuntamenti: si comincia con la proiezione di un film, tratto da un romanzo di successo e, in conclusione dello stesso appuntamento, sarà suggerito il libro da cui è tratta la pellicola presentata nel successivo. L’acquisto del libro, oggetto dell’incontro susseguente, sarà possibile alla fine di ogni appuntamento!
Conduzione e moderazione di Riccardo Piroddi. Letture di Rosaria Langellotto. Organizzazione generale di Ilaria Ferraro, in collaborazione, per la parte tecnica, con i giovani dell’Officina “361°”. Fotografie di Ilaria Ferraro.

 

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La poetica della luna: Giacomo Leopardi e Lucio Dalla

 

 

Giacomo Leopardi e Lucio Dalla. Un poeta-filosofo e un cantautore. Cosa possono avere mai in comune? Lo scoprirete presto! Voglio, però, condurvici pian piano, cominciando da un elemento naturale, visibile, di notte, da qualche parte nel cielo: la luna. La luna ha eccitato la fantasia dei poeti sin dalla notte dei tempi. Gli antichi greci la deificarono, arrivando a conferirle una triplice personificazione: Proserpina, moglie di Ade e regina degli Inferi (simbolo della luna calante); Artemide, dea della caccia (simbolo della luna crescente), e Selene, la luna propriamente detta (la luna piena). Anche Dante Alighieri cedette al fascino di questa triplice personificazione e, nel canto X dell’Inferno, ai versi 79-81, mise in bocca a Farinata degli Uberti, fiero capo ghibellino, una profezia post eventum, scritta, cioè, quando gli eventi predetti erano già accaduti: “Ma non cinquanta volte fia raccesa/ la faccia de la donna che qui regge/ che tu saprai quanto quell’arte pesa”. Dante si riferiva proprio alla luna (Proserpina, la donna che qui regge, in una commistione tra mitologia classica, dottrina cristiana e astronomia medievale), e le cinquanta volte in cui si sarebbe “riaccesa” rappresentavano i cinquanta mesi mancanti alla sua condanna all’esilio. Più vicino a noi, come non citare i tenerissimi versi di uno dei miei migliori conterranei: il principe De Curtis, Totò, il quale, nella poesia “A cunsegna”, esplora il topos poetico della luna quale benevola protettrice degli innamorati: “’A sera quanno ‘o sole se nne trase/ e dà ‘a cunzegna a luna p’ ‘a nuttata/ lle dice dinto ‘a recchia: I’ vaco ‘a casa:/ t’arraccumanno tutt’ ‘e nnammurate”. La luna, quindi, è il trait d’union tra i due protagonisti di questo mio breve scritto.

 

