Archivio mensile:Ottobre 2020

I Papi, la guerra e la pace: Giovanni XXIII e l’enciclica Pacem in Terris, dell’11 aprile 1963

 

di

Riccardo Piroddi

 

Giuseppe Angelo Roncalli, asceso al soglio pontificio col nome di Giovanni XXIII, è stato il 261° papa della Chiesa Cattolica Romana. Nato a Sotto il Monte, il 25 novembre 1881, fu eletto papa nel 1958. In meno di cinque anni di pontificato, riuscì ad avviare il rinnovato impulso evangelizzatore della Chiesa Universale. Morì il 3 giugno 1963.

 

 

La lettera enciclica Pacem in Terris è, insieme con la Rerum Novarum di Leone XIII, il documento pontificio più universalmente noto. Essa fu rivolta oltre che ai Venerabili Fratelli Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi e altri Ordinari, aventi pace e comunione con la Sede Apostolica, al clero e ai fedeli di tutto il mondo, nonché a tutti gli uomini di buona volontà. Nella traduzione italiana fu pubblicata col titolo Sulla pace fra tutte le genti nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà. L’enciclica riprese e sviluppò l’approccio metodologico, già presente nell’altra importante enciclica di Giovanni XXIII, Mater et Magistra, del 1961. Si collocò nel contesto della politica mondiale, fortemente connotata dalle personalità di John Fitzgerald Kennedy, negli Stati Uniti d’America, e Nikita Chrusciov, in URSS, protagonisti di una nuova stagione di distensione internazionale, che la crisi dei missili di Cuba, nel 1962, aveva rischiato di compromettere, portando il mondo intero sull’orlo di uno scontro apocalittico. In quell’occasione, papa Roncalli aveva voluto e saputo svolgere un ruolo coraggioso e vincente di mediazione internazionale. L’enciclica è, ancora oggi, nota e apprezzata anche per il ricorso al metodo induttivo, per la distinzione tra errore ed erranti e per l’utilizzo della categoria dei segni dei tempi, nella lettura dei fatti storici. La Pacem in Terris pose il messaggio del pontefice su un piano essenzialmente umano, più che religioso, senza condanne di alcun tipo. Il documento fu il testamento spirituale del papa e riassunse, così, tutto il suo pontificato: combattere il peccato, non il peccatore; soltanto parlando di ciò che unisce, si può superare ciò che divide. Non fu una enciclica teologica, ma, piuttosto, una illuminazione politica, offerta soprattutto ai potenti della Terra. Essa fu accolta nel mondo con entusiasmo, ma in un clima di tensione interno alla Chiesa, per la diffidenza verso quella ventata di novità e di ottimismo, suscitata dalle parole profetiche del pontefice, che sarebbe morto due mesi dopo l’emanazione di quel documento. Nella Pacem in Terris si ritrovava una teologia così poco papale che non è dato rintracciarla in altre encicliche precedenti. Per questo, alcuni accusarono l’enciclica e, con essa, il Concilio Vaticano II (1962-1965), di sconvolgere la tradizione cattolica ortodossa. In un momento storico di confusione e di paura, l’uscita della Pacem in Terris divenne la voce di tutta la famiglia umana, oppressa dall’incubo minacciosamente incombente di una guerra atomica. La Pacem in Terris introdusse novità rinnovatrici per il magistero della Chiesa: l’inaugurazione di un nuovo modo di comunicare, nel senso dei destinatari del messaggio; la concessione di parità umana a tutti gli uomini di buona volontà; l’evoluzione dello stesso concetto di guerra nei rapporti internazionali, dando base teologica alla pace; aver assunto i segni dei tempi come discrimine; la definizione della inseparabilità dei diritti della persona e, quindi, una sorta di assimilazione di fatto tra la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e la Teoria del Diritto Naturale propria del tradizionale insegnamento della Chiesa Cattolica Romana; le distinzioni tra uomini, ideologie, errori ed erranti. Con la Pacem in Terris, papa Giovanni e la sua Chiesa ruppero il monologo degli appelli riservati al solo mondo cattolico, per rivolgersi, per la prima volta, a tutto il mondo, anzi a tutti gli uomini di buona volontà, fossero essi credenti o non credenti. “Sulla fronte dell’enciclica batte la luce della divina rivelazione, che è la sostanza viva del pensiero. Ma le linee dottrinali scaturiscono altresì da esigenze intime della natura umana e rientrano per lo più nella sfera del diritto naturale. Ciò spiega un’innovazione propria di questo documento, indirizzato non solo all’episcopato della chiesa e ai fedeli di tutto il mondo, ma anche a tutti gli uomini di buona volontà. La pace universale è un bene che interessa tutti, indistintamente; a tutti quindi abbiamo aperto l’animo nostro“. Per quanto riguarda la pace, il documento inaugurò una nuova posizione, fortemente innovativa, nonostante la tradizione millenaria della Chiesa, che riconosceva legittimità della guerra giusta. Quando trattò della guerra, non elencò una casistica, per conoscere o scoprire se la si potesse giustificare, nel caso in cui le circostanze obbligassero a farla. Essa partì da tutt’altro punto di vista: dalla pace, intesa come valore assoluto, come anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi. Il papa riconobbe che la guerra non fosse inevitabile, né la pace soltanto un dono, ma entrambi fossero prodotti di un operare umano, cioè di un operare di cui gli uomini fossero responsabili. La guerra non era fatale, come fosse un evento scatenato da forze cieche della natura. Essa poteva e doveva essere evitata, purché ci si impegniasse seriamente ad evitarla. E la pace autentica poteva essere realizzata, a condizione che ci si impegnasse seriamente a realizzarla. Non esistevano più, quindi, guerre giuste, ma solamente guerre che uccidevano e, alla pace fondata sull’equilibrio degli armamenti, c’era l’alternativa di una pace in piena armonia con le profonde aspirazioni degli esseri umani di tutti i tempi. Giovanni XXIII prese, così, radicalmente le distanze dal sistema di deterrenza e sostenne la necessità di un disarmo simultaneo e reciproco e della messa al bando delle armi nucleari, per pervenire a un disarmo integrale, anche degli spiriti, in modo che, al criterio della pace reggentesi sull’equilibrio degli armamenti, si sostituisse il principio secondo cui la vera pace si potesse costruire soltanto nella reciproca fiducia. Quanto emerse dalla Pacem in Terris era una concezione complessa della pace; essa non era, né poteva essere riconducibile alla pura astensione dai conflitti armati: “In questa nostra età, che si gloria della forza atomica, è alieno dalla ragione, pensare che la guerra sia atta a riparare i diritti violati“. L’aspirazione alla pace poteva essere realizzata soltanto nel pieno rispetto dell’ordine di Dio e solo osservando i principi fondamentali di questo ordine naturale. Principali e insostituibili fondamenti etici della pace, rappresentavano la dignità della persona umana, senza distinzioni di fedi e di convinzioni e i diritti dei popoli. Questi diritti andavano tutelati internazionalmente da un’autorità mondiale che non fosse l’ONU dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, ma l’ONU della comunità dei popoli. La grande novità dell’enciclica fu la teologia dei segni dei tempi, cioè l’accettazione di Dio attraverso l’opera di una Chiesa che doveva operare nel mondo e per il mondo, ma, soprattutto, nella storia, senza pregiudizi e false retoriche. Non si sarebbe dovuto mai confondere l’errore con l’errante, il quale era sempre e, anzitutto, un essere umano, e conservava, in ogni caso, la sua dignità di persona. Gli incontri e le intese, nei vari settori dell’ordine temporale, fra credenti e quanti non credevano o credevano in modo non adeguato, perché aderivano ad errori, potevano diventare occasione per scoprire la verità, perché in ogni essere umano non si spegne mai l’esigenza, congenita alla sua natura, di spezzare gli schemi dell’errore per aprirsi alla conoscenza della verità. La Santa Sede, per la prima volta, assumeva, nei confronti dei due blocchi, una posizione al di sopra delle parti. Essa appariva più disoccidentalizzata, rispetto al passato, anzi, sembrava che il pontefice, con l’enciclica, indirizzasse le sue ammonizioni più verso l’Occidente che verso l’Oriente. Giovanni XXIII non revocò il patrimonio teologico della Chiesa, ma insistette sui diritti dell’uomo, sulla libertà religiosa, sui problemi sociali. Volle presentare la sua Chiesa come uno strumento di dialogo e di cooperazione, offrendo l’assicurazione che la stessa Chiesa avrebbe contribuito al progresso sociale, all’emancipazione degli oppressi, al disgelo dei due blocchi. Le sue ultime parole, però, furono ascoltate con sospetto. Il sospetto, anzi, aumentò e divenne dissenso, da parte dei più conservatori, intransigenti a certe aperture liberali, quando papa Giovanni, clamorosamente, giustificò la collaborazione tra credenti e non credenti.  Con questa enciclica la Chiesa cattolica, per la prima volta nella sua lunga storia, concesse parità umana a tutti gli uomini di buona volontà. Certo, molti dei temi trattati dalla Pacem in Terris erano già stati oggetto di interventi di Pio XII, ma, per la prima volta, si offriva un tale rilievo ad un documento secolare come la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. Furono messi da parte gli antichi toni inquisitori, per far posto a moderni concetti, come quello dei diritti dell’uomo. L’incubo della guerra atomica fu una costante della Pacem in Terris. Il pontefice, non solo rivolse la sua attenzione verso questa grave preoccupazione, sotto cui viveva la società internazionale, ma mise anche in guardia gli Stati dalle conseguenze fatali per la vita sulla Terra, che gli stessi esperimenti nucleari, a scopi bellici, avrebbero creato. La corsa agli armamenti assorbiva una percentuale altissima di energie spirituali e di risorse economiche, imponendo sacrifici non lievi agli stessi cittadini di quelle comunità politiche. Pertanto, giustizia, saggezza e umanità domandavano che fosse arrestata la corsa agli armamenti; si riducessero simultaneamente e reciprocamente gli armamenti già esistenti; si mettessero al bando le armi nucleari e si pervenisse, finalmente, al disarmo, integrato da controlli efficaci. Occorreva, però, riconoscere che l’arresto agli armamenti a scopi bellici, la loro effettiva riduzione e, a maggior ragione, la loro eliminazione, fossero possibili o quasi, se, nello stesso tempo, non si fosse proceduto ad un disarmo integrale; se, cioè, non si fossero smontati anche gli spiriti, adoperandosi sinceramente a dissolvere, in essi, la psicosi bellica, il che avrebbe comportato, a sua volta, che, al criterio della pace che si reggeva sull’equilibrio degli armamenti, si fosse sostituito il principio che la vera pace si potesse costruire soltanto nella vicendevole fiducia.

