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L’eco delle ombre

La melodia eterna di Jon Lord

 

(nell’anniversario della morte)

 

 

 

Jon Lord, tastierista dei leggendari Deep Purple, la cui presenza, a metà tra il mistico e l’eterno, si fondeva con le note pesanti e malinconiche del suo Hammond e creava un’aura che avvolgeva chiunque lo ascoltasse.
Con le dita che danzavano sulle tastiere come farfalle su fiori di mezzanotte, Lord evocava spiriti antichi e melodie dimenticate. Ogni tocco era un sussurro di storie mai raccontate, di amori perduti e sogni infranti. Era un mago del suono, capace di trasformare l’avorio freddo dei tasti in un canto caldo e avvolgente, che sembrava nascere dalle profondità della terra stessa.
Gli occhi di Jon, spesso nascosti dietro occhiali scuri, erano finestre su un’anima tormentata e ricca di introspezione. Portavano i segni di notti insonni passate a cercare la nota perfetta, la sinfonia sovrumana che avrebbe potuto dare voce al tumulto del suo cuore. E in quelle rare occasioni in cui lo sguardo emergeva, rivelava un mare di emozioni intense e inespresse, come un cielo notturno tempestato di stelle che brilla di una luce triste e misteriosa.


La sua musica, fusione di rock, blues e musica classica, era un viaggio attraverso i meandri più profondi dell’esistenza umana. Ogni accordo, ogni nota, era un frammento di un’anima che lottava per esprimere la bellezza nella sofferenza, la luce nell’oscurità. Ascoltare Jon Lord suonare era come camminare in un bosco autunnale, con le foglie che cadono silenziosamente intorno, portando con sé il profumo dolceamaro del passato e la promessa di un inverno inevitabile.
E ora, nel silenzio che segue la sua dipartita, resta solo l’eco delle sue note, che risuonano nel cuore di chi ha avuto il privilegio di ascoltarlo. Jon Lord, il tastierista dei Deep Purple, è diventato un’ombra musicale, un ricordo malinconico che fluttua tra i venti del tempo, sussurrando la sua eterna melodia a coloro che sanno ancora ascoltare con l’anima.

 

 

 

L’eco senza tempo di Casella

Un canto dantesco di amicizia e di bellezza

 

 

 

Tra i frammenti d’oro dell’eternità che si riverberano nel mondo dei fenomeni, vive un uomo la cui anima sapeva danzare sulle corde dell’amore e della poesia. Il suo nome era Casella, un musicista virtuoso, un cantore di versi sublimi, un artista la cui voce incantava i cuori e sollevava gli spiriti. Il dolce Casella, così Dante lo ricordava, colui che nelle note trovava il modo di parlare all’anima, colui che aveva il potere di trasformare le parole in melodie celestiali.
Nella Divina Commedia Dante ci dona un incontro struggente con Casella, un momento intriso di affetto e nostalgia. Nel canto II del Purgatorio, Dante, appena giunto sulle spiagge dell’isola del Purgatorio, incontra il suo caro amico. È un incontro tanto atteso, un riconoscimento immediato tra anime affini, tra chi condivideva non solo l’amicizia, ma anche l’amore per la bellezza e la verità.

Io vidi una di lor trarresi avante
per abbracciarmi, con sì grande affetto,
che mosse me a far lo somigliante.

Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.

Di maraviglia, credo, mi dipinsi;
per che l’ombra sorrise e si ritrasse,
e io, seguendo lei, oltre mi pinsi.

Soavemente disse ch’io posasse;
allor conobbi chi era, e pregai
che, per parlarmi, un poco s’arrestasse.

Rispuosemi: “Così com’io t’amai
nel mortal corpo, così t’amo sciolta:
però m’arresto; ma tu perché vai?”.

“Casella mio, per tornar altra volta
là dov’io son, fo io questo vïaggio”,
diss’io; “ma a te com’è tanta ora tolta?”.

Ed elli a me: “Nessun m’è fatto oltraggio,
se quei che leva quando e cui li piace,
più volte m’ ha negato esto passaggio;

ché di giusto voler lo suo si face:
veramente da tre mesi elli ha tolto
chi ha voluto intrar, con tutta pace.

