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La scienza di Dio e l’intelligenza della Legge

L’architettura filosofica della Guida dei perplessi
di Mosè Maimonide

 

 

 

 

 

Mosè Maimonide, noto anche come Rambam (acronimo di Rabbī Mōsheh ben Maymōn), nato a Cordova nel 1138 e morto al Cairo nel 1204, è stato uno dei più grandi pensatori della tradizione ebraica e, più in generale, una figura cardine della filosofia medievale occidentale. La sua formazione si è sviluppata all’incrocio di tre mondi: la cultura ebraica, la filosofia greca mediata dall’islam e le scienze naturali e mediche del suo tempo. Uomo di sapere enciclopedico, è stato giurista, medico, teologo e filosofo, capace di dominare con lucidità tanto il Talmud quanto la filosofia di Aristotele.
Maimonide visse in un periodo storico segnato da migrazioni forzate, tensioni religiose e contaminazioni culturali. A seguito della persecuzione degli ebrei da parte della dinastia almohade, fu costretto a fuggire dalla Spagna islamica, passando per il Marocco e la Terra d’Israele, fino a stabilirsi in Egitto, dove divenne capo della comunità ebraica e medico del visir al-Qāḍī al-Fāḍil al-Baysāmī, ministro per l’Egitto del Saladino. La sua biografia è, quindi, quella di un intellettuale errante, in cerca di un equilibrio tra identità ebraica e contesto musulmano, tra tradizione religiosa e razionalismo filosofico.
Sul piano intellettuale, si mosse con estrema ambizione: intese dimostrare che non esistesse contraddizione profonda tra fede e ragione ma solo livelli diversi di accesso alla verità. Da un lato, si propose di sistematizzare la legge ebraica nel Mishneh Torah, un’opera che mirava a essere un codice completo e compendiato del Talmud. Dall’altro, nella Guida dei perplessi, si rivolse a un pubblico ristretto, filosoficamente istruito, per affrontare questioni di teologia, metafisica e linguaggio religioso.
Scritta in giudeo-arabo, la Guida dei perplessi (מורה נבוכים ‎, Moreh Nevukhim ‎, 1190) fu composta in un periodo di tensione tra scienza e religione, tra filosofia greca e fede rivelata. I “perplessi” del titolo sono gli uomini colti che avevano ricevuto un’educazione nella Torah e, allo stesso tempo, conoscevano Aristotele, Avicenna e Al-Fārābī. Erano credenti che pensavano nel pensare, si smarrivano.
L’intento di Maimonide non era fornire un catechismo ma una via alla verità, accessibile solo a pochi: coloro che, pur immersi nella tradizione, osavano interrogarsi su Dio, la Legge, il mondo e l’uomo. L’opera è volutamente densa, allusiva, piena di ambiguità intenzionali. Maimonide stesso dichiara che a volte dice e poi contraddice, per proteggere i segreti filosofici dai lettori inadeguati.
Il Libro I della Guida è dedicata alla corretta comprensione di Dio e al modo in cui il linguaggio può o non può riferirsi a Lui. Maimonide affronta il problema dell’antropomorfismo presente nella Scrittura, cercando di mostrare come i termini che sembrano attribuire a Dio un corpo, emozioni o azioni umane debbano essere interpretati allegoricamente o metaforicamente. Le espressioni bibliche come “la mano di Dio” o “l’ira del Signore” non vanno prese alla lettera: sono strumenti pedagogici pensati per la massa, che non può accedere alla comprensione intellettuale della divinità. L’idea centrale è che Dio non può essere conosciuto attraverso affermazioni positive. Non si può dire “Dio è sapiente”, come se fosse un attributo umano potenziato. Si può solo affermare ciò che Dio non è: non è corpo, non è molteplice, non è finito. È questa la cosiddetta via negativa (teologia apofatica), che preserva la trascendenza divina da ogni proiezione antropocentrica. Accanto a questa purificazione del linguaggio, Maimonide comincia ad accennare al ruolo centrale dell’intelletto nella religiosità autentica. La conoscenza di Dio, secondo lui, non è sensibile né immaginativa, ma strettamente intellettuale. In questo senso, anticipa l’importanza che avranno l’intelletto agente e la teoria della conoscenza nelle sezioni successive. Il messaggio è chiaro: la fede non può essere cieca, deve essere pensata.

Il Libro II si apre con una grande sfida filosofica: come conciliare la cosmologia aristotelica con la dottrina biblica della creazione. Aristotele insegna che il mondo è eterno, senza inizio né fine. La Torah, invece, afferma con forza che Dio ha creato il mondo dal nulla. Maimonide non respinge in blocco la scienza aristotelica: ne accetta la struttura generale dell’universo, l’idea delle sfere celesti e il concetto di intelligenze separate. Tuttavia, respinge la tesi dell’eternità del mondo, anche se ammette che essa non può essere confutata razionalmente in modo definitivo. L’idea della creazione non è dimostrabile con la filosofia: è accettabile solo per chi riconosce l’autorità della rivelazione. Questa posizione è decisiva, perché stabilisce un limite alla ragione: la filosofia arriva solo fino a un certo punto. Oltre quel punto, la guida non è più la logica ma la Torah. È in questa zona di confine che Maimonide esercita la sua intelligenza strategica: non rinnega Aristotele, gli assegna il suo posto all’interno di una visione più ampia e rivelata. Nel trattare la provvidenza divina, poi, rompe con l’idea che Dio si occupi indistintamente di tutti. La sua visione è selettiva: Dio si prende cura in modo diretto solo degli esseri intelligenti e virtuosi. Gli altri, privi di discernimento e conoscenza, sono lasciati in balia del caso. Non si tratta di un Dio capriccioso ma di una concezione razionale della relazione tra perfezione intellettuale e protezione divina. In altre parole, la vicinanza a Dio è proporzionale alla nostra capacità di conoscerLo.
Il Libro III è il più esteso e filosoficamente maturo. Maimonide vi affronta il problema del male, il significato dei precetti della Torah, la natura della profezia e il vero scopo della vita umana. Comincia con una teodicea razionale: il male non è una forza positiva ma una privazione del bene. Deriva dall’imperfezione della materia o dalla libertà dell’uomo. Dio non crea il male; esso sorge come conseguenza dell’essere corporei e liberi. La riflessione sulla Legge è forse l’aspetto più rivoluzionario dell’intera opera. Maimonide afferma che ogni precetto della Torah ha una ragione precisa, legata al miglioramento dell’uomo e alla sua purificazione spirituale. I sacrifici, per esempio, non sono voluti da Dio in senso assoluto ma concessi come compromesso storico per distogliere gli ebrei dall’idolatria. Il vero obiettivo della Legge non è l’osservanza formale ma l’elevazione morale e intellettuale dell’individuo. La Torah, pertanto, diventa uno strumento pedagogico, un mezzo per condurre l’uomo alla contemplazione della verità. Il culmine del pensiero maimonideo si trova nella sua concezione della perfezione umana. L’essere umano realizza il proprio scopo non attraverso riti o emozioni religiose, quanto attraverso la conoscenza razionale di Dio. Questo processo culmina nella congiunzione con l’intelletto agente, che rappresenta la forma più alta di felicità possibile. Maimonide si allontana, così, da ogni forma di misticismo emotivo: la vera beatitudine non è una sensazione ma una comprensione.
Le dottrine di Maimonide hanno attraversato i secoli, le religioni e le culture. Nell’ebraismo ha segnato una svolta epocale. Prima di lui, la filosofia era vista con sospetto; con lui, diventa uno strumento legittimo, anzi, necessario, per avvicinarsi a Dio. Il suo pensiero ha diviso e unito, suscitando ammirazione e polemiche. In alcuni ambienti è stato accusato di razionalismo eccessivo ma nel lungo periodo ha vinto il rispetto della quasi totalità del mondo ebraico. I suoi scritti sono stati commentati, emendati, copiati e studiati per generazioni, fino a diventare pietra angolare del pensiero rabbinico moderno.
Tuttavia, l’eredità di Maimonide non si è fermata ai confini dell’ebraismo. La sua Guida è stata tradotta in latino e altre lingue, entrando nei circuiti della filosofia scolastica cristiana. Tommaso d’Aquino ne ha tratto spunti importanti, soprattutto per la teologia negativa e la concezione della Legge naturale. Anche nel mondo islamico Maimonide ha continuato a essere letto e rispettato come interprete della filosofia greca e come pensatore della ragione, dimostrando che il dialogo tra culture non è solo possibile ma può produrre opere di portata universale.
La sua visione della religione come percorso razionale verso la verità ha anticipato molte delle tensioni moderne tra scienza e fede, tra tradizione e pensiero critico, proponendo un modello alternativo: non un compromesso ma una gerarchia dove la Rivelazione guida e la ragione decifra. Dove la religione educa e la filosofia libera. La sua grandezza è nell’aver mostrato che la verità, per essere tale, deve essere difficile, non immediata, non per tutti, ma conquistata con disciplina, rigore e coraggio intellettuale.