 

I Papi, la guerra e la pace: Pio XI e l’enciclica Divinis Redemptoris, del 19 marzo 1937

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Achille Ambrogio Ratti, asceso al soglio pontificio col nome di Pio XI, è stato il 259° papa della Chiesa Cattolica Romana. Nato a Desio, il 31 maggio 1854, fu eletto papa nel 1922. Normalizzò i rapporti con lo Stato Italiano, con la firma, nel 1929, dei Patti Lateranensi. Nelle sue encicliche, trattò grandi problemi di ordine morale e sociale. Morì il 10 febbraio 1939.

 

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Questa enciclica, nota anche con l’espressione Sul comunismo ateo, è ricca di citazioni dal Nuovo Testamento, di precedenti documenti del Magistero pontificio (enciclica Quadragesimo Anno) e di riferimenti a encicliche di altri papi (Rerum Novarum di Leone XIII). La dura critica e la inappellabile condanna non riguardarono soltanto la dottrina del socialismo, ma anche l’Unione Sovietica, cioè il comunismo fattosi Stato, con grandi apparati di dominio e consolidati legami internazionali. Il documento si collocò nell’inedito contesto di un comunismo che esercitava una forte attrazione sul mondo operaio e intellettuale, ma anche all’interno stesso di ambienti progressisti cristiani, come nel caso della Francia del Fronte popolare. Le valutazioni di Pio XI sul comunismo non potevano che essere negative e rispecchiavano la coerenza della Chiesa Cattolica, che aveva sempre valutato l’ideologia comunista come antitetica al messaggio cristiano. Il papa emise questa enciclica nel 1937, anche in seguito alla vittoria delle sinistre in Francia, guidate dal socialista Leon Blum, ma, soprattutto, perché preoccupato per quanto stava accadendo in Russia, dopo essere stato pio-xi-599x275informato dall’amministratore apostolico di Mosca, Pie Eugéne Neveu, delle purghe staliniane. Il comunismo bolscevico e ateo, argomentò il pontefice, rappresentava un pericolo, mirante a capovolgere l’ordinamento sociale e a scalzare gli stessi fondamenti della civiltà, di fronte alla cui minaccia la Chiesa non poteva tacere perché difendere la verità, la giustizia e tutti quei beni eterni che il comunismo misconosceva e combatteva, rappresentava la sua missione peculiare. Dopo tutti gli appelli, le encicliche (Miserentissimus Redemptor, Quadragesimo anno, Charitate Christi, Acerba Animi, Dilectissima Nobis) e le allocuzioni, il papa ritenne necessario alzare nuovamente la voce con un documento ancora più solenne. La dottrina del comunismo, secondo Pio XI, contemplava un falso ideale di giustizia, di eguaglianza e di fraternità. Uno pseudo-ideale di giustizia, di eguaglianza e di fraternità nel lavoro, pervadeva tutta la sua dottrina e tutta la sua attività di un falso misticismo, che comunicava uno slancio e un entusiasmo contagioso alle folle adescate da false promesse. Questa dottrina, nascosta sotto apparenze spesso seducenti, si fondava sui principi del materialismo dialettico e storico, predicati da Karl Marx, di cui i teorici del bolscevismo pretendevano di possedere l’unica genuina interpretazione. Il comunismo, inoltre, spogliava l’uomo della sua libertà, principio spirituale della sua condotta morale, togliendo ogni dignità alla persona umana. All’uomo individuo non era riconosciuto, di fronte alla collettività, alcun diritto naturale della personalità umana, essendo esso, nel comunismo, semplice ruota e ingranaggio del sistema. Nelle relazioni tra gli uomini, poi, era sostenuto il principio dell’assoluta uguaglianza, rinnegando ogni gerarchia e autorità stabilite da Dio. Neppure il diritto di proprietà è accordato agli uomini. Rifiutando ogni carattere sacro e spirituale, una tale dottrina faceva del matrimonio e della famiglia istituzioni puramente artificiali, cioè il frutto di un determinato sistema economico. Ai genitori era negato il diritto di educazione, essendo questo concepito come un diritto esclusivo della comunità. La società umana, basata su questi fondamenti materialistici, sarebbe stata soltanto una collettività senza altra gerarchia se pius_xinon quella del sistema economico. Il comunismo riconosce alla collettività il diritto di soggiogare gli individui al lavoro collettivo, senza riguardo al loro benessere personale, anche contro la loro volontà e persino con la violenza. Per chiarire come il comunismo fosse riuscito a farsi accettare senza esame da tante masse di operai, Pio XI ricordò che questi vi erano già preparati dall’abbandono religioso e morale nel quale erano stati lasciati dall’economia liberale. Inoltre, la diffusione così rapida delle idee comuniste si spiegava con una propaganda veramente diabolica: propaganda diretta da un solo centro che si adattava abilmente alle condizioni dei diversi popoli, disponeva di grandi mezzi finanziari, di organizzazioni e di congressi internazionali. In più, era aiutata dalla congiura del silenzio da parte della grande stampa mondiale non cattolica, la quale taceva sugli orrori commessi in Russia, in Messico, in Spagna e in altre parti del mondo. Dove il comunismo aveva potuto affermarsi e dominare si era sforzato di distruggere, con ogni mezzo, la civiltà e la religione cristiana. Vescovi e sacerdoti erano stati banditi, condannati ai lavori forzati e messi a morte; semplici laici, per aver difeso la religione, erano stati sospettati, vessati, perseguitati e imprigionati. Le persecuzioni e le violenze rappresentavano i frutti naturali del sistema comunista. Esso aveva imposto la schiavitù a milioni di uomini ma non avrebbe potuto calpestare la legge naturale e Dio, il suo autore. Per quanto riguardava la società civile, secondo il pontefice, essa, nei piani del Creatore, mostrava un mezzo naturale di cui l’uomo potesse e dovesse servirsi per raggiungere il suo fine, essendo la società umana per l’uomo e non viceversa. La società non poteva frodare l’uomo dei suoi diritti personali, dati da Dio, e l’uomo non poteva esimersi dai doveri verso la società. La dottrina cattolica rivendicava allo Stato la dignità e l’autorità di difensore previdente e vigilante dei diritti divini e umani. La spoliazione dei diritti e l’asservimento dell’uomo, il rinnegamento dell’origine prima e trascendente dello Stato e del potere statale, l’abuso orribile del potere pubblico a servizio del terrorismo collettivista, rappresentavano l’esatto contrario di ciò che corrispondeva all’etica naturale e alla volontà del Creatore. Se coloro che governano i popoli, tuonò Pio XI, non avessero disprezzato gli insegnamenti della Chiesa, non ci sarebbero stati né socialismo, né comunismo: essi, invece, fabbricarono altri edifici sociali, sulle basi del liberalismo e del laicismo, i quali, all’inizio, sembravano potenti e grandiosi, ma poi, crollarono miseramente. Era necessario correre ai ripari, di fronte all’ideologia comunista, e tutti i cristiani avrebbero dovuto impegnarsi in questa lotta. Il rinnovamento della vita cristiana rappresentava il rimedio fondamentale che avrebbe preservato dal comunismo, che, all’inizio, si era mostrato in tutta la sua perversità, ma, accortosi che ciò allontanava da sé i popoli, aveva cambiato tattica e cominciato ad attirare le folle con vari inganni, nascondendo i propri disegni dietro idee, in sé buone e attraenti. Vedendo il comune desiderio di pace, i capi del comunismo fingevano di essere i più zelanti fautori e propagatori del movimento per la pace mondiale. Sotto vari nomi, che neppure alludono al 088q04c1comunismo, fondavano associazioni e periodici, che servivano soltanto a far penetrare le loro idee in ambienti altrimenti non facilmente accessibili. Si infiltravano, con perfidia, in associazioni cattoliche e religiose, invitando i cattolici a collaborare con loro nel campo umanitario e caritativo, proponendo spesso cose del tutto conformi allo spirito cristiano e alla dottrina della Chiesa. Il papa non ammetteva alcuna collaborazione con il comunismo. Anche i laici furono chiamati all’opera di apostolato sociale, specialmente i membri dell’Azione Cattolica, così ben preparati e addestrati, così come le organizzazioni di lavoratori. Lo Stato cristiano doveva aiutare la Chiesa ad opporsi al comunismo con i suoi mezzi i quali, benché fossero mezzi esterni, miravano anch’essi al bene delle anime. Negli Stati cristiani doveva essere impedita la propaganda atea, che sconvolgeva tutti i fondamenti dell’ordine e doveva essere posta ogni cura affinché fossero create quelle condizioni materiali di vita, senza cui un’ordinata società non poteva sussistere. Lo Stato, allo stesso tempo, doveva lasciare alla Chiesa la libertà di compiere la sua missione del tutto spirituale, perché, operando soltanto con mezzi economici e politici, lo Stato non raggiungeva lo scopo del bene comune. L’appello del pontefice si rivolse, infine, ai fratelli già intaccati dal male comunista:  che ascoltassero la voce del Padre. Il Signore li avrebbe illuminati, affinché abbandonassero quella via, che avrebbe travolto tutti in una immensa rovina, e riconoscessero anch’essi che l’unico Salvatore fosse Cristo.

