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Il Fedro di Platone

L’anima ricorda e vola

 

 

 

Il Fedro, dialogo sublime di Platone, presumibilmente composto nel 370 a.C., si erge come una maestosa colonna nell’atrio del tempio della filosofia antica, intrecciando, con sapiente ardire, pensiero filosofico, religioso e mitologico. Tra le sue pagine, come in un giardino di allori divini, si passeggia fra discorsi sull’amore, sulla conoscenza e sull’arte retorica.
Platone vi dipana la trama dell’eros, il desiderio d’amore che muove l’anima verso il bello assoluto. Con slancio poetico, il filosofo eleva questo sentimento dal terreno fisico a quello delle Idee pure, dove l’amore si trasfigura in veicolo di ascensione filosofica. Questa visione è intimamente connessa alla teoria platonica delle Idee, secondo cui la conoscenza vera si raggiunge contemplando tali forme pure, accessibili solamente attraverso un processo di reminiscenza intellettuale. Questo processo, tema caro alla dottrina platonica, qui si colora di toni mistici: il ricordo delle verità eterne diventa un rito di passaggio, una rinascita dello spirito che ascende al cielo delle idee immutabili e può essere interpretato anche come un ritorno all’origine divina dell’anima, una sorta di pellegrinaggio spirituale verso la purificazione e l’illuminazione.
Il dialogo insinua l’idea che l’anima umana possa essere migliorata e redenta attraverso il potere dell’eros filosofico, che spinge l’individuo a una comprensione più profonda della realtà e della propria natura spirituale. Questo processo di ascesa è intricatamente legato al concetto di dialettica, un metodo di questionamento e argomentazione che Socrate, personaggio del dialogo, utilizza per guidare il suo interlocutore verso la verità, innalzando l’intelletto di questi dalla conoscenza sensibile a quella intellegibile.
Il Fedro è impregnato anche di riferimenti e simbolismi religiosi, che richiamano le credenze e le pratiche cultuali dell’antica Grecia. La preghiera iniziale a Pan e alle Naiadi serve sì da omaggio formale alle divinità, ma stabilisce altresì un contesto in cui il discorso può essere visto come un’offerta spirituale. Inoltre, il concetto di anima che Platone sviluppa riflette la visione religiosa greca dell’immortalità e della metempsicosi, ovvero la trasmigrazione delle anime.
Il mito della biga alata è forse l’immagine più potente e incisiva del dialogo. Questa allegoria riferisce di un auriga divino che guida due cavalli: uno nobile e l’altro ribelle, simbolo del conflitto interno tra ragione e desiderio, mentre l’auriga rappresenta l’elemento spirituale, il logistikon, che deve controllare i cavalli per mantenere la biga sulla giusta strada verso il cielo delle Idee, l’Iperuranio. La narrazione incanta per la sua vivida carica immaginifica e si spinge oltre, fungendo da metafora del viaggio dell’anima verso la conoscenza e la divinità. Il mito, così, non è semplice racconto ma epifania filosofica, che svela l’incessante lotta dell’essere per raggiungere l’armonia celeste. Tale mito sottolinea anche la tensione tra il destino divino dell’anima e le sue inclinazioni terrene. La biga alata, infatti, simboleggia il viaggio ascensionale dell’anima verso il divino, sforzandosi di superare l’attrazione gravitazionale delle passioni basse per ritornare alla sfera delle forme pure.


Nel Fedro, Platone non esplora solo tematiche filosofiche e mitologiche profonde, ma si immerge anche nella natura e nel valore dell’arte retorica. Attraverso il dialogo tra Socrate e Fedro, il filosofo ateniese critica le pratiche retoriche a lui coeve, spesso vuote e manipolative, proponendo un modello di retorica basato sulla verità e sulla giusta conoscenza. Due concetti fondamentali in questo contesto sono la synopsis e la dihairesis, ovvero la visione d’insieme e l’arte di dividere correttamente i concetti.
La synopsis rappresenta la capacità di vedere l’argomento nella sua interezza, di comprendere il quadro generale prima di procedere con un’analisi dettagliata. Per Platone è essenziale, perché permette all’oratore di non perdere di vista il contesto più ampio in cui si inserisce il discorso. Una vera comprensione degli argomenti richiede una visione olistica che colleghi le parti al tutto, assicurando che ogni pezzo del discorso sia allineato con il principio guida o la verità fondamentale che si vuol comunicare. La synopsis aiuta a evitare manipolazioni e sofismi, promuovendo una retorica persuasiva, eticamente fondata e intellettualmente rigorosa. La diairesis, invece, è il processo di suddivisione accurata di un argomento in categorie e sottocategorie, che permette di trattare ogni parte con precisione e dettaglio. Questa tecnica è cruciale per affrontare qualsiasi tema complesso, poiché organizza il materiale in modo che ogni elemento sia esaminato secondo criteri chiari e razionali. Nel dialogo, Platone usa la diairesis per distinguere tra diverse forme di amore, evidenziando come una vera comprensione dell’eros non possa prescindere dalla capacità di discernere i suoi aspetti nobili da quelli bassi. Analogamente, una retorica efficace deve poter identificare e isolare i diversi aspetti di un argomento per trattarli con la specificità che meritano. La combinazione di synopsis e diairesis forma la base di ciò che Platone considera l’arte della vera retorica: una disciplina che persuade, educa e migliora chi ascolta. Tale approccio eleva la retorica da semplice tecnica di persuasione a strumento di verità e giustizia, facendo dell’oratore non un mero istigatore, ma un maestro, un guidatore di anime. In questo modo, la retorica acquisisce un valore etico ed epistemologico: da arte di parlare bene, ad arte di pensare e agire correttamente.
Il Fedro, velo iridescente di parole e concetti, dove il filosofico, il religioso e il mitico danzano in un balletto celestiale, non è solo un trattato sull’amore o un manuale di retorica, ma un viaggio dell’anima che, tra le spirali dell’ascensione spirituale e i vortici del discorso logico, cerca di raggiungere la verità ultima. Lettura indispensabile per chi anela a comprendere non solo Platone ma la natura stessa del pensiero umano, rimane una stella polare nel firmamento della letteratura filosofica, guidando gli “astronauti del pensiero” attraverso i cieli tumultuosi della vita verso ciò che è al di là del cielo, l’Iperuranio della saggezza eterna.

