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L’Oratio de hominis dignitate
di Giovanni Pico della Mirandola

L’uomo nuovo, centro dell’Universo

 

 

 

Nel cuore del Rinascimento italiano pulsano le parole di Giovanni Pico della Mirandola, incarnando l’essenza dell’Umanesimo nella Oratio de hominis dignitate. L’orazione fu concepita da Pico come preparazione a una disputa internazionale, ove riunire i più eminenti intellettuali del tempo, a Roma, nel 1487, per discutere di “pax philosophica”. Per l’appuntamento, Pico compilò 900 tesi, pubblicate per la prima volta nel dicembre del 1486. Tuttavia, l’evento fu immediatamente annullato per decisione di papa Innocenzo VIII, che volle formare un comitato di esperti incaricati di valutare l’ortodossia delle tesi. Tre di queste furono dichiarate eretiche dalla commissione, mettendo in cattiva luce l’intera iniziativa e causando la sospensione del progetto. Pico fu addirittura costretto a rifugiarsi in Francia, dove fu comunque arrestato e detenuto nella fortezza di Vincennes, a Parigi, su richiesta del pontefice.
L’orazione, che non fu mai pronunciata ma che trovò vita nelle menti e nei cuori di molti, è un canto all’infinito potenziale umano, un inno alla libertà dell’essere di ascendere alla divinità o di cadere nella bestialità, a seconda della propria scelta.
Alla fine del Quattrocento, l’Europa si trovava in un crocevia di cambiamenti. L’invenzione della stampa, la caduta di Costantinopoli, le scoperte geografiche di nuovi mondi e le riforme in ambito religioso e artistico ponevano le basi per una riflessione profonda sulla posizione dell’uomo nell’Universo. È in questo contesto che Pico, giovane e ardito letterato, propose una visione dell’uomo come creatore del proprio destino, dotato di una libertà quasi divina.
Centrale, nell’orazione, è l’idea del libero arbitrio. L’uomo, secondo Pico, è un essere unico, privo di una forma fissa e predefinita, capace di modellarsi a immagine delle realtà celesti o terrene, secondo la propria volontà. Questa concezione lo pone al di sopra di tutte le altre creature, dotato com’è della capacità di auto-trascendenza. L’opera di Pico si colloca, così, come un ponte tra la teologia cristiana e il pensiero classico, un dialogo tra filosofi di diverse epoche, che culmina nella possibilità di una sintesi universale del sapere umano, offrendo, altresì, una riflessione profonda e innovativa sull’origine e la posizione dell’uomo nella gerarchia dell’Essere, distaccandosi dai canoni tradizionali medievali e abbracciando la visione rinascimentale carica di possibilità umane. Tradizionalmente, la gerarchia dell’Essere era vista come una scala rigidamente strutturata, un ordine cosmico stabilito da Dio, in cui ogni creatura aveva un posto definito e immutabile. Angeli, demoni, uomini, animali, piante e minerali erano disposti in un ordine decrescente di santità e perfezione, ciascuno con un ruolo preciso e senza possibilità di cambiamento. Pico rompe questo schema, introducendo una concezione rivoluzionaria dell’uomo come “miracolo” dell’Universo. Secondo la sua visione, l’uomo è stato creato da Dio senza una forma specifica e definita, il che lo pone al centro della creazione come un essere unico, collocato, nella visione pichiana, in una posizione ontologicamente centrale. Non essendo vincolato a una natura specifica, l’uomo ha la libertà e la capacità di modellare se stesso rispecchiando la divinità oppure di degradarsi al livello delle bestie o, perfino, inferiormente. Tale posizione dell’uomo implica una grande responsabilità: quella di scegliere attivamente il proprio cammino. Egli, così, diventa l’artefice del proprio destino. Questa capacità di auto-determinazione lo distingue radicalmente da tutte le altre creature confinate nei limiti delle proprie nature predefinite.