 

 

 

 

 

La sapienza di Proclo al tramonto del mondo antico

 

 

 

 

 

Proclo Diadoco (412-485 d.C.) è stato l’ultimo grande sistematore della filosofia neoplatonica nella storia del pensiero tardoantico. Alla guida dell’Accademia platonica di Atene, riassunse, potenziò e rese organiche le dottrine di tutta la tradizione neoplatonica precedente. Rispetto a Plotino, Porfirio e Giamblico, introdusse un livello di sistematizzazione e rigore logico mai raggiunti prima. La sua opera è una costruzione ontologica imponente: un tempio filosofico in cui ogni essere ha un posto, ogni livello ha una funzione e ogni relazione rimanda all’Uno.
Il pensiero di Proclo non è semplice filosofia speculativa: è anche guida per l’anima, percorso spirituale, teologia pratica. È un modo per leggere il mondo come segno del divino e per ritrovare nell’ordine del cosmo la via del ritorno all’Unità originaria.
La filosofia di Proclo fiorì in un momento delicato: il mondo greco-romano stava cedendo sotto la pressione dell’impero cristiano. L’Accademia di Atene, fondata da Platone nel IV sec. a.C., era ormai una cittadella assediata della cultura pagana. Proclo ne fu uno degli ultimi grandi difensori. Tuttavia, la sua reazione non fu né nostalgica né puramente conservatrice. Al contrario, rafforzò e raffinò il sistema neoplatonico, dotandolo di una coerenza interna straordinaria, al fine di dimostrare non solo la superiorità del platonismo ma anche la sua capacità di rispondere ai bisogni religiosi, metafisici ed etici del tempo.
Al vertice dell’universo procliano c’è l’Uno, principio assoluto, non determinato, radicalmente trascendente. L’Uno non può essere pensato positivamente: non è essere, non è mente, non è Dio in senso personale. È oltre tutto questo. È la fonte pura da cui ogni cosa emana. L’Uno non agisce: emanare è per lui una necessità ontologica, non una scelta. Da esso tutto scaturisce per “processione” (prohodos) ma nulla si separa veramente da esso: ogni livello dell’essere è simultaneamente altro e in relazione.
Tutta la realtà si organizza secondo il ritmo universale delle tre fasi fondamentali: monê, la permanenza in sé, il rimanere nel principio; próodos, la processione da quel principio, l’uscita da sé; epistrophê, il ritorno al principio, la conversione verso l’unità. Questa triade, che deriva in parte da Plotino e in parte da Giamblico, è, per Proclo, la struttura stessa del reale: ogni ente, ogni livello, ogni dio, ogni anima riflette questa dinamica eterna. È il respiro metafisico del cosmo.

La filosofia procliana è profondamente gerarchica: l’universo è una scala dell’essere (scala entis) che va dal totalmente Uno fino alla materia. Ogni livello inferiore dipende dal superiore e lo riflette in modo più o meno offuscato. Questa gerarchia non è rigida ma dinamica. I principali livelli dell’essere, secondo Proclo, sono: l’Uno, principio supremo, ineffabile, assoluto; le Diadi ineffabili, princìpi dell’alterità e della molteplicità; gli Dèi intelligibili (noetici), unità puramente intelligibili, ancora immobili nella perfezione; gli Dèi intelligibili-intellettivi, ponte tra l’essere puro e l’intelletto attivo; gli Dèi intellettivi (noerici), sono Intelletti divini in atto, creatori dei mondi inferiori; le Anime divine, intermediari tra intelletto e natura; le anime individuali, legate al tempo e al corpo ma capaci di salvezza; la natura e la materia, il livello più basso ma non malvagio, solo il più lontano dalla fonte.
Il Nous è la prima realtà positiva dopo l’Uno. È l’Intelligenza eterna che contiene tutte le Idee platoniche. A differenza dell’Uno, il Nous è molteplice: è l’intelligenza che pensa se stessa (noesis noeseos), come nell’aristotelismo, seppure tale autopensabilità sia anche generativa. Il Nous è struttura e forma: ciò che rende possibile il cosmo. Ogni idea che vi è contenuta è anche un modello causale di tutte le cose che esistono. Ma non è ancora mondo: per passare alla realtà concreta occorre l’azione delle anime.
L’Anima è il luogo della mediazione. Essa vive su un crinale: guarda in alto verso l’intelligibile ma può anche discendere verso il corpo. Proclo distingue le Anime universali, che regolano i cicli del cosmo, dei pianeti, dei ritmi naturali, e le Anime particolari, umane e razionali, capaci di elevarsi verso l’intellegibile.
Il compito dell’anima è ricordare la sua origine e reintegrarsi nell’ordine divino. Questo percorso non è automatico: richiede conoscenza, disciplina e pratica spirituale.
Per Proclo, il cosmo è buono, ordinato, divino. Non esiste una “caduta” nel senso cristiano: la materia non è malvagia ma solo il grado più basso dell’essere. Ogni cosa, anche la più vile, è segno dell’Uno. Il male non ha sostanza propria: è privazione, disordine, non-essere. Eppure, anche il disordine è funzionale al tutto. Tutto ciò che esiste ha una funzione nell’economia divina. L’universo, nel suo complesso, è una liturgia cosmica: ogni essere, consapevole o no, partecipa alla danza dell’essere.
La filosofia di Proclo è, quindi, una visione dell’universo come ordine perfetto, una scala ininterrotta che va dall’Uno alla materia e ritorna all’Uno. Ogni cosa ha un posto, ogni azione ha un senso, ogni essere è un ponte tra la molteplicità e la fonte dell’essere. Non c’è scissione, solo livelli di partecipazione. Il compito dell’anima umana è riconoscere il tutto, comprendere il proprio ruolo e risalire la scala dell’essere verso la propria origine.

 

 

 

 

 

Metafisica e teurgia nel pensiero di Giamblico di Calcide

 

 

 

 

La teoresi di Giamblico di Calcide (ca. 245 – ca. 325 d.C.) è senza dubbio rilevante nel panorama filosofico della tarda antichità, nonostante, per lungo tempo, fosse rimasta oscurata da una lettura riduttiva che ha relegato l’autore a teurgo e mistico, in posizione marginale rispetto ai più noti Plotino e Porfirio. Eppure, Giamblico fu molto più di un compilatore di dottrine o di un devoto sacerdote pagano. Fu un sistematizzatore rigoroso, un riformatore delle dottrine neoplatoniche e un pensatore che seppe coniugare filosofia, religione e ritualità in una sintesi armonica dell’universo e dell’anima umana.
Nella tarda antichità, la sua statura intellettuale e spirituale era riconosciuta in modo quasi unanime. L’imperatore Giuliano l’Apostata lo considerava il terzo grande maestro dopo Pitagora e Platone, mentre commentatori come Proclo, Siriano e Simplicio lo chiamavano regolarmente “divino” (θεῖος), riconoscendogli un’autorità quasi sacra. L’uso di tale epiteto non era una semplice formula encomiastica ma indicava, nel linguaggio tecnico del neoplatonismo, il raggiungimento delle virtù teoretiche, ossia del livello più alto di perfezione intellettuale e spirituale. Se Aristotele, secondo Proclo, era un “daimonios”, un genio illuminato, Giamblico era invece ritenuto, appunto, “theios”, in quanto capace di contemplare l’intelligibile e di vivere secondo l’ordine divino. Questo riconoscimento non derivava solo dalla sua connessione con la teurgia, piuttosto dal suo ruolo nella trasmissione, reinterpretazione e sviluppo delle dottrine platoniche. La sua opera fu considerata fondamentale nella rifondazione del platonismo in chiave sistemica, in un’epoca in cui la filosofia doveva confrontarsi con la crescente influenza del cristianesimo, con la sfida della tradizione aristotelica e con l’esigenza di mostrare un percorso salvifico in grado di condurre l’anima alla sua origine divina.
Per comprendere il pensiero di Giamblico è necessario confrontarsi con De Anima, opera che ci è pervenuta in forma frammentaria tramite l’Anthologion di Giovanni Stobeo. Questo trattato è stato a lungo considerato una semplice raccolta di opinioni precedenti sull’anima, un esercizio di dossografia privo di contributi originali. Tuttavia, questa interpretazione, grazie agli studi di John Myles Dillon, Bent Larsen, Annick Charles-Saget, Cristina D’Ancona e, più recentemente, di Lucrezia Martone, oggi non è più sostenibile. Giamblico adotta un metodo sistematico e filosoficamente rigoroso: si ispira all’approccio aristotelico di iniziare ogni trattazione con una ricognizione delle dottrine antecedenti, non limitandosi, però, a raccoglierle. Al contrario, le riorganizza, le interpreta e le utilizza come base per elaborare una propria visione dell’anima, articolata, coerente e in stretto dialogo con la tradizione platonica e neoplatonica. La perdita della parte propriamente dottrinale dell’opera ha contribuito a farne trascurare l’originalità, ma i riferimenti contenuti nei testi di Proclo, Simplicio, Prisciano e altri autori permettono di ricostruire ampie porzioni della sua architettura teorica. La parte superstite del De Anima, quindi, non è il cuore dell’opera ma una sua premessa, vòlta a fondare la trattazione filosofica sull’anima mediante una rigorosa ricapitolazione delle principali scuole del pensiero antico: dagli egizi ai caldei, dagli atomisti agli stoici, dai pitagorici ai medioplatonici.

La concezione giamblichea dell’anima si distingue per la sua collocazione all’interno di una gerarchia ontologica estremamente articolata. Rispetto a Plotino, Giamblico abbassa la posizione dell’anima umana nella scala degli esseri, sottolineandone la maggiore prossimità al mondo sensibile e la sua condizione intermedia tra il divino e il corporeo. L’anima non è semplicemente una scintilla dell’intelligibile quanto un essere complesso, dotato di molteplici facoltà e soggetto a una dinamica di discesa e risalita all’interno dell’ordine cosmico. La gerarchia dell’essere, secondo Giamblico, parte da un principio ineffabile e assolutamente trascendente, che si colloca al di là dell’Uno stesso. Da questo principio originario scaturiscono, successivamente, l’intelligibile puro, il livello intellettivo, le anime divine e, infine, le anime razionali, tra cui quelle umane. L’anima, nella sua caduta verso il mondo sensibile, si riveste di potenzialità e facoltà che la legano alla materia, pur conservando la possibilità di elevarsi di nuovo alla sua origine grazie a un processo di reintegrazione che è, al tempo stesso, conoscitivo e salvifico.
Uno degli aspetti più controversi del pensiero giamblicheo è l’introduzione della teurgia come pratica filosofica. A lungo considerata una degenerazione mistica della filosofia razionale, la teurgia, in Giamblico, diviene, invece, uno strumento necessario per completare il cammino dell’anima verso il divino. Secondo la sua visione, la ragione umana da sola non è sufficiente per attingere la realtà suprema: occorre un’apertura simbolica, un coinvolgimento sacrale, una ritualità che consenta all’anima di riattivare la memoria della sua origine e di risalire verso i livelli superiori dell’essere. Nel De Mysteriis Aegyptiorum, afferma che solo la teurgia consente all’anima di trascendere i limiti del discorso filosofico e di entrare in contatto con il divino attraverso una partecipazione reale, non meramente intellettuale: questo non rappresenta il rifiuto della filosofia ma il suo compimento. L’attività teurgica, infatti, non contraddice la ragione: la integra, la purifica, la eleva. In questo senso, la filosofia giamblichea è una filosofia “piena”, che non esclude il mito, il simbolo, il rito, ma li assume come forme necessarie della conoscenza di ciò che è oltre l’intelletto. L’unità del sapere e del sacro, del logos e del rito è, per il filosofo, la chiave per restituire alla filosofia la sua funzione originaria: non solo spiegare il mondo ma trasformare l’anima.
L’originalità di Giamblico si manifesta anche nelle numerose innovazioni teoriche che apporta alla tradizione neoplatonica. Tra queste, la distinzione fra il principio ineffabile e l’Uno, che consente di conservare la trascendenza assoluta del primo principio senza compromettere l’unità del sistema; l’introduzione delle enadi – unità derivate ma ancora superiori agli intelligibili – in modo da articolare meglio il rapporto tra molteplicità e unità. Altri punti salienti sono la distinzione tra il mondo intelligibile e quello intellettivo, il primo statico e perfetto, il secondo dinamico e creativo, e la reinterpretazione del male non come sostanza ma come παρυπόστασις, cioè come un’emanazione accidentale e deficitaria dell’essere. Tutte queste elaborazioni teoriche dimostrano che Giamblico non fu un semplice collettore o ripetitore delle dottrine precedenti ma un costruttore di sistemi, un filosofo nel senso pieno del termine, capace di ridefinire l’intero impianto neoplatonico in modo tale da renderlo fecondo per i secoli successivi.

