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Il mondo dei desti

Ontologia e politica della veglia in Eraclito

 

 

 

I desti hanno un mondo unico e comune, ma ciascuno dei dormienti si ritira in un mondo proprio”.

 

 

Questa breve sentenza di Eraclito (frammento 89 Diels-Kranz) contiene, in forma concentrata, una delle tensioni fondamentali della filosofia occidentale: quella tra realtà condivisa e percezione soggettiva, tra logos universale e mondo interiore, tra verità e illusione. Eraclito, con la sua consueta densità aforistica, non parla solo del sonno biologico e della veglia ma si muove su un piano profondamente ontologico, epistemologico ed etico.
La prima opposizione è tra il mondo comune dei desti e il mondo proprio dei dormienti. Questa non è una semplice distinzione tra stati fisiologici. Qui il “dormiente” è metafora dell’uomo che non conosce, che non partecipa all’essere, che si chiude nella propria rappresentazione individuale. Il “desto” è colui che ha accesso all’essere autentico, perché partecipa del logos.
Eraclito ritiene che il reale sia uno, razionale, intelligibile. Il logos, per lui, non è solo una legge razionale che governa il cosmo ma è anche il principio che connette ogni essere umano al mondo e agli altri. Essere svegli significa essere aperti a questa struttura del reale, vivere nella relazione, nella tensione tra gli opposti, nella consapevolezza della trasformazione continua. Chi è desto, quindi, non si limita a percepire il mondo: lo abita nella sua verità dinamica.
Il dormiente, al contrario, è ontologicamente separato. Il suo mondo è solo apparente, costruito nella soggettività, autoreferenziale. In termini contemporanei potremmo dire: chi dorme vive in una “bolla cognitiva”, una simulazione mentale che non comunica con il mondo effettivo. Questo anticipa molti temi della fenomenologia e della filosofia dell’esistenza: l’autenticità dell’esperienza come apertura al mondo, contro la chiusura nel proprio vissuto non interrogato.

La frase ha una chiara valenza epistemologica: il sapere vero è comune, non privato. Chi è desto partecipa a una conoscenza che non è solo soggettiva, ma inter-soggettiva, cioè aperta, verificabile, condivisa. È, in altri termini, una conoscenza che si fonda sul logos.
Eraclito è uno dei primi pensatori a proporre un’idea radicale per l’epoca: la verità non è un’opinione, non è relativa a ciascuno ma è una struttura del reale che va scoperta. In questo senso, la frase è anche una critica contro il relativismo, contro l’idea che ognuno possa avere la “sua verità”. Chi dorme, infatti, si ritira in un mondo proprio: non può verificare, confrontare, discutere ciò che pensa. La sua verità è priva di fondamento, perché non è in relazione con l’altro, né con la realtà.


Questa critica risuona con forza anche nella filosofia di Platone, che vedrà nella caverna il luogo del sogno collettivo, dell’illusione condivisa, da cui l’anima deve svegliarsi per accedere alla verità. In entrambi i casi, il risveglio è un atto di rottura con la passività e con l’abitudine, per entrare in un mondo che non è costruito dal soggetto, ma scoperto dal pensiero.
La frase di Eraclito contiene, infine, un’esortazione etica: non basta esistere, bisogna essere desti. Vivere dormendo significa non esercitare la propria umanità in senso pieno, ridursi a spettatori del proprio sogno interiore. Il vero umano, per Eraclito, è colui che pensa, che osserva, che comprende il movimento del tutto. Il risveglio diventa allora un compito etico: un dovere verso sé stessi e verso il mondo.
Essere desti significa anche riconoscere la propria responsabilità all’interno del cosmo, comprendere che ogni azione si inserisce in un equilibrio più vasto e che ignorare questa struttura porta disordine. Chi si ritira in un mondo proprio, invece, perde il senso della misura, cade nella hybris, nell’eccesso, nella confusione.
In termini moderni, potremmo dire che Eraclito ci spinge a superare il narcisismo epistemico e morale dell’io, per aprire a una dimensione condivisa dell’esistenza, in cui la verità non è mai possesso individuale ma campo di tensione comune.
Nel contesto contemporaneo, la frase di Eraclito acquista una forza straordinaria. Viviamo in un’epoca in cui il mondo comune è minacciato da una iper-soggettivazione della realtà: bolle informative, verità alternative, realtà filtrate da algoritmi, narrazioni autoreferenziali. Ognuno rischia di vivere in un mondo proprio, fatto di percezioni e opinioni non più verificabili, non più confrontabili.
Il mondo comune si assottiglia. Il dialogo si spezza. La possibilità di costruire un discorso razionale condiviso si indebolisce. In questo senso, tornare a Eraclito non è solo un esercizio di erudizione ma un gesto filosofico e politico urgente: riconoscere che solo il risveglio, solo la ricerca del logos comune, può restituirci la possibilità di vivere insieme in modo autentico.
La frase di Eraclito, pertanto, è un invito radicale a svegliarsi dal sonno della soggettività chiusa, a uscire dai mondi privati dell’opinione, dell’abitudine, dell’illusione. È un’esortazione a pensare insieme, a cercare insieme, a vivere in quel mondo comune che è l’unico spazio dove l’umano può fiorire. In poche parole: senza veglia, non c’è verità. Senza verità, non c’è mondo.

