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Il potere e la legge

L’ordine politico secondo Giovanni di Salisbury

 

 

 

 

 

Giovanni di Salisbury (circa 1115-1180), filosofo, ecclesiastico e umanista ante litteram, è tra gli intellettuali più originali del pensiero politico medievale. Vissuto in un’epoca di intensi conflitti tra Chiesa e monarchia, ha lasciato come eredità il Policraticus, un’opera che unisce critica sociale, riflessione morale e proposta politica, dando vita a un modello di potere fondato sulla legge, sulla virtù e sul servizio al bene comune.
Redatto tra il 1156 e il 1159, durante l’esilio di Giovanni al seguito di Thomas Becket, il Policraticus sive de nugis curialium et vestigiis philosophorum si presenta come un testo duplice: da un lato, una feroce denuncia delle “sciocchezze dei cortigiani”, dall’altro, un’indagine rigorosa sui fondamenti della legittimità politica e sull’obbligo morale del principe. L’opera nasce, dunque, da una crisi concreta – quella tra l’arcivescovo di Canterbury e il re Enrico II – ma si eleva a una riflessione di portata universale, in cui il potere è sottoposto al giudizio della ragione e della legge divina.
Il Policraticus si articola in otto libri. I primi trattano con tono ironico e amaro della decadenza morale delle corti e dell’arroganza dei funzionari pubblici; i successivi si spostano su un piano teorico, esponendo una filosofia del potere che recupera e rielabora la tradizione classica, filtrata attraverso la sensibilità cristiana. Questo passaggio dall’attacco polemico alla costruzione speculativa non è casuale: Giovanni mostra come la corruzione delle istituzioni sia sintomo di un problema più profondo, ossia l’allontanamento del potere dalla sua vera funzione: servire la giustizia.
L’intero impianto dell’opera è dunque orientato alla riforma, intesa non come cambiamento strutturale ma come ritorno all’ordine naturale e divino. In questo senso, il Policraticus può essere letto quale manuale per il buon governo, ma anche esortazione alla responsabilità personale e collettiva.
Al centro della teoria politica di Giovanni vi è la concezione dello Stato come un organismo vivente, in cui ogni parte svolge una funzione necessaria per la salute del tutto. Questa immagine, già presente nella filosofia greca e romana – da Platone a Cicerone, passando per l’epistolario di Paolo di Tarso – assume in Giovanni una dimensione normativa. Il principe è la testa del corpo politico, sede della razionalità e dell’orientamento; il consiglio dei sapienti ne costituisce il cuore, fonte della prudenza e della deliberazione; i giudici sono gli occhi, che distinguono il giusto dall’ingiusto; i soldati sono le mani, deputate alla difesa e all’azione; il popolo costituisce le membra inferiori, fondamentali per la stabilità e il movimento dell’insieme. Tuttavia, questo equilibrio può facilmente degenerare. Quando la testa agisce senza ascoltare il cuore o quando gli occhi si lasciano accecare dalla corruzione, l’intero corpo si ammala. Giovanni non propone una metafora puramente descrittiva ma una vera e propria teoria della responsabilità funzionale: ogni componente dell’ordine politico deve operare in vista del bene comune e chi tradisce questa funzione, come i cortigiani adulanti o i giudici venali, contribuisce al disfacimento dell’intero organismo sociale.
Nel pensiero di Giovanni, il potere non è mai un fatto bruto o una concessione divina arbitraria. Esso trova la sua giustificazione solo nel rispetto della legge. La legge, a sua volta, non è semplicemente un insieme di norme positive: è un ordine superiore, fondato sulla ragione e voluto da Dio. Giovanni distingue chiaramente tra legge naturale, legge divina e legge positiva. La prima è impressa nell’animo umano e riconoscibile attraverso la ragione; la seconda si manifesta nella rivelazione cristiana; la terza è quella codificata dalle autorità umane. Tuttavia, affinché la legge positiva sia valida, deve essere conforme alle prime due. Nessuna autorità può quindi legittimare una norma ingiusta o un atto arbitrario. Questo principio ha conseguenze dirompenti: il sovrano, lungi dall’essere legibus absolutus, è egli stesso sottoposto alla legge. Secondo Giovanni, il re è colui il quale agisce secondo giustizia, tiranno, invece, è chi governa contro la giustizia. Il potere non è fondato sulla forza ma sull’adesione alla norma morale. Un sovrano che viola la legge cessa di essere legittimo.

