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Faust

 

 

Tra i maggiori esponenti del kraut rock tedesco degli anni ‘70, i Faust hanno avuto il grande merito di allargare i confini della musica tutta, proponendo un rock tanto folle quanto “tecnologico”, avanti di almeno un paio di decenni rispetto al sound dell’epoca. Faust_(early_1970s)I Faust sono stati tante cose insieme: tentazioni cosmiche, viaggi nello spazio, destrutturazione, sperimentazione oltraggiosa e anche rumore, tanto rumore. La band si formò ad Amburgo, nel 1969, e, ascoltandoli, si potrebbe dire che, forse, vendettero l’anima al diavolo. Ma è molto più probabile che l’avessero data in prestito al caos e alla follia, ricevendo, in cambio, il dono di creare una musica a dir poco terribile e anarchica, una miscela esplosiva di suoni folli e perversi. Non credo di esagerare nel ritenere i Faust una delle band più influenti di tutti i tempi, assieme a Pink Floyd e Velvet Underground. L’unico peccato è che, mentre questi ultimi sono conosciuti in ogni angolo del globo, i Faust restano ancora una realtà sconosciuta al grande pubblico. Il progetto iniziale della band fu un rock tecnologico, portato alle estreme conseguenze. “In ogni paese – raccontano i musicisti nelle interviste dell’epoca – le band stanno cominciando a sintetizzare nuovi suoni. Il problema è che non viene fatto abbastanza. Un musicista, oggi, deve avere delle conoscenze di elettronica, per costruire lo strumento in grado di produrre esattamente il suono che vuole. L’ideale, per ogni musicista, è sapersi costruire gli strumenti da solo”. Per mettere in pratica questa teoria, la band si ritirò in una sorta di isolamento monastico, in un piccolo paese di campagna, nel nord della Germania, utilizzando una vecchia scuola abbandonata come studio di registrazione, con innumerevoli equipaggiamenti elettronici all’avanguardia e un registratore a otto piste. Giornate su giornate di prove e jam session e prese vita il sound mostruoso e anarchico, destinato a Faustdivenire un vero e proprio marchio di fabbrica e influenzare una moltitudine di musicisti, fino ai nostri giorni. I testi, poi, surreali e sarcastici, erano in gran parte suggestionati dal pensiero hippie dell’epoca. Nacque così, nel 1971, il primo album della band, intitolato semplicemente “Faust“, Polydor (copertina a sinistra). L’opera è una magniloquente operazione di sperimentazione, in cui tutto venne spinto all’estremo, ed è suddivisa in tre lunghi brani: “Why don’t you eat carrots?”, “Meadow meal” e “Miss Fortune“. Si parte con un fischio assordante, sotto il quale si percepiscono alcune note di “All you need is love” dei Beatles e “Satisfaction” dei Rolling Stones. Più che un omaggio alla due band storiche, i Faust vollero lanciare un chiaro messaggio: decapitare la musica che il pubblico aveva sempre