Freedom City Blues

per Pier Luigi Tizzano

 

I

Anch’io ho visto le menti migliori
della mia generazione distrutte, non dalla pazzia,
ma dall’imposizione alla paralisi, schiacciate, soffocate e graffiate
dal bradipo di acciaio luccicante, sanguinanti nella melassa di un’allucinazione
lisergica e intossicata, rivoli di glucosio marrone zampillare dalle vene
lacere e bucate, placche cristallizzate del colore dell’avorio guasto,
dal fiato greve di scimmia e di gin.
Stipate, costrette e ingabbiate tra sbarre
d’etere e foglie d’acanto, marmo di Paro
per idoli ignoti e spietati, déi finti e impostori che svettano
tra nebbie velenose e miasmi all’idrogeno,
al suono cieco di tamburi di tenebra
e trombe di manganese fuso.
 
Rami nodosi avvolgono e riducono a brandelli
il fegato pulsante e grondante bile scura,
gocce vaporose ne cadono sul terreno
impastato di croste e tungsteno incandescente
da cui germogliano corone di spine e scettri di canna
pieni di linfa morta e pestilente,
mentre caducei circolari inanellano organici decomposti
e stecchi di delta-9, pietre di quarzo e lamine d’oro,
donnole imbalsamate e aeriformi al cloroformio.
 
Lupi con le zampe lorde di fango viscoso
urlano davanti alle mura di calcestruzzi di risulta,
stemperati con incubi e ghiaie di fiumi
prosciugati dal sole alogeno a basso consumo;
sentinelle con scudi di plexiglas
e lanciafiamme a combustione interna
in garitte di guardia con fari al cherosene
bruciano la strada battuta da transgender vogliosi
e lastricata con le ombre dei vagabondi
dalle barbe pesanti e i cappelli a cilindro
che portavano boccette piene di ovatta imbevuta,
morti di fame, di freddo e di isteria.
 
Canti di capri risuonano tra la vaga caligine livida,
pezzi di carne sporca riscaldano
gli intestini retti e arrossati,
galloni di seme liquido e gommoso allagano gole
prone di schiavitù e dominio,
muschio strappato alla radice e sputato
su lastre epidermiche lisciate di borotalco e creme idratanti,
schiere di microscopici coscritti lavano pareti ingorde e senza crepe,
protette da imeni infibulati dalla falsità.
 
Da incubatrici meccaniche, tane di tenie,
ossiuri, cestodi, strongiloidi e ascaridi,
piene di polveri di allume e tartaro, di muco, di sebo e di pus,
bardati di bigiotteria opaca, angeli coi denti marci cantano vomitando
insetti impalati e ali incollate: “Non in commotione,
non in commozione, Dominus”. “God is now back on the road
and he’s floating around with the Bird”.
 
La cicuta e l’olio di sandalo, l’incenso e il cinnamomo,
il miele e la pelle di daino mescolati e bevuti per stanare la bestia,
per spuntarle le zanne e cacciarla,
spingendola fino alle Colonne d’Ercole,
precipitandola nel mare di pece e cobalto
tra gorgoglii che si chiudono sopra l’aroma di benzoino e caffè idrosolubile,
lavando l’onta del peccato originale col mercurio cromo.
Vexilla regis proderunt Inferni verso di noi.
“Welcome to Freedom City. Never loocked back, never feared, never cried”.

 

II

Un soffio di polvere imperlato di diamanti stellati,
accende una luce dai colori trasparenti che,
carica di protoni di follia e di pulviscolo dietilamidico,
dilata i contorni delle cose
eccitando il pistillo del fiore della storia del mondo
dal cui ventre, fecondato dallo psilocybe, stanno per essere partorite nuove gesta.
 
Gli eroi hanno strappato i cuori dei bardi lontani
e se ne stanno cibando,
accrescendo il loro valore e la loro potenza.
Sono pronti a mettersi in cammino,
i peana risuonano fino agli antipodi.
Sospinti da venti di terra e cerchi di fumo, avanzano
Sanno di andare a morte sicura,
già vedono i lumi muti e la terra sconsacrata,
ma sorridono. Le carni saranno dilaniate invano.
Sorridono.
 
Esaltati dalla materia primordiale,
dalle visioni diurne e dal calore dei triangoli di fuoco, avanzano.
Dietro di loro, migliaia di spettri si sciolgono
in rivi di fluido azzurrato che si increspa ed evapora.
E per un’ultima volta, un’ultima parte,
un ultimo passo e un ultimo tempo.
 

 

96.492_02_b02Jess Collins, “Narkissos” (1991), San Francisco, Museum of Modern Art

 

 

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