Ond’io, ch’era ora a la marina vòlto
dove l’acqua di Tevero s’insala,
benignamente fu’ da lui ricolto.

A quella foce ha elli or dritta l’ala,
però che sempre quivi si ricoglie
qual verso Acheronte non si cala”.

(Purg., II, vv. 76-105)

Casella appare a Dante come un’anima gentile, in attesa di purificazione, eppure già avvolta da un’aura di serenità e dolcezza. Dante, col cuore traboccante di emozione, lo prega di cantare ancora una volta una delle sue melodie, quelle stesse melodie che una volta risuonavano nelle strade di Firenze, portando conforto e gioia. Casella, con la sua voce soave, intona un canto che sembra fatto di pura luce, una melodia che trasforma quel luogo di attesa in un anticipo di paradiso.
La canzone che Casella canta è “Amor che ne la mente mi ragiona”, un inno all’amore e alla bellezza, un’ode che risuona come un eco eterno nei cuori di chi ascolta. In quel momento, le anime che popolano le rive del Purgatorio si fermano, rapite dalla bellezza del canto, dimenticando per un attimo le loro pene e il loro cammino. È un istante di pura armonia, un riflesso dell’amore divino che permea ogni cosa.
L’incontro con Casella non è solo un momento di commozione per Dante, ma anche un simbolo di speranza e di redenzione. Casella, con la sua musica, rappresenta la possibilità di trovare la bellezza e la pace anche nel viaggio dell’anima verso la purificazione. È un richiamo alla potenza dell’arte, alla capacità della musica di elevare lo spirito e di avvicinare l’uomo al divino.
Così, Casella vive ancora nei versi di Dante, come un’ombra luminosa che continua a cantare, portando con sé il profumo di un’amicizia eterna e il dolce suono di una melodia che sfida il tempo e lo spazio. E in ogni nota, in ogni parola cantata, risuona l’eco di un’anima che ha trovato nella musica la strada per l’eternità.

 

 

 

La poetica della luna: Giacomo Leopardi e Lucio Dalla

 

 

 

Giacomo Leopardi e Lucio Dalla. Un poeta-filosofo e un cantautore. Cosa possono avere mai in comune? Lo scoprirete presto! Voglio, però, condurvici pian piano, cominciando da un elemento naturale, visibile, di notte, da qualche parte nel cielo: la luna. La luna ha eccitato la fantasia dei poeti sin dalla notte dei tempi. Gli antichi greci la deificarono, arrivando a conferirle una triplice personificazione: Proserpina, moglie di Ade e regina degli Inferi (simbolo della luna calante); Artemide, dea della caccia (simbolo della luna crescente), e Selene, la luna propriamente detta (la luna piena). Anche Dante Alighieri cedette al fascino di questa triplice personificazione e, nel canto X dell’Inferno, ai versi 79-81, mise in bocca a Farinata degli Uberti, fiero capo ghibellino, una profezia post eventum, scritta, cioè, quando gli eventi predetti erano già accaduti: “Ma non cinquanta volte fia raccesa/ la faccia de la donna che qui regge/ che tu saprai quanto quell’arte pesa”. Dante si riferiva proprio alla luna (Proserpina, la donna che qui regge, in una commistione tra mitologia classica, dottrina cristiana e astronomia medievale), e le cinquanta volte in cui si sarebbe “riaccesa” rappresentavano i cinquanta mesi mancanti alla sua condanna all’esilio. Più vicino a noi, come non citare i tenerissimi versi di uno dei miei migliori conterranei: il principe De Curtis, Totò, il quale, nella poesia “A cunsegna”, esplora il topos poetico della luna quale benevola protettrice degli innamorati: “’A sera quanno ‘o sole se nne trase/ e dà ‘a cunzegna a luna p’ ‘a nuttata/ lle dice dinto ‘a recchia: I’ vaco ‘a casa:/ t’arraccumanno tutt’ ‘e nnammurate”. La luna, quindi, è il trait d’union tra i due protagonisti di questo mio breve scritto.

