Archivio mensile:Settembre 2017

La storia del mondo

 

 

Racchiusa nel tuo cuore
è la storia del mondo.
Pensiero che diventa materia,
canto che si fa corpo.
Unisco le anime
di tutti i viventi
nel cosmo
e tu appari.
Nel teatro del tempo
rappresento
la mia vita:
tu, sole,
come luce di scena
e l’eternità come sfondo.

 

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Lo stato di natura in Hobbes, Locke e Rousseau

 

 

I tre grandi teorici dello stato di natura, una congetturata condizione in cui gli uomini non sarebbero stati ancora associati tra loro da un sistema governativo e dalle leggi ad esso connesse, sono stati Thomas Hobbes (1588-1679), John Locke (1632-1704) e Jean Jacques Rousseau (1712-1778).
Thomas Hobbes (immagine a sinistra) espose nel Leviatano (1651) la sua teoria sullo stato di natura. Secondo il filosofo inglese, il diritto ha origine naturale per ogni essere vivente. Nello stato di natura gli uomini posseggono i medesimi diritti su qualsiasi cosa, combattendo, così, una guerra che li vede gli uni contro gli altri. Homo homini lupus. L’uomo è un lupo divoratore di altri uomini. Ma esso ha, comunque, interesse a che questa guerra cessi, altrimenti sarebbe costretto a trascorrere l’intera vita a combattere, non potendo godere di quei beni per i quali, invece, è costretto a lottare. Ecco che, allora, gli uomini formarono le società, stipulando un contratto sociale, che Hobbes chiamò “Patto”, con cui limitavano la propria libertà, accettando regole che sarebbero state fatte rispettare dal Leviatano, il capo dello Stato. Queste le parole di Hobbes: “Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata uno stato, in latino civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano o piuttosto – per parlare con più riverenza – di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa.” (Leviatano, Parte II, cap. 17). Per affrancarsi, quindi, dalla condizione primitiva, in cui ciascuno è in competizione con gli altri, bellum omnium contra omnes, sarebbe stato necessario costruire una società efficiente, che garantisse la sicurezza degli individui, condizione primaria per il perseguimento dei desideri. Per questo, ognuno rinunciò ai propri diritti naturali, stringendo con gli altri un patto mediante il quale li trasferì ad un singolo soggetto, un monarca o un’assemblea di uomini, che si assumesse il compito di garantire la pace all’interno di quella società.
John Locke (immagine a destra), invece, nell’opera Due trattati sul governo (1690) riteneva che lo stato di natura fosse quello in cui gli uomini godessero della libertà di regolare le proprie azioni e di disporre dei propri possessi come meglio credessero, entro i limiti della legge di natura, senza dipendere dalla volontà di nessun altro. Ciò detto, precisò il filosofo, la libertà e l’uguaglianza degli uomini non implicavano che lo stato di natura fosse uno stato di licenza: nessuno aveva il diritto di distruggersi e di distruggere gli altri per la propria conservazione. Lo stato di natura, infatti, era limitato da una legge di natura, che coincideva con la ragione, sulla cui base era possibile costituire una società ordinata, con rispetto e uguaglianza reciproca. Secondo la medesima legge di natura, che sottintendeva la pace