 

 

 

La corte, la dama e il narratore. Il romanzo cortese e Chretien di Troyes

 

 

 

L’epica e le canzoni di gesta, che propagandavano rigidi esempi di condotta morale da seguire (per saperne di più: “Dio, il re e il cavaliere. L’epica e le chansons de geste”), lasciarono presto il posto, nelle preferenze degli ascoltatori e dei lettori medievali, al romanzo cortese. Questa inedita e più stuzzicante forma letteraria fu ispirata da nuovi ideali, un po’ più concreti e che, soprattutto, badavano al sodo: la cortesia, le buone maniere, la gentilezza, l’amore e, novità delle novità, la possibilità di invitare una donzella a fare una cavalcata al chiaro di luna, con auspicata, e spesso annessa, sosta dietro a un cespuglio. il-romanzo-corteseAl diavolo la fede, i santi, i martiri, gli eroi che parevano statue in una chiesa. Via la perfezione e la bontà assoluta dell’epica, insomma, e giù con la passione, con le belle dame, con il piacere dei sensi, con la frenesia di acquattarsi in compagnia di una damigella nel primo recesso disponibile, con le tresche e con i tradimenti. Ma non solo. Rispetto e deferenza, quasi sacrali, erano tributati alle donne, che diventarono, addirittura, vere e proprie padrone dei loro amanti, avendo, con le parole, devozione mai letta prima che, invece, nella vita quotidiana dell’epoca, continuava a non esistere affatto. Esse, almeno tra le pagine di questi romanzi, poterono uscire dalle stanze domestiche, dove erano confinate, e cominciare ad assaporare i piaceri della vita e dell’amore. I loro mariti, sempre sordi ai bisogni delle consorti, fossero re o dignitari, signori o poveracci, divennero cornuti, per colpa del galante damerino di turno. Perfino i cavalieri mutarono i loro comportamenti e le loro azioni. Seducenti e affascinanti, aitanti e impavidi, si rendevano protagonisti di strabilianti avventure e rischiosissime imprese, in lande magiche e fantastiche, spesso compiute per amore della dama che ne attendeva, trepidante di passione, il ritorno, o come pegno d’amore, o, ancora, per espiare peccatucci carnali, commessi tra le lenzuola di qualche aristocratica alcova.6385414 Differentemente dagli eroi dell’epica, essi avevano la concreta possibilità di decidere del proprio destino. Erano molto più “uomini”, con tutte le loro debolezze e, soprattutto, con la necessità di redimersi, che santi. Esempi, insomma, non proprio da imitare. Si cominciò con quei romanzi i cui contenuti erano tratti da storie vere o inventate, già conosciute nel mondo antico: il Roman d’Eneas, che scopiazzava l’Eneide di Virgilio; il Roman de Thèbes che somigliava troppo alla Tebaide di Stazio; il Roman de Troie, sulla famosa città del cavallo, e il Roman d’Alexandre, l’Alessandro di Macedonia. I più bei romanzi cortesi, tutti in lingua d’oil e, almeno fino al XIII secolo, in versi, non in prosa, furono composti alla corte di Maria di Champagne, nella Francia settentrionale, dove si gozzovigliava e beveva tutto il giorno, essendovi a disposizione, gratis, quel ben di dio con le bollicine (questa è una mia licenza letteraria. Lo Champagne, infatti, è stato “inventato” dall’abate benedettino Dom Pierre Pérignon intorno al 1680 e ha preso il nome dalla regione francese nella quale fu prodotto per la prima volta). poesia_cortese_comunale_nel_testo_04Questi favoleggiavano di re Artù, di Ginevra e Lancillotto, di Mago Merlino e Fata Morgana, di Tristano e Isotta, di Parsifal e di Ivano. Il romanzo, uno dei principali generi della narrativa in prosa, deriva il suo nome da romanz, adattamento, in francese antico, dell’avverbio latino romanice, che significa, alla romana. Sono più chiaro. Quei primi romanzi erano scritti in oitano, lingua derivante dal latino (la lingua romana). Analizziamo i titoli che ho elencato qualche rigo fa. Questi, in origine, sarebbero suonati pressappoco così: Eneas romanz, Enea alla romana (nella lingua romana) → Romanzo di Enea), Thèbes romanz, Tebe alla romana (nella lingua romana) → Romanzo di Tebe; Troie romanz, Troia alla romana – non è una specialità erotica capitolina! – (nella lingua romana) → Romanzo di Troia) e Alexandre romanz, Alessandro alla romana (in lingua romana) → Romanzo di Alessandro. La denominazione cortese, invece, trae origine dal fatto che questi romanzi erano scritti, letti e recitati a corte, erano romanzi di corte, proprio come quella della contessa Maria. Il significato moderno dell’aggettivo cortese consegue, piuttosto, dalla definizione d’insieme delle virtù positive dei protagonisti di questi romanzi. Una persona cortese, infatti, oggi, mostra i medesimi modi e comportamenti di molti dei quei famosi personaggi letterari.

Chretien di Troyes

Il più bravo romanziere che tutto il Medioevo ricordi fu Chretien di Troyes. Ospite graditissimo di Maria, istallatosi, in pianta stabile, alla corte di Champagne, scrisse diversi romanzi, che dilettarono la padrona di casa, anzi, di castello, le sue dame, le cortigiane, le cameriere e perfino le sguattere. Pare che queste, proverbialmente curiose, di nascosto, origliassero dietro la porta della sua stanza, mentre lui rileggeva le sue composizioni ad alta voce. Dilettiamoci un po’ anche noi, allora.