 

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Nonostante tutto ciò, mi si potrebbe obiettare: “Cosa c’entra uno dei più grandi, se non il più grande poeta italiano con Lucio Dalla, un cantante, seppure famoso? Cosa possono avere in comune un uomo che, a 10 anni, aveva una cultura vasta quanto quella di un paio di centenari messi insieme con un personaggio che ha giusto terminato le scuole medie? Cosa c’entra, dunque, Giacomo Leopardi con Lucio Dalla? Posso assicurarvi che hanno molti punti in comune e cercherò, qui, di esporveli nel modo più breve ma più esauriente possibile. Il materialismo del pensiero marxista, dal punto di vista filosofico-letterario (ciò, in Italia, è avvenuto soprattutto grazie all’opera di Antonio Gramsci), ha avuto il merito di permettere ai critici di concentrarsi su problematiche, relative agli autori, non soltanto di poetica ma anche, e soprattutto, di vita reale, materiale. Ecco perché, allora, gli elementi biografici di un autore assumono una importanza fondamentale nel tentativo di imagesricostruire e motivare l’arte dello stesso. Detto questo, andiamo ad analizzare cosa successe nelle vite di questi due personaggi, Leopardi e Dalla, in quella fase delle loro vite dove, per usare una felice espressione, andò in scena, per entrambi, il “preludio del genio”. Giacomo Leopardi, il conte Giacomo Taldegardo Leopardi (immagine a destra), nacque a Recanati, il 28 giugno 1798. Era figlio di genitori molto particolari. Il padre Monaldo, nobile, intellettuale, era il responsabile del dissesto economico familiare. Un uomo che viveva con la testa tra le nuvole, o, meglio, tra i libri, e incapace ad amministrare i beni di famiglia, terreni, fattorie, campi. Fu scrittore anch’egli, eclissato, ovviamente, dalla fama del figlio. Fu lui ad istillare nel piccolo Giacomo l’amore per le lettere. Aveva una biblioteca prodigiosa, visitabile, ancora oggi, a Recanati. Era un brav’uomo, a modo suo affettuoso con i dieci figli, ma, ripeto, totalmente incapace nella gestione degli affari di famiglia. La madre, Adelaide dei marchesi Antici, fu l’amministratrice economica della casa, riuscendo anche ad assestare il patrimonio, a prezzo di grandi sacrifici. Una donna dura, che non mostrava affetto, arida, molto religiosa, ai limiti della superstizione. Una figura, quindi, tutt’altro che materna. Il rapporto di Leopardi con la madre è, ancora oggi, oggetto di studio. Vi è un solo luogo nella sua opera, nelle Operette morali, in cui il poeta identifica la cattiva Natura con la madre, ma è comunque troppo poco per ritenere che sia l’interpretazione preponderante del suo rapporto con donna Adelaide. Lucio Dalla nacque a Bologna, il 4 marzo 1943. Il padre, Giuseppe, era un commesso viaggiatore, poco impegnato nel suo lavoro, quanto piuttosto nelle sue passioni, la caccia e la pesca. Un bell’uomo, alto e prestante. Morì di tumore quando Lucio aveva solo 6 anni. Il dolore di quella perdita avrebbe accompagnato il cantante per tutta la vita, influenzandone anche la poetica. La madre, Iole, era una sarta, una donna energica e risoluta, che dovette farsi carico dell’educazione del figlio e della sua crescita, in una Italia che usciva devastata dalla guerra. Una figura fondamentale nella vita di Lucio. La balena bianca, come è stata spesso chiamata. Giacomo Leopardi trascorse l’infanzia e la prima giovinezza nel palazzo di famiglia a Recanati, più propriamente, nella biblioteca del palazzo, in lunghissime ore di studio. A quindici anni già conosceva il latino, il greco, l’ebraico, l’inglese e il francese. Componeva trattati di astronomia e di chimica. Era già un vero e proprio erudito. Aveva mostrato, quindi, a quell’età, le caratteristiche del genio letterario che lo avrebbero consacrato alla fama immortale. Lucio Dalla (immagine a sinistra) ebbe, in sua madre, il vero incentivo della sua carriera d’artista. La donna lo faceva esibire prima delle sfilate di moda che teneva d’estate, a Manfredonia, dove si recava per vendere i capi delle sue collezioni. A dieci anni, Lucio era un animale da palcoscenico. Ci sono delle bellissime fotografie nel libro di Angelo Riccardi, “Ti racconto Lucio Dalla” (2014), che lo ritraggono con gli abiti di scena. Fa tenerezza. Era davvero un bel bimbo, disinvolto, sicuro di sé. Gli insuccessi scolastici, l’abbandono della scuola al quinto ginnasio e l’amore per la musica, per quel clarinetto, che gli era stato regalato da un amico di famiglia, il forsennato studio dello strumento, da autodidatta, e l’arrivo a Roma, lo proiettarono nel mondo della musica, grazie anche alla protezione di Gino Paoli. Questi, infatti, gli aveva consigliato di affrancarsi da I Flippers e di intraprendere la carriera