e la conservazione di tutti gli uomini, era necessario sia conservare e difendere gli altri, anche sopprimendo l’offensore, sia punire i trasgressori di questa legge. Per il principio di uguaglianza, tutti potevano far osservare questa legge: nessuno aveva superiorità e giurisdizione assoluta o arbitraria sopra un altro. La naturale condizione umana non era, quindi, per Locke, come era stata per Hobbes, il bellum omnium contra omnes. Ogni uomo aveva in sé una naturale predisposizione alla giustizia e alla pace. Diversamente, né la pace né giustizia sarebbero state realizzabili. Tuttavia, la parzialità degli uomini nel giudicare se stessi e i propri amici comportava confusione e disordine. Per questo, il filosofo pose il governo civile quale rimedio adatto agli inconvenienti dello stato di natura. Nello stato di diritto, o stato sociale, l’uomo deve rispettare regole stabili, da sempre impresse nel suo cuore e non imposte da nessuno. Prima dello stato deve esistere una società autosufficiente, come la famiglia, che si costituisce a partire da una naturale tendenza dell’uomo verso gli altri. Gli uomini sono stati creati per vivere in società e non in solitudine.
Jean Jacques Rousseau (immagine a sinistra), al contrario, presupponeva una effettiva difformità tra la società e la natura umana. Affermava, infatti, che l’uomo fosse, in natura, buono, un “buon selvaggio” (questo assunto suscitò la caustica ironia di Voltaire, il quale dichiarò: “Leggendo Rousseau viene voglia di mettersi a camminare a quattro zampe!”), e venisse corrotto, in seguito, dalla società, che riteneva un prodotto artificiale, nocivo per il benessere degli individui. Nel Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini (1755), illustrò il progresso e la degenerazione dell’umanità da un primitivo stato di natura sino alla società moderna. Per il filosofo ginevrino gli uomini primordiali erano individui isolati – diversi dagli animali solamente a causa del possesso del libero arbitrio e della capacità di perfezionarsi – dominati dall’impulso all’autoconservazione e da una disposizione naturale alla compassione e alla pietà verso i simili. Quando, però, l’umanità fu costretta a vivere in comunità, a causa della crescita della popolazione, subì una trasformazione psicologica, in seguito alla quale cominciò a considerare la buona opinione degli altri come un valore indispensabile per il proprio benessere. Lo sviluppo dell’agricoltura e della metallurgia, con la conseguente creazione della proprietà privata e della divisione del lavoro, portarono a una crescente dipendenza reciproca degli individui e alla disuguaglianza tra gli uomini. La conseguente condizione di conflitto, tra chi aveva molto e chi poco o nulla, fece sì che il primo Stato fosse concepito come una forma di contratto sociale, suggerito dai più ricchi e potenti. Questi, infatti, tramite proprio il contratto sociale, sanzionarono la proprietà privata, istituzionalizzando la diseguaglianza come se fosse inerente alla società umana. Il desiderio di essere considerati dallo sguardo altrui aveva corrotto l’integrità e l’autenticità degli individui all’interno di una società, quella moderna, segnata dalla dipendenza reciproca, dalle gerarchie e dalle diseguaglianze sociali.

