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Il nominalismo estremo di Roscellino di Compiègne

La sfida alla metafisica medievale e la disputa sugli universali

 

 

Stamane mi sono ritrovato a ripensare ai miei anni di liceo, quando la mia passione per la storia e la filosofia medievale mi portò a realizzare una delle prime ricerche che ricordi: quella sulla disputa sugli universali, ovviamente andata perduta. Anche se allora, forse, non ne comprendevo appieno la complessità, quel lavoro fu una tappa importante della mia formazione (lo riproposi, all’Università, all’esame di Filosofia Teoretica). Ripensarci oggi mi ha fatto scrivere questo articolo, in nome di quella curiosità giovanile che ancora, in qualche modo, continua ad accompagnarmi e, soprattutto, a tenermi vivo!

 

 

Roscellino di Compiègne (1050-1125) è considerato il padre del nominalismo estremo medievale, una posizione filosofica che ha avuto un impatto profondo sul dibattito scolastico sugli universali. La sua tesi radicale, che riduceva gli universali a meri segni linguistici privi di qualsiasi esistenza reale o concettuale autonoma, segnò una frattura significativa rispetto al realismo predominante dell’epoca. Tuttavia, le sue idee non rimasero incontestate: filosofi come Anselmo d’Aosta e Pietro Abelardo criticarono aspramente il suo pensiero, contribuendo così a definire le future direzioni della filosofia scolastica.
Nel Medioevo, il problema degli universali rappresentava uno dei principali centri di riflessione filosofica e teologica. La questione ruotava attorno al significato e alla natura dei concetti generali: esistono davvero entità come “umanità” o “giustizia” al di fuori della mente umana e delle cose particolari, oppure questi concetti sono semplici costruzioni linguistiche?
Il dibattito filosofico si articolò principalmente attorno a tre scuole di pensiero. Il realismo, ispirato alla tradizione platonica e ripreso da pensatori come Anselmo d’Aosta, sosteneva l’esistenza reale degli universali, indipendentemente dagli oggetti particolari. Secondo questa visione, i concetti generali hanno una realtà oggettiva che trascende l’esperienza sensibile, rappresentando archetipi eterni che si riflettono nelle cose particolari. In contrapposizione al realismo si sviluppò il nominalismo, che nella sua versione estrema proposta da Roscellino di Compiègne negava qualsiasi esistenza autonoma agli universali. Secondo questa prospettiva, i concetti generali non sono altro che nomi, semplici strumenti linguistici utilizzati dall’uomo per classificare e ordinare il mondo. Roscellino spinse questa posizione ai suoi limiti estremi, sostenendo che gli universali non hanno alcuna realtà né esterna né mentale, riducendoli a un semplice flatus vocis, un “soffio di voce”, privo di sostanza ontologica. A metà strada tra queste due visioni si collocò infine il concettualismo, che sarà sviluppato in seguito da Pietro Abelardo. Questo approccio cercò di mediare tra il realismo e il nominalismo, riconoscendo agli universali un’esistenza mentale, come concetti che nascono dall’elaborazione razionale dell’esperienza sensibile, pur negando loro una realtà autonoma al di fuori della mente.