solista. Appare chiaro, quindi, come entrambi, sin dall’infanzia, manifestassero quelle qualità che, poi, avrebbero sublimato nelle proprie creazioni artistiche. Vi ho già detto della luna. La poetica di Leopardi e di Dalla è una poetica naturalistica, in cui con gli elementi della natura è costante. Sono riuscito a contare almeno cinquanta occasioni in cui, nelle canzoni di Dalla, compaia la luna. Di meno nelle poesie e prose di Leopardi. Questo dialogo dei due, però, si compie in modi differenti. Dalla vi dialoga come un innamorato che si rivolge al garante del suo amore per la natura. Nella poetica dalliana la luce della luna illumina l’esistenza notturna degli uomini, nella notte della vita, quando le cose non appaiono ben chiare e definite nei loro contorni. La luna di Dalla ha anche una funzione salvifica e apotropaica. Pensate ai versi di Caruso: “Ma quando vide la luna uscire da una nuvola/ gli sembrò più dolce anche la morte”. In Leopardi, invece, le invocazioni alla luna sono disperate richieste di aiuto contro una Natura che il poeta giudica essenzialmente maligna e dannosa per gli uomini. Sono grida infelici di una grande mente che si sforza di ricercare qualche positività in un sistema di elementi che lui giudica pernicioso per l’uomo. Questa concezione viene fuori, principalmente, nel Canto notturno di un pastore errante per l’Asia e in Alla luna, opere al cui dialogo con l’astro l’autore affida lo svelamento delle proprie concezioni filosoficheScreen-shot-2011-10-22-at-1.26.05-AM-425x450 sulla natura, sulla vita e sulla condizione degli uomini. Un altro elemento che accomuna i due autori, è un concetto di derivazione classica: il binomio Eros-Thanatos, Amore e Morte. Esso sottintende al capolavoro di Dalla, Caruso, perché ha attraversato anche la sua vita. Lucio si è portato dietro, per sempre, il ricordo della tragica fine del padre e, altre volte nella vita, ha perso persone a lui care. Questi sentimenti sono presenti nella sua canzone più celebre. Il grande tenore Enrico Caruso, nell’ora della morte, è innamorato della fanciulla sorrentina, alla quale sta dando lezioni di canto. L’amore, Eros, nell’ora della Morte, Thanatos, la rende più dolce, in un binomio indissolubile. “Amore e morte”, invece, è il titolo di un canto di Leopardi, scritto all’epoca dello sfortunato amore per Fanny Targioni Tozzetti, per cui, certamente risente della delusione per la mancata corrispondenza amorosa. Anche per Leopardi, Amore e Morte rappresentano un binomio indissolubile: “Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte/ ingenerò la sorte”, recita il citato canto. Nella concezione leopardiana, tipicamente estremista, la morte non è soltanto un male a cui bisogna rassegnarsi, ma, vista in contrapposizione con il dolore, la malattia e le pene dell’esistenza, assume connotazioni positive, come una sorta di miglioramento rispetto allo stato abituale dell’uomo, una liberazione dai laceranti dolori dell’animo. La morte è un punto di arrivo, una soluzione finale, una meta verso cui tendere, un traguardo indolore e quieto, che rappresenta la fine di ogni tormento. Un ultimo, importante legame, che accomuna questi due personaggi straordinari: l’amore per Napoli. Quello di Lucio Dalla per Napoli, per Sorrento e per il Sud Italia, come è ormai noto, grazie anche alle recenti pubblicazioni di Raffaele Lauro (“Caruso The Song – Lucio Dalla e Sorrento”, 2015, “Lucio Dalla e San Martino Valle Caudina – Negli occhi e nel cuore”, 2016, e “Lucio Dalla e Sorrento Tour – Le tappe, le immagini e le testimonianze”, 2016), è stato un amore fatto di rapporti sinceri con le persone, di lunghe frequentazioni, Veduta-di-Napoli-e-del-Vesuvio-420di curiosità per gli aspetti della vita delle genti del Sud. Lucio era interessato alla vita del Sud. Aveva dei taccuini neri sui quali annotava sempre tutto. Era un curioso come il don Ferrante de I promessi sposi. Anche Leopardi amò Napoli, seppure di un amore bisbetico e insofferente, per un ambiente, soprattutto intellettuale, che considerava alquanto arruffato. Leopardi morì a Napoli, a 39 anni, più precisamente, a Villa delle Ginestre, a Torre del Greco, ospite del fidato amico Antonio Ranieri. A Napoli è, ancora oggi, la sua tomba. In quella villa aveva composto il suo testamento spirituale, quella La ginestra, che nel 2014, è stata protagonista della scena di chiusura del film di Mario Martone, Il giovane favoloso, dedicato proprio alla breve esistenza del poeta di Recanati. L’attore Elio Germano, che interpreta Leopardi, ne recita alcuni versi, mentre il Vesuvio, lo “sterminator Vesevo”, erutta. Pochi giorni prima di morire, a Torre, Leopardi aveva composto Il tramonto della Luna. Ancora una volta, la luna.