 

 

 

La Guerra fredda

 

 

AREE DI APERTO CONFLITTO DURANTE LA GUERRA FREDDA: IL PONTE AEREO DI BERLINO E LA DIVISIONE DELLA COREA

Alla fine della Seconda guerra mondiale, Berlino rappresentava il punto caldo della questione tedesca. La stessa Germania era divisa nei due blocchi, rappresentativi delle due opposte ideologie: la Germania occidentale, la cui ripresa si basava sull’economia di mercato, e la Germania orientale, sede di alcuni dei più importanti centri industriali tedeschi prebellici e paese più avanzato dell’area economica socialista, fonte di tecnologie e capacità professionali, utili per tutto il sistema. Berlino, localizzata nella Repubblica Democratica Tedesca (Germania Est), risultava divisa in quattro zone, occupate una dall’URSS (Berlino Est) e le altre, site nella ponte-aereo-berlino-ovestBerlino Ovest, dalla Francia, dalla Gran Bretagna e dagli USA. Berlino Est diventò la capitale della Repubblica Democratica Tedesca, mentre Berlino Ovest, derivante dall’unione tra le zone occupate dalle forze occidentali, rappresentava un’appendice della Repubblica Federale Tedesca. Per raggiungere Berlino, dalla Germania occidentale, era necessario percorrere una strada che attraversava il territorio della Germania orientale. Il maggio del 1948 segnò l’inizio del blocco di Berlino, che durò circa un anno. Tale blocco fu esercitato dalla potenza sovietica, che controllava il movimento stradale e ferroviario di persone e di beni. Il ritiro occidentale da Berlino, tuttavia, sarebbe stato interpretato dal mondo come un segno di estrema debolezza. Per questo, gli Stati Uniti, sfoggiando la loro superiorità aerea e dimostrando l’inutilità della strategia sovietica, rifornivano Berlino Ovest con aiuti e merci aviotrasportati (ponte aereo). Il ponte aereo non fu ostacolato dall’URSS: se ciò fosse accaduto, ne sarebbe potuto nascere un incidente che avrebbe potuto aprire la strada alla Terza guerra mondiale. Fortunatamente, i contatti tra le due parti e i tentativi per risolvere la crisi non si interruppero e il ponte aereo risultò un completo successo, tecnico e psicologico, per l’Occidente, concludendosi, dopo oltre un anno, con una evidente sconfitta dei sovietici. L’impegno americano, per di più, avvantaggiò i partiti democratici, che ottennero importanti vittorie elettorali nella Germania occidentale.muro-di-berlino-caduta-picconate Negli anni a seguire, la città rimase il punto di massimo attrito tra i due blocchi e rappresentò, per gli abitanti della Germania orientale e degli altri Paesi del blocco sovietico, la porta d’ingresso verso l’Europa occidentale. L’afflusso di milioni di lavoratori, spesso altamente qualificati, dall’Est, divenne, durante gli anni ’50, motivo di sviluppo economico per la Germania occidentale e di preoccupazione per l’URSS e per tutti i Paesi satelliti. Nel 1961, la Repubblica Democratica Tedesca, per chiudere le proprie frontiere verso l’Ovest, eresse un muro che attraversava Berlino, ponendo fine, in tale maniera, al deflusso di profughi. Il 9 novembre 1989, dopo diverse settimane di disordini pubblici, il governo della Germania Est annunciò che le visite a Berlino Ovest sarebbero state permesse; dopo questo annuncio una moltitudine di cittadini dell’Est si arrampicò sul muro, superandolo, per raggiungere gli abitanti della Germania Ovest. La caduta del muro di Berlino aprì la strada alla riunificazione tedesca che, formalmente, si concluse il 3 ottobre 1990.

Nel secondo dopoguerra, la penisola coreana fu suddivisa tra i due blocchi, lungo il confine artificioso del 38° parallelo, in Corea del Nord, socialista, e in Corea del Sud, filoamericana. Le due parti risultarono contrapposte, in quanto, la Corea del Nord auspicava a riunificare il Paese, mentre, la Corea del Sud mirava ad una divisione, a tempo indeterminato. Il 25 giugno 1950, l43-101123124801_mediumun contingente militare della Corea del Nord passò la frontiera e occupò tutto il territorio meridionale. Alle Nazioni Unite tale azione fu fatta passare, da parte degli USA, come un tentativo di aggressione, comportando l’intervento delle truppe ONU. Una volta respinte le truppe del Nord, oltre il 38° parallelo, le forze americane e dell’ONU oltrepassarono esse stesse la frontiera, raggiungendo quella cinese. L’intervento diretto in guerra delle truppe cinesi generò una divisione nel campo occidentale: uno schieramento favorevole al proseguimento del conflitto, l’altro al ripristino della situazione originaria. La guerra si protrasse per diversi anni, fino all’armistizio che, nel 1953, ristabilì i confini tra la Corea del Nord e la Corea del Sud, fissati nel 1945. La guerra di Corea è stato il primo conflitto dell’era atomica, ma anche la prima guerra in cui gli statunitensi non risultarono vincitori. Da quel momento, nel continente asiatico e in quello europeo, si fissarono confini stabili tra i due blocchi. Negli Stati Uniti la lezione della Corea fu interpretata come la prova dell’aggressività dei comunisti e come dimostrazione delle difficoltà di una soluzione di forza. In tutto l’Occidente si aprì il dibattito tra i sostenitori di una linea di contenimento e quelli di una più decisa offensiva politica e militare contro l’URSS.