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Nonostante tutto ciò, mi si potrebbe obiettare: “Cosa c’entra uno dei più grandi, se non il più grande poeta italiano con Lucio Dalla, un cantante, seppure famoso? Cosa possono avere in comune un uomo che, a 10 anni, aveva una cultura vasta quanto quella di un paio di centenari messi insieme con un personaggio che ha giusto terminato le scuole medie? Cosa c’entra, dunque, Giacomo Leopardi con Lucio Dalla? Posso assicurarvi che hanno molti punti in comune e cercherò, qui, di esporveli nel modo più breve ma più esauriente possibile. Il materialismo del pensiero marxista, se da un lato ha fornito a una trentina di macellai le armi pseudo-ideologiche per sterminare decine di milioni di individui, dal punto di vista filosofico-letterario (ciò, in Italia, è avvenuto soprattutto grazie all’opera di Antonio Gramsci), ha avuto il merito di permettere ai critici di concentrarsi su problematiche, relative agli autori, non soltanto di poetica ma anche, e soprattutto, di vita reale, materiale. Ecco perché, allora, gli elementi biografici di un autore assumono una importanza fondamentale nel tentativo di imagesricostruire e motivare l’arte dello stesso. Detto questo, andiamo ad analizzare cosa successe nelle vite di questi due personaggi, Leopardi e dalla, in quella fase delle loro vite dove, per usare una felice espressione, andò in scena, per entrambi, il “preludio del genio”. Giacomo Leopardi, il conte Giacomo Taldegardo Leopardi (immagine a destra), nacque a Recanati, il 28 giugno 1798. Era figlio di genitori molto particolari. Il padre Monaldo, nobile, intellettuale, era il responsabile del dissesto economico familiare. Un uomo che viveva con la testa tra le nuvole, o, meglio, tra i libri, e incapace ad amministrare i beni di famiglia, terreni, fattorie, campi. Fu scrittore anch’egli, eclissato, ovviamente, dalla fama del figlio. Fu lui ad istillare nel piccolo Giacomo l’amore per le lettere. Aveva una biblioteca prodigiosa, visitabile, ancora oggi, a Recanati. Era un brav’uomo, a modo suo affettuoso con i dieci figli, ma, ripeto, totalmente incapace nella gestione degli affari di famiglia. La madre, Adelaide dei marchesi Antici, fu l’amministratrice economica della casa, riuscendo anche ad assestare il patrimonio, a prezzo di grandi sacrifici. Una donna dura, che non mostrava affetto, arida, molto religiosa, ai limiti della superstizione. Una figura, quindi, tutt’altro che materna. Il rapporto di Leopardi con la madre è, ancora oggi, oggetto di studio. Vi è un solo luogo nella sua opera, nelle “Operette morali”, in cui il poeta identifica la cattiva Natura con la madre, ma è comunque troppo poco per ritenere che sia l’interpretazione preponderante del suo rapporto con donna Adelaide. Lucio Dalla nacque a Bologna, il 4 marzo 1943. Il padre, Giuseppe, era un commesso viaggiatore, poco impegnato nel suo lavoro, quanto piuttosto nelle sue passioni, la caccia e la pesca. Un bell’uomo, alto e prestante. Morì di tumore quando Lucio aveva solo 6 anni. Il dolore di quella perdita avrebbe accompagnato il cantante per tutta la vita, influenzandone anche la poetica. La madre, Iole, era una sarta, una donna energica e risoluta, che dovette farsi carico dell’educazione del figlio e della sua crescita, in una Italia che usciva devastata dalla guerra. Una figura fondamentale nella vita di Lucio. La balena bianca, come è stata spesso chiamata. Giacomo Leopardi trascorse l’infanzia e la prima giovinezza nel palazzo di famiglia a Recanati, più propriamente, nella biblioteca del palazzo, in lunghissime ore di studio. A quindici anni già conosceva il latino, il greco, l’ebraico, l’inglese e il francese. Componeva trattati di astronomia e di chimica. Era già un vero e proprio erudito. Aveva mostrato, quindi, già a quell’età, le caratteristiche del genio letterario che lo avrebbero consacrato alla fama immortale. Lucio Dalla (immagine a sinistra) ebbe, in sua madre, il vero incentivo della sua carriera d’artista. La donna lo faceva esibire prima delle sfilate di moda che teneva d’estate, a Manfredonia, dove si recava per vendere i capi delle sue collezioni. A dieci anni, Lucio era già un animale da palcoscenico. Ci sono delle bellissime fotografie nel libro di Angelo Riccardi, “Ti racconto Lucio Dalla” 2014, che lo ritraggono con gli abiti di scena. Fa tenerezza. Era davvero un bel bimbo, disinvolto, sicuro di sé. Gli insuccessi scolastici, l’abbandono della scuola al quinto ginnasio e l’amore per la musica, per quel clarinetto, che gli era stato regalato da un amico di famiglia, il forsennato studio dello strumento, da autodidatta, e l’arrivo a Roma, lo proiettarono nel mondo della musica, grazie anche alla protezione di Gino Paoli. Questi, infatti, gli aveva consigliato