La figura del filosofo ha in Giovanni una funzione centrale. Contrariamente all’immagine stereotipata del pensatore astratto e lontano dalla realtà, egli vede nella filosofia un sapere operativo, capace di orientare l’azione politica verso il bene. Il principe deve essere o un filosofo o, quantomeno, farsi guidare da filosofi: non nel senso accademico del termine ma come persone formate alla riflessione morale, al senso della giustizia e alla consapevolezza dei limiti dell’umano. In opposizione al filosofo, Giovanni colloca il cortigiano, figura emblematica della degenerazione del potere. Il cortigiano non agisce per verità ma per interesse; non cerca il bene del regno ma il proprio tornaconto; è pronto ad adulare, mentire, cospirare pur di ottenere favori. Il suo potere è parassitario, distruttivo, incompatibile con l’ordine razionale dello Stato. La lotta tra il filosofo e il cortigiano è, in ultima istanza, la lotta tra la verità e la menzogna nella vita politica.
Uno degli aspetti più coraggiosi del pensiero di Giovanni è la giustificazione della resistenza al potere tirannico. Nel Policraticus si trova, infatti, una delle prime formulazioni sistematiche del diritto al tirannicidio in epoca cristiana. Giovanni distingue tra due tipi di tiranno: il tiranno per usurpazione, che non ha mai avuto un mandato legittimo, e il tiranno per abuso, che ha ricevuto legittimamente il potere ma lo esercita in modo contrario alla giustizia. In entrambi i casi è lecito opporsi, anche con la forza. Non si tratta di promuovere l’anarchia, piuttosto di difendere un ordine superiore, quello della legge naturale. La resistenza non è solo un diritto ma, in alcuni casi, un dovere morale. L’uccisione del tiranno non è un atto criminale, bensì un atto di giustizia, purché sia compiuto per motivi legittimi e non per vendetta o ambizione personale. Questa posizione, pur temperata da cautela e razionalità, è una sfida all’idea del potere assoluto. Giovanni non attribuisce mai al popolo una sovranità diretta – siamo ancora nel pieno della visione medievale della società gerarchica – ma riconosce il diritto del corpo politico a difendersi dall’abuso.
L’opera di Giovanni di Salisbury, seppur poco nota al grande pubblico, ha avuto un impatto profondo nel pensiero politico occidentale. La sua visione della legge come criterio della legittimità del potere ha anticipato le dottrine del costituzionalismo moderno. La sua difesa della giustizia come fine del governo ha ispirato pensatori come Dante, Tommaso d’Aquino, Marsilio da Padova e, in parte, anche i teorici della resistenza protestante nel XVI secolo. A differenza di Machiavelli, che separerà nettamente etica e politica, Giovanni insiste sulla loro inseparabilità. Dove Machiavelli avrebbe visto nella forza uno strumento necessario per il mantenimento del potere, Giovanni la intese una minaccia se non fosse guidata dalla giustizia. La sua è una filosofia politica che pone limiti netti al potere e chiede ai governanti di essere servi della legge, non padroni della sorte altrui.

 

 

 

 

 

Cicerone e il destino della res publica

Legge, virtù e potere

 

 

 

 

Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.), filosofo, oratore e uomo di Stato, elaborò una teoria politica che si fonda sulla centralità della legge, sulla difesa della libertas e sulla necessità di un governo misto come garanzia di stabilità. Il suo pensiero, profondamente influenzato dalla filosofia greca, in particolare da Platone, Aristotele e dagli Stoici, ebbe un impatto duraturo sulla tradizione politica occidentale, ispirando filosofi e giuristi fino all’età moderna.
Cicerone concepiva la res publica come un bene comune, non di proprietà di un singolo individuo o di una classe, ma di tutti i cittadini. La sua idea di Stato non si basa su un contratto sociale esplicito, ma sulla convinzione che l’ordinamento politico debba essere conforme alla natura razionale dell’uomo e mirare al bene della collettività. In questo senso, Cicerone sviluppa un’idea di giustizia politica che lega il governo alla moralità e alla virtù dei cittadini e dei governanti.
Secondo Cicerone, la miglior forma di governo è quella che combina elementi della monarchia, dell’aristocrazia e della democrazia, evitando gli estremi delle forme degenerative (tirannia, oligarchia e demagogia). Questo principio, ispirato alla teoria del governo misto di Polibio, si riflette nella struttura politica della Repubblica romana, in cui i consoli rappresentavano il potere monarchico, il Senato quello aristocratico e i comizi popolari quello democratico. Tale equilibrio era per Cicerone essenziale per la stabilità dello Stato e per evitare il rischio della corruzione o della tirannide.
Uno dei concetti cardine del pensiero politico di Cicerone è la supremazia della legge. Egli sostiene che la legge non è una semplice convenzione umana, ma un principio universale, radicato nella natura razionale dell’uomo. Questo lo avvicina alla dottrina stoica del diritto naturale, secondo cui esiste una legge morale eterna e immutabile che precede e vincola le leggi positive create dagli uomini.

Nel De Legibus, Cicerone afferma che “la legge è la più alta ragione insita nella natura”, sottolineando che il diritto positivo deve essere conforme a questa legge superiore. Il potere politico, dunque, non è arbitrario, ma deve essere esercitato nel rispetto della giustizia. Questo principio anticipa concetti fondamentali del pensiero giuridico moderno, come il costituzionalismo e la separazione tra diritto e potere.
Per Cicerone, il buon governo dipende non solo dalla struttura delle istituzioni, ma anche dalla virtù e dall’impegno dei cittadini. La libertas non è solo assenza di oppressione, ma anche partecipazione attiva alla vita pubblica. Il cittadino virtuoso deve essere moralmente integro e capace di mettere il bene comune al di sopra degli interessi personali. In questo contesto, Cicerone assegna un ruolo centrale all’oratore, figura che incarna il perfetto uomo politico. L’oratoria non è solo un’arte tecnica di persuasione, ma uno strumento per difendere la giustizia e guidare il popolo. Nel De Oratore, sottolinea che il vero oratore deve essere anche un filosofo, capace di discernere il giusto dall’ingiusto e di educare i cittadini alla virtù.
Uno degli aspetti più rilevanti del pensiero politico ciceroniano è la critica alla tirannide. Per Cicerone, il governo di un solo uomo privo di vincoli legali rappresenta la più grave minaccia per la libertas e per la stabilità della res publica. La libertà non è solo l’assenza di dominio arbitrario, ma un sistema in cui il potere è bilanciato e regolato dalla legge. La sua opposizione a Giulio Cesare e successivamente a Marco Antonio ne è una dimostrazione concreta. Cicerone vedeva in Cesare un pericolo per la Repubblica, poiché con la sua ascesa al potere assoluto minava l’equilibrio istituzionale. Dopo l’uccisione di Cesare, tentò di contrastare Marco Antonio con le celebri Filippiche, discorsi in cui lo accusava di aspirare alla tirannide. Questa strenua difesa della Repubblica gli costò la vita: fu proscritto e assassinato nel 43 a.C.
L’influenza del pensiero politico di Cicerone si estese ben oltre la sua epoca. Durante il Medioevo, il suo concetto di diritto naturale venne integrato nella filosofia scolastica, soprattutto grazie a Tommaso d’Aquino. Nel Rinascimento, il recupero delle sue opere contribuì a rinnovare l’interesse per la politica e il diritto. Nell’età moderna, pensatori come John Locke e Montesquieu ripresero i suoi concetti di legge naturale e governo misto per sviluppare le loro teorie sul costituzionalismo e sulla separazione dei poteri. La sua concezione della libertas influenzò profondamente il pensiero repubblicano e contribuì alla formulazione delle moderne democrazie costituzionali. Cicerone non fu solo un teorico della politica, ma un uomo d’azione che visse coerentemente con le sue idee, difendendo la Repubblica fino alla fine. Il suo pensiero resta un punto di riferimento fondamentale per chi riflette sul rapporto tra legge, libertà e potere.

