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Intervento integrale di Riccardo Piroddi alla presentazione del romanzo di Raffaele Lauro, “Don Alfonso 1890 – Salvatore Di Giacomo e Sant’Agata sui Due Golfi”

 

Sant’Agata sui Due Golfi, 10 luglio 2017

 

Signore e Signori, buona sera!
Nel romanzo che stiamo presentando vi è una bellissima scena, ambientata nel medesimo luogo in cui ci troviamo adesso: proprio questa piazza. È il 13 giugno del 1952. In prima fila sono seduti don Alfonso Costanzo Iaccarino tra il figlio Luigi e la figlia Olga. Celebrano l’elezione di Luigi a sindaco di Massa Lubrense. Anche noi, stasera, siamo qui per celebrare. Innanzi tutto, l’autore di questo romanzo, “Don Alfonso 1890 – Salvatore Di Giacomo e Sant’Agata sui Due Golfi”, il prof. Lauro. Poi, un uomo speciale, Don Alfonso Costanzo Iaccarino e, con lui, la sua famiglia, che è anche la mia famiglia. Poi, il nipote di don Alfonso Costanzo, mio zio Alfonso, il quale, insieme con la moglie Livia e i figli Ernesto e Mario ha ereditato lo spirito del nonno portandolo ai livelli di eccellenza mondiale che tutti conosciamo. Infine, celebriamo un paese, il mio paese, Sant’Agata sui Due Golfi, tanto che un ulteriore sottotitolo di questo romanzo potrebbe essere, “una storia santagatese”, tanto importante è, nell’opera, questo paese. Prima di proseguire, permettetemi di pronunciare, brevemente, alcune espressioni di stima e di affetto, alle quali tengo tanto. Dovete sapere che fino a pochi minuti fa avevo un grande desiderio nella mia vita culturale: quello di poter partecipare alla presentazione di un libro che fosse moderata dal dottor Milone, la cui professionalità ha ben varcato le mura della città vaticana. Anche per questo motivo sono molto orgoglioso di essere qui stasera. Son riuscito a vedere esaudito questo desiderio e, da oggi, dovrò trovarne un altro. Certo, non sarà facile, ma ci proverò.
Signora Marcella, caro Fausto. La presenza di vostro marito e di tuo padre, non solo nel romanzo, la cui seconda parte è proprio un dialogo, immaginario, ma verosimile, tra Nello Lauro e zio Alfonso, qui, tra noi stasera, è chiara. Il mio affetto per il ricordo di Aniello Lauro, non avendo mai potuto frequentarlo di persona, è legato a due vicende della mia vita: la mia collaborazione con il prof. Lauro ha ai due poli proprio Aniello Lauro: cominciò, infatti, nel 2009, quando ero ancora a Londra, all’epoca in cui il prof. scriveva “Cossiga Suite”, il romanzo dedicato alla vita di suo fratello, e continua, anche se in modo diverso rispetto al passato, occupandomi io, oggi, a Roma, di editoria universitaria, sempre nel nome di Nello, con questo bel ricordo che il prof. ne fa nel romanzo. Voglio raccontarvi l’altro episodio, che rende bene l’idea di chi sia stato Nello Lauro, anche in rapporto all’amato fratello Raffaele. Nel 2010, a Roma, il presidente Cossiga, presente il prof. Lauro, mi disse: “Lo vede quest’uomo?”, indicando il prof. “Suo fratello è stato 10 volte più grande!”. Un’ultima espressione per una donna eccezionale: donna Violetta Elvin, che stasera onora tutti noi della sua presenza. Donna Violetta, oltre ad essere stata una ballerina di fama mondiale negli anni ’50, ha danzato al Teatro Bolshoi di Mosca e con il Royal Ballet di Londra, è anche la protagonista del penultimo romanzo del prof.: “Dance The Love – Una stella a Vico Equense”. Donna Violetta, avervi conosciuto è stato forse il momento più alto della mia collaborazione con il prof. Lauro. Poter dire di essere vostro amico, oltre che devoto ammiratore, mi riempie di gioia e di orgoglio!
Bene, mi avvio al mio intervento sul romanzo. In un primo momento avevo pensato di tenere un contributo sulla mia famiglia, parlarvi, cioè, della mia esperienza all’interno di questa famiglia, ma, poi, quando il prof. mi ha comunicato che tra i relatori ci sarebbe stato anche mio cugino Ernesto, ho preferito puntare su un altro argomento. Lui meglio di me può raccontarvi cosa significhi essere parte di questa famiglia, anche per il lavoro che svolge all’interno dell’azienda di famiglia. Tra l’altro, io, tra tutti i cugini carnali, sono l’unico che ha scelto una la carriera professionale in un settore del tutto differente. Per cui, questa sera, con riferimento al sottotitolo del romanzo che stiamo presentando, vi parlerò di Salvatore Di Giacomo, cercando, nella brevità che deve contraddistinguere questi interventi, di fornirvi alcuni ragguagli sulla poetica di questo grande autore napoletano, cosa che, vista la mia professione, mi è certamente più congeniale. La carriera letteraria di Salvatore Di Giacomo