 

 

 

 

L’Isagoge di Porfirio di Tiro

Il detonatore della filosofia medievale

 

 

 

 

 

L’Isagoge (in greco, Εἰσαγωγή, Introduzione) è un’opera fondamentale della tradizione filosofica occidentale. Redatta da Porfirio di Tiro intorno al 270 d.C., fornì le basi logiche per la formazione intellettuale di intere generazioni di pensatori e diventò il punto di partenza per uno dei dibattiti più accesi della filosofia medievale: il problema degli universali. Lontana dall’essere solo un compendio didattico, l’Isagoge è una sintesi di logica, metafisica e pedagogia, un testo essenziale per comprendere come l’eredità aristotelica fu recepita, filtrata e rilanciata nel mondo tardo-antico, bizantino, islamico e latino. Porfirio (ca. 234 – ca. 305 d.C.) fu uno dei principali discepoli di Plotino e contribuì in modo determinante alla sistematizzazione del neoplatonismo. A differenza del maestro, la cui filosofia era più mistica e speculativa, Porfirio mostrò un orientamento più analitico, organizzativo e scolastico.
Nell’Accademia neoplatonica studiare Aristotele era considerato un passaggio propedeutico per avvicinarsi a Platone. La logica aristotelica veniva letta non come fine a sé stessa ma come disciplina preliminare che affinava l’intelletto. L’Isagoge fu sviluppata come strumento introduttivo, una guida per chi si apprestava a leggere le Categorie di Aristotele ma finì per costruire un vocabolario concettuale fondamentale per tutta la filosofia occidentale.
Le Categorie sono un’opera che unisce ontologia e linguaggio. Aristotele si propose di classificare i modi dell’essere e quelli del dire, mostrando come si potesse predicare qualcosa di un soggetto secondo dieci categorie fondamentali: sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, posizione, stato, azione e passione. Al contrario, l’Isagoge non si occupa della classificazione dell’essere ma dei modi di predicazione. Porfirio lavora su un piano più formale e logico, fornendo strumenti utili per la definizione e l’analisi concettuale. Anche l’oggetto dell’analisi è diverso. Aristotele partì da ciò che esiste e lo organizzò in categorie ontologiche e grammaticali. Porfirio, invece, inizia da ciò che si dice di qualcosa, cercando di classificare i concetti piuttosto che le realtà. Questo rende l’Isagoge più astratta ma anche più funzionale come introduzione al pensiero logico. Il metodo seguito dai due autori è altrettanto distinto. Aristotele procedette osservando e classificando direttamente l’esperienza e il linguaggio. Porfirio, invece, adotta una struttura gerarchica e definitoria: introduce concetti generali come il genere, li restringe nella specie, li distingue attraverso la differenza, li caratterizza con il proprio e li arricchisce con l’accidente. La sua visione è più sistematica e analitica. Infine, anche gli esiti filosofici divergono. Le Categorie portarono verso il realismo aristotelico, fondato sull’idea della sostanza individuale come base dell’essere. L’Isagoge, invece, apre a una riflessione metalinguistica sui concetti e sulle definizioni, interpretabile sia in chiave realista (dove gli universali esistono), sia in chiave nominalista (dove gli universali sono solo nomi). L’Isagoge è strutturata come un trattato breve e schematico. Porfirio vi introduce e analizza i cinque predicabili – genere, specie, differenza, proprio e accidente – che rappresentano le modalità attraverso cui si possono predicare gli attributi di un soggetto. Genere (γένος) è il concetto più generale sotto il quale ricadono più specie. Ad esempio, “animale” è genere rispetto a “uomo” e “cavallo”. Il genere raccoglie in sé caratteristiche comuni e si colloca ai vertici della scala classificatoria. Specie (εἶδος) designa l’essenza di un individuo all’interno di un genere. “Uomo” è una specie del genere “animale”. La specie è più determinata del genere ed è il concetto attraverso cui si definisce l’essere proprio di una cosa. Differenza (διαφορά) è ciò che distingue una specie dalle altre all’interno dello stesso genere. Ad esempio, la “razionalità” distingue l’uomo dagli altri animali. La differenza è essenziale perché partecipa della definizione dell’essere. Proprio (ἴδιον) è una proprietà che appartiene solo a quella specie ma non la definisce. È una qualità che segue necessariamente dall’essenza, ma non la costituisce. Ad esempio: “ridere” è proprio dell’uomo ma non definisce ciò che l’uomo è. Accidente (συμβεβηκός) è ciò che può appartenere o non appartenere a un soggetto, senza intaccarne l’essenza. È contingente, come “essere calvo”, “essere bianco”, “essere seduto”. Con questi cinque concetti, Porfirio pose le basi per l’intera logica predicativa: ogni affermazione su un soggetto si muove in questo quadro.
La vera miccia filosofica dell’Isagoge si trova nell’introduzione, dove Porfirio afferma: “Non mi occuperò del problema dei generi e delle specie: vale a dire se questi siano sussistenti di per sé o se siano semplici concetti della nostra mente; e, nel caso siano sussistenti, se corporei o incorporei; e, per finire, se siano separati o se si trovino nelle cose sensibili, a queste inerenti”. Con questa dichiarazione, apparentemente cauta, introdusse implicitamente la questione degli universali: i concetti generali come “uomo”, “animale”, “triangolo” esistono indipendentemente dalle cose? Oppure sono solo nomi o astrazioni mentali?
Questa ambiguità fu raccolta dai pensatori medievali. Boezio, nel VI secolo tradusse l’Isagoge in latino e ne scrive due commenti, uno più elementare e uno più tecnico, che furono il punto di riferimento per ogni successivo approccio scolastico. In essi affrontò con grande rigore i cinque predicabili e, soprattutto, si confrontò con il problema degli universali, che Porfirio aveva lasciato in sospeso, ponendo la base per la discussione scolastica.
La questione degli universali si articolò in tre principali scuole: il realismo (Platone, Anselmo, Tommaso), per cui gli universali esistono realmente, prima e indipendentemente dalle cose; il nominalismo (Roscellino, Ockham), per cui gli universali sono solo nomi, parole utili ma prive di esistenza propria; il concettualismo (Abelardo), per cui gli universali esistono solo nella mente, come concetti che rappresentano elementi comuni tra individui. La portata dell’Isagoge, quindi, non è limitata alla logica: penetra la metafisica, la filosofia del linguaggio e perfino la teologia, perché tocca il problema dell’universalità di Dio, della natura delle essenze, dell’identità tra individuo e specie. Nei secoli successivi, l’Isagoge continuò a essere letta e commentata nei monasteri, nelle scuole cattedrali e, poi, nelle università. Non esiste praticamente nessun autore scolastico importante che non vi abbia fatto riferimento: la logica vetus, che comprendeva l’Isagoge, le Categorie e il De Interpretatione (questi ultimi due di Aristotele), era la base dell’educazione filosofica. Il testo di Porfirio era anche oggetto di questiones disputatae, esercizi tipici delle università medievali in cui gli studenti apprendevano come difendere o attaccare una tesi in pubblico. Le distinzioni di Porfirio venivano analizzate alla luce delle definizioni, delle conseguenze e delle relazioni tra i predicabili. Nel XIII secolo, con l’introduzione della logica nova (cioè le restanti opere logiche di Aristotele), l’Isagoge perse il suo ruolo di testo principale ma non il suo valore formativo. Rimase, infatti, parte del programma di studi di base e continuò a essere copiata e poi stampato nei secoli successivi, fino all’età moderna. L’Isagoge resta un esempio straordinario di come un’opera apparentemente introduttiva possa lasciare un’impronta profonda e duratura nella storia del pensiero. Nonostante la sua brevità, ha fornito le basi concettuali per una delle più lunghe e complesse dispute della filosofia occidentale. La sua chiarezza espositiva e la precisione concettuale hanno formato il linguaggio della logica per secoli. Più di ogni altro testo, dimostra che i concetti, se ben costruiti, hanno lunga vita: possono attraversare secoli, culture e religioni, adattarsi a nuovi contesti e continuare a interrogare il pensiero umano. E forse proprio in questo sta il segreto della sua durata: non dà risposte ma forma le domande.

