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La sapienza di Proclo al tramonto del mondo antico

 

 

 

 

 

Proclo Diadoco (412-485 d.C.) è stato l’ultimo grande sistematore della filosofia neoplatonica nella storia del pensiero tardoantico. Alla guida dell’Accademia platonica di Atene, riassunse, potenziò e rese organiche le dottrine di tutta la tradizione neoplatonica precedente. Rispetto a Plotino, Porfirio e Giamblico, introdusse un livello di sistematizzazione e rigore logico mai raggiunti prima. La sua opera è una costruzione ontologica imponente: un tempio filosofico in cui ogni essere ha un posto, ogni livello ha una funzione e ogni relazione rimanda all’Uno.
Il pensiero di Proclo non è semplice filosofia speculativa: è anche guida per l’anima, percorso spirituale, teologia pratica. È un modo per leggere il mondo come segno del divino e per ritrovare nell’ordine del cosmo la via del ritorno all’Unità originaria.
La filosofia di Proclo fiorì in un momento delicato: il mondo greco-romano stava cedendo sotto la pressione dell’impero cristiano. L’Accademia di Atene, fondata da Platone nel IV sec. a.C., era ormai una cittadella assediata della cultura pagana. Proclo ne fu uno degli ultimi grandi difensori. Tuttavia, la sua reazione non fu né nostalgica né puramente conservatrice. Al contrario, rafforzò e raffinò il sistema neoplatonico, dotandolo di una coerenza interna straordinaria, al fine di dimostrare non solo la superiorità del platonismo ma anche la sua capacità di rispondere ai bisogni religiosi, metafisici ed etici del tempo.
Al vertice dell’universo procliano c’è l’Uno, principio assoluto, non determinato, radicalmente trascendente. L’Uno non può essere pensato positivamente: non è essere, non è mente, non è Dio in senso personale. È oltre tutto questo. È la fonte pura da cui ogni cosa emana. L’Uno non agisce: emanare è per lui una necessità ontologica, non una scelta. Da esso tutto scaturisce per “processione” (prohodos) ma nulla si separa veramente da esso: ogni livello dell’essere è simultaneamente altro e in relazione.
Tutta la realtà si organizza secondo il ritmo universale delle tre fasi fondamentali: monê, la permanenza in sé, il rimanere nel principio; próodos, la processione da quel principio, l’uscita da sé; epistrophê, il ritorno al principio, la conversione verso l’unità. Questa triade, che deriva in parte da Plotino e in parte da Giamblico, è, per Proclo, la struttura stessa del reale: ogni ente, ogni livello, ogni dio, ogni anima riflette questa dinamica eterna. È il respiro metafisico del cosmo.

La filosofia procliana è profondamente gerarchica: l’universo è una scala dell’essere (scala entis) che va dal totalmente Uno fino alla materia. Ogni livello inferiore dipende dal superiore e lo riflette in modo più o meno offuscato. Questa gerarchia non è rigida ma dinamica. I principali livelli dell’essere, secondo Proclo, sono: l’Uno, principio supremo, ineffabile, assoluto; le Diadi ineffabili, princìpi dell’alterità e della molteplicità; gli Dèi intelligibili (noetici), unità puramente intelligibili, ancora immobili nella perfezione; gli Dèi intelligibili-intellettivi, ponte tra l’essere puro e l’intelletto attivo; gli Dèi intellettivi (noerici), sono Intelletti divini in atto, creatori dei mondi inferiori; le Anime divine, intermediari tra intelletto e natura; le anime individuali, legate al tempo e al corpo ma capaci di salvezza; la natura e la materia, il livello più basso ma non malvagio, solo il più lontano dalla fonte.
Il Nous è la prima realtà positiva dopo l’Uno. È l’Intelligenza eterna che contiene tutte le Idee platoniche. A differenza dell’Uno, il Nous è molteplice: è l’intelligenza che pensa se stessa (noesis noeseos), come nell’aristotelismo, seppure tale autopensabilità sia anche generativa. Il Nous è struttura e forma: ciò che rende possibile il cosmo. Ogni idea che vi è contenuta è anche un modello causale di tutte le cose che esistono. Ma non è ancora mondo: per passare alla realtà concreta occorre l’azione delle anime.
L’Anima è il luogo della mediazione. Essa vive su un crinale: guarda in alto verso l’intelligibile ma può anche discendere verso il corpo. Proclo distingue le Anime universali, che regolano i cicli del cosmo, dei pianeti, dei ritmi naturali, e le Anime particolari, umane e razionali, capaci di elevarsi verso l’intellegibile.
Il compito dell’anima è ricordare la sua origine e reintegrarsi nell’ordine divino. Questo percorso non è automatico: richiede conoscenza, disciplina e pratica spirituale.
Per Proclo, il cosmo è buono, ordinato, divino. Non esiste una “caduta” nel senso cristiano: la materia non è malvagia ma solo il grado più basso dell’essere. Ogni cosa, anche la più vile, è segno dell’Uno. Il male non ha sostanza propria: è privazione, disordine, non-essere. Eppure, anche il disordine è funzionale al tutto. Tutto ciò che esiste ha una funzione nell’economia divina. L’universo, nel suo complesso, è una liturgia cosmica: ogni essere, consapevole o no, partecipa alla danza dell’essere.
La filosofia di Proclo è, quindi, una visione dell’universo come ordine perfetto, una scala ininterrotta che va dall’Uno alla materia e ritorna all’Uno. Ogni cosa ha un posto, ogni azione ha un senso, ogni essere è un ponte tra la molteplicità e la fonte dell’essere. Non c’è scissione, solo livelli di partecipazione. Il compito dell’anima umana è riconoscere il tutto, comprendere il proprio ruolo e risalire la scala dell’essere verso la propria origine.