 

 

 

Gary Brooker, in loving memory

 

 

 

Quando penso a Gary Brooker (oggi avrebbe compiuto 79 anni), mi tornano in mente le note di A Whiter Shade of Pale diffuse nell’aria come un sussurro di tempi lontani. Era il 1967, un’epoca di rivoluzione culturale e musicale, e lui, con la sua voce unica e il suo tocco inconfondibile al piano, riuscì a catturare l’essenza di quell’era in una canzone.
Brooker non è stato solo un cantante e un pianista straordinario; è stato un narratore musicale, capace di trasportare gli ascoltatori in mondi di emozioni profonde. La sua carriera con i Procol Harum ha segnato un capitolo imprescindibile nella storia del rock. Con album come Shine on Brightly e Grand Hotel, ha dimostrato una versatilità e una profondità che pochi artisti riescono a raggiungere. La sua capacità di fondere elementi di musica classica con il rock è stata rivoluzionaria, creando un sound unico e inconfondibile.
La tecnica musicale di Brooker era altrettanto straordinaria. Al piano, le sue dita danzavano con grazia e precisione, creando melodie complesse e suggestive. Non si trattava solo di abilità tecnica; ogni nota sembrava portare con sé un pezzo della sua anima. La sua formazione classica si fondeva armoniosamente con le influenze del blues e del rock, dando vita a brani che sono vere e proprie opere d’arte.


Lo stile di Brooker era intriso di una dolce malinconia, un sentimento che traspariva in ogni esibizione. La sua voce, profonda e vellutata, era capace di trasmettere un ventaglio di emozioni, dalla gioia alla tristezza, con una sincerità disarmante. Ascoltandolo, era impossibile non essere toccati dalla sua musica, che sembrava parlare direttamente al cuore.
Anche se Gary Brooker, due anni fa, ci ha lasciati, la sua musica continua a vivere, un ricordo soave e nostalgico di un artista che ha saputo catturare l’essenza dell’anima umana. Ogni volta che ascoltiamo una delle sue canzoni è come se lui ci prendesse per mano e ci portasse in un viaggio attraverso i ricordi, le emozioni e i sogni.
Gary Brooker non era solo un musicista; era un poeta sonoro, un artista che ha saputo trasformare le note in emozioni palpabili. Il suo lascito musicale seguiterà a risuonare nei cuori di chi lo ha amato e di chi continuerà a scoprirlo, un testamento eterno del potere della musica.