Chrétien_de_TroyesChretien de Troyes

Lancillotto o il cavaliere della carretta

Il perfido principe Malagant aveva rapito la regina Ginevra e alcuni abitanti del regno di re Artù. Per liberarli, un cavaliere si sarebbe dovuto battere con lui e vincere. Galvano e Lancillotto partirono immediatamente alla ricerca di Malagant, ma per strade diverse. Il primo, attraversò il terribile Ponte Sommerso e, per poco, non annegava. Lancillotto, invece, sulla sua carretta, varcò il pericoloso Ponte della Spada. IMG212Giunto nel palazzo dove Malagant teneva prigioniera Ginevra, per prima cosa, alla faccia di Artù e dei valori cortesi, approfittò della situazione con la compiacenza della regina. I gemiti della donna, però, lo fecero scoprire, catturare e rinchiudere in una torre. Per fortuna, una dama, invaghitasi di lui, lo liberò. Lancillotto poté affrontare Malagant, lo uccise e, molto allegramente, riprese così, insieme con Ginevra, a far crescere le comodità in testa ad Artù. Maria di Champagne in persona incoraggiò questo tradimento letterario, non riscontrato nelle versioni precedenti della storia di questo celeberrimo cavaliere. L’Autore, infatti, fu costretto a “mantenere la candela” a Lancillotto e Ginevra, proprio per compiacere la malizia della sua protettrice.

Cliges

L’imperatore di Costantinopoli aveva due figli: Alis e Alessandro. Quest’ultimo, più ambizioso del fratello, lasciò la sua terra per l’Inghilterra. Desiderava diventare cavaliere alla corte di re Artù. A Camelot si innamorò di Soredamor, damigella della regina Ginevra. I due, presto, si sposarono e, avuto un bimbo, Cliges, tornarono a Costantinopoli. Morti Alessandro e Soredamor, il giovane figlio servì lo zio, 9788420606194nuovo imperatore, e sua moglie, Fenice, una donna tutta sale, pepe e peperoncino. Non passò molto tempo che la sovrana si invaghì, ricambiata, del nipote. Grazie a un filtro magico, fatto bere al marito, che cadeva addormentato, credendo, invece, di stare sveglio a sollazzarsi con la bella consorte, questa se la spassava, tutte le notti appassionatamente, col suo amante, fino al giorno in cui i due spasimanti organizzarono una fuga d’amore. Qualcosa, sfortunatamente, non funzionò a dovere perché un servo scoprì tutto. Alis si precipitò all’inseguimento e, misero, morì durante la corsa (cornuto e mazziato!). Cliges e Fenice tornarono, così, a Costantinopoli, dove regnarono e si amarono felici e contenti. Da allora, però, gli imperatori che succedettero presero l’abitudine di controllare le proprie mogli, per non fare la fine di Alis, forse non mazziati, ma, certamente, cornuti.

Ivano o il cavaliere del leone

Ivano, per vendicare il torto subìto da un amico, aveva ucciso il signore di un feudo. La moglie del defunto, per il dispiacere, stava per togliersi la vita sennonché, una sua dama le consigliò di sposare proprio Ivano, ignorando che fosse stato lui ad ammazzarle il marito. YVainIl matrimonio fu presto celebrato, con un’unica clausola: il novello sposo non le sarebbe dovuto stare lontano dalla consorte per più di un anno. Appena terminato il banchetto di nozze, il compagno Galvano portò Ivano via con sé, in giro per giostre e tornei. Trascorse un anno e qualcosa di più. Durante uno di quei viaggi, il valoroso cavaliere salvò salvato la vita a un leone e, per mostrare la sua forza e il suo coraggio, se lo portava dietro, al guinzaglio, spaventando chiunque incontrasse. Tornato finalmente a casa, fu accusato di tradimento dalla moglie. Si inginocchiò e la implorò di perdonarlo. La donna, fatti due conti, lo riaccolse a braccia aperte. Sarebbe stato meglio, per lei, infatti, non perdere anche il secondo marito!

Parsifal o il racconto del Graal

Se questo romanzo fosse stato pubblicato in questi anni, in libreria, lo avremmo trovato sullo scaffale accanto al Codice Da Vinci e a tutti gli altri libri nei quali compare un oggetto misterioso, dal nome rimbombante: il Santo Graal. Nell’opera di Chretien, il Graal sembra essere una coppa o, comunque, un contenitore, non certo la progenie di Gesù Cristo, come ha forse esagerato Dan Brown. Parsifal, chiamato anche Parceval, era un giovanotto di buonissima famiglia. Perceval-ChretienLa madre, per evitargli la medesima sorte occorsa al padre e al fratello, morti in battaglia, lo aveva nascosto, fin da bambino, nella Guasta Foresta. Tra folti alberi e animali feroci, crebbe sì coraggioso, ma anche rozzo, ignorante e senza alcuna cortesia. Un giorno, un manipolo di cavalieri attraversò la foresta. Parsifal, che aveva sempre desiderato essere come loro, non si fece pregare troppo e li seguì, abbandonando sua madre. La povera donna morì di crepacuore. Non appena investito cavaliere alla corte di Artù, lasciò Camelot per il suo viaggio iniziatico, raggiungendo, dopo tante peripezie, il Castello del Graal. Qui viveva il Re Pescatore il quale, zoppo, trascorreva le sue giornate seduto, a pescare. Proprio in quel magico castello assistette a una strana processione, dove vide, per la prima volta, la famosa coppa, tutta d’oro lucentissimo e pietre preziose. Ma era stato soltanto un sogno, forse premonitore. Il giovane cavaliere, allora, partì immediatamente alla ricerca del sacro calice. Riuscì a trovarlo? Non lo sapremo mai. Chretien, purtroppo, morì prima di poter romanzare la risposta in versi a questa nostra domanda. 

“Bomb” di Gregory Corso: un’ironia d’attualità

 

di

Vincenzo Corrado

 

“A volte l’inferno è un buon posto, se serve a dimostrare con la sua esistenza che deve esistere anche il suo contrario, cioè il paradiso. E cos’è questo paradiso? La poesia.”

Parola di Gregory Corso. Tra i più noti poeti dell’americana scena Beat, esplosa nella metà del Novecento. Di chiare origini italiani, Gregory, fu l’ultimo arrivato ed il più giovane in quel consolidato gruppo ribelle di amici meglio conosciuto come la Beat Generation a cui tutt’ora dobbiamo molto. Sicché infatti, l’effervescenza dei testi di Gregory…

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Gregory Corso (1930 – 2001)

 

Allen Ginsberg e Gregory Corso a New York (1973)

 

 

 

I Papi, la guerra e la pace: Pio XI e l’enciclica Mit Brennender Sorge, del 14 marzo 1937

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Achille Ambrogio Ratti, asceso al soglio pontificio col nome di Pio XI, è stato il 259° papa della Chiesa Cattolica Romana. Nato a Desio, il 31 maggio 1854, fu eletto papa nel 1922. Normalizzò i rapporti con lo Stato Italiano, con la firma, nel 1929, dei Patti Lateranensi. Nelle sue encicliche, trattò grandi problemi di ordine morale e sociale. Morì il 10 febbraio 1939.