 

 

 

 

La fine del «mondo vero»

Nietzsche e la genealogia della verità

 

 

Per il dott. Francesco Musolino

 

 

 

 

Nel cuore della tradizione filosofica occidentale, sin dall’epoca di Platone, pulsa una distinzione radicale e solenne: la contrapposizione tra il mondo dell’apparenza – transiente, imperfetto, legato ai sensi – e il mondo della verità – eterno, perfetto, conoscibile solo tramite la pura attività intellettuale. Questa cesura ontologica, elevata a cardine della metafisica, ha proiettato la propria ombra sull’intero corso della speculazione teologica, morale e scientifica occidentale. Contro tale architettura bimillenaria si è levato Friedrich Nietzsche, con la veemenza di un pensiero assoluto e la potenza dissolvitrice di una critica implacabile, spingendo alle estreme conseguenze il rifiuto di ogni dualismo e reclamando, con voce tragica, il riscatto del divenire sul mito dell’eterno.
In Il crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello (1889), nel celebre capitolo V, intitolato Come il «mondo vero» diventò infine favola, il filosofo mette in scena il crollo di un concetto e, di più, la dissoluzione di un intero orizzonte culturale. Nietzsche, infatti, non si limita a confutare la metafisica dal punto di vista teorico: ne consegna una diagnosi storica e psicologica, una genealogia. Il “mondo vero”, lungi dall’essere una scoperta filosofica o una verità rivelata, si palesa essere una costruzione simbolica nata dal rifiuto della vita. L’intero edificio metafisico occidentale viene così smontato pezzo per pezzo, svelando le sue fondamenta morali, la sua origine reattiva e il suo uso ideologico.
Per comprendere la radicalità del pensiero di Nietzsche è necessario abbandonare la lettura puramente speculativa della filosofia e adottare quella genealogica. Con questa chiave interpretativa, Nietzsche scava nelle motivazioni nascoste che hanno portato l’uomo a costruire l’idea di un “mondo vero”. La sua ipotesi è spiazzante: il “mondo vero” non nasce dalla volontà di conoscere ma dalla paura e dal risentimento nei confronti della realtà.
Platone, con la sua teoria delle Idee, è l’archetipo di questa reazione. La svalutazione del mondo sensibile in favore del mondo delle forme eterne è sintomo della volontà di fuga, della negazione del divenire e della sofferenza. Con il cristianesimo, questa struttura si trasforma in una dottrina salvifica: il mondo vero è il Regno dei Cieli, promesso a chi si sottomette alla legge divina. Nietzsche chiama questo atteggiamento “nihilismo ascetico”: una volontà di annullare il mondo reale per sottometterlo a un ordine superiore immaginario. La metafisica, fino a Kant, non è altro che la prosecuzione di questa fuga in forme sempre più sofisticate. Anche l’idealismo tedesco, pur ribaltando alcune categorie classiche, conserva la struttura dualistica tra mondo fenomenico e assoluto. Nietzsche, invece, taglia il nodo alla radice: non c’è nessun mondo oltre il mondo. La realtà è il divenire. Ecco le sue parole*:

Storia di un errore

  1. Il mondo vero, attingibile dal saggio, dal pio, dal virtuoso, – egli vive in esso, lui stesso è questo mondo.

(La forma più antica dell’idea, relativamente intelligente, semplice, persuasiva. Trascrizione della tesi “Io, Platone, sono la verità”).

  1. Il mondo vero, per il momento inattingibile, ma promesso al saggio, al pio, al virtuoso (“al peccatore che fa penitenza”).

(Progresso dell’idea: essa diventa più sottile, più capziosa, più inafferrabile – diventa donna, si cristianizza…).

  1. Il mondo vero, inattingibile, indimostrabile, impromettibile, ma già in quanto pensato una consolazione, un obbligo, un imperativo.

(In fondo l’antico sole, ma attraverso nebbia e scetticismo; la idea sublimata, pallida, nordica, königsbergica).

  1. Il mondo vero – inattingibile. Comunque non raggiunto. E in quanto non raggiunto, anche sconosciuto. Di conseguenza neppure consolante, salvifico, vincolante: a che ci potrebbe vincolare qualcosa di sconosciuto?…

(Grigio mattino. Primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo del positivismo).

  1. Il “mondo vero” – un’idea, che non serve più a niente, nemmeno più vincolante – un’idea divenuta inutile e superflua, quindi un’idea confutata: eliminiamola!

(Giorno chiaro; prima colazione; ritorno del ‘bon sens‘ e della serenità; Platone rosso di vergogna; baccano indiavolato di tutti gli spiriti liberi).

  1. Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? forse quello apparente?… Ma no! col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!

(Mezzogiorno; momento dell’ombra più corta, fine del lunghissimo errore; apogeo dell’umanità: INCIPIT ZARATHUSTRA).

* Il crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello, a cura di G. Turco Liveri, Armando Editore, 1997, pp. 107-108.

Ogni passaggio corrisponde tanto a una fase storica del pensiero occidentale quanto a una trasformazione del modo in cui l’umanità ha inteso il rapporto tra realtà e verità.

  • Il mondo vero accessibile ai saggi – La verità come premio di un percorso morale e razionale: la posizione di Platone e dei grandi sistemi antichi.
  • Il mondo vero promesso ai pii – Spostamento della verità nell’aldilà, come consolazione per il dolore terreno: il cristianesimo.
  • Il mondo vero inconoscibile – Il criticismo kantiano sancisce il limite della ragione: il noumeno esiste ma non è conoscibile.
  • Il mondo vero inutile – L’idealismo e il positivismo cominciano a emanciparsi dal bisogno di un assoluto trascendente.
  • Il mondo vero abolito – Nietzsche porta a termine la decostruzione: la verità assoluta è una costruzione culturale, non una realtà.
  • Con esso scompare anche il mondo apparente – Crolla la struttura stessa della dicotomia: non essendoci un mondo vero non ha senso nemmeno parlare di apparenza. Rimane solo il mondo nella sua ambiguità.

Questa parabola non è solo filosofica ma esistenziale: il “mondo vero è morto” e con lui ogni pretesa di fondamento ultimo. Nietzsche chiama questo punto il crepuscolo degli idoli, cioè la fine di tutte le certezze ingannevoli che hanno guidato l’uomo.
Eliminato il “mondo vero”, la filosofia nietzschiana si ri-fonda su due pilastri: il prospettivismo e la volontà di potenza. Il primo afferma che non esiste una verità oggettiva e assoluta ma solo interpretazioni. Ogni sapere è situato, ogni conoscenza è un’espressione di un punto di vista. Il secondo concetto, la volontà di potenza, esprime la natura fondamentale della realtà: non materia o spirito ma energia in continua trasformazione, spinta all’auto-superamento. Anche la conoscenza è una forma di volontà di potenza: conoscere significa organizzare il caos, costruire senso, affermare una forma. La verità, pertanto, non è una corrispondenza tra il pensiero e l’essere ma un processo attivo, una creazione. In questo senso, Nietzsche è un precursore di una filosofia attiva, performativa, non rappresentativa.
L’abolizione del “mondo vero” implica altresì una trasformazione radicale dell’etica. Se non esiste un ordine superiore, eterno, giusto in sé, allora ogni sistema morale fondato su un principio assoluto (come la legge divina o la ragione universale) crolla. Nietzsche definisce morale da schiavi quella che nasce dal risentimento verso la vita e che eleva a valore il sacrificio, l’umiltà, l’obbedienza. La sua alternativa è la morale dei signori: un’etica dell’affermazione, della creazione di nuovi valori, della potenza vitale. Questa prospettiva non è un semplice edonismo, quanto una concezione tragica della vita: accettare la sofferenza, la contraddizione, la morte, senza cercare rifugi consolatori.
Con la morte del mondo vero nasce la possibilità dell’Oltreuomo: colui che non ha bisogno di verità assolute, che vive come artista della propria esistenza, che trasforma il caos in forma.
La filosofia di Nietzsche, quindi, non è un nichilismo distruttivo ma un tentativo di oltrepassare il nichilismo emotivo generato dalla metafisica. La fine del “mondo vero” è una liberazione: restituisce al mondo reale, concreto, mutevole. Chiede di abitare la terra senza nostalgia per il cielo, di trovare senso nella vita stessa, non in un aldilà. Nietzsche non propone un nuovo dogma ma un nuovo sguardo: uno sguardo forte abbastanza da sostenere l’assenza di garanzie e abbastanza creativo da costruire senso dove prima c’era solo consolazione. Ecco perché la sua è una filosofia del futuro: prepara a vivere dopo la verità, nel tempo dell’interpretazione, del conflitto, della potenza.

 

 

 

 

 

La professione di fede di Dante e la visione trinitaria
in dialogo con la dottrina di Gioacchino da Fiore

 

 

 

 

Nel canto XXIV del Paradiso, Dante professa un’autentica confessio fidei, nella quale riassume l’essenza della sua credenza cristiana. La dichiarazione comincia con un atto di fede nel Dio unico ed eterno, creatore e motore dell’universo:

E io rispondo: Io credo in uno Dio
solo ed etterno, che tutto ’l ciel move,
non moto, con amore e con disio;
(vv. 130-132)

Il “non moto” è una chiara allusione all’“immobile motore” aristotelico, reinterpretato cristianamente: Dio muove l’universo non per necessità ma per attrazione amorosa, principio che rimanda alla nozione agostiniana della carità come forza ordinatrice del cosmo.
Dante continua proclamando che la sua fede è radicata tanto nella ragione quanto nella rivelazione, riconoscendo quali fonti autentiche di verità i testi sacri dell’Antico e del Nuovo Testamento:

e a tal creder non ho io pur prove
fisice e metafisice, ma dalmi
anche la verità che quinci piove

per Moïsè, per profeti e per salmi,
per l’Evangelio e per voi che scriveste
poi che l’ardente Spirto vi fé almi;
(vv. 133-138)

Il culmine della sua professione di fede è la dichiarazione trinitaria:

e credo in tre persone etterne, e queste
credo una essenza sì una e sì trina,
che soffera congiunto ‘sono’ ed ‘este’.
(vv. 139-141)

La capacità di dire insieme sono (plurale) ed este (singolare) è segno della perfetta unità e distinzione tra le tre Persone della Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo.

