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Trattati, cronache e storie tra il ‘200 e il ‘300

 

Secondo quel modo di scrivere tipicamente medievale, a partire dal 1100, furono composte, in Europa e in Italia, vastissime opere che trattavano di tutto e di più. Quando, ad esempio, un letterato scriveva un libro di storia, non si limitava a raccontare quanto era accaduto ai suoi tempi o, al massimo, nell’arco di qualche secolo, come accade oggi in gran parte dei testi di storia che si studiano a scuola, ma cominciava da quando Dio che creò il mondo, fino al momento in cui staccava definitivamente la penna dal foglio.im099 Allo stesso modo, chi metteva insieme animali, piante e pietre preziose, in particolari raccolte dette bestiari, erbari o lapidari, non catalogava solo quello che aveva sotto gli occhi, ma vi inseriva mostri, belve feroci, animali mitologici, finti e inventati, piante che non sarebbero esistite nemmeno nel più attrezzato orto botanico del mondo, come i Kew Gardens a Londra, erbe magiche, fiori che divoravano gli uomini, pietre dai poteri meravigliosi, che si trasformavano in oro, che rendevano invisibili, il tutto arricchito con mille significati e allegorie. Questa particolare tendenza dello scrivere è stata detta enciclopedismo, perché, ogniqualvolta venisse in mente a qualcuno di mettersi a fare lo scrittore, doveva stendere un’enciclopedia. Giusto per fare due nomi, cito Vincenzo di Beauvais, autore dello “Speculum (specchio) Maius“, diviso in naturale, doctrinale e historiale, che rifletteva proprio tutto, e Ristoro d’Arezzo, redattore di una “Composizione del mondo con le sue cascioni“, due capitoloni difficilissimi e di una noia mortale. Molti furono anche i trattati di matematica, come quelli di Lorenzo Fibonacci, che nel tempo libero inventava sequenze numeriche per Dan Brown, e quelli di medicina, di astronomia e di astrologia.

I lettori di allora avevano poco tempo e ancor meno voglia di sfogliare libroni che non avrebbero mai finito, pieni di cose che non gli interessavano affatto. download (2)Avrebbero preferito leggere qualcosa che gli raccontasse come andassero le cose in modo spicciolo. Anch’essi volevano interessarsi di politica, sapere chi avesse perso la battaglia, chi fosse stato stato eletto re o nominato vescovo. Volevano leggere i settimanali scandalistici dell’epoca, come Novella 2000 o Chi, i quali rivelavano l’ultimo fidanzato della contessa o con chi era scappata la figlia del vassallo, promessa in sposa al principe reale.  Fu per questo, che tra la fine del ‘200 e gli inizi del ‘300, qualche storico furbo e un po’ curioso, pensò bene di scrivere cronache di quello che era successo e succedeva in quegli stessi anni, cui aveva potuto assistere con i suoi occhi o, al massimo, si era fatto raccontare da qualcuno che era stato presente.

Salimbene de Adam e la Cronica

Monaco francescano contro la volontà del padre, Salimbene, il quale, in realtà, si chiamava Ognibene, nacque a Parma nel 1221. Durante la sua vita si spostò molto tra il Nord Italia e la Francia.download Quando fu troppo stanco per continuare, si fermò e scrisse la “Cronica“. Morì nel 1287. A Salimbene due persone gli erano antipatiche che più antipatiche non si può: i francesi e Federico II. Non perse mai occasione, soprattutto ai primi, di combinarli male: “Quando bevono – diceva – le sparano grossissime, strillando che possono prendersi il mondo in un colpo solo e, pure quando non bevono, pensano di essere migliori di tutti gli altri popoli.” Come i francesi di oggi, dunque! Contro l’imperatore, invece, scrisse un libello intitolato “XII scelera Friderici imperatoris“, (Dodici pazzie di Federico imperatore) che, purtroppo, è andato perduto, dove lo accusava di essere uno spilorcio, di non aver avuto amici a causa proprio della sua avarizia e di aver combattuto la Chiesa solo per confiscarne le proprietà. La “Cronica” di Salimbene narra i fatti storici accaduti tra gli ultimi trent’anni dell’XII secolo fino alla sua morte. Rimane una delle fonti più importanti per la storia del ‘200, piena di eventi, con lo sguardo volto alle ingiustizie e alle miserie della società del tempo e con il grande rispetto per i personaggi che quella storia stavano facendo.