 

 

Il mio personale tributo a Dante Alighieri nel 696° anniversario della morte (14 settembre 1321)

 

dedicato a tutte le mie Beatrici

 

Quanto riportato di seguito è soltanto un infinitesimo aspetto della grandezza di quest’uomo e della sua opera (dalla mia Storia della Letteratura Italiana – Dalle origini al Trecento, SteMi Editrice, 2017):

Ci pensò proprio Dante, comunque, a prendersi la rivincita, per sé stesso e per tutti i poeti amanti non corrisposti (me compreso!).

Leggete questi versi:

I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui.
(Inf., Canto II, vv. 70-74)

Ci troviamo nel II Canto dell’Inferno. È il tramonto. Superata la selva oscura e le tre fiere, il poeta è immobile, impaurito e ormai deciso a non intraprendere più il viaggio nell’aldilà, nonostante la presenza rassicurante di Virgilio, sua guida. A quel punto, l’autore dell’Eneide gli riferisce che la sua salvezza sta a cuore a tre donne: alla Madonna, a Santa Lucia, e sì, proprio a lei, a Beatrice: “Una donna beata e bella, con gli occhi più lucenti di una stella, si è rivolta a me, con voce soave e angelica, chiedendomi di soccorrerti, perché ella, dopo aver udito che ti eri smarrito, è arrivata troppo tardi. Anima gentile e onesta – mi ha pregato – ti imploro di aiutarlo, affinché io ne abbia consolazione. Io sono Beatrice ed è per amore che te lo chiedo”.
La donna, infatti, dal Paradiso, era scesa nel limbo, dove dimorava l’anima di Virgilio, per esortarlo a proteggere e seguire colui che io, qui e adesso, secondo quanto riferiscono i suoi meravigliosi versi, posso finalmente definire il suo amato!
Dopo essere stata celebrata lungo tutta la sua breve vita e molto oltre, seppure andata in sposa ad un altro uomo, alla fine, Beatrice ricambia l’amore di Dante.
Dante ce l’ha fatta!
Vi giuro che, scrivendo questi ultimi righi, non sono riuscito a trattenere la commozione!
È una mia opinione, ma mi piace ritenere che tutto, proprio tutto, lo slancio dal quale è nata la Divina Commedia, sia contenuto in questi cinque versi del II Canto dell’Inferno, pronunciati da Beatrice.

John William Waterhouse, “L’incontro di Dante con Beatrice”, 1915

 

C’è poco da fare. È stato il più grande di tutti. Al di là di quanto abbiate potuto conoscere di lui e delle sue opere sfogliando le pagine a lui dedicate in questo libro, vi consiglio di andare a prenderli i suoi libri e di leggerli voi stessi. Ho sempre pensato che la migliore storia della letteratura sia quella che ognuno di noi si “fa” da solo, semplicemente leggendone e meditandone le opere, senza la mediazione e i filtri interpretativi di quanti, seppure con competenza, esplicano i contenuti di ciò che è stato scritto da altri. Cominciate proprio con Dante. In fondo, sarebbe un bel modo per essergli grati, per esprimere riconoscenza a quella mente eccelsa, instillata in un uomo di mediocre statura, d’onestissimi panni sempre vestito, col volto lungo, il naso aquilino e gli occhi grossi, le mascelle grandi e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato, i capelli e la barba spessi, neri e crespi e sempre nella faccia malinconico e pensoso (Giovanni Boccaccio, Trattatelo in laude di Dante, XX), che io immagino ancora passeggiare lungo l’Arno e per i suoi ponti, nell’amata Firenze, immerso nei propri pensieri, tutti per Beatrice e per i versi che, di lì a poco, le avrebbe composto, solo, nella sua piccola stanza, attraverso il cui lucernario, ogni notte, rivolgendo lo sguardo sognante e incantato verso il cielo, avrebbe, poi, scorta, meravigliosa, risplendere tra le stelle.