 

 

 

La filosofia inglese e le sue leggi “concrete”

 

Perché gli inglesi hanno dominato il mondo per almeno quattro secoli

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Gli inglesi, per quel che concerne la storia del pensiero, si sono distinti dagli altri popoli europei, antichi e moderni, a causa di quella impronta, ad essi del tutto peculiare, tendenzialmente antimetafisica ed essenzialmente pragmatica. A scorrere rapidamente quella storia, infatti, ciò può essere facilmente notato: quando il Medioevo volgeva ormai al termine, mentre nelle scuole del resto d’Europa i dotti erano ancora impelagati nelle dispute scolastiche sulle prove dell’esistenza di Dio, sugli universali, sulla Trinità e sui quodlibeta, Roger Bacon, filosofo, scienziato e mago, il doctor mirabilis (dottore dei miracoli), fondava la gnoseologia empirica, secondo la quale l’esperienza sia il vero e unico mezzo per acquisire conoscenza del mondo. Tre erano, secondo il filosofo, i modi con cui l’uomo potesse comprendere la verità: con la conoscenza interna, data da Dio tramite l’illuminazione; con la ragione, la quale, però, non è bastevole, e, infine, con l’esperienza sensibile, ovvero tramite i cinque sensi, il non plus ultra di cui esso possa disporre e che gli consente di avvicinarsi alla reale conoscenza delle cose. Il frate francescano William of Ockham, il doctor invincibilis (dottore invincibile), con il suo famosissimo rasoio, semplificò al massimo la spiegazione dei fenomeni, mostrando l’inutilità di moltiplicare le cause e di introdurre enti al di là della fisica: “Frustra fit per plura, quod fieri potest per pauciora” (è inutile fare con più, ciò che si può fare con meno). Francis Bacon, il filosofo dell’adagio “Sapere è potere”, padre della rivoluzione scientifica e del metodo scientifico nell’osservazione e nello studio dei fenomeni attraverso l’induzione, meglio definita e rinnovata rispetto a quella aristotelica, fu avversatore dei pregiudizi, da lui chiamati idola (idoli o immagini), che impedivano la reale conoscenza e intelligenza della natura, e fu ispiratore di un’altra grande mente inglese, Isaac Newton, lo scienziato-osservatore empirico per eccellenza. Thomas Hobbes diede spiegazione a tutti gli aspetti della realtà col suo materialismo meccanicistico, annullando la res cogitans (sostanza pensante) di Cartesio e il suo ambiguo rapporto con la res extensa (sostanza materiale), retroterra sul quale basò la sua concezione della natura umana, della condizione di guerra di tutti contro tutti (l’homo homini lupus), del patto di unione e del patto di società, dai quali sarebbero poi nati, rispettivamente, la civiltà e, attraverso la rinuncia da parte di ogni uomo al suo diritto su tutto e la cessione di questo al sovrano, lo Stato, il Leviathan (Leviatano). John Locke, l’empirista, l’autore di An essay concerning human under standing (Saggio sull’intelletto umano), sosteneva che tutta la conoscenza umana derivasse dai sensi. Indagò le idee e i processi conoscitivi della mente, criticando l’innatismo cartesiano e leibniziano e, tra l’altro, fu strenuo propugnatore del liberalismo politico e della tolleranza religiosa. David Hume, l’estremo dell’empirismo inglese, asseriva, come Locke, che la conoscenza non fosse innata, ma scaturisse dall’esperienza. Egli negò sia la sostanza materiale che quella spirituale, tutto riducendo a sensazione e stato di coscienza. Demolì il concetto di causa, ritenendolo mero costume della mente, suscitato dall’abitudine, e postulò, quali conoscenze universali e necessarie, soltanto quelle della geometria, dell’algebra e dell’aritmetica. Adam Smith, filosofo ed economista, teorizzò l’idea che la concorrenza tra vari produttori e consumatori avrebbe generato la migliore distribuzione possibile di beni e servizi, poiché avrebbe incoraggiato gli individui a specializzarsi e migliorare il loro capitale, in modo da produrre più valore con lo stesso lavoro. E, infine, l’Utilitarismo di Jeremy Bentham e John Stuart Mill prima, con tutte le implicazioni morali (o moralmente inglesi), legate ai concetti di “utile” e di “felicità“, e quello di Henry Sidgwick, poi, col suo edonismo etico, mediante il quale aggiunse importanti precisazioni ai concetti dell’utilitarismo classico. Queste riflessioni filosofiche hanno certo corrispettivo pratico allorquando si osservano attentamente tutte le sfaccettature dell’English way of life e dei princìpi che, ancora oggi, lo animano. Il motivo per cui gli inglesi, fino a circa settant’anni fa, hanno realmente dominato il mondo (basti pensare al British Empire e al Commonwealth), ha le proprie basi nel pragmatismo che, dal 1200 in poi, ha caratterizzato le sue classi intellettuali e, di riflesso, quelle deputate all’azione. Un popolo non condizionato dalla religione, come lo sono stati, dal Medioevo alle soglie dell’età contemporanea, la maggior parte dei Paesi cattolici europei, libero di sottomettere altre genti, che non ha combattuto in nome di Dio ma degli uomini, era destinato ad avere il ruolo che ha avuto e che ancora ha. Del resto, negli stessi anni in cui un bardo venuto dalle Midlands incantava gli spettatori del Globe Theatre a Londra, mettendo in scena l’amore tra Romeo e Giulietta, la filosofia dell’essere e del non essere e la gelosia di Otello, la regina Elisabetta I nominava baronetto il più astuto e lesto pirata della storia: sir Francis Drake!

 

Sir Francis Bacon (1561-1626)

 

Pubblicato l’1 aprile 2017 su La Lumaca

 

Utopia di Thomas More

L’isola che non c’è

 

 

 

Utopia, pubblicata nel 1516 da Thomas More, è un’opera che non solo ha introdotto un nuovo genere letterario, quello della letteratura utopica, ma ha anche offerto uno spaccato profondo delle tensioni politiche e filosofiche del Cinquecento inglese ed europeo. Attraverso la descrizione di un’isola immaginaria e della sua società ideale, More esplora temi di giustizia sociale, organizzazione politica e morale individuale.
L’Autore scrive Utopia nel contesto dell’Inghilterra del XVI secolo, un periodo di grandi cambiamenti e di instabilità politica. L’Europa è attraversata dalle prime ondate di Riforma protestante e dalla dissoluzione dei monopoli ecclesiastici, mentre i regni si trovano a navigare le complesse dinamiche del capitalismo nascente. In questo quadro, More, uomo di legge e Lord Cancelliere sotto Enrico VIII, propone un modello di convivenza che critica tanto le monarchie assolute quanto le tensioni economiche prodotte dall’emergente mercantilismo.
Il libro è diviso in due parti: la prima contiene una critica pungente delle politiche europee dell’epoca, specialmente quelle inglesi, mentre la seconda descrive l’isola di Utopia. Questa divisione riflette la doppia visione di More che, da un lato, denuncia le ingiustizie del suo tempo e, dall’altro, propone un modello alternativo basato su principi di equità e comunanza delle risorse.
Utopia è rappresentata come una società che ha abolito la proprietà privata, dove i beni sono condivisi e l’avidità è vista come un vizio non solo morale ma anche sociale. Il lavoro è obbligatorio per tutti, garantendo che nessuno possa accumulare ricchezze a discapito di altri. More introduce anche un sistema educativo avanzato e inclusivo, mirato al miglioramento morale oltre che intellettuale.
L’opera è ricca di implicazioni filosofiche che non solo delineano una critica sociale, ma invitano anche a un esame delle basi etiche e dei principi su cui si potrebbe costruire una società ideale.
La nozione di bene comune è centrale in Utopia. More immagina una società dove la proprietà privata non esista; tutti i beni sono di proprietà comune e gestiti dallo Stato. Ciò elimina non solo la povertà, ma anche l’invidia e il crimine che, secondo l’Autore, sono spesso prodotti dalla disuguaglianza economica. Questa visione utopica riflette influenze platoniche, in particolare l’idea della proprietà comune tra i guardiani nel dialogo Repubblica. More utilizza questo modello per criticare le ingiustizie del capitalismo nascente, proponendo un’alternativa radicale che oggi potremmo associare al comunismo utopico.