Anche l’idea di auto-trascendenza è fondamentale nella filosofia di Pico. L’uomo può elevarsi al di sopra della sua condizione mortale attraverso l’educazione, la riflessione filosofica e l’adesione ai principi etici e spirituali. Questo processo di elevazione non è soltanto un miglioramento personale, ma una vera e propria imitazione delle caratteristiche divine, come la conoscenza e la bontà. Attraverso la pratica delle virtù e lo studio delle arti e delle scienze, l’uomo può ascendere nella gerarchia dell’Essere, avvicinandosi all’angelico e al divino. In questo senso, Pico vede la filosofia e la teologia non solo come discipline accademiche, ma come vie di perfezionamento dell’anima e di realizzazione del proprio potenziale.
Il filosofo, pertanto, ridefinisce la posizione dell’uomo nella cosmologia ed eleva l’umanità a protagonista della propria storia spirituale e intellettuale. La sua visione anticipa i concetti moderni di auto-determinazione e di potenziale umano, auspicando una nuova era di pensiero, in cui l’essere umano sia visto come co-creatore del proprio mondo e del proprio destino. Questa visione ottimistica dell’umanità è una delle eredità più durature di Pico e del Rinascimento e continua a influenzare il pensiero filosofico e culturale contemporaneo.
L’Oratio de hominis dignitate, in definitiva, risuona come un poema epico sulla natura umana. Le parole di Pico, cariche di elevata retorica e di sublime ottimismo, riflettono la quintessenza dell’ideale umanistico: l’uomo come misura di tutte le cose, capace di elevare sé stesso attraverso il culto della bellezza, della verità e della bontà. La sua visione celebra l’armonia possibile tra ragione e fede, tra cielo e terra. L’orazione non rappresenta soltanto un documento storico, ma un manifesto eterno della potenzialità umana. Pico della Mirandola invita i lettori di ogni epoca a vedere in se stessi non una creazione finita, ma un’opera aperta, un progetto in continuo divenire, sfidandoli a raggiungere la grandezza che è in loro potere conseguire. Così, attraverso i secoli, le sue parole continuano ad accompagnare tutti coloro i quali cercano di comprendere la vastità e la profondità della “dignità” umana.

 

 

 

 

America Latina: democrazia, populismo e criminalità

di Giorgio Malfatti di Monte Tretto

 

 

Recensione di Riccardo Piroddi

 

 

 