L’immaginario trinitario di Dante trova una fonte ricca e suggestiva nella visione storico-profetica di Gioacchino da Fiore (1130-1202), figura dirompente nel pensiero religioso medievale, la cui influenza si è estesa ben oltre la sua epoca. Dante ne riconosce la statura carismatica, riservandogli un posto tra i beati nel Paradiso, accanto a San Bonaventura:

…e lucemi dallato,
il calavrese abate Gioacchino
di spirito profetico dotato.
(Par., canto XII, vv. 139-141)

Il riconoscimento non è casuale. Dante coglie in Gioacchino sia il carisma del profeta sia l’audacia teologica di un interprete che ha tentato di dare forma simbolica e dinamica al mistero centrale della fede cristiana: la Trinità. A differenza dei grandi scolastici suoi contemporanei, Gioacchino non costruì un sistema concettuale, ma una visione simbolica della storia, fondata su una lettura spirituale della Bibbia, delle genealogie, dei numeri e delle analogie tra eventi storici.
Al centro del pensiero gioachimita c’è l’idea che la Trinità non riguardi solo la natura di Dio: è la forma stessa della storia della salvezza. Questo principio si incarna nella sua concezione delle tre età o status temporum, ciascuna sotto il segno di una Persona divina. L’età del Padre è il tempo dell’Antico Testamento, segnato dalla Legge, dalla distanza tra Dio e l’uomo, dalla paura reverenziale; il Padre si rivela nella sua maestà, come legislatore e guida del popolo eletto. L’età del Figlio ha inizio con l’incarnazione del Verbo e prosegue nel tempo della Chiesa. È l’epoca della redenzione, della grazia e dell’imitazione di Cristo. Ma è anche, secondo Gioacchino, un tempo ancora “imperfetto”, perché caratterizzato da mediazioni esterne, strutture giuridiche e potere ecclesiastico. L’età dello Spirito Santo è la grande attesa profetica gioachimita: un’epoca futura e definitiva, in cui la legge scritta sarà superata da una legge interiore, spirituale. In questa terza fase non sarà più necessaria la mediazione della gerarchia ecclesiastica: l’uomo vivrà in libertà spirituale, in una comunità fraterna guidata dallo Spirito. È il tempo della consolatio, della sapienza diretta, della piena interiorizzazione del messaggio cristiano.
Questa struttura trinitaria è più di una cronologia: è una visione escatologica. Ogni età compie la precedente ma senza annullarla, in un movimento analogo alle relazioni interne alle Persone divine. Il Figlio manifesta pienamente il Padre, lo Spirito Santo compie l’opera del Figlio nella vita dell’anima e della comunità.
Nel Liber Figurarum, l’opera che raccoglie le visioni più significative di Gioacchino, la Trinità è rappresentata mediante tre cerchi congiunti, tre volti o alberi genealogici tripartiti. Queste immagini intendono rendere visibile la coappartenenza tra Dio e il tempo, tra struttura divina e destino umano. Le tavole, accompagnate da brevi commenti esegetici, sono strumenti meditativi e pedagogici, rivolti non a definire quanto a svelare attraverso il simbolo.
È probabilmente da queste rappresentazioni che Dante trasse ispirazione per la descrizione visionaria della Trinità nel XXXIII canto del Paradiso, dove tre cerchi colorati e concentrici rappresentano simbolicamente il mistero trinitario.

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;

e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.
(vv. 115-120)

I “tre giri” danteschi, distinti nei colori, ma identici nella sostanza, evocano direttamente l’immaginario figurativo gioachimita. Anche qui, la Trinità non è spiegata, è contemplata.

Pur riconoscendone il valore spirituale, Dante prende le distanze dall’escatologia più radicale di Gioacchino. L’idea di una futura “età dello Spirito” che possa superare la rivelazione evangelica e la struttura della Chiesa suscitò sospetti già nel XIII secolo e fu condannata, in parte, dal Concilio Lateranense IV (1215), che pur non citando Gioacchino per nome, ne mise in discussione le implicazioni teologiche.
Dante non abbracciò queste idee estreme. La sua Commedia non profetizza una terza rivelazione, ma culmina in una visione beatifica atemporale, in cui la verità della fede trova il suo compimento fuori dal tempo, nel punto eterno dell’Amore divino. L’età dello Spirito, per Dante, non è un’epoca storica futura: è una condizione spirituale già accessibile nell’esperienza mistica e nella comunione dei santi. La tensione profetica gioachimita viene così interiorizzata e armonizzata con la dottrina cristiana tradizionale.
Dante e Gioacchino da Fiore convergono su un punto fondamentale: la Trinità come forma dinamica e generativa della realtà. In Gioacchino, la Trinità diventa la struttura profonda del tempo e della storia; in Dante, è la chiave della visione finale, la sorgente dell’essere e della beatitudine.
Entrambi cercano, con mezzi diversi – il simbolo profetico e la poesia teologica – di esprimere l’inesprimibile: un Dio che è insieme Uno e Trino, distante e intimo, giudice e amante, inizio e fine.
Gioacchino aprì una nuova via nell’interpretazione della storia sacra, proponendo un’escatologia radicale della liberazione spirituale. Dante ne raccolse l’intuizione e la trasfigurò, facendo della Trinità non solo la fine del viaggio ultraterreno ma la forma ultima della conoscenza e dell’amore, quell’amor che move il sole e l’altre stelle.

 

 

 

L’effulgurazione nella filosofia di Plotino

Una metafisica dell’irradiazione dell’Essere

 

 

 

 

Nel lessico della filosofia neoplatonica, il termine “effulgurazione” (ἀπόρροια, ἀπορροή in greco, “emanazione”, ma anche “irradiamento”) descrive efficacemente il cuore del sistema plotiniano: un processo ontologico di generazione della realtà a partire dall’Uno, per irradiazione necessaria, spontanea e priva di ogni intenzionalità deliberata. È un modello alternativo sia alla creazione ex nihilo del teismo cristiano sia alla necessità meccanica della fisica stoica. È un tertium genus, che unisce trascendenza assoluta e continuità ontologica.
L’arché, il principio primo, per Plotino, è l’Uno (Τὸ Ἕν), e non l’Essere. L’anteriorità significa qui non solo ordine logico ma anche ontologico. L’Uno è superiore all’Essere, al pensiero e alla molteplicità. È unità indivisibile, inarticolata, priva di determinazioni. Non è una sostanza, né un soggetto. Per questo Plotino rifiuta di attribuirgli attività come volere, pensare, amare. Eppure, l’Uno produce. Da lui emana ciò che è, non per decisione ma per sovrabbondanza (περιουσία). L’effulgurazione è la conseguenza inevitabile del suo essere assolutamente perfetto. Come una fonte trabocca d’acqua perché è piena, come il fuoco emana calore, l’Uno effonde l’essere. Questa immagine di traboccamento è centrale: implica che l’Uno non si impoverisce nel dare, né cambia in ciò che genera.
Il primo termine generato è l’Intelletto (Nοῦς), che rappresenta l’essere autentico. L’Intelletto, a differenza dell’Uno, è molteplice, perché pensa e contempla le Forme, le Idee. In esso si produce la prima articolazione della realtà. L’Intelletto è il luogo delle Idee platoniche, ma non come entità statiche: esse sono vita intelligibile. L’Intelletto nasce come desiderio dell’Uno, che non può essere afferrato. La tensione del primo derivato verso il principio lo costringe a rivolgersi su sé stesso, generando, così, il pensiero e l’identità. La struttura dell’Intelletto è duale: ha, da un lato, il riferimento all’Uno e, dall’altro, la sua autocomprensione come pensiero attivo.
Dall’Intelletto effulge l’Anima (Ψυχή), che è già rivolta verso il molteplice. Mentre l’Intelletto è ancora in un piano di unità relativa, l’Anima introduce la dimensione del tempo, del movimento, del divenire. Essa funge da mediatrice tra mondo intelligibile e mondo sensibile. L’Anima genera le anime particolari e si volge infine verso la materia, dando forma e vita all’universo sensibile. Ma anche qui, l’effulgurazione non è un atto volontario: l’Anima, contemplando l’Intelletto, genera immagini delle Idee. È come uno specchio che riflette ciò che vede, generando forme in successione, fino alla più debole delle realtà: la materia.

La materia è, in Plotino, ciò che resta della luce quando essa ha perso quasi tutta la sua intensità. È priva di forma, pura potenzialità (δύναμις) e si avvicina al nulla. Non ha sostanza in sé, ma è necessaria per l’esistenza del mondo sensibile. La materia, tuttavia, non è male in sé. Il male nasce solo quando un essere si identifica con il livello più basso dell’essere, dimenticando la sua origine. In altri termini: il male è ignoranza dell’effulgurazione, non parte costitutiva di essa.
Il modello dell’effulgurazione implica una triade ontologica: Πρόοδος (processione) – ogni realtà scaturisce da un principio superiore; Μονή (permanenza) – il principio non si consuma nel generare; Ἐπιστροϕή (ritorno): ogni livello tende naturalmente al superiore. Questa struttura triadica regola ogni livello della realtà, dall’Anima fino all’intelligenza umana. Non si tratta solo di una cosmologia ma di un’etica e di una mistica: l’uomo è chiamato a ritornare all’Uno, risalendo i gradi dell’essere, riconoscendo in sé le tracce della luce originaria.
La conoscenza razionale ha un limite: non può cogliere l’Uno, che è oltre ogni determinazione. Per questo, Plotino introduce l’estasi (ἔκστασις), stato in cui l’anima si spoglia della molteplicità e raggiunge momentaneamente l’unità originaria. L’estasi non è un annullamento dell’essere ma il suo compimento. In essa l’anima si riconosce come frutto dell’effulgurazione e, ritornando alla fonte, realizza pienamente la propria identità.
Il modello dell’effulgurazione influenzò profondamente la filosofia tardo-antica (Proclo, Damascio), la teologia cristiana (Pseudo-Dionigi Areopagita), l’Islam filosofico (Avicenna, Suhrawardī) e persino il pensiero rinascimentale (Marsilio Ficino). L’idea che il reale non sia prodotto per comando ma per irradiazione, ha aperto uno spazio concettuale per pensare la relazione tra trascendenza e immanenza, unità e molteplicità, senza ricorrere al dualismo né al materialismo.
La dottrina dell’effulgurazione è una delle espressioni più profonde del pensiero metafisico occidentale. In essa si intrecciano ontologia, cosmologia, etica e mistica, in un sistema coerente e radicale. L’Essere, per Plotino, non è comandato ma irradia. Ogni cosa, anche la più umile, è un’eco della luce prima. E ogni essere dotato di coscienza ha in sé la possibilità di risalire la corrente dell’effulgurazione, fino a perdersi – o ritrovarsi – nell’Uno.