Roscellino, spingendo il nominalismo ai suoi limiti più estremi, sostenne che solo gli individui concreti possiedono una reale esistenza. Gli universali, secondo la sua visione, non sono altro che etichette linguistiche create dall’uomo per facilitare la comunicazione. Il termine “umanità”, ad esempio, non designa una realtà oggettiva condivisa da tutti gli uomini, ma è semplicemente un nome usato per raggruppare individui simili sulla base di caratteristiche comuni. Questo concetto non ha alcun fondamento nella realtà esterna, né esiste come idea indipendente nella mente.
Roscellino riassume questa concezione con la celebre espressione flatus vocis. Il linguaggio, secondo questa prospettiva, non riflette alcuna struttura profonda della realtà, ma è uno strumento convenzionale inventato dagli uomini per semplificare la comunicazione.
Le conseguenze di questa posizione non si limitarono al piano puramente filosofico, ma ebbero anche rilevanti implicazioni teologiche. Roscellino applicò la sua concezione nominalista anche alla dottrina della Trinità, sostenendo che le tre Persone divine – il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo – non condividono un’unica sostanza reale, ma sono tre entità distinte, unite solo da un legame morale e non da un’essenza comune. Questa interpretazione fu percepita come una minaccia per la dottrina cristiana tradizionale, poiché sembrava sfociare nel triteismo, ovvero la concezione di tre dèi separati, in contrasto con il principio monoteistico fondamentale del cristianesimo.
Il pensiero di Roscellino fu condannato nel Concilio di Soissons del 1092-1093, che dichiarò eretica la sua visione della Trinità. Fu costretto ad abiurare le sue tesi, ma le sue idee continuarono a circolare e a influenzare il dibattito filosofico e teologico successivo.
Uno dei primi e più autorevoli critici del pensiero di Roscellino fu Anselmo d’Aosta (1033-1109), filosofo, teologo e arcivescovo di Canterbury, considerato uno dei maggiori esponenti del realismo medievale. Anselmo si oppose con forza al nominalismo estremo di Roscellino, sia sul piano filosofico sia su quello teologico. Dal punto di vista filosofico, Anselmo riteneva che negare l’esistenza reale degli universali compromettesse la capacità della ragione umana di cogliere l’ordine oggettivo del creato. Egli sosteneva che gli universali esistono nella mente divina come archetipi eterni e immutabili delle realtà particolari. L’intelligenza umana, attraverso l’astrazione, è in grado di partecipare a queste forme universali, rendendo possibile la conoscenza scientifica e filosofica. Negare l’esistenza di questi archetipi, come faceva Roscellino, significava ridurre la conoscenza a una mera convenzione linguistica, privandola di ogni fondamento oggettivo.
Sul piano teologico, la critica di Anselmo fu ancora più dura. La dottrina della Trinità, secondo la tradizione cristiana, afferma che le tre Persone divine condividono un’unica sostanza, pur mantenendo la loro distinzione personale. La posizione di Roscellino, che separava radicalmente le tre Persone attribuendo loro una sostanza distinta, minava alla base il dogma cristiano e conduceva a una forma di politeismo implicito. Anselmo, nella sua opera De fide Trinitatis, difese l’unità della sostanza divina, sostenendo che la distinzione tra le Persone non implica una molteplicità di sostanze, ma riguarda soltanto le relazioni interne alla divinità.
Anselmo sottolineò inoltre come la logica del nominalismo estremo conducesse a un impoverimento del pensiero teologico, riducendo la complessità della dottrina cristiana a schemi semplificati e inadeguati per esprimere il mistero divino.