P.s.: quando toccherà a me, è sulle note della sua A Whiter Shade of Pale che vorrò essere salutato!

 

 

 

 

La nascita della tragedia dallo spirito della musica
di Friedrich Wilhelm Nietzsche

Ombra e luce tra estasi e verità

 

 

 

Nelle spire avvolgenti di La nascita della tragedia (1872), Friedrich Nietzsche intreccia un manifesto di visioni estatiche e riflessioni profonde, dove filosofia e letteratura danzano in un abbraccio inestricabile. Il testo, opera prima di un giovane Nietzsche ancora influenzato dall’ellissi di Schopenhauer e dal dramma musicale di Wagner, si configura come una meditazione ardente sulla musica, sulla tragedia greca e sulla capacità dell’arte di svelare e, allo stesso tempo, velare la crudele verità dell’esistenza.
Al centro della riflessione nietzschiana giace il contrasto eterno tra il principio apollineo e quello dionisiaco. Apollo, dio della luce, dell’ordine e della forma, rappresenta la bellezza estetica, il confine che disciplina il caos. Dioniso, al contrario, incarna l’estasi, l’irrazionale, l’ebbrezza che dissolve ogni frontiera, celebrando l’unità primordiale dell’individuo con la natura attraverso il rito del vino e del sacrificio.
Nella filosofia di Friedrich Nietzsche, esposta con particolare forza anche in quest’opera, i concetti di apollineo e dionisiaco rappresentano due forze opposte ma complementari, che definiscono l’essenza dell’arte, della cultura e dell’esistenza umana. Il filosofo utilizza questi archetipi per esplorare le dinamiche profonde dell’arte tragica, ma anche per riflettere su questioni più ampie relative alla condizione umana.
Il principio apollineo rappresenta il desiderio di ordine, armonia e bellezza. Apollo è il protettore delle arti visive e della profezia, simbolo di controllo e di misura. Nell’estetica nietzschiana questo principio si manifesta nel bisogno di struttura, nella chiarezza delle forme e nella coerenza dell’illusione. L’apollineo è associato al mondo dei sogni, dove ogni immagine è definita e ogni contorno chiaro; è un regno in cui il caos viene controllato attraverso la creazione di forme riconoscibili e la delineazione di limiti.
Nel contesto della tragedia greca, l’apollineo si riflette nella maschera del tragico, che serve a creare una distanza tra l’attore e il personaggio, permettendo agli spettatori di sperimentare la catarsi in modo sicuro, senza essere sopraffatti dall’immediatezza delle emozioni rappresentate.
In contrasto, il principio dionisiaco incarna la perdita dell’individuazione, l’ebbrezza e la fusione con la natura e con gli altri esseri umani. Dioniso è il dio del vino, dell’intossicazione e del rilascio delle inibizioni sociali. In termini nietzschiani, Dioniso rappresenta l’energia vitale irrazionale e caotica che sottende all’esistenza, il desiderio di unione mistica e di dissoluzione dei confini tra il sé e l’altro.

Nel teatro tragico, il coro dionisiaco agisce come la voce collettiva della comunità, esprimendo le verità profonde e universali per mezzo del canto e della danza. È attraverso Dioniso che il teatro diventa uno spazio di identificazione comunitaria, dove gli spettatori si confrontano con le forze primordiali della natura e della psiche umana.
Nietzsche sostiene che l’arte raggiunga il suo apice quando questi due principi sono in equilibrio. La tragedia greca, infatti, combinava l’ordine e la forma dell’apollineo con l’estasi e l’abbandono del dionisiaco. Tale fusione permetteva agli spettatori di guardare direttamente nel cuore del dolore e della sofferenza umana (un territorio dionisiaco), ma attraverso una struttura formale e distanziante (apollinea) che rendeva l’esperienza sopportabile e, infine, catartica.