di affrancarsi da I Flippers e di intraprendere la carriera solista. Appare chiaro, quindi, come entrambi, sin dall’infanzia, manifestassero quelle qualità che, poi, avrebbero sublimato nelle proprie creazioni artistiche. Vi ho già detto della luna. La poetica di Leopardi e di Dalla è una poetica naturalistica, in cui con gli elementi della natura è costante. Sono riuscito a contare almeno cinquanta occasioni in cui, nelle canzoni di Dalla, compaia la luna. Di meno nelle poesie e prose di Leopardi. Questo dialogo dei due, però, si compie in modi differenti. Dalla vi dialoga come un innamorato che si rivolge al garante del suo amore per la natura. Nella poetica dalliana la luce della luna illumina l’esistenza notturna degli uomini, nella notte della vita, quando le cose non appaiono ben chiare e definite nei loro contorni. La luna di Dalla ha anche una funzione salvifica e apotropaica. Pensate ai versi di “Caruso”: “Ma quando vide la luna uscire da una nuvola/ gli sembrò più dolce anche la morte”. In Leopardi, invece, le invocazioni alla luna sono disperate richieste di aiuto contro una natura che il poeta giudica essenzialmente maligna e dannosa per gli uomini. Sono grida infelici di una grande mente che si sforza di ricercare qualche positività in un sistema di elementi che lui giudica pernicioso per l’uomo. Questa concezione viene fuori, principalmente, nel “Canto notturno di un pastore errante per l’Asia” e in “Alla luna”, opere al cui dialogo con l’astro, l’autore affida lo svelamento delle proprie concezioni filosoficheScreen-shot-2011-10-22-at-1.26.05-AM-425x450 sulla natura, sulla vita e sulla condizione degli uomini. Un altro elemento che accomuna i due autori, è un concetto di derivazione classica: il binomio Eros-Thanatos, Amore e Morte. Esso sottintende al capolavoro di Dalla, “Caruso”, perché ha attraversato anche la sua vita. Lucio si è portato dietro, per sempre, il ricordo della tragica fine del padre e, altre volte nella vita, ha perso persone a lui care. Questi sentimenti sono presenti nel suo capolavoro. Il grande tenore Caruso, nell’ora della morte, è innamorato della fanciulla sorrentina, alla quale sta dando lezioni di canto. L’amore, Eros, nell’ora della Morte, Thanatos, la rende più dolce, in un binomio indissolubile. “Amore e morte”, invece, è il titolo di un canto di Leopardi, scritto all’epoca dello sfortunato amore per Fanny Targioni Tozzetti, per cui, certamente risente della delusione per la mancata corrispondenza amorosa. Anche per Leopardi, Amore e Morte rappreentano un binomio indissolubile: “Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte/ ingenerò la sorte”, recita il citato canto. Nella concezione leopardiana, tipicamente estremista, la morte non è soltanto un male a cui bisogna rassegnarsi, ma, vista in contrapposizione con il dolore, la malattia e le pene dell’esistenza, assume connotazioni positive, come una sorta di miglioramento rispetto allo stato abituale dell’uomo, una liberazione dai laceranti dolori dell’animo. La morte è un punto di arrivo, una soluzione finale, una meta verso cui tendere, un traguardo indolore e quieto, che rappresenta la fine di ogni tormento. Un ultimo, importante legame, che accomuna questi due personaggi straordinari: l’amore per Napoli. Quello di Lucio Dalla per Napoli, per Sorrento e per il Sud Italia, come è ormai noto, grazie anche alle recenti pubblicazioni di Raffaele Lauro (“Caruso The Song – Lucio Dalla e Sorrento”, 2015, “Lucio Dalla e San Martino Valle Caudina – Negli occhi e nel cuore”, 2016, e “Lucio Dalla e Sorrento Tour – Le tappe, le immagini e le testimonianze”, 2016), è stato un amore fatto di rapporti sinceri con le persone, di lunghe frequentazioni, Veduta-di-Napoli-e-del-Vesuvio-420di curiosità per gli aspetti della vita delle genti del Sud. Lucio era interessato alla vita del Sud. Aveva dei taccuini neri sui quali annotava sempre tutto. Era un curioso come don Ferrante de “I promessi sposi”. Anche Leopardi amò Napoli, seppure di un amore bisbetico e insofferente, per un ambiente, soprattutto intellettuale, che considerava alquanto arruffato. Leopardi morì a Napoli, a 39 anni, più precisamente, a Villa delle Ginestre, a Torre del Greco, ospite del fidato amico Antonio Ranieri. A Napoli è, ancora oggi, la sua tomba. In quella villa aveva composto il suo testamento spirituale, quella “La ginestra”, che nel 2014, è stata protagonista della scena di chiusura del film di Mario Martone, “Il giovane favoloso”, dedicato proprio alla breve esistenza del poeta di Recanati. L’attore Elio Germano, che interpreta Leopardi, ne recita alcuni versi, mentre il Vesuvio, lo “sterminator Vesevo”, erutta. Pochi giorni prima di morire, a Torre, Leopardi aveva composto “Il tramonto della Luna”. Ancora una volta, la luna.