 

 

 

 

 

La città virtuosa di al-Farabi

Il paradigma della società perfetta

 

 

 

Abu Nasr al-Farabi (872-950), filosofo e scienziato islamico di origine persiana, è considerato uno dei più grandi pensatori del Medioevo e uno dei principali esponenti del neoplatonismo nel mondo islamico. Nel suo La città virtuosa (al-Madina al-Fadila) delinea un modello di società perfetta ispirato alle idee di Platone e Aristotele, ma arricchito da elementi della filosofia islamica e della metafisica neoplatonica.
Per al-Farabi, la città virtuosa non è solo una struttura politica, ma un’organizzazione armonica che permette agli esseri umani di raggiungere la felicità suprema, che per lui coincide con la conoscenza della verità e l’unione con l’Intelletto Attivo, una delle entità fondamentali della sua cosmologia. Questo ideale di città è contrapposto a modelli corrotti e imperfetti, che impediscono il raggiungimento della vera felicità.
Al-Farabi concepisce la città come un organismo gerarchico, in cui ogni individuo ha un ruolo specifico da svolgere per il bene comune. Egli prende spunto dalla Repubblica di Platone, adattandone le categorie alla società islamica.
Al vertice della città virtuosa vi è il sovrano perfetto, un uomo eccezionale per intelligenza, moralità e saggezza. Questo sovrano deve possedere una conoscenza profonda della filosofia e della religione, poiché il suo compito principale è guidare il popolo verso la verità.
Secondo al-Farabi, il sovrano deve avere dodici qualità fondamentali, tra cui: una forte capacità di apprendimento e una mente aperta; amore per la giustizia e odio per l’ingiustizia; una volontà incrollabile e una grande capacità di comunicazione; una perfetta conoscenza della metafisica e delle scienze; il desiderio di servire il bene comune senza egoismo.
Se un sovrano con tali caratteristiche non esiste, allora il governo può essere affidato a un gruppo di saggi e filosofi, che devono agire collettivamente come guide della città. Questo concetto anticipa, in un certo senso, la moderna idea di tecnocrazia.
Sotto il sovrano si trovano i diversi gruppi che compongono la società, ognuno con una funzione precisa: i sapienti e gli scienziati, che studiano e diffondono la conoscenza; i giuristi e i legislatori, che garantiscono il rispetto della legge e della giustizia; i guerrieri, che proteggono la città e mantengono l’ordine; gli artigiani e i mercanti, che forniscono beni e servizi essenziali; i contadini, che producono il cibo necessario alla sopravvivenza della comunità.
Questa divisione della società rispecchia un’idea di armonia collettiva, in cui ogni individuo contribuisce al benessere generale secondo le proprie capacità e competenze.