Il lavoro, poi, è obbligatorio per tutti i cittadini e si basa su un’etica che valorizza il contributo individuale al bene comune. Questo non solo assicura che ogni individuo contribuisca alla società, ma promuove anche un senso di solidarietà e cooperazione. L’obbligo di lavorare riduce la dipendenza da servitù o schiavitù, concetti molto presenti nell’Europa del XVI secolo. La visione di More sul lavoro come dovere sociale e fonte di realizzazione individuale anticipa discussioni moderne sull’etica del lavoro e sul suo ruolo nell’autorealizzazione.
L’approccio di More alla legalità è notevolmente progressista. Le leggi sono poche e semplici, progettate per essere facilmente comprensibili da tutti i cittadini, evitando così la corruzione e l’abuso di potere, che spesso accompagnano sistemi legali complessi e arcuati. Inoltre, il sistema giuridico di Utopia è orientato più alla prevenzione del crimine e alla rieducazione del criminale che non al suo semplice castigo. Questa visione riformista della legge come strumento di giustizia sociale riflette le idee dell’Autore sulla moralità applicata alla legislazione, dove le pene severe sono rare e considerate contrarie all’etica della rieducazione.
More, inoltre, propone un modello di tolleranza religiosa che è eccezionale per il suo tempo. L’isola accoglie una varietà di credenze religiose e i conflitti teologici sono risolti attraverso il dialogo e la persuasione piuttosto che la coercizione. Questo pluralismo non solo critica la tendenza dell’Europa coeva di risolvere le differenze religiose attraverso la violenza, ma propone anche un modello di coesistenza pacifica che prefigura le moderne società laiche.
Le proposte di More, pertanto, sebbene idealizzate, fungono da critica alle strutture di potere del suo tempo e offrono spunti ancora rilevanti per le discussioni contemporanee su come costruire società più giuste e equilibrate. Utopia, quindi, non è solo un’opera di critica sociale, ma un manifesto filosofico che interroga i fondamenti stessi della società umana. Sebbene l’isola di Utopia possa apparire come un’ideale irraggiungibile, le questioni che solleva sono di straordinaria attualità. L’opera invita a un esame critico delle strutture di potere e delle disuguaglianze, mostrando come la letteratura possa fungere da catalizzatore per il cambiamento sociale e culturale. La visione di More non offre solo una fuga dall’iniquità, ma una mappa per una rifondazione della società basata su principi di equità e giustizia condivisa.

 

 

 

 

Principi della filosofia dell’avvenire di Ludwig Feuerbach

L’uomo crea Dio

 

 

 

Nella potente orditura della storia della filosofia, Ludwig Feuerbach, con Principi della filosofia dell’avvenire, pubblicato nel 1843, intesse una esaltazione dell’umanesimo e una critica acuta dell’idealismo hegeliano. Il testo, come una fiaccola, illumina il cammino verso una comprensione più terrena dell’esistenza umana. Feuerbach, con le sue parole che diventano pennelli, dipinge un quadro dove l’essenza dell’uomo non è astrazione, ma carne, sangue e ossa, intrisi di desideri e di realtà. Quest’opera costituisce una svolta significativa nel pensiero moderno, marcando una transizione dall’idealismo verso una visione più antropocentrica e materialista dell’esistenza.
Feuerbach si propone, innanzi tutto, di rovesciare le vedute tradizionali dell’idealismo, dove le idee sono sovrane, per ricondurre la filosofia ai sentieri terreni dell’essere umano concreto. Prende le mosse criticando l’idealismo hegeliano, secondo cui la realtà è essenzialmente spirituale e la storia umana è il dispiegarsi dell’idea assoluta. Contrariamente a Hegel, sostiene che il punto di partenza della filosofia non debba essere l’Idea o lo Spirito, ma l’uomo materiale e la sua esperienza sensibile. Questo approccio materialista mette in luce come la realtà degli esseri umani sia radicata nelle loro condizioni fisiche e sociali, piuttosto che in una qualche realtà astratta e ideale. Postula che “l’uomo è ciò che mangia”, non solo in senso fisico ma anche intellettuale, ponendo le basi per un materialismo sensibile, che individua nella realtà materiale e nelle relazioni umane la vera essenza della vita. Attraverso questo prisma, esplora l’alienazione religiosa, mostrando come l’ideale divino sia in realtà un riflesso amplificato delle virtù umane, una proiezione delle nostre migliori qualità su uno schermo celestiale.
Tra i contributi più rivoluzionari di Feuerbach alla filosofia della religione è la tesi secondo cui “la teologia è in realtà antropologia”. Il filosofo argomenta che Dio è un’invenzione umana, un ideale proiettato che incarna le qualità e gli attributi più elevati dell’uomo. Le qualità divine – onniscienza, onnipotenza e moralità perfetta – sono aspirazioni umane proiettate in cielo. In questo senso, studiare Dio è studiare l’uomo; comprendere le religioni significa intendere come gli esseri umani idealizzano e esternalizzano le loro virtù e speranze più profonde.
Il pensatore estende la sua critica anche alla religione, evidenziando come essa alieni gli esseri umani dalle loro capacità e potenzialità. Secondo Feuerbach, infatti, quando le persone attribuiscono le proprie qualità migliori a una divinità esterna si privano della capacità di realizzare il proprio potenziale. La fede in Dio, perciò, diventa un meccanismo per l’autoalienazione: gli individui non solo perdono la proprietà delle loro virtù, ma diventano anche dipendenti da un’autorità esterna per il senso della loro vita e della loro moralità.