 

 

Il 45 giri

 

Il 45 giri ti obbligava all’ascolto ripetuto (spesso fino alla nausea) di un unico brano. Il lato a riportava la canzone principale, il lato b un brano di minor rilevanza, spesso contenuto assieme all’altro nel medesimo long-playing, ogni tanto legato a epoche e dischi precedenti. Io non sono mai stato un nostalgico di quelli che bofonchiano tra i denti cose come “eh, ma ai miei tempi”, bensì un semiologo, un ermeneuta. Uno che vigila sui nessi fra le cose e su come questi cambiano nel tempo. Cosa lega l’ascolto infinito di un pezzo stampato su un 7 pollici in gommalacca e la durata delle relazioni affettive per esempio? L’abilità a una gestualità e a una ripetitività e a una sedimentazione lenta e profonda? La pazienza della memorizzazione e dell’apprendimento sul lungo termine? L’oggettualità?
Certo è che l’evoluzione tecnologica, specialmente nel campo della fruizione multimediale (musica e film in primis), ha prodotto tra le sue più immediate conseguenze la dispersione fisica di un rapporto fra le parti. L’arte si sfalda nei modi dell’invisibile e dell’impalpabile. Nell’era della musica in tasca, nell’era, dico, della compattezza e dell’iperconcentrazione, non sorprende perciò che anche i legami tra gli individui – secondo la macabra concomitanza che unisce psicologia e consumo – siano scaduti a puri e impalpabili aneliti. Occasioni. Senza volto. Senza corpo. O anima. O memoria.

Patrick Gentile

 

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Tyche

 

Quantunque la bellezza esteriore di una persona sia subordinata a dei precisi parametri estetici (ad esempio è innegabile che la pancia in un uomo o la cellulite nelle cosce di una donna siano fra gli inestetismi più frequenti e temuti), nondimeno fascino e appeal si misurano attraverso la capacità (spesso innata e involontaria) che alcuni soggetti (anche non canonicamente belli) hanno di “fingersi” attraenti e di piacevole aspetto. La natura è capricciosa, si sa. Essa genera a caso bellezza e bruttezza. Esser perfetti fotomodelli o ricurvi come punti interrogativi sono ambedue condizioni inseparabili dalla fortuna (la famigerata “tyche”). Eppure cosmesi e cura di sé hanno ormai compiuto passi da gigante. Chiunque potrebbe far sulla propria immagine un ottimo lavoro di “ricostruzione” (i cosiddetti miracoli, esatto). Partendo tuttavia da un principio basilare e imprescindibile. Se ambisco alla “mia” bellezza devo suppormi fin da subito come potenzialmente bello (che non significa “crederci”), ossia evitare che gli altri mi sottostimino. Gli altri sono l’astrazione metafisica con cui ci confrontiamo immediatamente dopo lo specchio. Gli altri sono sia fuori che dentro di noi. È bene, in altre parole, ricordarsi che se io mi presento al mondo come una pantera difficilmente il mondo mi considererà un gatto da cortile. E viceversa, chiaro. Di fatto quanto più fiero andrò del mio aspetto, tanto più il mondo subirà il mio carisma (quand’anche esso fosse un colossale, strabiliante bluff). Al contrario, quanto più mi lagnerò in giro delle mie imperfezioni, tanto più gli altri saranno riflessivamente indotti a disprezzarmi.