 

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L’enciclica Mit Brennender Sorge (Con viva preoccupazione) fu rivolta, dal pontefice, ai venerabili fratelli patriarchi, primati, arcivescovi, vescovi e agli altri ordinari, aventi, con l’apostolica sede, pace e comunione. Il documento ebbe anche un titolo più esteso e descrittivo: Sulla situazione della Chiesa nel Reich germanico. Nel marzo del 1938, Pio XI, ripresosi da una grave malattia, in soli 15 giorni pubblicò tre encicliche, a contenuto prevalentemente politico (Mit Brennender Sorge, Divini Redemptoris, Nos es muy conocida), riguardanti la situazione di discriminazione, oppressione e persecuzione della Chiesa Cattolica nella Germania nazista, nella Russia comunista e in Messico. L’enciclica recò la firma di Pio XI ma fu materialmente redatta, in segreto, dai cardinali Eugenio Pacelli (che ben conosceva la lingua e la cultura tedesche), futuro papa Pio XII, e Michael Von Faulhaber (arcivescovo di Monaco e Frisinga). Per non essere intercettata dalla Gestapo, fu trasmessa segretamente in Germania e tenuta nascosta dai parroci, spesso all’interno dei tabernacoli. Il documento è emblematicamente rappresentativo dell’ultima fase del pontificato di Pio XI, le cui posizioni coraggiose non furono riprese e sviluppate, con altrettanta fermezza e coerenza, dal successore Pio XII, specie per quanto naziconcordatconcerne il totalitarismo nazista. Il 20 luglio 1933, Pio XI aveva stipulato un Concordato con il governo tedesco (a sinistra, immagine della firma del Concordato, con il cardinale Eugenio Pacelli, al centro, e il Vice Cancelliere del Reich, Franz Von Papen, a sinistra), che garantiva alcuni diritti alla Chiesa Cattolica, in particolar modo per quanto concerneva l’insegnamento religioso. Le motivazioni del Concordato, da parte cattolica, furono ricordate all’inizio dell’enciclica: “Quando, nell’estate del 1933, su richiesta del governo del Reich, accettammo di riprendere le trattative per un Concordato, fummo mossi dalla doverosa sollecitudine di tutelare la libertà della missione salvifica della Chiesa in Germania e di assicurare la salute delle anime ad essa affidate, e, allo stesso tempo, dal sincero desiderio di rendere un servizio d’interesse capitale al pacifico sviluppo e al benessere del popolo tedesco. Nonostante molte e gravi preoccupazioni volevamo risparmiare ai nostri fedeli, ai nostri figli e alle nostre figlie della Germania le tensioni e le tribolazioni che, in caso contrario, si sarebbero dovute con certezza aspettare, date le condizioni dei tempi”. La Germania nazista venne ben presto meno ai patti: durante la Notte dei lunghi coltelli (30 giugno – 2 luglio 1934) furono uccisi anche dirigenti di organizzazioni cattoliche e, poco dopo, iniziarono le persecuzioni anticattoliche. Il cardinale Pacelli (allora cardinale Segretario di Stato) rivolse invano, dal 1933 al 1939, 45 note di protesta al governo tedesco. Secondo il testo dell’enciclica, Adolf Hitler, indirettamente chiamato inimicus homo (uomo nemico) aveva, in realtà, già avuto in mente di non rispettare i patti, non avendo altro scopo se non una lotta, fino all’annientamento della Chiesa, attraverso la campagna dell’odio, della diffamazione, di un’avversione profonda, occulta e palese, contro Cristo e la sua Chiesa, scatenando una lotta che si alimentò in mille fonti diverse, e si servì di tutti i mezzi“. Il documento continuò deplorando le violazioni del Concordato del 1933 pio-xi-258e condannando la dottrina nazionalsocialista, come fondamentalmente anticristiana e pagana: “Non si può considerare come credente in Dio colui che usa il nome di Dio retoricamente, ma solo colui che unisce a questa venerata parola una vera e degna nozione di Dio. Chi, con indeterminatezza panteistica, identifica Dio con l’universo, materializzando Dio nel mondo e deificando il mondo in Dio, non appartiene ai veri credenti. Né è tale chi, seguendo una sedicente concezione precristiana dell’antico germanesimo, pone in luogo del Dio personale il fato tetro e impersonale, rinnegando la sapienza divina e la sua provvidenza; un simile uomo non può pretendere di essere annoverato fra i veri credenti”. Più in particolare, l’enciclica deplorò, molto chiaramente, il culto della razza e dello Stato, definendoli perversioni idolatriche e dichiarando folle il tentativo di imprigionare Dio nei limiti di un solo popolo e nella ristrettezza etnica di una sola razza: “Se la razza o il popolo, se lo Stato o una sua determinata forma, se i rappresentanti del potere statale o altri elementi fondamentali della società umana hanno nell’ordine naturale un posto essenziale e degno di rispetto, chi li distacca da questa scala di valori terreni, elevandoli a suprema norma di tutto, anche dei valori religiosi e, divinizzandoli con culto idolatrico, perverte e falsifica l’ordine, da Dio creato e imposto, è lontano dalla vera fede in Dio e da una concezione della vita ad essa conforme. Solamente spiriti superficiali possono cadere nell’errore di parlare di un Dio nazionale, di una religione nazionale, e intraprendere il folle tentativo di imprigionare nei limiti di un solo popolo, nella ristrettezza etnica di una sola razza, Dio, Creatore del mondo, re e legislatore dei popoli, davanti alla cui grandezza le nazioni sono piccole come gocce in un catino d’acqua“. Nel testo erano condannati anche la mistificazione o lo stravolgimento dei contenuti della fede cristiana: “Venerabili Fratelli, abbiate un occhio particolarmente vigile, quando nozioni religiose vengono svuotate del loro contenuto genuino e applicate a significati profani. Da mille bocche viene oggi ripetuto al vostro orecchio un Evangelo che non è stato rivelato dal Padre celeste; migliaia di penne scrivono a servizio di una larva di cristianesimo, che non è il Cristianesimo di Cristo. Tipografia e radio vi inondano giornalmente con produzioni di contenuto avverso alla fede e alla Chiesa, e, senza alcun riguardo e rispetto, assaltano ciò che per voi deve essere sacro e santo”. Il pontefice ringraziò, poi, apertamente, i sacerdoti e tutti i fedeli i quali, nella difesa dei diritti imagesdella divina Maestà contro un provocante neopaganesimo, appoggiato, purtroppo, spesso da personalità influenti, adempiono il proprio dovere di cristiani. La pubblicazione dell’enciclica destò una violenta reazione da parte del regime nazista, colto di sorpresa dalla sua lettura dai pulpiti delle chiese. Hitler in persona ordinò di sequestrare tutte le copie del testo e di impedirne l’ulteriore diffusione. Nel maggio del 1937, egli affermò: “Non possiamo ammettere che l’autorità del governo sia messa sotto attacco da qualsiasi altra autorità. E questo vale anche per le Chiese“. Tale ammonimento era rivolto non solo alla Chiesa Cattolica, ma anche alle Chiese Protestanti in disaccordo con il regime hitleriano. La replica del regime non fu diretta, ma i gesti di Hitler, nei mesi dopo la pubblicazione dell’enciclica, segnalarono le rinnovate tensioni con la Chiesa cattolica. Furono, poi, inasprite le persecuzioni contro i cattolici. Vennero inscenati migliaia di nuovi processi nei confronti di esponenti del clero (con l’accusa di frode fiscale o di abusi sessuali), con il supporto della stampa propagandistica. Furono colpiti anche alcuni giornali cattolici (costretti alla soppressione) e associazioni cattoliche (fino ad ottenerne lo scioglimento). Nel maggio 1937, 1.100 sacerdoti e religiosi finirono in prigione, di cui 304, poi deportati, nel 1938, nel campo di concentramento di Dachau.

 

 

Dialogo interreligioso, epistemologia analitica del disaccordo e alcuni modelli medievali

 

di

Marco Damonte

 

 

Quando ci si riferisce al dialogo spesso si presuppone un contesto pubblico di discussione in cui sia necessario e urgente arrivare a un compromesso che assicuri un accordo tra i diversi interlocutori e che garantisca la pace sociale. Anche il dialogo interreligioso è prevalentemente concepito in quest’ottica, anche perché è nato storicamente nell’epoca moderna come tentativo di arginare la violenza derivante dalle guerre di religione.

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I Papi, la guerra e la pace: Benedetto XV e l’enciclica Pacem Dei munus pulcherrimum, del 23 maggio 1920

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Giacomo Paolo della Chiesa, asceso al soglio pontificio col nome di Benedetto XV, è stato il 258° papa della Chiesa Cattolica Romana. Nato a Pegli di Genova, il 21 novembre 1854, fu eletto papa nel 1914. Si adoperò con ogni sforzo, forte della esperienza diplomatica acquisita, avendo lavorato con i Segretari di Stato Mariano Rampolla e Rafael Merry del Val, per porre fine alla Prima guerra mondiale. Morì il 22 gennaio 1922.