cominciò in modo del tutto casuale. Studente di Medicina, alla sua prima autopsia, alla vista del sangue e di membra umane riposte in un recipiente, svenne e capì che avrebbe fatto meglio a dedicarsi ad altro. L’esordio di Di Giacomo avvenne, giovane, su alcuni giornali napoletani. La Napoli di quell’epoca, quella dell’ultima parte dell’Ottocento, era una città culturalmente molto frizzante, certamente diversa dalla Napoli di cui, qualche decennio prima, si lamentava Giacomo Leopardi, definendola culturalmente arruffata. Napoli era piena di giornali e riviste, non soltanto il celeberrimo “Mattino”, fondato nel 1892, piena di circoli letterari, di caffè e di birrerie dove gli intellettuali discutevano, si confrontavano. Questo era il background nel quale Di Giacomo mosse i primi passi della sua carriera letteraria. Il “Corriere del Mattino”, diretto da Martino Cafiero, originario, tra l’altro, di Meta, poi “Pro Patria”, la “Gazzetta letteraria” e “Il Pungolo”. Fu cronista, nel 1884, della grande epidemia di colera che afflisse Napoli, scrivendo, poi, un’opera in versi dedicata a Bartolommeo Capasso, “’O funneco verde”. Furono gli anni in cui Di Giacomo fu a stretto contatto con la Napoli dei vicoli e dei bassi, tormentata e vera, diversa dalla sua Napoli di piccolo borghese, che registrò, fedelmente, sui taccuini e con la macchina fotografica, mai tralasciando la sensibilità di poeta. Muovendosi per le strade e nelle piazze, osservando tutto con curiosità, elaborò ritratti di Napoli e della sua plebe, un calderone di vita, di sofferenze e di personaggi, non sempre comprensibili, certamente autentici, specialmente nella loro gestualità, intuendone quella umanità e quella infelicità che si nascondevano dietro la facile e apparente gioia di vivere, ribaltando i cliché che pervadevano i giudizi di quanti si accostavano, superficialmente, alla realtà napoletana. E lo fanno ancora oggi.
Poi, l’esperienza a Piedigrotta, che gli permise di entrare nell’olimpo dei parolieri napoletani di tutti i tempi. La storia di Di Giacomo a Piedigrotta fu originata dal successo strepitoso, nell’edizione del 1881, della canzone “Funiculì funiculà”. L’anno successivo, infatti, il direttore de “Il Corriere del Mattino”, Martino Cafiero, invidioso del successo del collega Peppino Turco, autore del brano musicato da Luigi Denza, chiese sia a Di Giacomo che a Roberto Bracco, un altro grandissimo intellettuale napoletano, suoi collaboratori al giornale, di scrivere una canzone ciascuno, nel tentativo di riscuotere altrettanti consensi. Fu così che Di Giacomo compose “Nanni’”, musicata da Mario Costa. La canzone ebbe solo una discreta popolarità, ma avviò la proficua collaborazione tra il poeta e il musicista. Per la festa di Piedigrotta, Di Giacomo scrisse, fino al 1907, canzoni celeberrime, che raggiunsero i vertici della moderna canzone napoletana. Tra le canzoni digiacomiane più famose, “Nanni’”, “Era de maggio”, “Marechiaro”, “Oilì Oilà”, ed “’E spingule Francese”, Questa canzone, ispirata ad un antico canto popolare, valicò i confini nazionali, entrando persino nelle corti imperiali europee. Su richiesta dello stesso imperatore Guglielmo II di Germania, infatti, nel 1896, fu suonata in Piazza del Plebiscito, al posto della marcia d’ordinanza, durante una sfilata delle truppe italiane in suo onore.
Salvatore Di Giacomo, in tutta la sua opera, è riuscito ad esprimere il senso drammatico e gioioso insieme, che caratterizzava l’anima del popolo napoletano e le bellezze naturali della città partenopea. Era stato capace di raccogliere quei colori, quella musicalità e quella poesia, tipicamente napoletani, sui fogli di carta prima e, poi, musicati da compositori, negli spartiti musicali. Prostituzione, malavita, miseria, bassi, vicoli, umanità sofferente, umanità gioiosa, amore, passione, vi erano rappresentati con una vivacità quasi teatrale. Il sapiente uso del dialetto, così dolce e musicale, tuttavia, perfettamente vero e veridico, faceva di un raffinato intellettuale, un piccolo borghese che si calava nello spirito e nell’anima di un popolo e ne diventava cantore, con un realismo senza pari, esprimendo, nei versi, le sfumature e le sfaccettature peculiari di una plebaglia, di quel ventre di Napoli (Matilde Serao), che, così, acquistava dignità poetica. La grandezza e l’importanza dell’opera di Di Giacomo, rispetto al popolo napoletano, è stata duplice: da un lato, proprio per la sua condizione di piccolo borghese, stupiva la capacità descrittiva di un mondo che doveva, per nascita, per storia personale e per educazione, non appartenergli, ma che, evidentemente, sentiva visceralmente suo; dall’altro, il lascito poetico, divenuto lo specimen di quel mondo. Nessun altro aveva saputo, fino agli inizi del Novecento, diventare un così abile e mirabile testimone poetico del popolo napoletano.
