Archivio mensile:Marzo 2017

La nascita, nell’Europa medievale, delle scuole laiche e delle Università, interpretata in maniera molto singolare

 

 

Quanto segue, è tratto dalla mia “Storia (non troppo seria) della Letteratura Italiana”, Il Filo, Roma, 2011, pag. 36

“…Verso la metà dell’XI secolo, tuttavia, qualcosa cominciò a cambiare. Qualcuno, infatti, decise di mettersi in concorrenza con la Chiesa. “Perché devono essere solo loro a insegnare, a scegliere le materie e i programmi? Perché la Bibbia deve rappresentare l’unico manuale di storia, geografia, letteratura, lingua, psicologia, fisica, chimica, architettura, ingegneria, astronomia, religione e pure educazione fisica?”. Molti uomini, allora, totalmente estranei ai ranghi ecclesiastici (questi ultimi avevano l’esclusivo controllo del sapere e lo trasmettevano come a loro più aggradava), quando si incontravano all’osteria, la sera, dopo cena, cominciarono a discutere di filosofia aristotelica la quale, anche attraverso le traduzioni e i commenti dei dotti arabi Avicenna e Averroè, era giunta in Occidente. Così, parla oggi, discuti domani, approfondisci un libro per dopodomani, i conversanti aumentavano sempre di più. Gli osti facevano affari d’oro, perché avevano messo la consumazione obbligatoria e, quando si faceva tardi, fittavano pure qualche camera per la notte con la prima colazione la mattina dopo. Ma la cuccagna, per i gestori di osterie e taverne, non durò troppo a lungo. Ben presto, in tanti decisero di riunirsi in luoghi più adatti alle discussioni, alla lettura e allo studio. Ed ecco che nacquero le prime scuole laiche e le Università che, in due secoli, dall’XI al XIII, sorsero in tutta Europa. Ogni città importante aveva la propria o le proprie. Vi si poteva studiare la filosofia, le lettere, il diritto e le cosiddette arti liberali, fondamento di tutta l’istruzione dei secoli precedenti: la grammatica, la retorica, la dialettica, la musica, l’astronomia, l’aritmetica e la geometria. Tutto era molto ben organizzato: gli studenti, dopo aver letto i testi consigliati dai maestri, sceglievano quale corso seguire e in che materia diventare dotti (da cui, l’odierno dottori). Essi, inoltre, erano liberi di discettare con i docenti, senza dover sostenere esami, né scritti, né orali, ma, semplicemente, confrontando il loro pensiero con quello delle auctoritates antiche, come, ad esempio, Aristotele e tanti altri, e con i compagni di banco. Era, dunque, un metodo di insegnamento e apprendimento molto particolare. Se oggi fosse ancora così, molti studentelli ne approfitterebbero e non imparerebbero un bel niente!…”.

 

Pubblicato l’1 dicembre 2016 su La Lumaca

 


 

Put some gravy

 

(The Ronettes “Be my baby” cover)

Lyrics by Riccardo Piroddi

 

Looking forward the day I
came to your house,

cause you told me come to me, boy, I will bake a grouse.
So you have spent all morning,
plucking the bird,  adorning
the dish you put in the oven
with the grouse for me.

So will you please (put some, put some gravy)
a tiny bit, please (add some, add some gravy)
say you will put it (dress with, with some gravy)
the grouse is too dray (put some, put some gravy)
wha-oh-oh-oh.

My uncle said to me once
when you bake a grouse

cover it with streaky bacon
it will be its spouse.

The fat will melt on top then,
no dressing all around, man,
but she didn’t’ have the bacon and just poured some olive oil.

So will you please (put some, put some gravy)
a tiny bit, please (add some, add some gravy)
say you will put it (dress with, with some gravy)
the grouse is too dray (put some, put some gravy)
wha-oh-oh-oh.

So will you please (put some, put some gravy)
a tiny bit, please (add some, add some gravy)
say you will put it (dress with, with some gravy)
the grouse is too dray (put some, put some gravy)
wha-oh-oh-oh.