Dino Compagni e la Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi

Guelfo bianco, ricco borghese e sindacalista dell’Arte della Seta, Dino Compagni visse a Firenze tra il 1255 e il 1324. Fu gonfaloniere di giustizia e priore e, proprio per questo, quando i suoi compagni di partito, tra cui Dante, furono esiliati, cacciati dai neri, poté rimanere in città, grazie ad una sorta di immunità parlamentare, ma fu costretto ad abbandonare la vita politica.download (1) Non avendo più da lavorare, quindi, saputo che l’imperatore Arrigo VII stava scendendo in Italia, pensò di dare notizia di quanto fosse successo a Firenze dal 1280 al 1312. Illustrando in modo particolare la lotta tra i guelfi bianchi e neri e la vittoria di questi ultimi, Compagni dichiarò di trattare solo “il vero delle cose certe“, pure perché non aveva intenzione di scrivere falsità. Per questo, si servì solo di ciò che aveva visto e sentito di persona o che gli aveva riferito qualche galantuomo. Per di più, non voleva raccontarla a modo suo. Ma non riuscì ad essere imparziale. La sconfitta ancora gli bruciava e, accanto alla narrazione dei fatti, inserì predicozzi contro i suoi concittadini e contro la malvagità e l’infamia dei neri e del loro capo Corso Donati. Anziché una cronaca, quest’opera sembra un diario segreto, dove la passione adoperata per descrivere quanto è richiamato va al di là del fatto storico. I giudizi violenti contro personaggi potenti ancora in vita si sprecano e l’Autore, per paura che questi gliela facessero pagare tendendogli un agguato con i loro sgherri, nascose il manoscritto in un buco nel muro in cantina. Non disse niente ad alcuno e, per caso, 150 anni dopo, questo fu ritrovato.   

Giovanni Villani e la Nuova Cronica di famiglia

Sicuramente riuscì ad essere molto meno parziale di Dino Compagni, anche perché, nel frattempo, a Firenze, i tempi erano mutati. A comandare c’erano i neri, i bianchi erano in esilio e si stava tutti un po’ più tranquilli. Giovanni Villani nacque nella città dell’Arno nel 1280. Figlio del popolo, fu mercante, banchiere socio dei Peruzzi e dei Buonaccorsi e priore un paio di volte, simpatizzando per i neri. Fu accusato falsamente di aver sgraffignato danari pubblici durante la costruzione delle nuove mura della città e, a seguito del fallimento del Banco Buonaccorsi, fu incarcerato per qualche mese. VillaniMorì durante l’epidemia di peste del 1348, quella di cui Boccaccio si servì per dare inizio al “Decameron“. Villani divise la sua “Nuova Cronica” in dodici capitoli: non seppe resistere al fascino dell’enciclopedia e, nei primi sei, raccontò la storia del mondo, dalla Torre di Babele fino al 1265, con lo scopo di vantare, in maniera esagerata, le origini romane di Firenze. Negli ultimi sei, invece, riportò quanto successo nella sua città dal 1265 all’anno della morte. L’Autore non si perde in chiacchiere. Non gli interessa dire la sua sull’accaduto, quanto soltanto raccontare come sono andati i fatti. Piena di documenti d’archivio, di informazioni sulla popolazione e su come si svolgevano i commerci in città, essa contiene anche le prime notizie biografiche su Dante, con la soddisfazione di poter annoverare, tra i cittadini fiorentini, un così illustre poeta. Sul letto di morte, col corpo pieno di bubboni per la peste, Giovanni si fece promettere dal fratello Matteo la continuazione dell’opera. Matteo proseguì fino al 1363 e chiese, poi, la stessa cosa a suo figlio Filippo il quale, però, evidentemente poco interessato a questa pratica di famiglia, aggiunse soltanto il 1364.