America Latina: democrazia, populismo e criminalità, di Giorgio Malfatti di Monte Tretto (Eurilink University Press, 2024), ambasciatore e docente universitario, presenta una panoramica esaustiva delle dinamiche politiche, sociali ed economiche dell’America Latina. Il libro si distingue per un’approfondita analisi storica e contemporanea della regione, ponendo l’accento su temi cruciali quali, appunto, la democrazia, il populismo e la criminalità.
Il volume è diviso in due parti principali: la prima si concentra sull’analisi generale dell’America Latina, mentre la seconda consegna una sintesi dettagliata dei singoli Paesi della regione.
L’Autore principia dalla composizione etnica dell’America Latina, evidenziando la complessità e la diversità delle sue popolazioni. Viene tracciata una linea temporale che parte dalle origini indigene, passando per la colonizzazione europea, fino ad arrivare all’attuale combinazione etnica variegata.
Sono poi descritti il passaggio dal colonialismo all’indipendenza, le guerre di indipendenza e le figure chiave come Simón Bolívar e José de San Martín. Viene altresì evidenziato come la transizione abbia lasciato in eredità strutture sociali ed economiche fragili e disuguaglianze persistenti, anche a causa del ruolo predominante dei militari nelle politiche post-indipendenza, un fenomeno che ha contribuito all’instabilità generalizzata e alla formazione di governi autoritari. Viene anche mostrata l’influenza della Chiesa Cattolica nella storia della regione, dalla colonizzazione fino ai tempi moderni, sottolineando il suo ruolo nel mantenimento dell’ordine sociale e nella politica. L’Autore dipinge un quadro dell’America Latina contemporanea discutendo le problematiche attuali, come la disuguaglianza, la corruzione e la violenza, e fornendo una panoramica delle principali organizzazioni criminali che operano nella regione, il loro impatto sulla società e l’economia e le strategie di contrasto adottate dai governi locali.
La seconda parte del libro, invece, si concentra sull’indagine approfondita dei singoli Paesi, con l’esame della loro storia, della politica, dell’economia e le specifiche sfide che ciascuno deve affrontare. Tra i Paesi trattati vi sono Messico, America Centrale (inclusi Honduras, Guatemala, El Salvador, Belize, Costa Rica, Nicaragua, e Panama), i Caraibi (Cuba, Haiti, Repubblica Dominicana, Giamaica, e i territori d’oltremare della Francia), Colombia, Venezuela, Ecuador, Perù, Bolivia, Paraguay, Brasile, Argentina, Uruguay e Cile.
Il volume fornisce una dettagliata analisi storica e contemporanea dell’America Latina. L’Autore, infatti, collega gli eventi passati con le condizioni politiche, sociali ed economiche attuali, offrendo una prospettiva di lungo periodo sulle dinamiche che hanno plasmato l’America Latina.
Dovuta attenzione è data anche alle dinamiche politiche correnti, con un particolare focus sui temi della democrazia e del populismo. Malfatti analizza come questi fenomeni siano evoluti nel tempo, influenzando i sistemi di governo e la stabilità politica dei vari Paesi.
Scopo precipuo del libro è indagare il fenomeno del populismo in America Latina. L’Autore dimostra come questo sia emerso quale risposta alle disuguaglianze sociali e alle crisi economiche e come abbia condizionato la politica regionale. Vengono presentati i casi di vari leader populisti e i loro impatti sulle società latinoamericane.
Un altro obiettivo del volume è lo studio della criminalità organizzata nella regione. Vi è infatti esposta una panoramica delle principali organizzazioni criminali, i loro modus operandi e il loro impatto sulla stabilità sociale ed economica. Viene altresì analizzato il legame tra criminalità organizzata e politica e come questo influisca sullo sviluppo della regione.
Ampio risalto è dato anche all’analisi delle relazioni internazionali dell’America Latina, con un particolare focus sul rapporto con gli Stati Uniti e come questo abbia influenzato le dinamiche politiche ed economiche locali. L’Autore mostra pure il ruolo di altre potenze globali e le loro interazioni con i Paesi latinoamericani.
Anche le questioni socio-economiche che affliggono l’America Latina, come la povertà, le disuguaglianze sociali e la distribuzione del reddito, sono vagliate, in particolare, l’impatto delle politiche economiche neoliberiste e assistenzialiste e come queste abbiano influenzato il benessere delle popolazioni locali.
L’opera si distingue per il suo approccio esaustivo e critico, offrendo ai lettori una visione completa e informata delle problematiche storiche e contemporanee della regione. È un testo fondamentale per chiunque desideri comprendere le complesse dinamiche che caratterizzano l’America Latina perché, con la sua ricchezza di dettagli storici e analisi approfondite, consegna una visione completa e critica delle problematiche attuali della regione.

 

 

 

Le Enneadi di Plotino

L’Uno, il divino, l’anima

 

 

 

 