 

 

 

 

Storia e metafisica della persona

 

 

 

 

Il concetto di persona è una delle nozioni più dense e trasformative del pensiero occidentale. Si tratta di un’idea che attraversa la filosofia, la teologia, l’antropologia, il diritto e la bioetica, assumendo significati sempre nuovi, a seconda dell’epoca e del contesto culturale. La sua evoluzione ha conosciuto momenti di svolta radicale, a partire dall’incontro tra la riflessione filosofica greca e la teologia cristiana, fino alla sua riformulazione moderna e alle sfide che la contemporaneità, con le sue crisi e le sue innovazioni tecnologiche, impone. In questa breve ricostruzione storica e concettuale, si distinguono alcuni snodi fondamentali che hanno reso possibile il significato attuale del termine persona.
Nonostante la piena valorizzazione della persona avvenga nel contesto cristiano, la cultura greca aveva già gettato i semi teoretici che hanno reso possibile tale sviluppo. Il pensiero filosofico dell’antichità, pur privo di una nozione compiuta di persona come soggetto irripetibile, aveva elaborato concetti che avrebbero poi costituito l’ossatura della futura riflessione personalista. Nella filosofia di Platone, in particolare in alcuni dialoghi maturi – il Fedone, il Simposio e la Repubblica – viene fuori un’immagine dell’anima come principio spirituale, immateriale e immortale, chiamato a elevarsi al mondo delle Idee. L’anima è portatrice di razionalità, desiderio del bene e tensione verso l’Assoluto. Sebbene Platone si muova ancora nell’ambito del pensiero universale e non colga la singolarità concreta dell’individuo, il suo modo di concepire la vita spirituale è già interioristico e anticipa la struttura della persona come soggetto cosciente.
Aristotele introdusse la nozione di sostanza individuale (ousia) e concepì l’essere umano come ζῷον λόγον ἔχον (zoon logon echon), un essere dotato di logos, cioè di linguaggio, ragione e capacità deliberativa. L’etica aristotelica è fondata sulla formazione del carattere e sulla ricerca del bene attraverso la virtù. L’individuo viene considerato in quanto partecipe della ragione universale, e la sua realizzazione personale è strettamente legata alla vita sociale e politica. Tuttavia, Aristotele non tematizza la persona come soggetto autonomo e irriducibile, poiché la sua prospettiva tende a privilegiare l’universale piuttosto che l’unicità irripetibile.
Nel periodo ellenistico, Panezio di Rodi e Posidonio iniziarono a porre maggiore attenzione alla soggettività morale, distinguendo tra l’identità sociale e l’identità interiore. Lo Stoicismo affermò l’idea dell’uomo come cittadino del mondo, guidato dalla ragione universale, e sviluppò una prima nozione etica di interiorità, che sarebbe stata poi raccolta e approfondita dai pensatori cristiani. Con il neoplatonismo e Plotino, si ebbe una visione spirituale radicalmente interiorizzata dell’essere umano. L’anima, per Plotino, è entità autonoma, capace di autocomprensione e di ritorno all’Uno. L’itinerario ascetico plotiniano è segnato da una tensione verso la purificazione, l’unificazione interiore e il superamento della molteplicità.
Tuttavia, nonostante queste intuizioni, la filosofia greca non giunse mai a riconoscere pienamente la persona quale centro irriducibile di coscienza, libertà e relazione. Mancava quella svolta ontologica, che avrebbe permesso di vedere nel singolo essere umano non solo un frammento del cosmo ma un io insostituibile, fondamento di responsabilità e valore.
Il Cristianesimo è stato il primo sistema di pensiero ad attribuire al concetto di persona una qualità ontologica e non meramente funzionale, sociale o psicologica. Il termine persona (dal latino per-sonare, “risuonare attraverso”, in origine legato alla maschera teatrale) è stato adottato in ambito filosofico e teologico per indicare una sostanza individuale di natura razionale (secondo la classica definizione di Boezio). Tuttavia, nel contesto della riflessione teologica trinitaria dei primi secoli, quel termine fu assunto e trasformato profondamente. La difficoltà di esprimere filosoficamente la coesistenza di tre realtà distinte (Padre, Figlio e Spirito Santo) nell’unica sostanza divina, portò i teologi cristiani, in particolare i Padri della Chiesa, a usare il concetto di persona per indicare le tre ipostasi divine. La persona venne così intesa non come maschera o funzione, ma come soggetto unico, sussistente in sé e capace di relazione.
Agostino d’Ippona giocò un ruolo fondamentale nel passaggio dal linguaggio biblico a una teologia sistematica della persona. Nella sua opera De Trinitate, esaminò la dimensione interiore dell’essere umano, individuando nella triade di memoria, intelletto e volontà un riflesso dell’immagine di Dio. Questo modello antropologico permette di affermare che ogni essere umano, proprio in quanto persona, è irripetibile e destinato a una relazione personale con Dio. L’apporto di Tommaso d’Aquino, nel XIII secolo, consolidò questa visione, definendo la persona, nella sua Summa contra Gentiles, “subsistens in natura rationali vel intellectuali” (essere sussistente dalla natura razionale o intellettuale): un essere dotato di intelligenza e volontà, capace di autodeterminazione e comunione.
Con questa svolta, la persona non è più solo un’astrazione filosofica, né un’entità dissolta nel cosmo, ma un centro unico di vita spirituale e responsabilità morale. È l’essere umano visto non come particella dell’universale, ma come volto concreto, degno di rispetto in quanto tale. Questo paradigma personalista, nato in ambito teologico, gettò le basi per lo sviluppo dell’etica della responsabilità e dell’idea moderna di soggettività.

Con l’età moderna, il concetto di persona subì un’importante trasformazione: da realtà ontologica e relazionale divenne progressivamente sinonimo di soggetto pensante, autocosciente, autonomo. René Descartes, con la sua celebre affermazione “Cogito, ergo sum”, inaugurò la stagione della soggettività moderna. L’essere umano fu definito primariamente dalla sua capacità di pensare, di dubitare, di essere consapevole di sé. La persona coincideva, ormai, con la coscienza individuale, capace di porsi quale fondamento di ogni certezza e di ogni realtà. Il corpo diventava quasi secondario e ciò che contava era l’io pensante, il soggetto razionale.
Immanuel Kant, nel XVIII secolo, recuperò la centralità della persona, pur riformulandone il significato in senso etico. Nella Critica della ragion pratica e nella Metafisica dei costumi, afferma che la persona è un fine in sé, mai un mezzo per altro. La sua dignità deriva dalla capacità di autoregolarsi moralmente attraverso la ragione. La persona è, dunque, soggetto morale autonomo, fondamento della legge morale universale. Con Kant si affermò un’idea di persona che sarebbe stata alla base dei moderni diritti umani, intesi come espressione della razionalità morale di ciascun individuo.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel reinserì la persona in una cornice storica e relazionale. Nella Fenomenologia dello spirito, l’identità personale non è data ma si costruisce dialetticamente nel rapporto con l’altro. La coscienza si costituisce attraverso il riconoscimento reciproco, nella tensione tra sé e il mondo. La persona non è un monade isolata ma un essere storico, sociale, che diventa se stesso solo attraverso il conflitto, la mediazione e la sintesi.
Il XX secolo è stato segnato da eventi traumatici – guerre mondiali, totalitarismi, genocidi – che hanno messo in crisi l’immagine moderna della persona come soggetto razionale e autonomo. Di fronte alla disumanizzazione prodotta dalla tecnica e dall’ideologia, è nato un nuovo umanesimo, centrato sulla riscoperta della persona come valore assoluto, vulnerabile, relazionale. È in questo contesto che si è sviluppato il personalismo, una corrente filosofica che affonda le radici nel Cristianesimo, aprendosi al dialogo con la fenomenologia e la scienza sociale. Emmanuel Mounier, uno dei suoi principali esponenti, ha definito la persona come essere spirituale, storicamente situato, in tensione verso la comunione. La persona non è un individuo chiuso ma un essere per gli altri, capace di dono e di responsabilità.
Karol Wojtyła, nella sua opera Persona e atto, unisce la tradizione tomista con la fenomenologia husserliana, fornendo una visione della persona come soggetto che si realizza nell’azione libera e morale. L’atto non è solo movimento esterno ma espressione della profondità della persona, del suo essere in relazione.
Emmanuel Levinas, invece, ha ribaltato la prospettiva moderna: la persona non si definisce a partire da sé ma a partire dall’altro. Il volto dell’altro è il luogo in cui si rivela l’infinita responsabilità che riguarda ciascuno. La persona non è il soggetto della conoscenza, quanto colui che risponde all’appello dell’alterità. La sua dignità è irriducibile, non perché sia autonoma, ma perché è esposta, vulnerabile, amata prima di essere conosciuta.
Nel mondo contemporaneo, la nozione di persona è al centro di nuove sfide e controversie. La bioetica interroga i confini dell’umano: è persona un feto? Un embrione? Un paziente in coma? La discussione si divide tra chi adotta una concezione funzionalista, come Peter Singer, che lega la dignità personale a capacità cognitive misurabili, e chi, invece, difende una visione ontologica, secondo cui la sola appartenenza alla specie umana basta per riconoscere l’altro come persona.
Anche il diritto affronta interrogativi cruciali. Le persone giuridiche, come le imprese o gli Stati, hanno diritti e doveri: ma sono davvero persone? E che dire dell’Intelligenza Artificiale? Alcune proposte avanzano l’idea di una personalità elettronica, capace di agire autonomamente e di interagire con il mondo umano. Tuttavia, resta aperta la questione se la persona sia riducibile a un insieme di funzioni o se esista qualcosa di irriducibile, un nucleo di interiorità e di libertà che nessuna macchina potrà mai simulare pienamente.
In conclusione, il concetto di persona è una conquista complessa e stratificata, nata dall’incrocio tra pensiero greco, rivelazione cristiana, svolta moderna e sensibilità contemporanea. Dalla sostanza razionale alla coscienza morale, dall’interiorità alla responsabilità per l’altro, la persona è il centro dinamico della nostra civiltà. In un’epoca segnata da crisi antropologiche, da disumanizzazione tecnologica e da nuove forme di sfruttamento, riaffermare il valore della persona significa difendere ciò che di più umano esiste: la libertà, la dignità, la relazionalità e il mistero dell’io che guarda, ama, risponde.