Quest’interazione tra forma e frenesia, tra sogno e distruzione, non è solo centrale nell’arte ma è un’immagine potente per comprendere i conflitti interni e sociali dell’esistenza umana. Nietzsche vede in questo equilibrio una forza motrice della cultura e un necessario contrappeso alle tendenze unilaterali che possono portare sia all’anedonia che alla dissoluzione.
L’apollineo e il dionisiaco non sono solo categorie estetiche ma anche filosofiche, che offrono una lente attraverso cui Nietzsche interpreta il mondo. La loro danza eterna è un simbolo della tensione incessante tra ordine e caos, tra la razionalità dell’individuo e l’irrazionalità dell’esistenza collettiva.
In una prosa che sfiora il lirismo, Nietzsche esplora come la tragedia greca abbia saputo fondere questi due impulsi apparentemente opposti, creando un’arte capace di sopportare lo sguardo nel terrore della vita, senza tuttavia soccombere sotto il suo peso. Il coro tragico, dunque, si rivela non solo come spettatore ma come partecipe e testimone della sofferenza umana, elevando l’individuo dalla mera angheria del destino alla sublime accettazione del dolore.
Nel descrivere l’evoluzione e il declino della tragedia greca, Nietzsche lancia una critica appassionata contro il razionalismo di Socrate, che con il suo encomio della dialettica avrebbe corrotto e infine soffocato lo spirito dionisiaco della tragedia. Con Socrate inizia l’epoca della “teoreticità”, in cui il pensiero prevale sul sentire, e il principio dionisiaco è messo a tacere.
In La nascita della tragedia, Nietzsche non solo formula una teoria estetica, ma anche una visione del mondo in cui l’arte diviene un cruciale campo di battaglia tra il caos delle passioni umane e l’ordine imposto dal pensiero. Questo testo rappresenta un invito a riscoprire il potere salvifico dell’arte, capace di riconciliare l’umano con il divino, l’effimero con l’eterno, il dolore con la bellezza.
Così, attraverso questo viaggio tra le rovine e i fasti del mondo greco, Nietzsche ci invita a guardare in faccia il nostro abisso, con la speranza, forse, di trovare in quel buio una stella danzante. La sua prosa, vibrante di pathos e di una quasi musicalità, lascia un’impronta indelebile nella storia del pensiero, un canto tragico che risuona attraverso i secoli, sfidando il tempo e la dimenticanza.

 

 

 

La vera storia di “Wonderful tonight“:
Eric Clapton e Pattie Boyd

 

 

 

Patricia Anne Boyd, chiamata Pattie, aveva 35 anni quando, nel 1979, sposò Eric Clapton. qLo aveva conosciuto all’epoca in cui era stata sposata con un’altra leggenda della musica contemporanea: George Harrison, il chitarrista dei Beatles, di cui Clapton era grande amico. Per lei, George (foto a sinistra) aveva scritto quella dolcissima canzone, che Frank Sinatra definì la più bella canzone d’amore mai scritta: Something. Nonostante questo, nonostante fossero “la coppia perfetta”, giovani, belli, ricchi e famosi, quasi personaggi di un romanzo di Francis Scott Fitzgerald, il loro matrimonio finì nel 1974. Eric Clapton era innamorato di Pattie già dalla fine degli anni ’60, ma ella era già sposata. L’unica cosa che il grande chitarrista poté fare, fu confidarle il suo amore, attraverso un’altra bellissima canzone, Layla. Quando Pattie capì che era dedicata a lei, trasalì. “Sei pazzo? Io sono sposata con George!”. Gli disse. Lui, allora, tirò fuori una bustina dalla tasca e gliela mostrò: “Se non fuggi con me, io prendo questa”. “Che cos’è?”. “Eroina”. “Non fare lo stupido!”. “No, è proprio così, è finita!”.  Per tre anni Clapton scese all’inferno ma vi risalì quando Pattie, finalmente, dopo aver divorziato da Harrison, decise di vivere con lui. La sera del 7 settembre 1976, Pattie ed Eric (foto a destra) stavano per andare alla festa che Paul e Linda McCartney tenevano annualmente in onore di Buddy Holly. “Non avevo ancora deciso cosa indossare. Eric era già pronto da molto e mi aspettava pazientemente, giocherellando con la sua chitarra. Come era dolce, almeno in quei primi tempi! Quando, finalmente, io fui pronta e scesi, gli chiesi: Do I look all right? e lui, invece di rispondere suonò quello che aveva appena composto,: It’s late in the evening/ she’s wondering what clothes to wear/ She puts on her makeup/ and brushes her long blonde hair/ And then she asks me/ Do I look all right?/ And I say, yes, you look wonderful tonight(ascolta). Anche questa “magia”, tuttavia, sarebbe finita, come spesso accade alle celebrità. La “Bellissima stasera” non avrebbe infiammato più il cuore di Clapton. qPattie ed Eric divorziarono quando le avventure amorose di Slowhand divennero troppo frequenti. I due figli del chitarrista, di nati al di fuori del matrimonio, di cui uno, Conor, avuto dalla soubrette italiana Lori Del Santo, morto tragicamente cadendo da un grattacielo newyorkese, a soli quattro anni, furono per lei qualcosa di insuperabile. Nella sua autobiografia, intitolata Wonderful today e pubblicata nel 2007, Pattie Boyd scrive a proposito della canzone: “Per anni mi ha fatto piangere. Wonderful tonight è il più commovente ricordo di ciò che di buono c’era nella nostra relazione. Quando le cose tra noi iniziarono ad andare male era una tortura ascoltarla“.