Put some, put some gravy (I beg you, please)
add some, add some gravy (a tiny bit, please)
dress with, with some gravy (the grouse is too dry)
wha-oh-oh-oh.
(Repeat and fade)

 

 

Alle Donne. Sempre!

 

Di che colore è l’anima di una Donna?
Non è bionda, rossa o mora, come i suoi capelli. Non è azzurra, verde o nera, come i suoi occhi. Non è cremisi, come il suo rossetto, né pastello come il suo ombretto. L’anima di una Donna ha il colore del fiore della vita, il colore della storia del mondo, del ciclo delle stagioni. L’anima di una Donna non ha tinte che possano essere percepite distintamente. Ha il colore di una coppa di luce, dalla quale bere fino a ubriacarsi e perdere i sensi e, al risveglio, trovarsi di fronte a una porta spalancata, dietro la quale c’è uno specchio. L’anima di una Donna è uno specchio. Lo specchio non ha colore, riflette ciò che ha davanti. Guardate una Donna e vedrete voi stessi, la vostra vita, la storia del mondo e del tempo.
Non solo oggi, 8 marzo, ma sempre!

 

 

Le maschere della Commedia dell’arte

 

La Commedia dell’arte, fenomeno culturale nato in Italia nel XVI secolo, prese il nome dall’accezione medievale del termine arte, ovvero mestiere, perché, per i recitanti, il teatro costituiva un lavoro e non una passione a cui dedicarsi nel tempo libero. Unitisi in cooperative, la compagnie teatrali, attori e, per la prima volta sulle scene, attrici, portavano le loro rappresentazioni sia nei palazzi signorili che nelle piazze e nei mercati. Tra le più celebri compagnie, quelle di Ser Maphio, padovana, dei Gelosi, milanese, dei Confidenti, fiorentina, degli Accesi, dei Fedeli e degli Uniti, mantovane. Tra gli attori, invece, degni di essere ricordati, Francesco Andreini, Alberto Naselli, Pier Maria Cecchini e la moglie Orsola, Francesco Gabrielli, Flaminio Scala, Silvio Fiorillo, Virginia Rotari e Giovanni Pellesini. La vera novità della Commedia dell’Arte era nel fatto che gli artisti non interpretavano testi scritti od opere drammaturgiche vere e proprie, quanto piuttosto recitavano rifacendosi ad un canovaccio, cioè all’insieme, a grandissime linee, degli elementi di una trama. Salivano sul palcoscenico improvvisando, con grande bravura e abilità, le situazioni più varie e divertenti possibili, ma che avevano sempre gli stessi protagonisti, le maschere, personaggi facilmente riconoscibili dall’abbigliamento e da caratteri propri, ogni volta identici. Esse avevano le stesse fattezze di quelle con le quali molti dei bimbi della mia generazione, me compreso, si travestivano a Carnevale: Arlecchino, servo imbroglione e sempre alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti; Balanzone, chiacchierone e presuntuoso; Brighella, servitore furbissimo e macchinatore di truffe e inganni di tutti i tipi; Colombina, giovinetta intelligente e maliziosa; Pulcinella, gobbo, spaccone e bugiardo; Tartaglia, cieco e balbuziente; Pantalone, vecchiaccio che correva sempre dietro alle donne. Queste maschere rappresentavano spettacoli davvero comici, i quali, però, a causa del carattere di improvvisazione, non sono stati quasi mai trascritti, per cui, oggi è alquanto difficile ricostruire con precisione, né tanto meno poter rappresentare, un’opera della Commedia dell’arte. Accanto a questi attori, comunque, ci fu, tuttavia, chi, tra il XVI e XVII secolo, continuò a fare teatro alla vecchia maniera, vale a dire, seguendo i soliti generi, la commedia, la tragedia e i drammi, ma con linguaggi e significati diversi, rispetto alla tradizione precedente: Giovan Battista Guarini, Federico Della Valle e Carlo de’ Dottori.

 

Pubblicato l’1 marzo 2017 su La Lumaca