 

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Nella traduzione italiana, il titolo dato all’enciclica è: Sulla riconciliazione cristiana per la pace. Il documento, datato 23 maggio 1920, costituisce una riflessione, a posteriori, sul dramma della Prima guerra mondiale, ma è anche molto critico nei confronti dei trattati di pace, a partire da quello di Versailles del 1919, che avevano suscitato, nei Paesi sconfitti e puniti, rancori e desideri di rivalsa, e, in alcuni dei Paesi vincitori, o sentimenti diffusi di “vittoria mutilata”, oppure, come negli Stati Uniti, nuove tentazioni per politiche isolazioniste. In evidente, seppur non dichiarata polemica conBenedetto-XV la Società delle Nazioni, fondata nel 1919, su proposta del presidente americano Woodrow Wilson, il pontefice propose la costituzione di una lega tra le nazioni, fondata sulla legge cristiana. La pace, grande dono di Dio, così vivamente implorata per quattro anni, finalmente risplendeva sul mondo. Molte ansie, però, turbavano questa gioia perché, seppure la guerra fosse terminata e fossero stati firmati trattati di pace, permanevano diffusi rancori. Nessuna pace sarebbe potuta essere duratura e nessuna alleanza tenere se non si fossero placati l’odio e l’inimicizia. Il papa ritenne che non fosse stato necessario dilungarsi, per mostrare a quali disastri l’umanità sarebbe andata incontro se, pur conclusa la pace, fossero continuati, tra i popoli, latenti ostilità e avversioni. La strada da seguire sarebbe stata quella della carità cristiana, che avrebbe reso tutti gli uomini fratelli. Essa, infatti, non si sarebbe limitata soltanto a far sì che gli uomini non si odiassero vicendevolmente, ma avrebbe permesso loro di farsi del bene reciprocamente. Per questo – continuò il pontefice – i popoli combattenti la Grande guerra avevano il dovere di praticare la carità, affinché fossero rimosse le cause di dissidio e, fatte salve le ragioni della giustizia, riprendessero tra loro relazioni amichevoli. La guerra era terminata e, per una certa necessità di cose, si andava delineando un legame universale di popoli, spinti naturalmente a unirsi fra loro da mutui bisogni, soprattutto a causa della moltiplicazione delle vie di comunicazione. Il Vaticano, durante la guerra, non smise di infondere nei popoli l’idea del perdono delle offese e della riconciliazione, secondo le leggi di Cristo e secondo le stesse esigenze del consorzio civile. Dopo i trattati di pace, questi principi diventarono ancora più importanti. Per questo motivo, le visite che i capi di Stato e di Governo usavano farsi reciprocamente per sbrigare questioni di grande interesse apparivano fondamentali e, a questo proposito, sarebbe stato necessario che tutti gli Stati si riunissero in una sola società, o famiglia di popoli, sia per garantire la propria indipendenza, sia per tutelare benedetto-xv-cover-1000x600l’ordine del consorzio civile. Lo stimolo a formare questa società, secondo Benedetto XV, aveva la propria radice nel bisogno riconosciuto di ridurre, se non abolire, le enormi spese militari, che non sarebbero potute essere sostenute oltre dagli Stati, affinché si impedissero, per l’avvenire, guerre tremende e si assicurasse, a ciascun popolo, l’indipendenza e l’integrità del proprio territorio, nei suoi giusti confini. La Chiesa non avrebbe rifiutato di fornire il suo valido contributo, una volta che questa lega tra le nazioni fosse stata fondata sulla legge cristiana, per tutto ciò che avrebbe riguardato la giustizia e la carità, perché, essendo questa il tipo più perfetto di società universale, per la sua stessa essenza e finalità, sarebbe stata efficacissima a unire gli uomini, non soltanto in merito alla loro salvezza eterna, ma anche al loro benessere materiale. Il pontefice, in chiusura del documento, esortò fortemente le nazioni a stabilire una vera pace e a congiungersi in un’alleanza, come prefigurato dalla Società delle Nazioni.

 

Dio, il re e il cavaliere. L’epica medievale e le chansons de geste

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Mentre la Letteratura Italiana sonnecchiava ancora a letto, raggomitolata tra le coperte, quelle nelle altre due lingue più simili all’italiano, la francese e la spagnola, si erano già alzate, lavate, vestite e stavano facendo colazione con pane, burro, marmellata e un cappuccino bollente. I francesi e gli spagnoli, a partire dall’XI secolo, cominciarono a produrre opere letterarie di altissimo livello: in Spagna e Francia settentrionale, le cosiddette Chansons de geste (canzoni di gesta) e i romanzi cortesi; in Francia meridionale, invece, la splendida poesia, soprattutto amorosa, dei trovatori. Non che gli spagnoli e i francesi del nord fossero meno galanti con le donne, che gli piacesse di più fare la guerra o che portassero i pantaloni più lunghi dei provenzali, ma, condizioni storiche e linguistiche diverse tra queste regioni, causarono lo sviluppo di generi letterari diversi. carlomagnoNella Francia settentrionale, fin dal V secolo, c’erano stati i Franchi la cui presenza aveva prodotto effetti anche sul francese antico. A Sud, al contrario, le popolazioni locali avevano interagito poco con gli invasori e con la loro lingua. Accadde, quindi, che, col tempo, si formassero due lingue, sempre francesi, ma un po’ diverse tra loro: la lingua d’oil, o oitano, a nord, e la lingua d’oc, o occitano, a sud. Queste erano chiamate lingue del sì perché, se un cavaliere avesse chiesto a una principessa di Parigi di uscire con lui, lei gli avrebbe risposto oil, cioè sì. Se a chiederlo fosse stato un cavaliere di Montpellier alla dama vicina di castello, questa gli avrebbe risposto oc, cioè, sempre sì. Se glielo avessi chiesto io, tutt’e due mi avrebbero risposto no e basta, e, siccome non so come si dice “no e basta” in oitano e in occitano, lasciamo perdere e andiamo avanti. Per quanto riguarda la penisola Iberica, gli arabi che vi erano giunti agli inizi dell’VIII secolo, non avevano creati troppi stravolgimenti alla lingua degli abitanti di quelle terre, se non l’introduzione di parole nuove e qualche cambio di accento nella pronuncia di quelle in uso. Roba da poco, quindi.Song-of-Roland-778

Le chansons de geste, scritte in lingua d’oil in Francia settentrionale, erano poemi epici in versi, detti canzoni perché i giullari (che non erano soltanto rozzi comici, saltimbanchi o clown, come spesso sono raffigurati, ma dei veri e propri lettori Mp3 umani, istruiti e colti), girovagando per le piazze delle città e per i castelli, narravano, cantando, spesso accompagnati da un’orchestrina, viella, lira, flauto, tamburelli e campane, storie che impressionavano e appassionavano molto nobili e popolani. Dalla viva voce di un giullare si potevano ascoltare le avventure e le gesta di re, paladini, cavalieri e uomini coraggiosissimi; pericoli, disastri, fortune e sfortune; fughe, tradimenti e morti ammazzati; teste che saltavano dai colli e fiotti di sangue che schizzavano da tutte le parti; guerre e battaglie, combattute in casa e in trasferta, contro infedeli, feudatari rivali e nemici di ogni genere. Quando, poi, quegli stessi giullari, o i monaci, oppure altri volenterosi, cominciarono a mettere quei racconti cantati per iscritto, ordinandoli per argomenti (i cosiddetti cicli carolingio e bretone o arturiano) e personaggi, furono così gentili da permetterci, ancora oggi, di poterli leggere.