 

 

 

 

 

Metafisica e teurgia nel pensiero di Giamblico di Calcide

 

 

 

 

La teoresi di Giamblico di Calcide (ca. 245 – ca. 325 d.C.) è senza dubbio rilevante nel panorama filosofico della tarda antichità, nonostante, per lungo tempo, fosse rimasta oscurata da una lettura riduttiva che ha relegato l’autore a teurgo e mistico, in posizione marginale rispetto ai più noti Plotino e Porfirio. Eppure, Giamblico fu molto più di un compilatore di dottrine o di un devoto sacerdote pagano. Fu un sistematizzatore rigoroso, un riformatore delle dottrine neoplatoniche e un pensatore che seppe coniugare filosofia, religione e ritualità in una sintesi armonica dell’universo e dell’anima umana.
Nella tarda antichità, la sua statura intellettuale e spirituale era riconosciuta in modo quasi unanime. L’imperatore Giuliano l’Apostata lo considerava il terzo grande maestro dopo Pitagora e Platone, mentre commentatori come Proclo, Siriano e Simplicio lo chiamavano regolarmente “divino” (θεῖος), riconoscendogli un’autorità quasi sacra. L’uso di tale epiteto non era una semplice formula encomiastica ma indicava, nel linguaggio tecnico del neoplatonismo, il raggiungimento delle virtù teoretiche, ossia del livello più alto di perfezione intellettuale e spirituale. Se Aristotele, secondo Proclo, era un “daimonios”, un genio illuminato, Giamblico era invece ritenuto, appunto, “theios”, in quanto capace di contemplare l’intelligibile e di vivere secondo l’ordine divino. Questo riconoscimento non derivava solo dalla sua connessione con la teurgia, piuttosto dal suo ruolo nella trasmissione, reinterpretazione e sviluppo delle dottrine platoniche. La sua opera fu considerata fondamentale nella rifondazione del platonismo in chiave sistemica, in un’epoca in cui la filosofia doveva confrontarsi con la crescente influenza del cristianesimo, con la sfida della tradizione aristotelica e con l’esigenza di mostrare un percorso salvifico in grado di condurre l’anima alla sua origine divina.
Per comprendere il pensiero di Giamblico è necessario confrontarsi con De Anima, opera che ci è pervenuta in forma frammentaria tramite l’Anthologion di Giovanni Stobeo. Questo trattato è stato a lungo considerato una semplice raccolta di opinioni precedenti sull’anima, un esercizio di dossografia privo di contributi originali. Tuttavia, questa interpretazione, grazie agli studi di John Myles Dillon, Bent Larsen, Annick Charles-Saget, Cristina D’Ancona e, più recentemente, di Lucrezia Martone, oggi non è più sostenibile. Giamblico adotta un metodo sistematico e filosoficamente rigoroso: si ispira all’approccio aristotelico di iniziare ogni trattazione con una ricognizione delle dottrine antecedenti, non limitandosi, però, a raccoglierle. Al contrario, le riorganizza, le interpreta e le utilizza come base per elaborare una propria visione dell’anima, articolata, coerente e in stretto dialogo con la tradizione platonica e neoplatonica. La perdita della parte propriamente dottrinale dell’opera ha contribuito a farne trascurare l’originalità, ma i riferimenti contenuti nei testi di Proclo, Simplicio, Prisciano e altri autori permettono di ricostruire ampie porzioni della sua architettura teorica. La parte superstite del De Anima, quindi, non è il cuore dell’opera ma una sua premessa, vòlta a fondare la trattazione filosofica sull’anima mediante una rigorosa ricapitolazione delle principali scuole del pensiero antico: dagli egizi ai caldei, dagli atomisti agli stoici, dai pitagorici ai medioplatonici.