Come una stella vespertina che sorge al crepuscolo, nel cielo dell’antichità si levarono le Enneadi di Plotino, filosofo vissuto nel III secolo d.C., un testamento della ricerca incessante dell’anima per il divino. L’opera è composta da 54 trattati, sistemati da Porfirio, discepolo di Plotino, il quale modificò la suddivisione dei testi originali, combinandoli per formare i gruppi necessari a comporre le Enneadi, strutturate in sei insiemi di nove (“ennea”, in greco) trattati ciascuno. Dispose questi scritti seguendo un ordine che va dalle esistenze più basse dal punto di vista ontologico – le realtà terrene e la vita umana – ascendendo attraverso livelli metafisici come la provvidenza, gli enti demoniaci, l’anima e le capacità psichiche, fino al grado puramente intellettuale, culminando nell’ultimo trattato, con l’approdo alla suprema realtà divina, l’Uno, principio e fine di tutto ciò che è. Questa strutturazione mirava a delineare per il lettore un itinerario vòlto a trascendere il mondo terreno e a ottenere una piena comprensione della filosofia plotiniana.
Le radici delle Enneadi affondano nel fertile terreno del platonismo. Plotino, seguace del pensiero di Platone, eleva la teoria delle Forme archetipiche a nuove vette celestiali. Così come Platone descrive la realtà delle Idee, immutabili e perfette, Plotino introduce l’Uno, la causa primordiale da cui scaturisce ogni esistenza. L’Uno, inaccessibile e trascendente, risuona con l’Iperuranio platonico, ma lo trascende in una forma di unità assoluta che non ammette dualità o alterità.
L’originalità di Plotino brilla nella sua concezione di una gerarchia ontologica che parte dall’Uno, si dispiega nell’Intelletto e si espande poi nell’Anima del mondo. L’Uno, principio supremo e fonte di tutta la realtà, è al di là di ogni essere e pensiero. Da questa ineffabile unità emanano l’Intelletto, che contiene le idee, e l’Anima, che vivifica il mondo. Questa struttura tripartita non solo spiega la natura dell’esistenza ma offre anche un sentiero di ritorno verso l’Uno, attraverso la contemplazione e l’ascesi, invitando l’anima umana a riscoprire la sua origine divina.
Le Enneadi non si limitano a una mera indagine filosofica, ma si ergono anche come guida spirituale per l’anima. Plotino trasforma la filosofia in un percorso religioso, dove il fine ultimo è l’unione mistica con l’Uno. Questa aspirazione all’unione divina riflette un desiderio profondo di purificazione e di ritorno all’origine, che si manifesta in pratiche ascetiche e nella meditazione. La sua visione offre un ponte tra il terreno e l’ultraterreno, tra il finito e l’infinito.
Prima Enneade: etica e pratica
La prima Enneade tratta temi etici e pratici, fondamentali per chi inizia il cammino filosofico. Plotino esamina la condizione umana, discutendo la virtù, il destino e il ruolo della provvidenza e del fato. Approfondisce la questione del male, considerandolo come una mancanza di bene piuttosto che una presenza attiva. Questa Enneade pone le basi per l’ascesa dell’anima, stabilendo che la purificazione etica sia il primo passo necessario.
Seconda Enneade: il mondo naturale
Si focalizza sul mondo naturale e sulla cosmologia. Il filosofo espone la struttura dell’universo, l’eternità del mondo e la questione di come le emanazioni dell’Uno diano vita all’Intelletto e, poi, all’Anima del mondo. Qui, l’attenzione si sposta dalle questioni etiche alla natura dell’esistenza fisica e alla sua origine, tracciando un movimento dall’individuo al cosmico.
Terza Enneade: epistemologia e ontologia
Approfondisce la conoscenza e l’essere. Plotino indaga la natura dell’intelletto umano e la sua relazione con l’Intelletto divino. Tratta le idee di percezione, memoria e tempo e si interroga sulla natura e l’acquisizione della conoscenza vera, che avviene tramite l’unione mistica con l’Intelletto.