 

 

 

 

Tommaso d’Aquino e Dante Alighieri

Convergenze dottrinali e trasfigurazione poetica

 

 

 

 

Tommaso d’Aquino non è, per Dante, una semplice fonte tra le tante: è la colonna portante della sua visione del mondo, il sistema attraverso cui l’universo acquista senso, ordine e finalità. La teologia e la filosofia dell’Aquinate offrono al poeta non soltanto un lessico concettuale, quanto una struttura ontologica completa – un’impalcatura che regge la Divina Commedia su più piani: cosmologico, antropologico, morale, epistemologico e politico. Quando Dante guarda al cielo, all’anima umana, alla giustizia divina o alla distribuzione dei poteri terreni, dietro ogni scelta poetica si intravede un quadro teorico rigoroso, spesso riconducibile all’elaborazione tomista della dottrina cristiana. Eppure, sarebbe un errore ridurre il poeta a un mero esecutore di un pensiero altrui. Dante non è uno scolaro che ripete la lezione: è un autore che rilegge, interpreta, piega e, talvolta, sfida l’autorità stessa che lo ispira. Se Tommaso offre la mappa, è Dante che traccia il percorso. Nella Divina Commedia, l’eredità tomista non è mai trasferita in modo meccanico: è rifusa in una forma poetica che ne amplifica il potere immaginativo e ne rivela al contempo i punti di tensione. È all’interno della dimensione visionaria – tra il viaggio oltremondano e la rappresentazione simbolica del reale – che il pensiero tomista si trasforma. Le gerarchie celesti diventano moti d’amore, la legge morale si fa dramma interiore, la razionalità filosofica si intreccia con la grazia, la fede, la profezia. In questo, Dante compie un’operazione radicale: umanizza il pensiero scolastico senza impoverirlo, lo trasfigura senza tradirlo. Accanto al filosofo sistematico, egli pone il poeta profeta; accanto al teologo che ordina il sapere, l’autore che narra la salvezza come cammino personale e collettivo. Il risultato è un’opera che accoglie l’eredità dell’Aquinate, rilanciandola, vivificandola e mettendola in dialogo con l’immaginazione e con le contraddizioni dell’esperienza umana.

Tommaso nel Cielo del Sole: un’autorità dottrinale e spirituale

Nei canti X e XI del Paradiso, Tommaso compare tra i savi che ruotano intorno a Dante e Beatrice. Non è solo un sapiente, è il” sapiente che apre il discorso. Lo fa con misura, chiarezza e reverenza, tratti tipici del suo stile. Dante assegna a Tommaso la funzione di interprete della storia sacra della sapienza. È significativo che sia proprio il domenicano a lodare la vita di san Francesco: una scelta che esprime un desiderio di conciliazione tra gli ordini mendicanti, spesso in contrasto nel Trecento. Ma è anche un riconoscimento della carità intellettuale di Tommaso, in linea con quanto egli stesso scrive nella Summa Theologiae: “Nec benevolentia sufficit ad rationem amicitiae, sed requiritur quaedam mutua amatio, quia amicus est amico amicus. Talis autem mutua benevolentia fundatur super aliqua communicatione. Cum igitur sit aliqua communicatio hominis ad Deum secundum quod nobis suam beatitudinem communicat, super hac communicatione oportet aliquam amicitiam fundari. De qua quidem communicatione dicitur I ad Cor. I, fidelis Deus, per quem vocati estis in societatem filii eius. Amor autem super hac communicatione fundatus est caritas. Unde manifestum est quod caritas amicitia quaedam est hominis ad Deum” (Per l’amicizia non basta neppure la benevolenza, ma si richiede l’amore scambievole: poiché un amico è amico per l’amico. E tale mutua benevolenza è fondata su qualche comunanza. Ora, essendoci una certa comunanza dell’uomo con Dio, in quanto questi ci rende partecipi della sua beatitudine, è necessario che su questo scambio si fondi un’amicizia. E di questa compartecipazione così parla S. Paolo: “Fedele è Dio, per opera del quale siete stati chiamati alla comunione del Figlio suo”. Ma l’amore che si fonda su questa comunicazione è la carità. Dunque, è evidente che la carità è un’amicizia dell’uomo con Dio. STh, II-II, q. 23, a. 1). La carità quale fondamento dell’amicizia tra l’uomo e Dio è anche il principio di unità tra scienza e fede in Paradiso, dove la luce dell’intelletto è inseparabile dalla luce dell’amore.

Ordine cosmico e metafisica dell’Essere

Il cosmo dantesco è un ordine gerarchico e finalizzato, retto da leggi razionali che hanno origine nell’Actus Purus tomista, ossia Dio. In Dante, questa struttura si manifesta nella mirabile armonia delle sfere celesti e nella simbologia della rosa celeste. Tommaso definisce Dio come ipsum esse subsistens: “Substantia enim est ens per se subsistens. Hoc autem maxime convenit Deo. Ergo Deus est in genere substantiae” (La sostanza è di per sé sussistente. Ora, sussistere così conviene soprattutto a Dio. Dunque, Dio è nel genere sostanza. STh, I, q. 3, a. 5). Per Tommaso, ogni ente partecipa all’essere in misura differente, secondo una gerarchia che rispecchia la sua distanza dalla perfezione divina. “Praeterea, quanto aliquod agens est virtuosius, tanto ad magis distans eius actio procedit. Sed Deus est virtuosissimum agens. Ergo eius actio pertingere potest ad ea etiam quae ab ipso distant, nec oportet quod sit in omnibus” (Quanto più potente è un agente, a tanto maggior distanza arriva la sua azione. Ora, Dio è un agente onnipotente. Dunque, la sua azione può giungere anche alle cose che distano da lui; e non è necessario che sia in tutte le cose. STh, I, q. 8, a. 1). Questa idea è trasposta poeticamente nella Commedia, dove i beati appaiono in diverse sfere, non per diversa beatitudine, ma per diversa manifestazione della gloria. Il concetto tomista di ordo universi, cioè che l’universo è più perfetto nella varietà delle creature che non nella uniformità, trova eco nei versi:

… “Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante.

(Par., I, vv. 103-105)

L’anima razionale e l’intelletto

La concezione dell’anima in Dante deriva direttamente dalla dottrina tomista dell’anima come forma del corpo e dell’intelletto come sua facoltà più alta. Nella Summa Theologiae si legge: “Anima igitur intellectiva est forma absoluta, non autem aliquid compositum ex materia et forma. Si enim anima intellectiva esset composita ex materia et forma, formae rerum reciperentur in ea ut individuales, et sic non cognosceret nisi singulare, sicut accidit in potentiis sensitivis, quae recipiunt formas rerum in organo corporali, materia enim est principium individuationis formarum. Relinquitur ergo quod anima intellectiva, et omnis intellectualis substantia cognoscens formas absolute, caret compositione formae et materiae” (Perciò, l’anima intellettiva è una forma assoluta, non già un composto di materia e di forma. Infatti, se l’anima intellettiva fosse composta di materia e di forma, le forme delle cose sarebbero ricevute in essa nella loro individualità; e così essa conoscerebbe le cose soltanto nella loro singolarità, come avviene nelle potenze sensitive, che ricevono le forme delle cose in un organo corporeo: la materia infatti è il principio di individuazione delle forme. Rimane dunque che l’anima intellettiva e ogni sostanza intellettuale, che conosca le forme nella loro assolutezza, non è composta di materia e di forma. STh, I, q. 75, a. 5). Nel canto XXV del Purgatorio, Dante riprende la dottrina della generazione dell’anima e del ruolo dell’intelletto possibile e agente in modo estremamente fedele:

Sangue perfetto, che poi non si beve
da l’assetate vene, e si rimane
quasi alimento che di mensa leve,

prende nel core a tutte membra umane
virtute informativa, come quello
ch’a farsi quelle per le vene vane.

(Purg., XXV, vv. 37-42)

Tommaso, infatti, distingue fra intelletto possibile (recettivo, passivo) e intelletto agente (attivo, astrattivo), una ripartizione fondamentale nella gnoseologia medievale: “Sicut et in aliis rebus naturalibus perfectis, praeter universales causas agentes, sunt propriae virtutes inditae singulis rebus perfectis, ab universalibus agentibus derivatae, non enim solus sol generat hominem, sed est in homine virtus generativa hominis; et similiter in aliis animalibus perfectis. Nihil autem est perfectius in inferioribus rebus anima humana. Unde oportet dicere quod in ipsa sit aliqua virtus derivata a superiori intellectu, per quam possit phantasmata illustrare” (Anche nel mondo degli esseri fisici più perfetti vediamo che, oltre alle cause efficienti più universali, esistono nei singoli esseri perfetti le loro proprie capacità derivate dalle cause universali: infatti non è soltanto il sole che genera l’uomo, ma nell’uomo stesso vi è la virtù di generare altri uomini; così si dica per gli altri animali perfetti. Ora nella sfera degli esseri inferiori non vi è niente di più perfetto dell’anima umana. Perciò bisogna concludere che esiste in essa una facoltà derivata da un intelletto superiore, mediante la quale possa illuminare i fantasmi. STh, I, q. 79, a. 4). Dante assume tale distinzione per spiegare l’ascensione conoscitiva dell’uomo, culminante nella visione beatifica.

Etica, virtù e beatitudine

Secondo Tommaso, la beatitudine suprema dell’uomo è la visione dell’essenza divina (visio Dei). Questo è il punto d’arrivo sia della teologia sia del cammino dantesco. Nella Summa, Tommaso scrive: “Praeterea, beatitudo est ultimus finis, in quem naturaliter humana voluntas tendit. Sed in nullum aliud voluntas tanquam in finem tendere debet nisi in Deum; quo solo fruendum est, ut Augustinus dicit. Ergo beatitudo est idem quod Deus” (La beatitudine è l’ultimo fine, al quale tende per natura la volontà umana. Ma la volontà non deve avere come fine un oggetto diverso da Dio; poiché di lui soltanto dobbiamo fruire, secondo l’espressione di S. Agostino. Dunque, la beatitudine è Dio stesso. STh, I-II, q. 3, a. 8). Dante realizza questa dottrina nel momento culminante della Commedia:

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle.

(Par., XXXIII, vv. 142-145)

Qui si conclude il cammino di razionalizzazione tomista della fede. L’amore è l’ultima forma del sapere, non irrazionale, ma illuminato dalla grazia e perfetto nella visione.