La concezione giamblichea dell’anima si distingue per la sua collocazione all’interno di una gerarchia ontologica estremamente articolata. Rispetto a Plotino, Giamblico abbassa la posizione dell’anima umana nella scala degli esseri, sottolineandone la maggiore prossimità al mondo sensibile e la sua condizione intermedia tra il divino e il corporeo. L’anima non è semplicemente una scintilla dell’intelligibile quanto un essere complesso, dotato di molteplici facoltà e soggetto a una dinamica di discesa e risalita all’interno dell’ordine cosmico. La gerarchia dell’essere, secondo Giamblico, parte da un principio ineffabile e assolutamente trascendente, che si colloca al di là dell’Uno stesso. Da questo principio originario scaturiscono, successivamente, l’intelligibile puro, il livello intellettivo, le anime divine e, infine, le anime razionali, tra cui quelle umane. L’anima, nella sua caduta verso il mondo sensibile, si riveste di potenzialità e facoltà che la legano alla materia, pur conservando la possibilità di elevarsi di nuovo alla sua origine grazie a un processo di reintegrazione che è, al tempo stesso, conoscitivo e salvifico.
Uno degli aspetti più controversi del pensiero giamblicheo è l’introduzione della teurgia come pratica filosofica. A lungo considerata una degenerazione mistica della filosofia razionale, la teurgia, in Giamblico, diviene, invece, uno strumento necessario per completare il cammino dell’anima verso il divino. Secondo la sua visione, la ragione umana da sola non è sufficiente per attingere la realtà suprema: occorre un’apertura simbolica, un coinvolgimento sacrale, una ritualità che consenta all’anima di riattivare la memoria della sua origine e di risalire verso i livelli superiori dell’essere. Nel De Mysteriis Aegyptiorum, afferma che solo la teurgia consente all’anima di trascendere i limiti del discorso filosofico e di entrare in contatto con il divino attraverso una partecipazione reale, non meramente intellettuale: questo non rappresenta il rifiuto della filosofia ma il suo compimento. L’attività teurgica, infatti, non contraddice la ragione: la integra, la purifica, la eleva. In questo senso, la filosofia giamblichea è una filosofia “piena”, che non esclude il mito, il simbolo, il rito, ma li assume come forme necessarie della conoscenza di ciò che è oltre l’intelletto. L’unità del sapere e del sacro, del logos e del rito è, per il filosofo, la chiave per restituire alla filosofia la sua funzione originaria: non solo spiegare il mondo ma trasformare l’anima.
L’originalità di Giamblico si manifesta anche nelle numerose innovazioni teoriche che apporta alla tradizione neoplatonica. Tra queste, la distinzione fra il principio ineffabile e l’Uno, che consente di conservare la trascendenza assoluta del primo principio senza compromettere l’unità del sistema; l’introduzione delle enadi – unità derivate ma ancora superiori agli intelligibili – in modo da articolare meglio il rapporto tra molteplicità e unità. Altri punti salienti sono la distinzione tra il mondo intelligibile e quello intellettivo, il primo statico e perfetto, il secondo dinamico e creativo, e la reinterpretazione del male non come sostanza ma come παρυπόστασις, cioè come un’emanazione accidentale e deficitaria dell’essere. Tutte queste elaborazioni teoriche dimostrano che Giamblico non fu un semplice collettore o ripetitore delle dottrine precedenti ma un costruttore di sistemi, un filosofo nel senso pieno del termine, capace di ridefinire l’intero impianto neoplatonico in modo tale da renderlo fecondo per i secoli successivi.