Un altro importante critico di Roscellino fu Pietro Abelardo (1079-1142), filosofo, logico e teologo francese, considerato uno dei pensatori più brillanti della scolastica medievale. Abelardo, che inizialmente fu allievo di Roscellino, si distaccò progressivamente dalle sue posizioni, elaborando una teoria più complessa e sfumata degli universali. Nella sua opera Logica Ingredientibus, propose una soluzione intermedia tra il realismo e il nominalismo, che sarà successivamente definita concettualismo. Secondo Abelardo, gli universali non esistono come entità autonome nella realtà esterna, né sono semplici suoni privi di significato come sosteneva Roscellino. Essi esistono nella mente come concetti astratti, derivati dall’osservazione e dalla riflessione sugli oggetti particolari. In altre parole, l’universale non è una sostanza reale, ma una nozione mentale che consente di raggruppare enti simili e di formulare giudizi generali.
Abelardo criticò Roscellino per la sua eccessiva semplificazione del problema degli universali, accusandolo di minare le basi della logica e della conoscenza scientifica. Se gli universali fossero solo flatus vocis, la possibilità stessa di un sapere universale verrebbe meno, riducendo la logica a una mera pratica linguistica priva di valore cognitivo. Inoltre, Abelardo rigettò l’applicazione del nominalismo alla teologia, sostenendo che, pur essendo le Persone divine distinte, esse partecipano di una medesima essenza, concetto che può essere compreso anche attraverso l’analisi logica dei termini usati nella dottrina cristiana.
Le critiche di Anselmo d’Aosta e Pietro Abelardo contribuirono a marginalizzare il nominalismo estremo di Roscellino, ma il dibattito sugli universali rimase centrale nella scolastica per secoli. Il concettualismo di Abelardo offrì una mediazione più accettabile tra il rigore del realismo e le semplificazioni del nominalismo, consentendo di mantenere una prospettiva razionale sulla conoscenza senza compromettere le esigenze della teologia cristiana.
Tuttavia, le idee di Roscellino non furono del tutto abbandonate. Esse esercitarono una certa influenza su pensatori successivi, come Guglielmo di Ockham (1287-1347), che riprese la critica agli universali, pur adottando una posizione meno radicale e più sistematica. Il nominalismo di Ockham, sebbene differente nelle sue formulazioni, mantenne l’idea fondamentale che gli universali non esistono nella realtà, ma sono costruzioni linguistiche o mentali.
Il nominalismo estremo di Roscellino di Compiègne rappresenta una delle posizioni più radicali emerse nel quadro della filosofia medievale. La sua riduzione degli universali a semplici segni linguistici privi di fondamento ontologico sfidò le concezioni metafisiche dominanti e sollevò questioni fondamentali sul linguaggio, la conoscenza e la realtà.

 

 

 

 

 

La dissoluzione della causalità

La rivoluzione empirista di David Hume

 

 

 

 

David Hume (1711-1776), uno dei più influenti filosofi dell’Illuminismo scozzese, ha profondamente segnato la filosofia moderna attraverso la sua critica radicale al concetto di causalità. Nelle sue opere principali, il Trattato sulla natura umana (1739-40) e la Ricerca sull’intelletto umano (1748), Hume mette in discussione le fondamenta stesse della conoscenza scientifica e metafisica, introducendo un punto di vista empirista e scettico che ha avuto un impatto duraturo sulla filosofia successiva.
Per comprendere pienamente la portata della critica humeana alla causalità, è essenziale situarla nel contesto della tradizione empirista britannica. L’empirismo, rappresentato da filosofi come John Locke e George Berkeley, sostiene che tutta la conoscenza derivi dall’esperienza sensibile. Tuttavia, mentre Locke riteneva che l’intelletto umano potesse costruire concetti astratti a partire dall’esperienza e Berkeley eliminava la materia a favore di una realtà composta esclusivamente da percezioni, Hume adotta una posizione ancora più radicale: egli mette in dubbio la possibilità stessa di fondare conoscenze certe sulle relazioni causali.
Per Hume, la filosofia deve limitarsi a descrivere i meccanismi mentali attraverso cui l’uomo costruisce il sapere, senza pretendere di cogliere l’essenza ultima della realtà. In questo senso, la critica della causalità si inserisce nella più ampia impresa di smantellamento delle pretese metafisiche tradizionali.
La riflessione humeana sulla causalità parte da un’osservazione semplice ma decisiva: quando osserviamo due eventi correlati – ad esempio, il lancio di una palla e la rottura di una finestra – percepiamo chiaramente la successione temporale tra i due eventi, ma non la “connessione necessaria” che li lega. Non vi è alcuna impressione sensibile della necessità causale.
Hume distingue, quindi, tre elementi fondamentali che caratterizzano il concetto comune di causalità: contiguità spaziale e temporale (la causa e l’effetto devono essere vicini nel tempo e nello spazio); successione temporale (la causa precede l’effetto; connessione necessaria (si presume che la causa “produca” l’effetto in modo inevitabile). Se i primi due elementi sono direttamente osservabili, il terzo – la connessione necessaria – non lo è. Secondo Hume, l’idea di necessità deriva non da un’osservazione oggettiva, ma da un’abitudine psicologica. Dopo aver visto più volte A seguito da B, la mente sviluppa un’aspettativa che B seguirà sempre A. È l’abitudine che genera l’idea di causalità, non una conoscenza razionale o intuitiva della connessione reale tra i fenomeni. Questo porta Hume a formulare il principio secondo cui la causalità è un prodotto della mente umana e non una proprietà intrinseca della realtà.