Il pensiero politico: armonia e conflitto con Tommaso

Nel De Monarchia, Dante costruisce una visione della monarchia universale che ha molti tratti comuni con il pensiero tomista, ma anche divergenze importanti. Tommaso ammette una subordinazione dell’Impero al Papa (con eco dell’auctoritas spiritualis superiore al potestas temporalis): “Potestas spiritualis distinguitur a temporali. Sed quandoque praelati habentes spiritualem potestatem intromittunt se de his quae pertinent ad potestatem saecularem. Ergo usurpatum iudicium non est illicitum” (Il potere spirituale è distante da quello temporale. Ma talora i prelati che sono investiti di un potere spirituale s’immischiano in affari che riguardano il potere temporale. Quindi il giudizio usurpato non è illecito. STh, II-II, q. 60, a. 6). Dante, invece, scrive: “Per questo l’uomo ha avuto bisogno di una duplice guida in vista di una duplice meta: il sommo Pontefice che guidasse il genere umano alla vita eterna per la via segnata dalla rivelazione, e l’Imperatore, che sugli insegnamenti filosofici dirigesse il genere umano verso la felicità temporale” (De Monarchia, III, 15, 10). Dunque, per Dante, Papato e Impero devono essere autonomi ma armonici, entrambi ordinati a Dio, ma non subordinati l’uno all’altro.

Fede e ragione

Infine, il vero asse portante comune è la sinergia tra fede e ragione. Secondo Tommaso: “Per gratiam perfectior cognitio de Deo habetur a nobis, quam per rationem naturalem. Quod sic patet. Cognitio enim quam per naturalem rationem habemus, duo requirit, scilicet, phantasmata ex sensibilibus accepta, et lumen naturale intelligibile, cuius virtute intelligibiles conceptiones ab eis abstrahimus. Et quantum ad utrumque, iuvatur humana cognitio per revelationem gratiae. Nam et lumen naturale intellectus confortatur per infusionem luminis gratuiti. Et interdum etiam phantasmata in imaginatione hominis formantur divinitus, magis exprimentia res divinas, quam ea quae naturaliter a sensibilibus accipimus; sicut apparet in visionibus prophetalibus” (Noi mediante la grazia possediamo una conoscenza di Dio più perfetta che per ragione naturale. Eccone la prova. La conoscenza che abbiamo per ragione naturale richiede due cose: cioè dei fantasmi, o immagini, che ci vengono dalle cose sensibili, e il lume naturale dell’intelligenza, in forza del quale astraiamo dai fantasmi concezioni intelligibili. Ora, quanto all’una e all’altra cosa, la nostra conoscenza umana è aiutata dalla rivelazione della grazia. Infatti: il lume naturale dell’intelletto viene rinvigorito dall’infusione del lume di grazia. E talora si formano per virtù divina nell’immaginazione dell’uomo anche immagini sensibili, assai più espressive delle cose divine, di quel che non siano quelle che ricaviamo naturalmente dalle cose esterne; come appare chiaro nelle visioni profetiche. STh, I, q. 12, a. 13). E Dante, nel Convivio, riecheggia questo principio: “Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di propria natura impinta è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti” (Convivio, I, 1). L’intero cammino della Commedia è l’attualizzazione di questa potenzialità: dall’ignoranza iniziale dell’Inferno fino alla pienezza luminosa del Paradiso, l’intelletto umano, guidato dalla ragione e dalla grazia, ascende alla contemplazione divina.

La Divina Commedia è il poema della visione: non solo della visione beatifica, ma della visione razionale del mondo, secondo un ordine divino che Tommaso ha tracciato con la chiarezza del teologo e Dante ha cantato con la potenza del poeta. Dove Tommaso costruisce la cattedrale della ragione teologica, Dante la riempie di luce, suono, volto e voce. In questo senso, leggere Dante significa anche ascoltare l’eco del pensiero tomista, trasfigurato in poesia. L’ordine dell’universo, la gerarchia degli esseri, il fine ultimo dell’uomo: tutto ciò che nella Summa appare come architettura concettuale, nella Commedia prende vita, si anima, si fa esperienza sensibile e spirituale. Dante non si limita a recepire il modello di Tommaso; lo reinterpreta, lo rende carne e sangue, visione e cammino. È così che la teologia scolastica diventa teatro dell’anima e il pensiero si fa canto. Questa trasformazione non è semplice ornamento poetico ma un’operazione intellettuale profonda. Dante assume la struttura tomista non per rinchiudervisi ma per mostrarne la forza generativa: la sua poesia non è un commento, è un’estensione, una dimostrazione incarnata del pensiero teologico. Ogni figura che si incontra nel poema, ogni dialogo, ogni paesaggio ultraterreno, riflette una logica interna, un disegno preciso che affonda le radici nella filosofia per giungere alla visione escatologica. La Commedia si presenta, così, come l’altro volto della Summa Theologiae: dove quest’ultima si esprime per argomenti e definizioni, la prima risponde con immagini e movimenti dell’anima. In definitiva, il legame tra Tommaso e Dante non è quello tra un maestro e un discepolo ma tra due costruttori dello stesso edificio: l’uno con gli strumenti della ragione sistematica, l’altro con quelli della fantasia ordinata. E se il fine è lo stesso – mostrare la via che conduce a Dio – allora si può affermare che la Divina Commedia sia il completamento poetico della teologia tomista, il suo specchio narrativo, la sua forma visibile e percorribile. È in questo intreccio vertiginoso di dottrina e arte, di pensiero e visione, che si gioca la grandezza di Dante e l’inesauribile potenza del suo poema.

 

 

 

 

Le ipostasi dell’Essere

Fondamenti metafisici e trasformazioni ontologiche
dall’Uno plotiniano alla Scolastica

 

 

 

 

L’uso del termine “ipostasi” in filosofia ha radici profonde e si sviluppa attraverso una lunga storia di riflessione sul rapporto tra l’essere, le idee e la realtà. Originariamente, il termine greco “ὑπόστασις” (hypóstasis) significa “ciò che sta sotto” o “fondamento”, e questo concetto assume diverse sfumature a seconda del contesto filosofico in cui viene applicato.
Plotino, il fondatore del Neoplatonismo, applica il termine ipostasi alle tre sostanze del mondo intelligibile, ovvero l’Uno, l’Intelletto (o Nous) e l’Anima. Questi tre princìpi, nella sua visione, formano la gerarchia ontologica della realtà e sono fondamenti che si collocano oltre il mondo sensibile.
L’Uno: l’ipostasi fondamentale e più alta. L’Uno, secondo Plotino, non è solo un principio di unità, ma una realtà che trascende ogni essere, persino l’esistenza stessa. È la fonte di tutto, paragonabile a una luce che emana dal sole ma che rimane, per natura, ineffabile e inafferrabile. L’Uno è l’ipostasi primaria, da cui deriva ogni altra realtà, ed è assolutamente semplice, privo di divisione o pluralità.
L’Intelletto (Nous): è la seconda ipostasi e rappresenta l’atto del pensiero puro e dell’autocoscienza. Mentre l’Uno è oltre l’essere e l’intellegibile, l’Intelletto è l’ipostasi che comprende tutte le idee o forme platoniche. È il luogo dell’essere e della conoscenza ed è il primo effetto dell’Uno. Nell’Intelletto si trovano tutte le realtà intelligibili, che sono contemplate eternamente in un’unità organica.
L’Anima: la terza ipostasi che media tra il mondo intelligibile e il mondo sensibile. L’Anima ha una duplice natura: da un lato, contempla l’Intelletto, dall’altro, genera e organizza il mondo sensibile. È tramite l’Anima che la realtà intelligibile si riflette nel mondo fenomenico. In questo senso, l’Anima costituisce il ponte tra il mondo eterno delle forme e il mondo mutevole della materia.
In questo schema, ogni ipostasi deriva dalla precedente e, sebbene inferiori rispetto all’Uno, mantengono un legame essenziale con esso, poiché tutto proviene dall’Uno come causa prima e somma fonte di ogni realtà.

Nel medioevo, con la filosofia Scolastica, il concetto di ipostasi subisce un’evoluzione. Gli scolastici, come Tommaso d’Aquino, adottano una distinzione tra sostanza in senso generale e sostanza individuale. Per gli Scolastici, l’ipostasi è la sostanza individuale concreta, distinguendosi dalla sostanza universale o comune. Questo si ricollega alla loro riflessione sulla natura degli individui e delle essenze.
Nella Scolastica, l’ipostasi non riguarda più solo i princìpi trascendenti del mondo intelligibile, ma diventa un termine chiave per descrivere l’individuo nella sua concretezza ontologica. Ogni entità individuale che possiede una propria identità e sussistenza autonoma è considerata un’ipostasi. Ciò contrasta con la sostanza universale, che si riferisce a una natura comune condivisa da più individui, come “umanità” o “animalità”.
In un senso più ampio, l’ipostasi, in filosofia, viene anche utilizzata per indicare la personificazione di concetti astratti, specialmente quelli legati al mondo soprannaturale o metafisico. Ciò avviene quando si attribuiscono qualità individuali e quasi personali a concetti che altrimenti rimarrebbero astratti. Un esempio classico potrebbe essere il concetto di Giustizia o Morte, concepiti in molte culture come figure autonome dotate di personalità, azione e volontà proprie.
Questo processo di ipostatizzazione è comune in molte tradizioni mitologiche e religiose, dove concetti complessi o forze naturali vengono resi comprensibili attraverso la loro personificazione. Ad esempio, nella mitologia greca, concetti come il Tempo (Crono) o l’Amore (Eros) sono stati trasformati in divinità, con ruoli ben definiti nel pantheon, assumendo forme concrete e narrative.
Infine, il termine “ipostasi” assume anche una valenza ontologica profonda, quando viene usato per riferirsi a “ciò che sta sotto” le apparenze, ovvero l’essenza ultima della realtà, distinta dai fenomeni o dalle apparenze esterne. In questo senso, l’ipostasi è ciò che garantisce l’esistenza reale e sostanziale di qualcosa al di là delle sue manifestazioni empiriche. Rappresenta, dunque, l’essenza stessa di una cosa, ciò che la rende reale e sussistente, indipendentemente dal modo in cui si presenta ai sensi.