 

Henry Holiday, “Dante e Beatrice”, 1884

 

 

La superiorità della donna sull’uomo

 

 

La superiorità della donna sull’uomo è anche, ma non solo, ripeto, anche, ma non solo, nell’uso “politico” che ella fa dei propri ormoni: l’uomo usa il testosterone, peraltro riuscendo a controllarlo molto poco, unicamente per procurarsi, attraverso la donna, piacere, laddove la donna sguinzaglia l’estrogeno per taglieggiare e annichilire l’uomo, che non ha quasi alcuna possibilità di opporvisi. Tutto il resto, sono canti di poeti e bestemmie di cornuti!

 

 

 

 

In nome di Dio si può uccidere?

 

 

In nome di Dio si può uccidere? Dio può comandare agli uomini di uccidere in suo nome?
Dio non ha esistenza propria. Dio non esiste, almeno se lo si considera come figurato dalle religioni rivelate. Dio altro non è che una rappresentazione proiettata dell’uomo, creata dal suo stesso cervello. Ce lo ha dimostrato Ludwig Feuerbach, il cui pensiero in merito può essere concentrato nell’assunto: “Non è strato Dio a creare l’uomo, ma l’uomo a creare Dio”. Dio è una idealizzazione oggettiva dell’essenza stessa dell’uomo. Il filosofo tedesco continua: “Attribuendo a Dio l’onniscienza, l’onnipotenza, l’amore incommensurabile, l’uomo esprime l’infinità delle proprie possibilità conoscitive, del proprio potere sulla natura e dell’amore. L’uomo, quindi, proietta in Dio e nei suoi attributi, i di lui bisogni e desideri. La religione è la prima, seppure indiretta, coscienza che l’uomo ha di sé”.
Ciò detto, la risposta alle domande di apertura è affermativa. L’uomo può uccidere in nome di Dio perché uccide in nome di se stesso e della sua propria natura. Questa, infatti, è portata alla conservazione di sé, perseguibile con qualunque mezzo, anche e, spesso, soprattutto, con la prevaricazione fisica. L’adagio latino “Mors tua, vita mea” è molto illuminante in questo caso. Uomini e popoli che portano guerra e uccidono in nome del loro Dio applicano soltanto le condizioni atte alla loro conservazione. Il resto, lo fa la letteratura e, consentitemelo, gli intelletti alquanto deboli!

 

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Michelangelo Buonarroti “La creazione di Adamo” (1511), Cappella Sistina, Roma

 

Lo schiaffo di Anagni a papa Bonifacio VIII

 

 

Il 7 settembre ricorre l’anniversario dell’oltraggio a papa Bonifacio VIII, passato alla storia come lo “schiaffo di Anagni”. Un gesto, certamente simbolico, che rappresentò la fine del Medioevo cristiano e l’inizio di quel processo storico che avrebbe portato all’età moderna. Benedetto Caetani, anagnino, nato nel 1230, fu papa dal 1294 al 1303. Il suo pontificato conobbe tragiche vicende, causate soprattutto dalle sue continue ingerenze nell’amministrazione dei regni e dei potentati italiani ed europei, in special modo con Filippo IV il Bello, re di Francia. La lotta tra la Chiesa di Roma e la monarchia transalpina portò agli eventi della notte del 7 settembre. L’indomani, Bonifacio VIII avrebbe scomunicato Filippo il Bello, ma Guglielmo di Nogaret, membro del Consiglio di Stato di Francia, e Giacomo Colonna, detto Sciarra, della famiglia nobiliare avversa ai Caetani, fecero irruzione il nel palazzo del papa, ad Anagni, per impedire che fosse pubblicata la scomunica. Qui, storia o leggenda, Sciarra colpì al volto, con uno schiaffo, il pontefice.

 

Papa Bonifacio VIII (Benedetto Caetani – 1230-1303)

 

Sciarra Colonna colpisce Bonifacio VIII col famoso schiaffo