La poetica di Di Giacomo risentiva certamente degli influssi del Verismo, il movimento letterario che, ispirandosi al Naturalismo francese, aveva pervaso la letteratura italiana nella seconda metà dell’Ottocento. Lo aveva, comunque, interpretato o, meglio, lo aveva adattato alla propria sensibilità, alla propria condizione e all’ambiente, nel quale si era trovato a vivere. Di Giacomo, infatti, rispetto a Giovanni Verga, il quale riproduceva la realtà in modo diretto, crudo, impersonale, tale da rendere i suoi personaggi protagonisti di storie volte a mostrare quadri di decadenza, di fallimento, di impotenza, nei confronti degli eventi, ancorché di passiva e fatale accettazione degli stessi, tratteggiava, quasi dipingeva i suoi personaggi e le loro storie, con la fresca aria del mattino, con i raggi tenui della luna, con una petrarchesca idealizzazione di tipi e di modi, che sembravano cristallizzati in una realtà fuori dal tempo, grazie all’uso del dialetto napoletano, dolce e raffinato, il cui impiego aveva lo scopo non della mera rappresentazione, quanto piuttosto del vero che diventa musica, timbro, colore e sensazione, alla maniera dei pittori impressionisti. Ecco perché io ritengo che Sant’Agata fosse scritta, già molto prima che lui vi soggiornasse, nel suo destino letterario. Quando arrivò qui per la prima volta, nel 1909, aveva già composto quanto lo rese famoso. Nel nostro paese scrisse molto poco, anche perché, soprattutto nell’ultima parte del soggiorno, la sua vita fu tormentata dalla malattia che, nel 1934, lo avrebbe condotto alla morte, dalle delusioni, tra cui la mancata nomina a Senatore del Regno, nonché le difficoltà economiche in cui versava. L’aria fresca che lui tanto amava, era quella che avrebbe trovato qui. Le cerase di “Era de maggio”, sono quelle che avrebbe mangiato qui, le donne, gli amici che cantava, sono quelli che avrebbe incontrato qui. Mi piace pensare che Di Giacomo avesse vissuto qui tutto ciò che aveva immaginato e composto prima di arrivarvi.
Voglio concludere con qualche accenno al rapporto di Di Giacomo con le donne le quali, per un poeta, rimangono sempre e comunque la somma fonte di ispirazione. Pur volendo attribuire una fortissima valenza al legame di Di Giacomo con la madre (si sarebbe sposato tardi, nel 1916, con la giovane Elisa Avigliano, dopo la morte della genitrice), non era divenuto così totalizzante nella sua visione della donna e nel suo rapporto con essa. Si poteva ipotizzare una incapacità, da parte del poeta, di sostituire, nel suo cuore, l’immagine della madre, con quella di un’altra donna, in grado di occupare un posto altrettanto importante. Con il rischio, tuttavia, di giudicare le donne cantate dal poeta nient’altro che la stessa rappresentazione, con caratteri diversi, della madre. Quelle donne, quindi, sarebbero state figure femminili fittizie, meri artifici della sua poesia. C’era anche chi, tra gli stessi amici e colleghi, leggeva la presenza delle donne, nell’opera digiacomiana, come strettamente collegata al suo concetto di amore. Le donne, in Di Giacomo, diventavano lo strumento con il quale il poeta offriva se stesso e i suoi sentimenti al mondo, rappresentando l’amore nei suoi molteplici aspetti, tutti umani. In questo caso, la stessa varietà delle figure femminili di Di Giacomo rifletteva l’umanità del suo sentimento amoroso, che si manifestava inquieto, instabile, dispettoso e a tratti doloroso. L’amore era intenso, malinconico e perduto nelle tante sfaccettature della vita quotidiana. Le donne e l’amore, in Di Giacomo, erano l’aspirazione alla personificazione, non cosciente, di un desiderio molto più complesso: ricercare e concentrare l’essenza dell’umanità. Quasi una galleria-museo, dove erano esposti i diversi quadri dell’amore, tutti rappresentati attraverso donne diverse, con storie diverse, con passioni diverse.
Come avrete certamente potuto capire, nonostante la brevità di queste mie riflessioni, Salvatore Di Giacomo è stato un grandissimo intellettuale e poeta. Un ulteriore orgoglio, per la nostra cittadina, è averlo avuto ospite qui e onorarlo, ogni anno, anche con l’omonimo premio, istituito quasi vent’anni fa da Donato Iaccarino. Grazie a tutti!

 

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Per ragioni di tempo, durante la presentazione, l’intervento risulta essere più breve e non aderente alla versione scritta.