Il corollario della critica di Feuerbach alla religione è il suo appello a un nuovo umanesimo. Egli vede la necessità di riconoscere pienamente l’umanità dell’uomo e di celebrare le sue capacità reali, piuttosto che idealizzarle in forme divine. Questo umanesimo materialista ridefinisce la posizione dell’uomo nel mondo e promuove l’istituzione di una società in cui l’individuo sia valorizzato non per la sua aderenza a ideali spirituali, quanto per la sua capacità di vivere pienamente e creativamente nel mondo materiale.
Storicamente, Feuerbach si situa in un crocevia critico, in quel dopo Hegel che vide la filosofia tedesca dividersi in correnti contrapposte. La sua critica dell’idealismo non era soltanto un dibattito accademico, ma un intervento urgente nelle questioni socio-politiche della sua era. In un tempo di rivoluzioni e di grandi turbamenti sociali, il filosofo chiamava l’uomo a riconoscere la propria responsabilità e il proprio potere, liberandolo dall’oppressione delle illusioni ideologiche e spingendolo verso l’autocoscienza.
Come un poeta della prosa, Feuerbach intreccia nelle pagine del suo libro una narrazione che è al tempo stesso rigorosa e ricca di invenzione. Le sue teorie non sono fredde disquisizioni, ma ardenti appelli al cuore dell’uomo, inviti a riscoprire la gioia e il dolore del puro essere. In questo, Feuerbach è quasi romantico, poiché eleva l’esperienza sensoriale a strumento di conoscenza, un canto d’amore verso l’umanità stessa.
In Principi della filosofia dell’avvenire, l’Autore sfida il lettore a pensare e a sentirsi vissuto. Ogni pagina costituisce un passo verso la liberazione dall’autorità soffocante delle idee disincarnate, un percorso verso un’avvenire dove l’essenza dell’uomo è finalmente celebrata non nei cieli, ma sulla terra, tra la gente. Con questo lavoro, Feuerbach si conferma un filosofo dell’umanità, un poeta della umana ricerca di significato, un bardo che canta l’epopea dell’esistenza umana contro il coro delle astrazioni. Nel suo richiamo a una filosofia nuova, risiedono un manifesto e una promessa: quella di un avvenire in cui l’uomo, pienamente riconosciuto e valorizzato, possa finalmente trovare la sua dimensione.
Feuerbach, pertanto, in questo suo testo offre una visione radicale e profondamente trasformativa della filosofia e della religione. Il suo invito è a un rinnovamento della filosofia che ponga l’essere umano e la sua esperienza al centro dell’indagine filosofica, liberandolo dalle catene delle ipotesi ideologiche e religiose e aprendo la via a una comprensione più completa e emancipata della sua esistenza.

 

 

 

Aspetta che arrivi il mio corpo per farti donna.
Aspetta che arrivi il mio dio per farti madre!

 

 

 

Desidero invitarvi a una riflessione, un po’ lunga ma valevole, spero, di lettura. Mi sono sempre accostato ai racconti della Bibbia, Vecchio e Nuovo Testamento, col medesimo distacco e la stessa curiosità intellettuale che manifesto verso altre “mitologie”, da quella greca a quella cinese, da quella egizia a quella degli indiani d’America. Nello specifico della “mitologia” cristiana”, è chiaro come l’impianto dottrinale del Cristianesimo, così come stabilito dai Padri della Chiesa, Agostino in primis, ma anche Origene, Ireneo e altri, sia essenzialmente platonico-neoplatonico. Chi si intende anche poco di filosofia sa esattamente di cosa parlo. Un esempio su tutti: il dogma della Trinità cristiana (Padre, Figlio e Spirito Santo) altro non è che la teoria delle tre ipostasi (Uno, Intelletto e Anima) di Plotino e potrei continuare così con altri esempi.
C’è un “racconto” nella religione cristiana che mi affascina, che amo, come amo il mito di Orfeo ed Euridice o le narrazioni della dea egizia Hathor: quello della madonna. Mi affascina e lo amo perché vi vedo la più meravigliosa celebrazione della donna e della donna-madre che sia mai stata elaborata nella storia del pensiero umano. Dal concepimento per intervento divino, e non per lo sfregamento del budello maschile (aspetta che arrivi il mio corpo per farti donna, aspetta che arrivi il mio dio per farti madre), fino all’assunzione in cielo, che la eleva al di sopra di tutte le creature viventi. La madonna, una donna “mortale”, che partorisce il dio che ha creato il mondo e anche lei medesima (Dante lo ha espresso benissimo: “tu sei colei che l’umana natura/ nobilitasti sì, che il suo fattore/ non disdegnò di farsi sua fattura”, Par. XXXIII, 4-6). La “mitologia” cristiana, attraverso la madonna, ha così reso poesia ciò che nella realtà pochissimi maschi riescono a comprendere e, ancor peggio, ahimè, molte donne stesse non ne sono capaci.
Ho sempre sostenuto e scritto che ogni donna sia il mondo e che nel cuore di ciascuna vi sia la storia del mondo. La donna-madre, invece, è l’Universo, è la Dea sive Natura. Credo fermamente nel principio femminile di creazione della realtà, che vogliate chiamarlo Dea-madre, femminino sacro, matriarcato, eccetera.
Cos’è una divinità creatrice se non la donna che partorisce la realtà così come partorisce un figlio? Quale occasione ha il maschio di prendere parte alla creazione, divenendo dio egli stesso, se non nell’atto sessuale del concepimento? Il sesso è lo spirito della divinità che si umanizza materializzandosi. Afrodite Pandemia per il maschio, Afrodite Urania è la donna, per dirla con Platone.
La donna-madre rende tutto un unicum, ecco perché il mio appellativo di derivazione spinoziana Dea sive Natura, Dea che è la Natura, il Mondo, l’Universo creato.
La donna-madre deifica il maschio, deifica la creatura che partorisce, deifica l’esistente.
Alla fine, c’è chi crede in dio, nel dio dei preti. Lasciate, dunque, che io creda in questa donna, che, forse, esiste soltanto nella mia mente e nel mio desiderio!

 

 

 

 

Monadologia di Gottfried Wilhelm Leibniz

Monade, uno e tutto

 

 

 

 

Pagina manoscritta di Leibniz

Monadologia, scritta nel 1714 e pubblicata postuma nel 1720, è certamente l’opera filosofica più influente di Gottfried Wilhelm Leibniz, filosofo, matematico e scienziato tedesco. Si colloca nel contesto del razionalismo del XVII secolo, un periodo in cui la filosofia e la scienza tentavano di spiegare l’universo anche attraverso il principio di ragion sufficiente e l’uso della logica e della matematica.
Monadologia presenta una metafisica molto originale, con l’introduzione del concetto di monade, entità semplice e indivisibile, che costituisce tutto l’esistente. Ogni monade è una sostanza semplice, senza parti, che esiste indipendentemente da altre monadi. Nonostante, quindi, l’indipendenza e isolamento metafisico, ciascuna monade riflette l’intero universo, in un modo unico alla propria prospettiva particolare. Ciò implica che le monadi non possano influenzarsi fisicamente l’una con l’altra, poiché sono sincronizzate in una maniera non causale, attraverso l’armonia prestabilita da Dio.
Leibniz distingue diversi tipi di monadi, classificandole in base alle loro capacità percettive e cognitive. Questa differenziazione è fondamentale per comprendere come il filosofo concepisca l’organizzazione gerarchica del cosmo, dalla materia inanimata alle anime umane e agli angeli. Le monadi entelechiali o semplici sono quelle più basiche e rudimentali. Caratterizzate da percezioni molto confuse, che non permettono una consapevolezza distinta o riflessiva, sono associate alle entità inanimate, come le pietre e i minerali, e sono poste al livello più basso della scala ontologica, la pura esistenza potenziale o “entelechia” in forma basilare. Le monadi animate o anime possiedono percezioni più chiare e distinte rispetto a quelle entelechiali. Non solo percepiscono, ma sono anche capaci di memoria, il che permette loro una forma minima di consapevolezza temporale. Le monadi animate corrispondono agli animali e differiscono dalle semplici monadi entelechiali per la loro capacità di rispondere in modo più complesso agli stimoli esterni. Le monadi razionali o spiriti, invece, si collocano al livello più elevato nella gerarchia e sono associate agli esseri umani e agli spiriti puri, come gli angeli. Queste monadi non solo hanno percezioni chiare e distinte, ma possiedono anche la ragione, la capacità di riflettere su se stesse e di riconoscere le verità etiche e universali. Queste facoltà permettono alle monadi razionali di essere consapevoli delle leggi immutabili dell’universo e di comprendere il proprio posto nel grande ordine delle cose. La monade suprema, Dio, possiede una infinita capacità di percezione e il potere di prevedere tutti gli eventi dell’universo. Dio differisce da tutte le altre monadi in quanto è l’origine dell’armonia prestabilita, coordinando le relazioni tra tutte le monadi senza alcuna interazione causale diretta tra loro. La monade divina è causa ultima e spiegazione di tutto ciò che esiste, mantenendo il cosmo in un ordine perfetto e razionale.
Ciascuna monade è poi caratterizzata da due qualità principali: percezione e appetizione. La percezione è la rappresentazione interna dello stato dell’universo che ogni monade contiene; l’appetizione è la forza che spinge ogni monade a passare da una percezione all’altra, guidando il suo sviluppo e la sua evoluzione. Le monadi cambiano i loro stati interni non a causa di interazioni esterne, ma a causa dei principi interni che guidano la loro evoluzione.