Per al-Farabi, l’obiettivo supremo della città virtuosa è il raggiungimento della felicità collettiva, intesa non come semplice benessere materiale, ma come realizzazione morale e intellettuale dell’essere umano. La vera felicità, secondo il filosofo, si ottiene attraverso la conoscenza della verità e l’unione con l’Intelletto Attivo, un concetto neoplatonico che indica la fonte ultima della saggezza. Solo in una società ben governata, dove gli individui possono sviluppare le proprie capacità intellettuali e spirituali, è possibile raggiungere questo obiettivo. L’educazione gioca un ruolo fondamentale nella città virtuosa: i cittadini devono essere istruiti fin dalla giovane età, imparando a distinguere il bene dal male e a vivere secondo principi di giustizia e saggezza. Il sovrano e i filosofi hanno il compito di guidare questo processo educativo, creando una cultura basata sulla conoscenza e sulla virtù.
Al-Farabi contrappone la città virtuosa a cinque modelli di città imperfette, che rappresentano diversi tipi di degenerazione politica e sociale. La città dell’ignoranza (al-Madina al-Jahiliyya): i suoi abitanti non conoscono il vero bene e vivono solo per soddisfare i bisogni materiali; la città dissoluta (al-Madina al-Fasiqa): i cittadini conoscono la verità, ma la rifiutano per inseguire il piacere e la corruzione; la città vile (al-Madina al-Khassisa): la sua popolazione è dominata dalla ricerca del potere e delle ricchezze, senza alcun senso morale; la città tirannica (al-Madina al-Dhâlima): è governata da un despota che impone il suo volere con la forza e l’ingiustizia; la città capovolta (al-Madina al-Mubaddala): un tempo era virtuosa, ma è decaduta per l’influenza di governanti corrotti e ignoranti.
Secondo al-Farabi, la degenerazione della città avviene quando il governo è nelle mani di persone incapaci o corrotte, che non perseguono il bene collettivo. Questo porta alla perdita della giustizia e della saggezza, trasformando la società in un luogo di caos e oppressione.
Il modello della città virtuosa di al-Farabi ha avuto una grande influenza sulla filosofia politica islamica e occidentale. Le sue idee hanno ispirato filosofi successivi come Avicenna e Averroè, nonché pensatori medievali cristiani come Tommaso d’Aquino. Inoltre, alcuni aspetti del suo pensiero possono essere messi in relazione con idee moderne di governo illuminato, meritocrazia e tecnocrazia. Il concetto di sovrano-filosofo ha influenzato il dibattito sulle qualità ideali di un leader, mentre la sua enfasi sull’educazione e sulla ricerca della felicità collettiva anticipa tematiche ancora attuali nella filosofia politica e sociale.
Oggi, la visione di al-Farabi rimane un esempio di utopia politica e un modello teorico di società basata sulla conoscenza, la giustizia e il bene comune. Anche se difficilmente realizzabile nella sua forma perfetta, la sua città virtuosa rappresenta un ideale a cui le società possono aspirare per costruire comunità più giuste ed equilibrate.

 

 

 

 

Dall’innocenza perduta alla tirannia della civiltà

L’analisi di Rousseau sull’origine della disuguaglianza umana

 

 

 

 

 

Il Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini, pubblicato nel 1755 da Jean-Jacques Rousseau, costituisce, senza dubbio, uno dei testi più significativi della filosofia politica del XVIII secolo. Con quest’opera, Rousseau rispose a un concorso indetto dall’Accademia di Digione, che poneva la seguente domanda: “Qual è l’origine della disuguaglianza tra gli uomini, ed è essa autorizzata dalla legge naturale?”. Il filosofo ginevrino non si limitò a replicare in maniera diretta, ma costruì una riflessione ampia e articolata sulle condizioni originarie dell’uomo e sul processo storico che ha portato alla formazione delle società moderne, segnate da profonde ingiustizie.
Diversamente dal suo primo discorso (Discorso sulle scienze e le arti, del 1750), in cui aveva sostenuto che il progresso delle scienze e delle arti avesse corrotto la moralità umana, in questo secondo trattato Rousseau si concentrò sulla genesi della disuguaglianza, cercando di dimostrare che essa non fosse un fenomeno naturale ma il risultato dell’evoluzione sociale e politica. L’opera è divisa in due parti: nella prima è analizzato lo stato di natura, mentre nella seconda è descritto il passaggio alla società e la progressiva istituzionalizzazione della disuguaglianza.
Nella prima parte del Discorso, Rousseau si pone l’obiettivo di ricostruire uno stato ipotetico dell’umanità primitiva, anteriore alla formazione della società civile. Egli immagina un uomo primitivo che vive in solitudine, autosufficiente, in perfetta armonia con la natura. In questa condizione originaria, l’essere umano è mosso esclusivamente da due principi fondamentali: l’amor di sé, inteso come istinto di autoconservazione, e la pietà naturale, una disposizione innata alla compassione che lo spinge a evitare di infliggere sofferenza agli altri esseri viventi. L’uomo primitivo, secondo Rousseau, non possiede bisogni artificiali, vive in uno stato di libertà assoluta e non ha motivo di entrare in conflitto con i suoi simili. Il desiderio di dominio, la competizione per il potere e la ricerca della ricchezza sono estranei alla sua natura, poiché egli si accontenta di ciò che la natura gli offre. Questo stato originario non corrisponde a un’epoca storica realmente esistita, ma è piuttosto una costruzione filosofica che Rousseau utilizza per mettere in evidenza il contrasto con la società moderna, dominata dall’ingiustizia e dalla corruzione. A differenza di Hobbes, che aveva descritto lo stato di natura come un’epoca di violenza e caos, Rousseau lo concepisce come una condizione di relativa felicità e uguaglianza, in cui l’uomo non ha ancora sviluppato il senso della proprietà privata e delle gerarchie sociali. Ciò che distingue l’essere umano dagli altri animali è la sua perfectibilité, ovvero la capacità di modificarsi e adattarsi all’ambiente, che lo porterà progressivamente a sviluppare nuove necessità e a trasformare la propria esistenza. Ed è proprio questa caratteristica, apparentemente positiva, a generare il processo di degenerazione dell’umanità.