La Chanson de Roland 

Il poema epico più famoso di tutti, la cui materia sarebbe stata ripresa anche in Italia da Matteo Maria Boiardo e da Ludovico Ariosto, è la Chanson de Roland. Questa canzone, appartenente al ciclo carolingio, fu composta, intorno al 1100, da un certo Turoldo. Conosciamo il suo nome perché, all’ultima pagina, lui stesso mise la firma, concludendo così: “La gesta scritta qui da Turoldo ha fine”. L’autore prese spunto da un fatto realmente accaduto: la battaglia di Roncisvalle, combattuta il 15 agosto del 778. Mort_de_RolandLa retroguardia dell’esercito di Carlo Magno, comandata dal paladino Rolando, fu attaccata e annientata dai baschi, alleati dei saraceni. Turoldo amplia questo episodio, raccontando una lunghissima storia. Re Carlo combatteva vittoriosamente i mori in Spagna. Soltanto la città di Saragozza gli resisteva e non gli si voleva arrendere in nessun modo. Il re saraceno Marsilio mandò i suoi ambasciatori da Carlo, giurandogli di volersi convertire al Cristianesimo e di diventare suo vassallo. Era solo un inganno. Rolando, più furbo di tutti, capì il trucco e suggerì al suo sovrano di ignorare le proposte del nemico, continuando, piuttosto, a combatterlo, fino alla presa definitiva di Saragozza. L’infame conte Gano, tanto invidioso di Rolando da non vedere l’ora di farlo fuori, si oppose e, con lui, la maggior parte del Consiglio di guerra. Su proposta di Rolando, quindi, proprio Gano fu inviato al campo dei mori per trattare, con il loro re, le pesantissime condizioni di resa imposte da Carlo. Mentre vi si dirigeva, pensò di tradire il suo re e, in un colpo solo, di eliminare anche Rolando. Il perfido conte propose a Marsilio di far finta di accettare quanto ordinato dal re cristiano. Così fu fatto. Carlo Magno e il suo esercito abbandonarono la città, lasciandosi alle spalle la sola retroguardia, capitanata da Rolando, con i Dodici Pari e 20.000 soldati. Quando il grosso delle truppe aveva già oltrepassato la gola di Roncisvalle, Marsilio tese l’agguato al valoroso paladino e ai suoi uomini. Rolando, nonostante la malaparata, si rifiutò di suonare l’olifante, il corno il cui suono avrebbe richiamato Carlo e il resto dell’esercito. Fece, pertanto, la fine del topo in trappola, morendo con le mani giunte sul petto, come un buon cristiano. Il re franco, comunque, tornò indietro in tempo per sbaragliare i mori, disperderli e inseguirli fino a che tutti si gettassero nel fiume Ebro, annegando. Tornato ad Aquisgrana, processò il lurido Gano, ordinando che fosse legato a quattro cavalli, due alle gambe e due alle braccia. Il traditore fu squartato. Rolando era stato vendicato. Molto tempo dopo, quando Carlo aveva più di duecento anni, una notte gli apparve in sogno l’Arcangelo Gabriele. chanson-roland-roncevauxQuesti gli annunziò l’immediata partenza per Infa, dove avrebbe dovuto aiutare il re Viviano a combattere altri mori. Così finì la storia. Turoldo, come è chiaro, aggiunse molti elementi fantasiosi alla realtà dei fatti. Questo perché egli doveva, non soltanto intrattenere chi lo ascoltasse, ma, soprattutto, mostrare loro esempi retti da seguire.  Gli eroi di queste canzoni di gesta erano un po’ come i personaggi della televisione di oggi: tutti volevano e, soprattutto, dovevano essere come loro. Le canzoni di gesta erano caratterizzate dalla presenza e dalla messa in onda di precisi valori: la lealtà verso il sovrano, la fede in Cristo, il senso dell’onore e l’eroismo in battaglia. Tutto racchiuso in un ineluttabile destino, scritto da sempre, che non lasciava ai protagonisti alcuna possibilità di azione personale: o erano e agivano in quel modo, oppure, avrebbero dovuto fare i bagagli e trasferirsi in qualche altro tipo di opera. O mangi ‘sta minestra, o ti butti dalla finestra, in sostanza! In un’epoca dominata esclusivamente dal Cristianesimo e dalla sua morale, questi erano i messaggi pubblicitari che le emittenti cartacee diffondevano via manoscritto: i re dovevano sembrare più o meno come Gesù; i paladini, sempre dodici, gli apostoli; non mancava mai il Giuda di turno; i morti in battaglia erano tutti martiri e quelli più importanti, santi; ogni combattimento diventava una vera e propria guerra santa; pentimenti finali e conversioni al Cristianesimo, l’epilogo necessario. Era come leggere il Vangelo e gli Atti degli Apostoli con i nomi dei protagonisti sostituiti. Altri poemi del ciclo carolingio sono la Chanson de Guillaume, dedicata alla saga di Guglielmo d’Orange e della sua famiglia, a salire e a scendere, cioè, prima e dopo di lui; il Renaut de Montauban; il Girart de Roussillon e il Pelérinage Charlemagne. Un posto particolare occupano le canzoni di Crociata, nelle si esaltavano le gesta dei cavalieri occidentali nelle guerre per liberare il Santo Sepolcro, a Gerusalemme: la Chanson d’Antioche e Le Chevalier au cygne (il Cavaliere del cigno), quel Goffredo di Buglione, comandante dell’esercito cristiano nella Prima Crociata. Di tutte queste, però, non vi racconto le trame altrimenti, se state leggendo di pomeriggio, fate notte, se, invece, è già sera, fate mattina.

Il Cantar de mio Cid

Giusto per rimanere nell’epica, c’è un altro poema, non in Francia, ma in Spagna, di cui vi voglio parlare: il Cantar de mio Cid. Vi sono narrate le imprese eroiche di Roderigo Diaz de Bivar, altrimenti detto El Cid Campeador, vissuto tra il 1043 e il 1099. La storia, o meglio, la canzone, prende avvio quando Roderigo fu accusato di aver sgraffignato una parte dei tributi che il re dei mori di Andalusia doveva ad Alfonso VI di León. Per questo, fu mandato in esilio. Lasciò la moglie Jimena e le figlie nel monastero di Cardeña, per paura che qualcuno potesse insidiarle, e, alla testa di molti altri cavalieri, si mise a far la guerra ai mori. Conquistò Valencia e cacciò il re di Siviglia, ottenendo, alla fine, il perdono del re. Per dimostrargli ulteriore gratitudine, il sovrano benedisse il matrimonio delle sue due figlie, Elvira e Sol, con i conti di Carrión.22 Questi due perdigiorno, però, ogniqualvolta c’era da andare a combattere se la prendevano con le mogli, frustandole e, poi, squagliandosela. Il Cid, stanco delle angherie subite dalle figlie, chiese giustizia a re Alfonso che inviò i suoi soldati ad ammazzare quei due mariti violenti. Le giovani si risposarono, una col figlio del re di Navarra, l’altra con quello del re d’Aragona, Tutti furono invitati ai due matrimoni e il povero Cid Campeador, eroe di tante battaglie, dovette chiedere un prestito in banca per pagare le ingentissime spese, perché, allora, le spese del banchetto nuziale e dei musici erano a carico del padre della sposa. Anche questo poema, tra i primissimi documenti della letteratura spagnola, celebrava quei valori comuni a tutta l’epica: la fede in Dio, la devozione al proprio re, la lotta agli infedeli, l’onore e l’eroismo. Due piccoli tip linguistici sull’appellativo di Roderigo Diaz: Cid deriva dalla parola araba sayyd, che vuol dire signore; Campeador, invece, è di provenienza latina, da campi doctor, maestro, o anche campione, sul campo di battaglia. Esempi di parole arabe e latine entrate in uso, ovviamente adattandosi, nella lingua spagnola, così come, casi lessicologici analoghi, sono presenti in tutte le lingue dei territori dominati, fino a qualche secolo prima, dall’aquila di Roma.

 

 

I Papi, la guerra e la pace: Benedetto XV e le lettere apostoliche Esortazione ai popoli belligeranti e ai loro capi, del 28 luglio 1915, e Nota ai capi dei popoli belligeranti, dell’1 agosto 1917

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Giacomo Paolo della Chiesa, asceso al soglio pontificio col nome di Benedetto XV, è stato il 258° papa della Chiesa Cattolica Romana. Nato a Pegli di Genova, il 21 novembre 1854, fu eletto papa nel 1914. Si adoperò con ogni sforzo, forte della esperienza diplomatica acquisita, avendo lavorato con i Segretari di Stato Mariano Rampolla e Rafael Merry del Val, per porre fine alla Prima guerra mondiale. Morì il 22 gennaio 1922.