Questa gerarchizzazione delle monadi consente a Leibniz di spiegare sia la varietà dell’esistenza che l’unità dell’universo. Attraverso questa struttura, egli propone un modello organico dove ogni livello di esistenza contribuisce all’intero, in un modo che riflette la perfezione e la saggezza divine. Le diverse capacità delle monadi, dalla semplice percezione alla piena razionalità, mostrano come l’universo di Leibniz sia profondamente interconnesso e finalizzato, con ogni monade che gioca il suo ruolo specifico all’interno dell’armonia generale.
Uno degli aspetti centrali della filosofia di Leibniz è il principio di ragione sufficiente, secondo cui nulla accade senza una causa o una spiegazione. Tale principio è strettamente legato al cosiddetto ottimismo leibniziano, espresso nella famosa affermazione, “viviamo nel migliore dei mondi possibili”. Il filosofo, infatti, sostiene che, data la sapienza e la bontà di Dio, il mondo esistente sia il migliore che potesse creare, nonostante la presenza del male e del dolore.
Monadologia si può dividere in tre sezioni principali: Principi metafisici generali; Natura e qualità delle monadi; Dio e l’ordine dell’universo, strutturate in una serie di brevi paragrafi, ciascuno dei quali sviluppa un aspetto del sistema filosofico leibniziano. Il filosofo comincia delineando i postulati fondamentali della sua filosofia, l’esistenza delle monadi e il principio di ragione sufficiente. La seconda sezione dettaglia la natura interna delle monadi, il loro funzionamento e come queste riproducano l’universo. La terza esplica il ruolo di Dio quale monade suprema, che contiene le ragioni ultime di tutte le cose e ha creato e organizzato l’universo. Nella parte finale, approfondisce come la sua teoria delle monadi influenzi la comprensione dell’etica, del destino dell’anima umana e la giustizia divina.
La struttura di Monadologia riflette l’intento dell’Autore di offrire una visione coerente e compatta del cosmo. Il suo sistema filosofico risponde alle domande metafisiche sulla natura della realtà, offrendo anche una base per affrontare questioni di etica e teologia in modo razionale e ottimista. La visione di un universo ordinato e determinato da una divinità benevola fornisce una giustificazione filosofica per l’accettazione del destino e per l’impegno nel perseguire il bene, in accordo con l’ordine divino.
Monadologia ha avuto un impatto significativo sulla filosofia e su altre discipline quali la teologia, la scienza e la matematica. Quest’opera di Leibniz rimane una delle più profonde e complesse del periodo moderno. La capacità di sintetizzare questioni di metafisica, teologia ed etica sotto un unico sistema coesivo dimostra la genialità del filosofo e il suo duraturo impatto sullo sviluppo del pensiero occidentale. Attraverso la sua lettura, ci si trova di fronte a una visione del mondo che sfida la comprensione della realtà e del posto dell’uomo in essa, rendendola lezione essenziale per chiunque sia interessato alla filosofia e alla sua storia.

 

 

 

 

De rerum natura di Tito Lucrezio Caro

Il canto libero della natura

 

 

 

De rerum natura, composto da Tito Lucrezio Caro nel I secolo a.C. e riscoperto nella biblioteca dell’abbazia di San Gallo, in Svizzera, dall’umanista Poggio Bracciolini nel 1417, è un poema che si districa attraverso le volute del pensiero e, con tocco di sublime eloquenza, nell’abbraccio avvolgente dei versi del poeta, custode di una saggezza antica, illumina le profondità oscure della natura e della condizione umana, svelando i segreti dell’universo.
Il testo si rifà alla forma prosastica e al pensiero filosofico di Epicuro, seguendo la struttura del suo trattato Περὶ φύσεως (Sulla natura). Diviso in tre diadi di due libri ciascuna, conta complessivamente 7415 versi.
Nel primo libro, Lucrezio principia con un inno a Venere, simbolo della forza generatrice della natura, avviando, poi, l’esposizione delle teorie fisiche di Epicuro. Discute la natura e il comportamento degli atomi, l’assenza di un fine ultimo nel movimento atomistico e la critica all’idea di un creatore divino, introducendo il concetto di clinamen, o deviazione spontanea degli atomi, meccanismo che permette la libertà nell’universo deterministico. Il secondo libro approfondisce la teoria atomistica, descrivendo come gli atomi formino tutto ciò che si vede e si percepisce, illustrando altresì la varietà infinita delle forme della materia attraverso le combinazioni e le configurazioni degli atomi. Inoltre, mostra la struttura del cosmo, presentando l’universo come infinito ed eterno, tesi che nega la possibilità di un creatore e di un disegno cosmico. Il terzo libro è incentrato sull’anima, materialmente costituita da atomi particolarmente fini, e sulla morte. Lucrezio utilizza assunti della fisica epicurea per argomentare che l’anima è mortale e si dissolve con il corpo, tentando, così, di liberare l’umanità dalla paura della morte, che è parte naturale dell’esistenza. Nel quarto libro, esamina la percezione sensoriale e la mente, seguitando con il tema della materialità dell’esistenza ed esponendo come gli atomi siano responsabili delle sensazioni, dei pensieri e delle operazioni dell’intelletto, dimostrando, in tal modo, come si percepisca il mondo attraverso i sensi e come l’illusione e l’errore possano derivare da interpretazioni errate delle sensazioni. Il quinto libro tratta delle origini e della formazione del mondo e di vari fenomeni naturali, quali le stagioni e i cicli celesti. Il poeta propone spiegazioni naturalistiche di fenomeni spesso attribuiti all’intervento divino, promuovendo l’idea che la natura operi attraverso processi che possono essere compresi razionalmente e osservati, senza il ricorso a miti o divinità. L’ultimo libro, il sesto, presenta varie calamità naturali (fulmini, terremoti ed epidemie) e indaga le cause e gli effetti di malattie e altri disastri naturali. Nonostante il tema a tratti oscuro, l’Autore mantiene la sua prospettiva secondo cui comprendere la natura sia essenziale per liberare l’uomo dalla paura dell’ignoto e dalle superstizioni.