Uno degli aspetti più dirompenti della critica humeana è la sua implicazione per il metodo scientifico basato sull’induzione. La scienza moderna si fonda sulla convinzione che le leggi naturali osservate nel passato continueranno a valere nel futuro. Tuttavia, Hume dimostra che tale convinzione non può essere giustificata razionalmente. Il cosiddetto “problema dell’induzione” emerge dalla constatazione che non vi è alcuna garanzia logica che il futuro replicherà il passato. Ad esempio, l’osservazione che il sole è sorto ogni giorno fino a oggi non giustifica, in termini di pura logica, la certezza che sorgerà anche domani. L’aspettativa del ripetersi dei fenomeni si basa unicamente sull’abitudine. Questo scetticismo non implica che la scienza sia inutile, ma mette in discussione le sue pretese di verità assoluta. La scienza funziona perché è utile e pratica, non perché fornisce conoscenze metafisicamente certe.
La critica humeana della causalità ha avuto profonde ripercussioni nella storia della filosofia. Il suo scetticismo ha spinto Immanuel Kant a rivedere le fondamenta della conoscenza nella Critica della ragion pura. Kant riconosce a Hume il merito di averlo “risvegliato dal sonno dogmatico” e sviluppa la teoria secondo cui la causalità non è un concetto empirico, ma una categoria a priori della mente umana che struttura l’esperienza. Se per Hume la causalità è una costruzione psicologica basata sull’abitudine, per Kant essa diventa una condizione necessaria per la possibilità dell’esperienza stessa. In questo modo, Kant cerca di salvare la validità del sapere scientifico, senza però ripristinare le vecchie pretese metafisiche.
In epoca contemporanea, la critica humeana ha influenzato anche la filosofia della scienza, in particolare con Karl Popper, che ha rifiutato l’induzione come metodo scientifico, proponendo al suo posto il criterio della falsificabilità: le teorie scientifiche non possono essere verificate definitivamente, ma solo messe alla prova e potenzialmente confutate.
Un altro aspetto significativo della riflessione humeana riguarda la psicologia della percezione e della conoscenza. Nel sottolineare che la causalità è il risultato di un processo mentale piuttosto che una realtà esterna, Hume anticipa teorie psicologiche moderne sulla costruzione della realtà da parte della mente umana. La sua analisi suggerisce che la mente non si limita a registrare passivamente i dati sensibili, ma attivamente li organizza secondo schemi abitudinari e associazioni. Questa intuizione ha condizionato approcci successivi come il pragmatismo e alcune correnti della psicologia cognitiva, che vedono la conoscenza come il risultato di processi adattativi piuttosto che come la scoperta di verità oggettive.
La critica di Hume al concetto di causalità ha segnato un punto di svolta nella filosofia moderna. Smontando la pretesa di una conoscenza certa e razionale delle connessioni causali, egli ha aperto la strada a un nuovo modo di intendere il rapporto tra mente e realtà, tra esperienza e sapere. Il suo approccio empirista e scettico continua a interrogare la filosofia contemporanea, spingendo a riflettere sui limiti della conoscenza umana e sul ruolo della soggettività nella costruzione della realtà. La lezione di Hume rimane un monito alla prudenza epistemologica: ciò che consideriamo vero potrebbe essere, in ultima analisi, il frutto delle abitudini della mente piuttosto che un riflesso fedele della realtà oggettiva.