ascoltato. Si trattò di una chiara scelta stilistica con la quale i Faust dichiararono guerra all’orecchio. Intendevano stravolgere l’ascoltatore con un sound malato e ricco di rumore, caotico e confuso. “Why don’t you eat carrots?” (ascolta) comincia, poi, a destrutturarsi con dei cori strampalatiage-old-shot-of-the-early-members-of-can e alcune note di pianoforte sconnesse, che avviano un jazz-rock in stile Frank Zappa. Voci demoniache si rincorrono bloccando la marcia, che riprende con calma, ma sempre più malata e caotica. La tromba fischia un motivetto quasi demenziale, al quale si susseguono altri fischi e rumori di ogni tipo, creando un caos disumano che spiazza letteralmente l’ascoltatore il quale, confuso e disorientato, non capisce su cosa doversi soffermare. A cosa serve tutta questa confusione? Molto probabilmente, i Faust miravano a far perdere il contatto con la realtà al cervello, creando un trip malefico alla fine del quale non si poteva che rimanere perdutamente innamorati. Il secondo brano, “Meadow meal” (ascolta), inizia con rumori elettronici, sui quali si inseriscono suoni del tutto casuali, sparsi qua e là. Arriva, poi, il solito assordante sibilo, dopo il quale parte una chitarra che ricorda vagamente lo stile flamenco e accompagna un cantato che non riesce ad essere classico per più di qualche secondo, perché sussulta in continuazione, con dei botta e risposta, che fanno da apripista a una jam blues-rock, dominata da chitarre elettriche strampalate e sconnesse. Quando la jam finisce, riparte il tema iniziale, col suo arpeggio inquietante e i soliti rumori sparsi. Il terzo e ultimo brano, “Miss Fortune” (ascolta), parte con delle percussioni ossessive, una chitarra tanto acida quanto completamente sconnessa e il synth, che massacra letteralmente tutta la jam. Terminata questa, arrivano voci che sembrano quasi venire dall’aldilà, sostenute da una pigra Faust_03batteria. Si aumenta di ritmo pian piano e, infine, inevitabilmente si ritorna al caos puro, che si spegne lentamente, lasciando spazio a un coro che sembra cantato da zombie. Il brano si conclude simbolicamente con un “Nobody knows if it really happened”. Nessuno sa se sia davvero accaduto. E, in effetti, terminato l’ascolto, viene quasi da chiedersi se sia stato tutto sogno o realtà. Faust rimane, in assoluto, uno dei dischi più belli del filone kraut rock e della musica tutta, una vera e propria opera d’arte, avanti di almeno due decenni rispetto alla musica del tempo, un disco malato e ossessivo, astratto, confuso, anarchico, dal sound massiccio e fortemente psichedelico, un’esperienza musicale da vivere a pieno, magari chiusi in camera e a luci spente, per poterne assorbire a pieno l’immensa portata rivoluzionaria. Dopo “Faust” la band pubblicò vari dischi, tutti più o meno validi, fino allo scioglimento, avvenuto nel 2009.