 

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L’Esortazione ai popoli belligeranti e ai loro capi fu redatta due mesi dopo l’entrata dell’Italia nella Prima guerra mondiale (24 maggio 1915), che aveva comportato un ulteriore allargamento del conflitto e posto problemi inediti anche per il normale funzionamento delle attività internazionali della Santa Sede. Il papa non si rivolse più, come nella consolidata tradizione diplomatica vaticana, soltanto ai capi di Stato, ma anche, direttamente, all’opinione pubblica di diversi Paesi. L’Esortazione esordì tratteggiando, a tinte cupissime, il quadro dell’Europa in guerra. Il pontefice rimarcò il fatto che le sue prime parole, quando era stato eletto, rivolte alle Nazioni e ai loro reggitori, erano state di pace, di amore e di invocazione alla divina Provvidenza, affinché illuminasse i governanti e facesse loro decidere di cessare il conflitto. Sarebbero stati responsabili di ciò, dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini. La ricchezza che Dio aveva fornito alle loro terre, avrebbe permesso loro di continuare la guerra, ma a quale prezzo? Era convinzione Benedetto-XV-nel-suo-studiodi Benedetto XV che il conflitto non potesse risolversi senza la violenza. Sarebbe stato necessario deporre il mutuo proposito di distruzione. Le Nazioni non sarebbero morte: seppure umiliate e oppresse portavano frementi il giogo loro imposto, preparando la riscossa e trasmettendo, di generazione in generazione, un retaggio di odio e di vendetta (parole profetiche queste, visto quanto sarebbe accaduto alla Germania, la quale, offesa e schiacciata dal Trattato di Versailles, favorì l’ascesa al potere di Adolf Hitler e lo scoppio della Seconda guerra mondiale). Il papa propose alcune sue idee per porre fine alla guerra: la considerazione dei diritti e delle giuste aspirazioni dei popoli, iniziando uno scambio diretto e indiretto di vedute, allo scopo di tener conto di quei diritti e di quelle aspirazioni. L’equilibrio del mondo e la tranquillità delle Nazioni, secondo il pontefice, si fondavano molto di più sulla mutua benevolenza e sul rispetto dei diritti altrui, che su una moltitudine di fortezze e di armi. Il titolo originale della Nota ai capi dei popoli belligeranti, dell’1 agosto 1917, era in francese: Dès le début (Dall’inizio). E’ stato il documento più noto di Benedetto XV e, al momento della sua pubblicazione, suscitò grande scalpore e reazioni contrastanti. Accolto favorevolmente dai fedeli cattolici di tutta Europa e dalla gente comune, stanca e avvilita per i quattro anni trascorsi di guerra, suscitò diffidenza e ostilità esplicita nei comandi militari e nelle inutile_stragecancellerie dei Paesi di entrambi gli schieramenti. All’inizio della nota, il pontefice rimarcò come, sin dal principio del suo pontificato (3 settembre 1914), si era proposto di mantenere la Chiesa nell’imparzialità, di adoperarsi per fare a tutti il maggior bene possibile, senza distinzione di nazionalità o religione, di mettere in atto quanto realizzabile per far cessare la guerra, inducendo i popoli e i loro governanti ad impegnarsi per una pace giusta e duratura. Gli appelli, però, non furono ascoltati e, dal momento della incoronazione papale, altri tre terribili anni di guerra travagliarono il mondo. Il papa formulò, altresì, proposte concrete e pratiche, invitando i governi dei popoli belligeranti ad accordarsi su principi che sembrassero essere i capisaldi di una pace giusta e duratura, lasciando, poi, ad essi di precisarli e completarli (da qui, l’ostilità dei comandi militari dei governi belligeranti, che videro ciò come una fastidiosa ingerenza). La forza materiale delle armi sarebbe dovuta essere sostituita dalla forza morale del diritto. Bisognava trovare un giusto accordo tra tutti, riguardo la simultanea e reciproca diminuzione degli armamenti, secondo norme e garanzie da stabilire, nella misura necessaria al mantenimento dell’ordine pubblico nei singoli Stati e, in sostituzione delle armi, affidarsi all’istituto dell’arbitrato, con la sua alta funzione pacificatrice, conformemente a norme da predisporre. Stabilito così l’impero del diritto, si sarebbero eliminati gli ostacoli alle vie di comunicazione dei popoli con la vera libertà e comunanza dei mari: il che, avrebbe eliminato molteplici cause di conflitto e aperto per tutti, nuovi fronti di prosperità e di progresso. I danni di guerra sarebbero dovuti essere interamente e reciprocamente condonati, visti gli immensi benefici del disarmo. Infine, i territori occupati, sarebbero dovuti essere restituiti, altrimenti questi accordi pacifici, con tutti i vantaggi che ne VI-IT-ART-22958-benedetto_XVderivavano, non sarebbero stati possibili. Per quanto riguardava le questioni territoriali, come quelle che sussistevano tra l’Italia, e l’Austria, tra la Germania e la Francia, nella regione dell’Armenia e in quella dei Balcani, di fronte ai vantaggi di una pace duratura con disarmo, le parti in causa avrebbero dovuto esaminarle con spirito conciliante, tenendo conto, nella misura di ciò che era giusto e possibile, delle aspirazioni di popoli, e coordinando i propri interessi a quelli comuni dei popoli. Su queste basi, il pontefice riteneva dovesse poggiare il futuro assetto dei popoli. Per questo, si rivolse ai governanti dei paesi belligeranti, sui quali, a suo giudizio, gravava la responsabilità della felicità dei popoli, che essi avevano il dovere di procurare. Sul piano diplomatico, i tentativi di Benedetto XV fallirono, ma rafforzarono i sentimenti contrari al conflitto e confermarono il ruolo guida della Chiesa Cattolica.

 

Rustico Filippi e la poesia comica (da morire dal ridere)

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Rustico Filippi visse a Firenze tra il 1230 e la fine del secolo. Come i compagni poeti, gli stilnovisti, scrisse qualche poesia per celebrare la sua donna. Ebbe, tuttavia, maggiore fama di diffamatore del gentil sesso, sempre con intenti comici, però. Quando prendeva di mira qualcuno e gli dedicava i suoi versi, chi li ascoltava andava per terra dal ridere, dimenandosi come un indemoniato, tranne, ovviamente, gli interessati.carta_della_catena_showing_pa__br_hi Si diceva che durante i consigli comunali, a Firenze, l’opposizione inserisse qualche suo verso nell’ordine del giorno, in modo che i consiglieri di maggioranza abbandonassero la sala consiliare per andare a ridere nei corridoi attigui e, mancando il numero legale, non si approvassero i provvedimenti sgraditi alla minoranza. Per i vicoli e le strade della città, per il Lungarno o per i sestieri cittadini, ragazze magre e brutte, donne che non si potevano guardare manco a farsi pagare, rutti e scoregge, gente vanagloriosa e ingenua, uomini che pensavano solo a dove poterlo infilare, pernacchie e sberleffi, venivano catturati nelle sue rime. Quando il sonetto era confezionato non ce n’era per nessuno. Sentite un po’ qualche verso:

Ovunque vai, conteco porti il cesso
oi buggeressa vecchia puzzolente,
che quale – unque persona ti sta presso
si tura il naso e fugge inmantenente.

(Ovunque vai, con teco porti il cesso, vv. 1-4)

A confronto con questa vecchia, una discarica abusiva sarebbe un laboratorio per la distillazione di profumi.

Oi dolce mio marito Aldobrandino,
rimanda ormai il farso suo a Pilletto,
ch’egli è tanto cortese fante e fino
che creder non déi ciò che te n’è detto. […]

Nel nostro letto già mai non si spoglia.
Tu non dovéi gridare, anzi tacere:
ch’a me non fece cosa ond’io mi doglia.

(Oi dolce mio marito Aldobrandino, vv. 1-4 e 12-14)

Il buon Aldobrandino farebbe bene a controllare più spesso la bella e giovane mogliettina.

Lingerie Medievale 02

Ne la stia mi par esser col leone,
quando a Lutier son presso ad un migliaio,
ch’e’ pute più che ‘nfermo uom di pregione
o che nessun carname o che carnaio […]                                       
ed escegli di sopra un tal sudore,
che par veleno ed olio mescolato:
la rogna compie, s’ha mancanza fiore.

(Ne la stia mi par essere col leone, vv. 1-4 e 12-14)

Quasi certamente, a casa di Lutier devono aver staccato l’acqua corrente da qualche mese.

Se tu sia lieto di madonna Tana,
Azzuccio, dimmi s’io vertà ti dico;
e se tu no la veggi ancor puttana,
non ci guardar parente ned amico:
ch’io metto la sentenza in tua man piana,
e di neiente no la contradico,
perch’io son certo la darai certana;
non ne darei de l’altra parte un fico
.

(Se tu sia lieto di madonna Tana, vv. 1-8)

Azzuccio, chiedi alla tua donna che perlomeno si faccia pagare!

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I cittadini “celebrati” nelle sue poesie erano facilmente riconoscibili da chi ne leggeva o ne udiva le “gesta” e si incazzavano così tanto che l’autore, di sicuro, avrà avuto, da questi, più di un “paliatone”. Il realismo poetico di Rustico è straordinario. I suoi sonetti, seppure sub specie della comicità, sono l’effettiva rappresentazione di una società in cui dilagavano corruzione, vizi carnali e scarsissima, se non inesistente, igiene personale.