 

Pubblicato il 4 agosto 2011 su www.caravella.eu

 
 

Perchè De Andrè è sempre attuale? L’incontro tra Medioevo e Novecento

 

di

Maria Geraci

 

Riconosciuto per le sue idee anarchiche e la sua abilità con le parole, Fabrizio De André ha riscosso il suo successo a partire dagli anni Settanta, spaziando dal Medioevo al presente. Dall’animo inquieto e introverso ha lasciato un segno nella musica italiana sia come artista che come persona, combattendo battaglie politiche e sociali con i suoi versi…

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Come mi vuoi

 

 

 

Era il 1989. Avevo poco più di undici anni. Nella Panda rossa di mia madre risuonava quella musicassetta, compilation dell’edizione del Festival di Sanremo di quell’anno. Questa canzone di Eduardo De Crescenzo era una di quelle inclusevi. Una delle più belle poesie d’amore che io abbia mai letto e certamente una delle cose che avrei voluto scrivere io stesso, forse molto più di alcuni bei versi di Guido Cavalcanti o Jacques Prévert o anche di certe potenti pagine di Roberto Calasso o Giorgio Agamben. Sono passati circa trent’anni da quei momenti nella Panda di mia madre, quando le parole di questa canzone cominciavano a connaturarsi in me.
Come mi vuoi? Ho ripensato spesso, negli anni, a tutto ciò. Distratto, un po’ incosciente, banale ma divertente, strano, disonesto, anche un po’ maldestro, sereno, intelligente, magari un po’ insolente, libero, egoista o bravo equilibrista, e tanto altro. Come mi vuoi? Non so se sia facile capire come mi vuoi. Posso fare tutto, inventare un trucco, comprare le tue idee, anche senza avere il resto. Come mi vuoi? Non lo so, davvero non lo so! So soltanto che lo trovo, lo trovo, vedrai se ci provo. Dev’esserci un modo per giungere a te…
Perbacco! Dev’esserci un modo. E io lo trovo!

Come mi vuoi
Eduardo De Crescenzo

 

Eduardo De Crescenzo

“The End”: I Doors, il rock e la tragedia greca

 

di

Andrea Arrigo

 

Nell’estate del 1966 Jim Morrison diede vita ad una delle canzoni più controverse della storia del rock, “The End”. Questo monumentale brano dalla durata di ben undici minuti, segna l’inizio di una nuova era e di un modo assolutamente innovativo di esibirsi. Il capolavoro del Re Lucertola ha un luogo di nascita ben preciso: il “Whisky a Go Go”, storico locale notturno di West Hollywood famoso per essere stato luogo di passaggio e trampolino di lancio per moltissime rock band degli anni sessanta. La bozza iniziale della canzone…

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The Doors