In ogni libro, Lucrezio non si limita a un’esposizione secca di teorie, ma le intreccia con riflessioni sulla condizione umana, profonde osservazioni sulla natura e un appello appassionato alla liberazione intellettuale e spirituale. Nelle sue linee metriche tesse il pensiero di Epicuro con una maestria che trasforma la filosofia in poesia. L’opera costituisce un viaggio attraverso l’atomismo, dove gli atomi, eterni e indivisibili, danzano nel vuoto, creando mondi e distruggendoli, senza mai un disegno divino a guidarli. Lucrezio insegna il primato della ragione e l’importanza dell’osservazione empirica, svelando che la paura e l’ignoranza siano i veri tremendi legacci dell’anima umana.

Con ardore quasi eretico sfida le convenzioni religiose del suo tempo, negando il ruolo degli dèi nella vita dell’uomo. Gli dèi esistono, ammette, ma vivono in una beatitudine distaccata, non curanti del destino umano. Questa visione è una liberazione dalla paura del divino e un invito a vivere una vita basata sulla ricerca della felicità, lontana dal terrore superstizioso degl’inferi. La religione, secondo Lucrezio, troppo spesso incatena l’uomo a timori infondati, mentre la vera beatitudine si raggiunge attraverso l’atarassia, la serenità dell’animo libero da turbamenti.
Epicuro, maestro di saggezza, è presentato come l’architetto di un giardino in cui il piacere, inteso come assenza di dolore, è il fine ultimo della vita. Lucrezio, con passione filosofica, dipinge il ritratto di una vita dedicata alla ricerca di una felicità tranquilla, lontana dagli affanni e dalle ambizioni materiali, che troppo spesso affliggono l’anima. Il poema è un inno alla mortalità, un promemoria che la morte non è da temere, poiché quando siamo, la morte non è, e quando la morte sarà, noi non saremo.
De rerum natura è un’opera che, con profonda reverenza poetica e una lucida critica filosofica, invita a riconsiderare l’esistenza umana. Lucrezio, con la guida di Epicuro, svela un universo governato da leggi naturali, dove la felicità per gli uomini, liberi dal giogo degli dèi e dalle catene dell’ignoranza, è possibile hic et nunc. In De rerum natura la natura stessa si fa tempio e il pensiero umano altare su cui offrire il sacrificio della superstizione, bruciando l’incenso della ragione.

 

 

 

 

La Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino

Dio, il mondo e l’uomo

 

 

 

 

La Summa Theologiae, composta da Tommaso d’Aquino tra il 1265 e il 1274, è senza dubbio uno dei capolavori più influenti della filosofia e della teologia medievale. Quest’opera monumentale, infatti, riflette la profondità del pensiero del suo autore e la complessità delle questioni filosofiche e religiose del Medioevo.
Tommaso d’Aquino, teologo e filosofo dell’Ordine Domenicano, intraprende la stesura della Summa con l’intento di creare un compendio teologico che fosse educativo ed esaustivo per quanti cercassero risposte alle questioni della fede e dell’esistenza. L’opera è divisa in tre parti principali, che trattano di Dio, della creazione e della cristologia; della natura umana, della morale e della legge; e, infine, dei sacramenti e dell’escatologia.

Prima Parte: Dio e la creazione
Questa parte della Summa, contenente 119 questioni, si concentra sulla natura e gli attributi di Dio, sulla creazione del mondo e sulla natura degli angeli. Approfondisce l’esistenza e la natura di Dio attraverso le famose cinque vie per provarne l’esistenza, argomentazioni filosofiche che deducono l’esistenza di Dio contemplando aspetti del mondo naturale come il movimento, le cause, la necessità, i gradi di perfezione e l’ordine del mondo. La prima via è costituita dal cosiddetto “motore immobile”, di palese derivazione aristotelica. Tommaso osserva che tutto nel mondo naturale è in movimento, il che implica una progressione di movimenti o cambiamenti e che ogni movimento dev’essere causato da un altro movimento o motore. Tuttavia, per evitare un regresso all’infinito, deve esserci un “primo motore” non mosso da null’altro. Questo primo motore è Dio. La seconda via riguarda le cause efficienti. In natura, c’è un ordine di cause efficienti (le cause che innescano un evento). Analogamente al primo argomento, non è possibile procedere all’infinito in questa catena di cause, perché non ci sarebbe una causa prima. Pertanto, deve esistere una prima causa efficiente, Dio. La terza via sonda l’esistenza di cose possibili, che possono esistere e non esistere. Tutto ciò che è possibile ha un tempo in cui non esiste. Se tutto fosse possibile, ci sarebbe stato un tempo in cui nulla esisteva, ma se questo fosse vero, nulla potrebbe esistere ora, perché ciò che non esiste non può causare l’esistenza di sé stesso o di qualcos’altro. Quindi, deve esistere qualcosa di necessario, esistente per sua natura e non per causa di altro, Dio. La quarta via si fonda sui gradi di perfezione osservati nelle cose. Le cose nel mondo possono essere più o meno buone, vere, nobili, eccetera. Questi gradi presuppongono l’esistenza di un massimo, il culmine di tutte queste proprietà, che è “il più vero”, “il più buono” e così via. Questo massimo in ogni genere deve essere la causa di tutte queste perfezioni e, quindi, Dio. La quinta via deriva dall’ordine naturale del mondo, dove tutto agisce secondo una legge e un ordine, anche gli enti privi di conoscenza come i corpi naturali. Quest’ordine non può essere dovuto al caso, ma deve essere diretto da qualcosa dotato di conoscenza e intelligenza, un essere intelligente che guida tutte le cose al loro fine, Dio. Tommaso tratta poi la dottrina della Trinità, spiegandone il mistero attraverso l’uso della ragione umana fino ai limiti consentiti dalla teologia. Infine, discute della creazione, incluso il ruolo degli angeli, e della distinzione tra essenze ed esistenze nelle creature.

Seconda Parte: Etica e umanità
Questa parte è suddivisa in due sezioni (Prima Secundae e Secunda Secundae), in cui sono esposti, rispettivamente, i principi generali della morale e le virtù specifiche. Presenta, in totale, 303 questioni. La Prima Secundae indaga l’ultimo fine dell’uomo, gli atti umani, le passioni, le abitudini, le virtù e i vizi e la legge. Uno dei concetti chiave è quello della legge naturale, che postula l’esistenza di una legge morale universale basata sulla natura e la ragione. La Secunda Secundae esamina le virtù teologali (fede, speranza, carità), le virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza) e i doni dello Spirito Santo. Ogni virtù è approfondita dettagliatamente in una serie di questioni che ne indagano la natura, l’importanza e le implicazioni pratiche.