Pier Luigi Tizzano

 

Amon Düül II

 

Nati nella Germania sessantottina, fervida di avanguardie culturali, gli Amon Düül II, con la loro musica oscura e demoniaca, intrisa di atmosfere esoteriche e ritmi tribali, sono riusciti ad affermarsi come una delle più grandi band del krautrock tedesco anni Settanta. La band si forma in una comune anarchico-freak a Monaco, dove si organizzano jam session free rock.amon-duul-4 La loro prima musica è molto sperimentale e caotica, fortemente politicizzata e impegnata contro la guerra. Nella prima formazione, alquanto precaria, si opera presto una scissione, dalla quale nasceranno due progetti diversi: gli Amon Düül I e gli Amon Düül II. La prima formazione si ispira chiaramente alla psichedelia americana dei Grateful Dead e dei Jefferson Airplane. Ciò lo si avverte chiaramente nel loro primo omonimo disco, ma ancor di più nel secondo album, “Paradieswärts Düül”, Ohr, 1970 (ascolta). Nel primo lato vi è “Love is peace” (ascolta), una lunga suite nella quale, inizialmente, un cantato dolce e sognante parla di terre incontaminate, dove l’amore e la pace regnano sovrani, il sogno hippie per eccellenza. Seguono malinconici e densi arpeggi di chitarra, che creano un clima di attesa irreale, a tratti claustrofobico, fino all’esplosione di suoni psichedelici negli ultimi cinque minuti. amonNel secondo lato, “Snow Your Thurst And Sun Your Open Mouth” (ascolta), più che una canzone è una lunga jam session di acid rock, accompagnata da percussioni tribali e da una batteria ipnotica, con chitarre distorte e ossessive, evocanti le visioni dell’Lsd. Ben presto, però, sono gli Amon Düül II a prendere il sopravvento e a dominare i palcoscenici, grazie a sonorità ben più complesse e originali. Attivissimi sin dal ‘68, grazie alla loro psichedelia d’avanguardia, si affermano come portabandiera di quel krautrock, nato in Germania con gruppi come Can, Neu, Ash ra temple e Tangerine dream. La band, nel corso degli anni, riesce ad imporsi anche a livello internazionale, con una serie di dischi, vere e proprie opere rock, dove convergono sonorità acustiche e orientali, mescolate a ritmi tribali e a devastanti suoni psichedelici. Il disco più rappresentativo del gruppo, manifesto ideologico del phallus_deikrautrock (quella estrema e sperimentale psichedelia made in Germany negli anni 70’, è “Phallus Dei”, Belle Antique, 1969 (copertina a destra). “Phallus Dei” (ascolta) contiene quattro brani e una lunga suite finale. È una vera e propria opera d’arte, qualcosa di così folle e inimmaginabile per l’epoca, subito risuonata rivoluzionaria per gli intenditori di musica. Era chiaro che qualcosa di magico stesse nascendo sulla scena musicale tedesca, una musica che riprendeva la psichedelia di Pink Floyd e soci, reinterpretandola in maniera ancora più estrema e fondendola con ritmi tribali e motivi orientaleggianti. Il disco parte in maniera egregia con “Kanaan” (ascolta), che, con la sua atmosfera, trasporta immediatamente l’ascoltatore in un mondo arcano e oscuro, dove la fanno da padroni suoni mediorientali ed esoterici, sui quali si innalzano maestosamente cori spettrali e inquietanti. Il punto di forza di questa danza occulta sta nella combinazione di riff tipicamente rock con archi e sitar. Poi, c’è “Luzifers Ghilom” (ascolta), brano dalle sonorità quasi horror, pieno di improvvisi cambi di tempo e in cui il cantato fluttua folle, su un mare di sonorità psichedeliche e percussioni. I vocalizzi demoniaci della cantante, Renate Knaup-Krötenschwanz, continuano in “Henriette Krotenschwanz” (ascolta), traccia breve che evoca la lunga notte dell’Inquisizione, sfociando, sul finale, in una corale marcia militare. Il massimo, in questo disco, si raggiunge con la title track (ascolta), una jam infernale di oltre 20 minuti, in cui gli Amon Düül dimostrano di essere musicisti con gli attributi. Amon_Dueuel_II-Carnival_In_Babylon_Japan-Booklet-L’inizio è calmo, ma questa calma è solo apparente perché presto esplodono una miriade di droni e suoni spaziali, mescolati a grida da indemoniati e vibrazioni di archi impazziti. La band improvvisa in maniera sempre più caotica e confusa, poi, un assolo di violino, che introduce percussioni tribali, sulle quali il cantato si inserisce prepotentemente in maniera sempre più folle. Il risultato finale è una vera e propria odissea acida, in cui gli strumenti suonano tutti in maniera scoordinata e dissonante, accompagnando l’ascoltatore direttamente nell’inferno delle anime dannate. “Phallus Dei” è un’opera mastodontica, un qualcosa che sarebbe potuto nascere solo dalle menti stravolte dall’Lsd in una comune anarchico-freak. E’ un disco dalle mille sonorità, complesso, allucinante e demoniaco, per certi aspetti tremendo, visionario e spettrale. “Phallus Dei” è probabilmente l’anno zero del krautrock ed è certamente una magnifica risposta alla psichedelia americana, troppo legata al blues, alle tradizioni e al progressive rock britannico. Un modo per dire che la Germania c’è e la sua musica non ha nulla da invidiare a nessuno!

Pier Luigi Tizzano

 

 

Indian Jewelry

 