 

 

 

 

 

 

L’uomo misura del reale

Brevi itinerari filosofici, letterari e scientifici
attorno a Protagora

 

 

 

 

 

L’enunciato di Protagora, “L’uomo è misura di tutte le cose: di quelle che sono, per quanto sono, e di quelle che non sono, per quanto non sono”, costituisce un passaggio fondamentale nella storia del pensiero umano, una soglia concettuale oltre la quale la verità non è più un dato fisso ma un orizzonte mobile. La sua portata non è soltanto filosofica: investe anche l’immaginario letterario, le scienze cognitive, la fisica moderna e il modo in cui la contemporaneità concepisce l’individuo, la conoscenza e la realtà stessa.
Ecco come letteratura e scienza hanno, nel corso dei secoli, rispecchiato, amplificato o messo in discussione il principio relativista protagoreo.
La letteratura ha spesso assunto la funzione di specchio deformante della realtà, proprio perché capace di moltiplicare i punti di vista, le voci, le percezioni. In questo senso, la narrativa moderna è uno dei luoghi privilegiati per comprendere le implicazioni del relativismo protagoreo.
Pensiamo a Marcel Proust, la cui Recherche è interamente costruita sulla soggettività del narratore. Il tempo, i ricordi, le emozioni, tutto è filtrato dall’esperienza personale. Nulla è oggettivo, nemmeno l’amore, nemmeno il tempo. Quando Proust scrive: “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”, riattualizza l’intuizione di Protagora: la realtà si misura attraverso lo sguardo umano, che la trasforma e la reinterpreta. Oppure si consideri Virginia Woolf, in particolare in To the Lighthouse o Mrs Dalloway, dove il flusso di coscienza sostituisce la narrazione oggettiva. Gli eventi non hanno più una struttura esterna ma vengono ricostruiti internamente, soggettivamente, in base alla memoria, alla sensibilità, alla contingenza del momento. La verità dei fatti è secondaria rispetto alla verità delle percezioni.
In ambito scientifico, il principio di Protagora ha trovato eco – seppur in forme diverse – nei grandi rivolgimenti del pensiero moderno, specialmente nel XX secolo. L’idea che non esista una realtà indipendente dall’osservatore ha avuto un impatto profondo in almeno due ambiti: la fisica e le neuroscienze.
La meccanica quantistica ha messo in crisi la concezione classica del mondo come qualcosa di oggettivo e indipendente. L’esperimento della doppia fenditura (double-slit experiment) mostra che il comportamento delle particelle cambia in base alla presenza o meno di un osservatore. Il principio di indeterminazione di Heisenberg afferma che non è possibile conoscere contemporaneamente la posizione e la velocità di una particella con precisione assoluta: l’atto stesso dell’osservazione interferisce con l’oggetto osservato. In altre parole: la realtà microscopica non ha proprietà ben definite fino a quando non viene misurata. Ciò che è “vero” dipende dall’interazione tra soggetto e oggetto, proprio come sosteneva Protagora.
Anche le scienze cognitive hanno confermato che non percepiamo il mondo com’è ma come il nostro cervello lo elabora. Le percezioni sono costruzioni mentali, selezioni parziali e interpretazioni dell’ambiente circostante. Il neuroscienziato Antonio Damasio ha mostrato come le emozioni, il corpo, la memoria influenzino profondamente la coscienza e la decisione, rendendo l’idea di un “io razionale e oggettivo” una semplificazione mitologica.
Nel campo della percezione visiva, il lavoro di R. L. Gregory e Vilayanur Ramachandran ha messo in luce come molte delle nostre esperienze sensoriali siano illusioni ottiche codificate, dipendenti dal contesto, dall’aspettativa e dalla cultura. Ancora una volta: l’uomo non percepisce “le cose per come sono” ma per come le può percepire – esattamente il punto di Protagora.
Nel mondo contemporaneo, però, il pensiero protagoreo si trova a fare i conti con la “post-verità” – una fase storica in cui le emozioni e le convinzioni personali hanno spesso più peso dei fatti oggettivi. L’affermazione “ognuno ha la sua verità” è diventata una formula popolare che legittima la polarizzazione estrema e la disinformazione sistemica.
Le piattaforme digitali, i social media, gli algoritmi di personalizzazione creano bolle cognitive in cui ognuno vede confermata la propria visione del mondo. Qui il relativismo degenera: non diventa più strumento di apertura e dialogo ma pretesto per l’autoreferenzialità e la chiusura mentale.
Infine, è interessante notare come due autori apparentemente lontani, Søren Kierkegaard e Italo Calvino, abbiano espresso in modo complementare l’eredità di Protagora. Kierkegaard, padre dell’esistenzialismo, afferma che “la verità è soggettività”. Non nel senso che tutto si equivale ma nel senso che la verità autentica è quella vissuta, scelta, interiorizzata, non imposta dall’esterno. È l’uomo, con la sua angoscia e la sua libertà, che misura il valore delle cose. Calvino, ne Le città invisibili, costruisce mondi che esistono solo nello sguardo del viaggiatore Marco Polo. Ogni città è metafora di una prospettiva, di un’immagine interiore. “Ogni città riceve la forma dal deserto a cui si oppone”. La realtà non è mai fissa: si plasma nell’incontro tra l’uomo e il mondo.
L’idea protagorea dell’uomo come misura di tutte le cose non è un invito al disimpegno o alla soggettività cieca. Al contrario, essa spinge a una forma più alta di consapevolezza: se tutto dipende da noi, allora dobbiamo esercitare responsabilmente la nostra facoltà di giudizio. Il relativismo non è un rifiuto della verità ma un rifiuto dell’assolutismo; non è negazione del sapere ma affermazione della pluralità dei punti di vista. In un mondo sempre più complesso, globalizzato e interconnesso, l’eredità di Protagora appare in tutta la sua attualità: sfida a pensare non contro la verità ma oltre l’illusione di possederla. E, forse, è proprio in questa tensione infinita tra il limite dell’uomo e il suo desiderio di conoscere che si misura – ancora una volta – la dignità più profonda della nostra condizione umana.