Terza Parte: Cristo e i sacramenti
La terza parte, comprendente 90 questioni e incompleta a causa della morte dell’Autore, è stata parzialmente compilata dai suoi studenti e da altri teologi medievali. Si concentra sulla vita e la missione di Cristo e sui sacramenti della Chiesa. Tratta della natura e del ruolo di Cristo, mediatore tra Dio e l’umanità, e della sua incarnazione, vita, atti e sacrificio salvifico. Vaglia poi la natura, il numero, gli effetti e i particolari di ciascuno dei sacramenti, con peculiare attenzione all’Eucaristia, intesa quale sacramento che delinea il culmine dell’intervento salvifico di Dio nell’umanità.

Ogni questione nella Summa si apre con una serie di obiezioni, che sollevano dubbi o quesiti riguardo all’argomento trattato, seguite da un “sed contra”, che offre un’antitesi basata sulla Scrittura o sull’autorità dei Padri della Chiesa, a cui Tommaso risponde con la “Respondeo”, esponendo la sua visione, seguita da repliche alle obiezioni iniziali. Questa struttura metodica facilita la comprensione degli argomenti, permettendo un dialogo costante tra differenti punti di vista.
Il contributo filosofico della Summa Theologiae è immenso. Tommaso armonizza il pensiero aristotelico con la dottrina cristiana, mostrando un notevole equilibrio tra ragione e fede. La sua trattazione dell’essere e dell’essenza, delle cause e delle prove dell’esistenza di Dio risultano essere veri pilastri della filosofia occidentale. Il filosofo si fa promotore di un realismo moderato, sostenendo che, sebbene le verità divine superino la ragione umana, vi siano verità accessibili e comprensibili attraverso la ragione naturale.
L’impatto della Summa Theologiae sulla filosofia e teologia cristiana è stato duraturo e profondo. L’opera non solo ha formato generazioni di teologi e filosofi, ma ha anche influenzato direttamente il pensiero della Chiesa Cattolica. La chiarezza con cui Tommaso tratta questioni complesse e la sua capacità di sintetizzare la fede e la ragione continuano a renderlo un punto di riferimento essenziale per gli studiosi contemporanei.
La Summa Theologiae rimane una delle opere più importanti e influenti nella storia del pensiero occidentale. Il suo approccio equilibrato e metodico alle questioni di fede e ragione, morale e teologia, rappresenta un monumento all’intelletto umano e alla ricerca della verità.

 

 

 

 

La Città di Dio di Agostino d’Ippona

Cittadini nell’anima

 

 

 

 

La città di Dio di Agostino, vescovo di Ippona, è un testo fondamentale nella storia del pensiero cristiano occidentale, una difesa del cristianesimo contro le accuse di aver causato il declino di Roma e una profonda riflessione sul destino dell’uomo e sulla storia universale.
Agostino iniziò a scrivere La città di Dio nel 413 d.C., tre anni dopo il sacco di Roma da parte dei Visigoti guidati da Alarico. Questo evento fu traumatico per l’Impero Romano e molti pagani attribuirono la catastrofe al rifiuto degli dèi tradizionali in favore del cristianesimo. In risposta, il filosofo elaborò l’idea secondo cui la storia umana fosse un campo di battaglia tra due “città”: la Città di Dio e la città terrena (o città del diavolo), che si contendono le anime degli uomini.
Agostino propone un modello della storia profondamente radicato nella teologia cristiana, che si discosta dalle interpretazioni classiche e pagane del suo tempo. Ritiene, infatti, che la storia non sia un ciclo di ascese e cadute senza significato o un semplice sfondo per le gesta umane, ma un palcoscenico su cui si svolge un dramma divino. Questa visione lineare e teleologica è guidata dalla volontà del Signore e orientata verso una conclusione definita: la realizzazione del regno di Dio. Secondo Agostino, ogni evento storico, comprese le calamità e le tragedie, dev’essere visto come parte del disegno provvidenziale divino. Tale approccio rassicura i credenti, suggerendo che, nonostante le apparenze, tutto contribuisce al bene ultimo dell’umanità sotto la sovranità di Dio. Ciò infonde un senso di speranza e scopo, in quanto la storia non è caotica o arbitraria, ma ha una direzione e un significato imposti da Dio.
L’opera di Agostino è celebre soprattutto per la sua distinzione tra due città metaforiche: la Città di Dio e la città terrena. Queste non sono località geografiche, ma rappresentazioni di due modi di esistenza, due ordini d’amore e due destini eterni.
La Città di Dio è caratterizzata dall’amore di Dio fino al disprezzo di sé. Gli abitanti di questa città amano Dio sopra ogni cosa e il loro amore è disinteressato e puro. Seguono le leggi divine e cercano la pace eterna, che viene solo da Dio. La Città di Dio non è limitata al cielo o alla vita dopo la morte; inizia nel cuore dei credenti qui sulla terra e si estende all’eternità. È una comunità fondata sulla fede, la speranza e la carità.
La città terrena, invece, è dominata dall’amore di sé fino al disprezzo di Dio. Gli abitanti di questa città pongono se stessi e i loro desideri al di sopra di tutto, cercando potere, ricchezza e successo mondani. Questa città simboleggia la corruzione, l’avidità e l’orgoglio umano e sarà inevitabilmente destinata alla distruzione. Agostino chiarisce che le due città si intrecciano nella storia umana; i loro abitanti vivono fianco a fianco, spesso indistinguibili l’uno dall’altro, ma i loro destini sono opposti.
La distinzione tra le due città permette ad Agostino di interpretare la storia umana come una lotta morale e spirituale, piuttosto che solo politica o militare. Ogni individuo, ogni comunità e ogni evento possono essere valutati in base a questa dualità, offrendo una chiave interpretativa che va oltre il visibile e il temporaneo.