Strana e bizzarra saga quella degli Indian Jewelry. Ma anche misteriosa e inafferrabile perché, in realtà, nessuno sa con precisione quanti siano i musicisti di questa band di culto della psichedelia underground. Si sa solo che sono un collettivo ad espansione continua e provengono dal Texas. Si sa che viaggiano on the road, come gloriosi hippie del passato, reclutando musicisti in ogni dove, esibendosi in performance musicali che sono, di fatto, un vero e proprio show allucinogeno. A dirigere l’orchestra sono in quattro: ij-truck-2la polistrumentista e cantante Erika Thrasher, il factotum Tex Kerschen, il batterista Rodney Rodriguez e il chitarrista Brandon Davis. Sono loro i titolari di questo psychedelic dream in salsa hippie, dove ognuno può entrare e uscire liberamente, come ci si trovasse in una comune, contribuendo, così, a creare un sound sempre più ricco e particolare e a rendere i live sempre più imprevedibili e originali, veri e propri circhi della follia umana. Nel corso degli anni, la band si è cimentata in progetti folli e originali, arruolando, di volta in volta, i più strabilianti personaggi incontrati sulle strade dell’America selvaggia. E, nonostante l’entrata e l’uscita di tanti e diversi musicisti, con background spesso contrastanti, il sound di base di questo maestoso progetto ha sempre mantenuto un comune denominatore: una devastante psichedelia di fondo. Forse devastante è dir poco.indianJewelry-640x428 Bisogna mettere subito in chiaro le cose: con gli Indian Jewelry non si scherza affatto. La loro musica è quanto di più psichedelicamente malato sia mai stato concepito nella storia del rock. Ci troviamo di fronte a droni, loop, drum machine, riverberi, chitarre, tastiere e rumori assordanti, che formano allucinanti agglomerati di suoni, capaci di violentare letteralmente le orecchie dell’ascoltatore. Tuttavia, pur rinnegando il formato-canzone classico e seguendo una sorta di anarchia strumentale, in cui tutto sembra essere concesso, i nostri eroi mostrano una insospettabile abilità melodica e un barlume di lucidità nel riuscire ad abbozzare linee geometriche in questo ammasso di devastazione psichedelica. La loro storia inizia nel 2003 e, oggi, la band è ancora in attività.Indian_Jewelry_-_Free_Gold! Uno dei momenti più alti della carriera l’hanno toccato nel 2008, quando hanno dato in pasto al pubblico il loro terzo disco, “Free Gold!”, We Are Free (copertina a destra), un vero e proprio viaggio spazio-temporale come insegna la tradizione psichedelica, un disco visionario e violento, terribilmente allucinogeno, la dimostrazione che la psichedelia non è morta nei ‘70, la prova tangibile che ci sono ancora una miriade di terre inesplorate da questo genere di nicchia e mai compreso a pieno. L’apertura del disco è affidata a “Swans” (ascolta) e “Temporary famine ship” (ascolta), veri e propri manifesti propagandistici, relativi a questo modo di fare musica, dove loop (campioni musicali che si ripetono in continuazione) ruvidissimi fungono da base a una voce “in trance” e a chitarre distorte, che sembrano quasi farsi guerra tra un assolo acido e un altro a seguire ancora più acido e così via. “Seasonal economy” (ascolta), altro manifesto psichedelico, capace di sconvolgere i sensi dell’ascoltatore, di disorientare e confondere. Ma nel disco non mancano momenti di quiete, pezzi più “classici”. Parliamo di “Pompeii” (ascolta) e “Everyday” (ascolta), ballate acide ed eteree, in cui sembra di trovare sia i rumorismi dei Sonic Youth, sia la decadente malinconia dei Velvet Underground. Tra i momenti di follia più pura, “Walking on the water” (ascolta), una canzone lenta e a tratti sognante, una tenue psichedelia che sembra venire direttamente da un mondo sconosciuto e cullare indianjewelryl’ascoltatore in sogni felici e spensierati. A seguire, “Too Much HonkyTonking(ascolta) propone atmosfere meno sognanti, più angosciose e claustrofobiche, in cui i singoli strumenti si sovrappongono caoticamente, stordendo e spiazzando. Da menzionare sicuramente, anche l’esperimento di psichedelia tribale di “Hello Africa” (ascolta) e “Seventh Heavean” (ascolta), pezzo di chiusura del disco, che si sviluppa in strabilianti rintocchi di chitarra e synth, che disegnano uno scenario cosmico, degno del kraut rock tedesco degli anni ‘70. In conclusione, “Free Gold!” è una piccola ma preziosissima pietra della psichedelia underground, un album ultrasperimentale, violento e viscerale, visionario e allucinogeno. E’ un’odissea crudele e stralunata, una deriva di suoni violenti e perversi, capaci di far rizzare i capelli all’ascoltatore per le visioni cui lo conducono. “Free Gold!” è il figlio legittimo degli hippie anni ‘70 e gli Indian Jewelry sono la dimostrazione che i sogni rivoluzionari non sono morti del tutto. Sono l’ultimo baluardo di uno stile di vita ispirato da alti ideali e idee universali di giustizia e libertà. Quattro maledetti sognatori innamorati e testardi, tutt’ora attivi musicalmente. E chissà, a quest’ora, mentre leggete quest’articolo, dove saranno e quale bizzarro personaggio staranno ingaggiando per i loro live. Lunga vita agli hippie del nuovo millennio!

Pier Luigi Tizzano