Quarta Enneade: l’anima
Plotino vi analizza la natura dell’anima, le sue divisioni e le sue funzioni, oltre alla sua relazione con l’ordine inferiore (il mondo materiale) e con quello superiore (l’Intelletto). Esamina il concetto di anima individuale e universale, sottolineando le possibilità e i mezzi attraverso cui questa possa elevarsi al di sopra del mondo fenomenico.
Quinta Enneade: l’Intelletto
Qui il filosofo raggiunge l’apice della sua speculazione, con un’indagine approfondita sull’Intelletto e sulle idee. Questa parte è cruciale per comprendere la sua teoria delle Forme e la struttura dell’Intelletto, che contiene le idee perfette e immutabili, eterna manifestazione dell’Uno.
Sesta Enneade: l’Uno
La sesta e ultima Enneade rappresenta il culmine del sistema plotiniano ed è dedicata all’Uno, principio supremo e fonte di tutta la realtà. Plotino spiega la natura dell’Uno, che supera l’essere e la conoscenza. Scevera il processo di emanazione dall’Uno all’Intelletto all’Anima e offre una visione profondamente mistica di come l’anima possa unirsi all’Uno, superando ogni dualità e distinzione.
Le Enneadi, con la loro profondità filosofica e l’ardore religioso, si configurano come una danza celestiale di luci che invita ogni anima a sollevarsi oltre il mondo sensibile. Plotino, in questo magistrale incontro tra mente e spirito, tende la mano alla saggezza di Platone, trasfigurandola in una visione che abbraccia l’intero cosmo. Le Enneadi non sono solo un’opera di grande valore filosofico, ma costituiscono un inno alla possibilità di unione dell’anima con il divino, attraverso una comprensione profonda del mondo, dell’anima, e dell’Intelletto, riecheggiando e, allo stesso tempo, amplificando i temi cari a Platone, in una sinfonia di pensiero che trascende i secoli. Nel loro tessuto si intrecciano il rigore intellettuale e la fervida aspirazione religiosa, che non solo fondano il neoplatonismo ma influenzano profondamente la filosofia e la teologia soprattutto cristiana, ponendosi quale faro per quanti cercano la verità oltre le ombre del mondo fenomenico.

 

 

 

La Città di Dio di Agostino d’Ippona

Cittadini nell’anima

 

 

 

 

La città di Dio di Agostino, vescovo di Ippona, è un testo fondamentale nella storia del pensiero cristiano occidentale, una difesa del cristianesimo contro le accuse di aver causato il declino di Roma e una profonda riflessione sul destino dell’uomo e sulla storia universale.
Agostino iniziò a scrivere La città di Dio nel 413 d.C., tre anni dopo il sacco di Roma da parte dei Visigoti guidati da Alarico. Questo evento fu traumatico per l’Impero Romano e molti pagani attribuirono la catastrofe al rifiuto degli dèi tradizionali in favore del cristianesimo. In risposta, il filosofo elaborò l’idea secondo cui la storia umana fosse un campo di battaglia tra due “città”: la Città di Dio e la città terrena (o città del diavolo), che si contendono le anime degli uomini.
Agostino propone un modello della storia profondamente radicato nella teologia cristiana, che si discosta dalle interpretazioni classiche e pagane del suo tempo. Ritiene, infatti, che la storia non sia un ciclo di ascese e cadute senza significato o un semplice sfondo per le gesta umane, ma un palcoscenico su cui si svolge un dramma divino. Questa visione lineare e teleologica è guidata dalla volontà del Signore e orientata verso una conclusione definita: la realizzazione del regno di Dio. Secondo Agostino, ogni evento storico, comprese le calamità e le tragedie, dev’essere visto come parte del disegno provvidenziale divino. Tale approccio rassicura i credenti, suggerendo che, nonostante le apparenze, tutto contribuisce al bene ultimo dell’umanità sotto la sovranità di Dio. Ciò infonde un senso di speranza e scopo, in quanto la storia non è caotica o arbitraria, ma ha una direzione e un significato imposti da Dio.
L’opera di Agostino è celebre soprattutto per la sua distinzione tra due città metaforiche: la Città di Dio e la città terrena. Queste non sono località geografiche, ma rappresentazioni di due modi di esistenza, due ordini d’amore e due destini eterni.
La Città di Dio è caratterizzata dall’amore di Dio fino al disprezzo di sé. Gli abitanti di questa città amano Dio sopra ogni cosa e il loro amore è disinteressato e puro. Seguono le leggi divine e cercano la pace eterna, che viene solo da Dio. La Città di Dio non è limitata al cielo o alla vita dopo la morte; inizia nel cuore dei credenti qui sulla terra e si estende all’eternità. È una comunità fondata sulla fede, la speranza e la carità.
La città terrena, invece, è dominata dall’amore di sé fino al disprezzo di Dio. Gli abitanti di questa città pongono se stessi e i loro desideri al di sopra di tutto, cercando potere, ricchezza e successo mondani. Questa città simboleggia la corruzione, l’avidità e l’orgoglio umano e sarà inevitabilmente destinata alla distruzione. Agostino chiarisce che le due città si intrecciano nella storia umana; i loro abitanti vivono fianco a fianco, spesso indistinguibili l’uno dall’altro, ma i loro destini sono opposti.
La distinzione tra le due città permette ad Agostino di interpretare la storia umana come una lotta morale e spirituale, piuttosto che solo politica o militare. Ogni individuo, ogni comunità e ogni evento possono essere valutati in base a questa dualità, offrendo una chiave interpretativa che va oltre il visibile e il temporaneo.