L’opera è divisa in due parti, distinte ma interconnesse. Nei primi dieci libri, il teologo critica la religione pagana e la storia romana, demolendo l’idea che la grandezza di Roma fosse legata al favore degli dèi pagani. Qui Agostino utilizza la sua vasta erudizione e argomentazioni filosofiche per dimostrare la superiorità morale e teologica del cristianesimo. I libri 1-5 costituiscono una risposta alle accuse che i pagani rivolgevano ai cristiani, attribuendo loro la colpa delle sfortune di Roma, inclusi il sacco del 410 e altri disastri. Agostino ripercorre la storia di Roma, evidenziando come catastrofi simili si fossero verificate anche in epoche di devozione agli dèi pagani. Inoltre, riflette sulla natura della vera giustizia e sulla caducità dei beni terreni. Nei libri 6-10 continua la sua critica della religione romana, discutendo la natura degli dèi gentili e la loro inadeguatezza a fornire una guida morale o a garantire il benessere della comunità. Confronta poi le virtù praticate dai cristiani con quelle dei romani, sostenendo che le cristiane siano superiori perché radicate nell’amore per Dio piuttosto che nella ricerca della gloria terrena. Nei successivi dodici libri espone la sua visione teologica della storia quale dramma cosmico tra bene e male, introducendo concetti che saranno poi fondamentali per la teologia cristiana, come la predestinazione e la grazia divina. I libri 11-14 trattano delle origini delle due città, la città di Dio e la città terrena. Agostino esamina la storia biblica, da Adamo fino al diluvio e all’Alleanza di Dio con Abramo, interpretando questi eventi come manifestazioni del conflitto tra l’amore per Dio (che definisce la Città di Dio) e l’amore per sé (che definisce la città terrena). Nei libri 15-18 l’analisi si sposta sulla storia di Israele e sulle sue figure chiave, come Davide e i profeti, che Agostino intende quali prefigurazioni di Cristo e della Chiesa. Questa parte illustra come la Città di Dio si sia sviluppata e mantenuta attraverso la storia ebraica, nonostante la corruzione e le cadute periodiche. Nei libri 19-20 vaglia il fine ultimo delle due città. Il libro 19 è famoso per la sua trattazione della natura della pace, che definisce come “la pace dei cieli”, superiore e diversa da qualsiasi pace terrena. Il libro 20 tratta della resurrezione dei morti e del Giudizio Finale, momenti in cui le sorti delle due città saranno eternamente decise. Infine, gli ultimi due libri, 21 e 22, mostrano le pene eterne che attendono gli abitanti della città terrena e le beatitudini eternamente godute dagli abitanti della Città di Dio, descrizioni adottate per esortare i lettori a cercare la città celeste e a vivere una vita in conformità con i valori cristiani.
L’influenza di La città di Dio si estende ben oltre il contesto religioso, ispirando anche la filosofia politica e la teoria del diritto. L’opera ha contribuito alla formazione della concezione medievale del regno di Dio sulla terra e ha edificato una base per la teologia della storia, che vede gli eventi umani sotto la guida della provvidenza divina. La città di Dio non è solo un’apologia del cristianesimo in un’epoca di crisi ma anche un profondo esame del significato della storia e del destino umano. La dualità tra la città celeste e quella terrena costituisce una potente metafora della lotta eterna tra bene e male, riflettendo le ansie e le speranze di un’epoca in trasformazione. Attraverso questo testo, Agostino difende la sua fede ma traccia anche una mappa per la comprensione cristiana del mondo che resisterà per secoli.

 

 

 

 

La religione entro i limiti della semplice ragione
di Immanuel Kant

Critica della ragion religiosa

 

 

 

 

La religione entro i limiti della semplice ragione di Immanuel Kant, pubblicata nel 1793, analizza il rapporto tra la religione e la razionalità, proponendo una visione in cui la prima è interpretata attraverso il prisma della ragion pura, senza dipendenza dalle rivelazioni o dagli insegnamenti specifici di una fede particolare.
Kant si muove nell’ambito della sua critica della ragion pura e pratica, estendendo l’indagine alla religione. Sostiene che la moralità, non la dottrina dogmatica o i miracoli, dovrebbe essere la vera essenza della religione. La tesi principale è che la vera religione debba essere universale, basata sulla ragione e accessibile a tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro cultura o background religioso.
Il filosofo comincia la trattazione operando una distinzione tra religione naturale e religione razionale, entrambe considerate alternative alle religioni rivelate, come il cristianesimo tradizionale, ma differenti significativamente nei loro approcci e presupposti.
La religione naturale si fonda sull’osservazione del mondo naturale e dell’universo, da cui si traggono inferenze sulla natura e sull’esistenza di un Creatore. Questa forma di religione è accessibile agli esseri umani attraverso l’uso della ragione e dell’esperienza sensoriale, senza necessità di rivelazione divina o testi sacri. Kant ritiene che la religione naturale sia una forma di fede che rispetta i limiti della conoscenza umana ed evita superstizioni e dogmi. Nonostante ciò, la religione naturale da sola è limitata, poiché non può fornire una guida completa per la moralità, che il filosofo considera essenziale.
La religione razionale, invece, è strettamente legata all’etica kantiana e si basa interamente su principi razionali. Non solo accetta l’esistenza di Dio, causata dalla necessità di un ordine morale universale, ma pone anche i principi morali come fondamentali per la comprensione e la pratica della religione. La religione razionale trascende la semplice osservazione del mondo naturale e integra le nozioni di dovere e legge morale come manifestazioni della volontà divina. La religione razionale è quindi superiore alla religione naturale, perché incorpora la ragione pura e pratica, fornendo una base solida per un’etica universale che promuova la giustizia e la benevolenza.
Nel trattare il cristianesimo, Kant si impegna in una critica costruttiva, riconoscendone il valore delle dottrine centrali, pur sottoponendole al giudizio della ragion pura. La sua analisi del cristianesimo non mira a respingere la religione rivelata in toto, ma a purificarla dagli elementi superstiziosi e dogmatici, per rivelarne il nucleo morale universale. Critica aspetti del cristianesimo che ritiene basati su dogmi irrazionali, come la dipendenza da miracoli e rivelazioni che non possono essere giustificate attraverso la ragione, sostenendo che tali elementi distolgano dalla vera essenza della religione, ovvero il perseguimento del bene morale. Al contempo, stima il cristianesimo per il suo forte accento sulla moralità, in particolare, l’etica dell’amore e del sacrificio personale, rappresentati dalla figura di Gesù Cristo, visto come l’archetipo dell’“uomo morale”, la cui vita esemplifica la conformità alla legge morale universale, elementi ritraenti l’ideale della moralità che la religione razionale cerca di favorire. Il filosofo, pertanto, propone una reinterpretazione razionalizzata del cristianesimo, un cristianesimo purificato che funga da guida morale universale.

La sua concezione è quella di una religione che, pur mantenendo le sue radici storiche e culturali, sia riformata per rispettare i principi della ragion pura e pratica, rendendola, così, vera e universale. Questa prospettiva sfida i credenti a riflettere sulle basi razionali della loro fede e suggerisce che la vera religiosità dovrebbe promuovere, anziché ostacolare, il progresso morale dell’umanità.
Tra le questioni più significative affrontate in quest’opera vi è quella riguardante la natura del male e del peccato. Kant introduce il concetto di “male radicale” nella natura umana, un’inclinazione verso il male che coesiste con la capacità dell’uomo di riconoscere e seguire il bene morale. Questo conflitto interno è generale e non può essere superato soltanto attraverso gli sforzi umani, richiedendo, invero, un cambiamento del cuore o una sorta di rinascita spirituale. Kant rimarca che la religione dovrebbe assecondare la moralità, non sostituirla, opponendosi a interpretazioni religiose che pongono la fede sopra la moralità o che giustificano azioni immorali attraverso la fede.
Altro aspetto importante è il ruolo di Dio nell’etica kantiana. Dio emerge non tanto come una figura da temere o adorare in senso tradizionale, ma come un ideale morale supremo verso il quale l’umanità dovrebbe tendere. Kant sostiene che l’idea di Dio serva quale punto di orientamento morale per facilitare l’aspirazione dell’uomo alla santità, ritenuta conformità alla legge morale.
La religione entro i limiti della semplice ragione è un’opera che sfida sia i credenti che gli scettici, invitandoli a considerare la religione da una prospettiva critica e razionale. Nonostante le sue premesse possano essere considerate radicali, specialmente nel contesto del XVIII secolo, il tentativo di Kant di armonizzare la fede con la ragione rimane una pietra miliare nel pensiero filosofico e religioso. L’opera sollecita una riflessione continua sulle basi della fede e sull’importanza della moralità, rendendola perennemente rilevante nel dialogo contemporaneo tra filosofia e religione.