Nella seconda parte del Discorso, Rousseau delinea il processo che porta l’uomo a distaccarsi dallo stato di natura e a entrare in una società fondata sulla disuguaglianza e sulla dipendenza reciproca. Il passaggio cruciale è rappresentato dalla nascita della proprietà privata, che Rousseau considera il vero punto di svolta nella storia umana. Secondo il filosofo, il primo uomo che recintò un pezzo di terra e dichiarò che fosse suo inventò la disuguaglianza e gettò le basi per la divisione tra ricchi e poveri. Questo evento segnò l’inizio di una competizione incessante tra gli uomini, spinti a sopraffarsi l’un l’altro per accumulare beni e consolidare il proprio potere. Con l’istituzione della proprietà privata, emergono le prime gerarchie sociali e la necessità di stabilire leggi per proteggerle. Ma, secondo Rousseau, la nascita delle leggi e dello Stato non avviene per garantire la giustizia e il bene comune, bensì per consolidare il dominio dei più ricchi e potenti. La politica diventa così uno strumento di oppressione, utilizzato dalle élite per legittimare il proprio controllo sulle masse. Le istituzioni giuridiche, che dovrebbero assicurare l’uguaglianza tra gli uomini, servono in realtà a cristallizzare le ingiustizie e a impedire ai più deboli di ribellarsi. Man mano che la società si sviluppa, la disuguaglianza si accentua sempre di più. L’umanità passa da una fase primitiva, in cui le differenze tra gli uomini erano minime, a una condizione in cui le gerarchie sociali diventano sempre più marcate e oppressive. La monarchia e l’aristocrazia si impongono come sistemi di governo e il popolo viene ridotto a una massa di individui privati della propria autonomia e costretti a vivere sotto leggi ingiuste. La corruzione morale si diffonde, poiché gli uomini non sono più mossi da bisogni naturali, ma dal desiderio di apparire superiori agli altri. La ricerca della ricchezza e del prestigio sociale sostituisce la semplicità dello stato di natura, portando gli uomini a vivere in una condizione di alienazione e dipendenza reciproca.
Rousseau sostiene che questa condizione di disuguaglianza non sia inevitabile né giustificabile. La società moderna non è il risultato di una naturale evoluzione dell’umanità, ma il frutto di un inganno perpetrato dai più potenti ai danni della maggioranza. Tuttavia, il filosofo non propone un ritorno allo stato di natura, ma piuttosto una riflessione sulla possibilità di costruire una società più giusta e basata sull’uguaglianza.
Pur non offrendo soluzioni concrete nel Discorso, Rousseau getta le basi per il suo pensiero politico successivo, sviluppato nel Contratto sociale del 1762. Qui egli proporrà un modello di governo basato sulla volontà generale, in cui tutti i cittadini partecipano attivamente alla vita politica e le leggi sono espressione dell’interesse collettivo.
Il Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini rappresenta una delle più profonde riflessioni sulla natura umana e sulla genesi delle ingiustizie sociali. Rousseau dimostra che la disuguaglianza non è un fenomeno naturale, ma il risultato di un processo storico che ha portato alla formazione della società moderna. Il suo pensiero influenzò profondamente la Rivoluzione Francese, il socialismo ottocentesco e il dibattito politico contemporaneo, fornendo una visione alternativa della storia umana e della possibilità di una società più equa e giusta.