Patrick Gentile

 

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“Es Muss Sein”

 

I talent, i reality, i social. Una multiformità di incroci che nascono e muoiono nel giro di poco. Fatti apposta per non durare. In quanto il vero nemico dei nostri giorni è la durata. La durata di un prodotto non ne favorisce il ricambio e perciò nuoce al consumo. Se una cosa resiste all’usura il mondo si ferma. Da qui il senso della nostra epoca. Far sì che le cose (materiali e non solo) durino il minor tempo possibile. Fare in modo anzi che si corrompano in fretta. Che tramontino, muoiano. Walter Benjamin pubblicò un saggio molto interessante, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. In esso sosteneva che la riproduzione perfetta di un’opera d’arte snatura il prodotto artistico, svuotandolo di autenticità, riducendolo a merce, rendendolo “kitsch”. Quando fruizione si trasforma in consumo l’opera perde la sua caratteristica di evento irripetibile e si offre come simulacro, come stendardo, come bandiera. I totalitarismi, diceva il critico tedesco, sfruttano la serialità dell’esperienza artistica come strumento di controllo delle masse. Anche Kundera sostiene più o meno lo stesso quando racconta la fine della Primavera di Praga e l’invasione dei sovietici. Quando confronta necessità con libertà, il “così deve essere” con la leggerezza, l’evanescenza del possibile. Benjamin pubblicò il suo scritto nel 1936. Se avesse potuto scriverlo oggi, avrebbe trattato dei talent, dei reality, dei social. Avrebbe trattato della grande decomposizione sociale. Della sua dissolvenza e dissoluzione. Di questa contemporaneità senza amore. Dove le persone – non solo gli oggetti – sono replicabili all’infinito. Invise alla durata. Degradabili. Per dirla ancora con Kundera, mai neppure esistite.

Patrick Gentile

 

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Un letto ben rifatto

 

A volte mi sembra di vivere come certe bestie. Brancolo semicieco per le gallerie dei giorni. Accumulando dati. Combinando più cose insieme. Addizionando questo a quello. Canzoni, film, letture occasionali, blow-job, rimming. Ingoiando epifanie e scorie. Sono il buco di un lavandino, la bocca di una pattumiera. Differenzio, poi inglobo. Qui le storture, lì il buono di chi è buono con me. Contraccambio con la stessa moneta. Ammasso gettoni, dopo divido i bianchi dai colorati, ficco negli oblò e mi siedo ad aspettar che sia tutto di nuovo asciutto e pulito. Poi ricomincio da capo. Scrivo per non dover vomitare. Ma sono uno che non esce di casa se prima non ha scopato il pavimento. La prima cosa imparata. Rifarmi il letto. Se potessi chiedere a Dio cosa voglio io prima di crepare. Ebbene. Un letto ben rifatto. Oh yes indeed, my Lord. Poi… Volino gli stracci.

Patrick Gentile

 

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30 gennaio 2016. Sorrento. Libreria Indipendente

 

La filiera virtuosa delle parole indipendenti: Autore, Editore, Libraio.
Incontro con Raffaele Calafiore, scrittore ed editore napoletano, Nonsoloparole Edizioni.
Impegnato, da decenni, nel difficile campo dell’editoria indipendente, Raffaele Calafiore ha parlato delle difficoltà e della fatica della scrittura, dal punto di vista di chi racconta, di chi, su quelle storie, ci investe per trasformare dei manoscritti in libri e di chi quei libri li distribuisce, ogni giorno, dalla sua libreria, edicola o punto vendita.
Lettura, in forma drammaturgica, a leggio, di estratti del libro di Bruno Esposito, “Le avventure di Pāspokaz”, Nonsoloparole Edizioni, 2006.
Introduzione e intervista a Raffaele Calafiore di Riccardo Piroddi. Letture drammaturgiche di Marilena Altieri, Clementina Esposito e Michael Deeley Jr. Foto di Nino Casola. Video di Antonino De Angelis. Organizzazione generale di Mimmo Bencivenga, proprietario della Libreria Indipendente di Sorrento.

 

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