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Mogwai

 

Dotati di un istinto primordiale e animalesco, impulsivi e imprevedibili, i Mogwai hanno coniato un inconfondibile marchio post – noise – rock. Tra digressioni furiose, feedback e una continua alternanza tra quiete e turbamento psichico, sono una delle realtà più singificative del panorama underground a cavallo tra gli anni ‘90 e i 2000. mogwai“La nostra unica arma è l’istintività. È per questo che non ci sentiamo assolutamente intellettuali, né pretendiamo di essere artisti”. Queste le parole usate da Stuart Braithwaite, chitarrista e responsabile della composizione della maggior parte dei pezzi dei Mogwai, per descrivere l’aspetto più importante della loro musica. La band scozzese deve certamente molto agli Slint, i maestri di Louisville, soprattutto per quel che riguarda la scelta di fare un rock rigorosamente strumentale, salvo rarissimi interventi vocali, più parlati che cantati. I Mogwai nascono ufficialmente a Glasgow nel 1995. Inizialmente, l’organico è formato da tre elementi, ma dopo pochi mesi, è reclutato un secondo chitarrista, per dare più energia al sound che giocherà molto sulle sovrapposizioni chitarristiche e su distorsioni caotiche e furibonde. mogwai-come-on-die-young-deluxeNel 1997, viene prodotto il primo Lp, dal titolo “Ten rapid”, grazie al quale il pubblico britannico conosce e apprezza la loro “strana musica strumentale”. Una musica che sembra più improvvisata che studiata, stracolma, quasi fino alla noia, di feedback e distorsioni, che turbano e squartano l’animo dell’ascoltatore. Ma in questa “strana musica” non mancano momenti di pace, dominati da soavi melodie, sulle quali si innesca, in sottofondo, un parlato calmo e rasserenante. Grazie a “Ten rapid” la fama della band inizia a crescere, i live si moltiplicano e i fans pure. MogwaiyoungteamPresto ottengono un contratto discografico. Assoldato il terzo chitarrista, pubblicano, nell’ottobre del 1997, il loro primo album, “Young Team”, Chemikal Underground (copertina a sinistra). Questo disco è solo l’inizio di un’epopea senza fine, di una straordinaria carriera che non vedrà mai bassi. Otto album (quelli pubblicati finora, ma la band è ancora in attività e, con ogni probabilità, non smetterà di stupire e incantare), che possono definirsi otto perle all’insegna delle emozioni e di un’instancabile ricerca sonora. Otto piccoli gioielli da custodire gelosamente, inestimabile patrimonio dell’umanità ai tempi della generazione senza valori e senza speranze. Scegliere un album e parlarne è un’impresa tutt’altro che facile. Verrebbe voglia di raccontarli uno ad uno, come fossero preziose storie da tramandare con orgoglio di generazione in generazione. Ma in questa sede mi è consentito recensire un solo disco, e allora parlerò di “Young Team”, il primo album da me acquistato, il disco che mi ha fatto conoscere i ragazzi di Glasgow, facendomene innamorare. Il disco parte con “Yes! I am long way from home” (ascolta), una triste ballata che si evolve in un crescendo di suoni impetuosi e distorti. Poi c’è “Like Herod” (ascolta), una lunga odissea che inizia morbida e pacata anche se nervosa e tesa. D’improvviso la canzone sembra finita, ma è proprio lì che comincia il bello: riff di chitarre distorte irrompono sulla scena, come un fulmine che squarta un cielo grigio carico di pioggia. Subito dopo, altri due brani all’insegna di saliscendi chitarristici: “Katrien” (ascolta) e “Summer” (ascolta). mogwai_071Nella prima, risulta presente anche una sorta di parlato incomprensibile, ma che si rivela prezioso nell’aiutare le chitarre a metter su un crescendo nevrotico e confuso, emotivamente instabile. Segue “Tracy” (ascolta), un pezzo dall’atmosfera quasi sognante, simile a quello che la band proporrà nei successivi lavori in studio. “With Portfolio” (ascolta), invece, inizia pacatamente, con un piano che sembra quasi ispirarsi alla musica classica, ben presto soppiantato, senza pietà, da distorsioni colossali a turbare, ancora una volta, la psiche, a violentare una quiete che nei Mogwai non è mai reale, ma sempre apparente. Con “R u still in 2 it” (ascolta), il disco torna a farsi morbido e d’atmosfera, proponendo una sorta di folk sognante e malinconico, sul quale si staglia il cantato di Aidan Moffat degli Arab StrapInfine, ci sono i due minuti di piano di “A cheery wave with stranded youngsters” (ascolta), che sembrano essere un preludio al finale lancinante di “Mogwai fear satan” (ascolta), dove, su una base ritmica veloce e tambureggiante, si elevano i soliti muri di distorsioni furibonde e inquiete, vero marchio di fabbrica della band. maxresdefaultYoung Team” è un piccolo grande disco, un elogio alla tristezza, narrato con una musica unica, cruda e toccante. E’ forse la perfetta sintesi di un decennio musicale inquieto e senza grandi ideali, un tentativo di rappresentare gli stati d’animo di una generazione allo sbando, di figli di nessuno alla ricerca di un qualcosa sempre più inafferrabile. Inafferrabile e vago, proprio come la loro musica strumentale, ma non per questo, brutto o indegno. E’ un disco che pone le basi per un percorso sonoro umile, che non vuole proporsi come avanguardia, ma come una semplice ricerca della melodia e delle più intime emozioni. Perché, in fondo, la musica dei Mogwai è emozione. Un’emozione naturale, genuina, innocente, spontanea. Bella!

Pier Luigi Tizzano