L’opera è divisa in due parti, distinte ma interconnesse. Nei primi dieci libri, il teologo critica la religione pagana e la storia romana, demolendo l’idea che la grandezza di Roma fosse legata al favore degli dèi pagani. Qui Agostino utilizza la sua vasta erudizione e argomentazioni filosofiche per dimostrare la superiorità morale e teologica del cristianesimo. I libri 1-5 costituiscono una risposta alle accuse che i pagani rivolgevano ai cristiani, attribuendo loro la colpa delle sfortune di Roma, inclusi il sacco del 410 e altri disastri. Agostino ripercorre la storia di Roma, evidenziando come catastrofi simili si fossero verificate anche in epoche di devozione agli dèi pagani. Inoltre, riflette sulla natura della vera giustizia e sulla caducità dei beni terreni. Nei libri 6-10 continua la sua critica della religione romana, discutendo la natura degli dèi gentili e la loro inadeguatezza a fornire una guida morale o a garantire il benessere della comunità. Confronta poi le virtù praticate dai cristiani con quelle dei romani, sostenendo che le cristiane siano superiori perché radicate nell’amore per Dio piuttosto che nella ricerca della gloria terrena. Nei successivi dodici libri espone la sua visione teologica della storia quale dramma cosmico tra bene e male, introducendo concetti che saranno poi fondamentali per la teologia cristiana, come la predestinazione e la grazia divina. I libri 11-14 trattano delle origini delle due città, la città di Dio e la città terrena. Agostino esamina la storia biblica, da Adamo fino al diluvio e all’Alleanza di Dio con Abramo, interpretando questi eventi come manifestazioni del conflitto tra l’amore per Dio (che definisce la Città di Dio) e l’amore per sé (che definisce la città terrena). Nei libri 15-18 l’analisi si sposta sulla storia di Israele e sulle sue figure chiave, come Davide e i profeti, che Agostino intende quali prefigurazioni di Cristo e della Chiesa. Questa parte illustra come la Città di Dio si sia sviluppata e mantenuta attraverso la storia ebraica, nonostante la corruzione e le cadute periodiche. Nei libri 19-20 vaglia il fine ultimo delle due città. Il libro 19 è famoso per la sua trattazione della natura della pace, che definisce come “la pace dei cieli”, superiore e diversa da qualsiasi pace terrena. Il libro 20 tratta della resurrezione dei morti e del Giudizio Finale, momenti in cui le sorti delle due città saranno eternamente decise. Infine, gli ultimi due libri, 21 e 22, mostrano le pene eterne che attendono gli abitanti della città terrena e le beatitudini eternamente godute dagli abitanti della Città di Dio, descrizioni adottate per esortare i lettori a cercare la città celeste e a vivere una vita in conformità con i valori cristiani.
L’influenza di La città di Dio si estende ben oltre il contesto religioso, ispirando anche la filosofia politica e la teoria del diritto. L’opera ha contribuito alla formazione della concezione medievale del regno di Dio sulla terra e ha edificato una base per la teologia della storia, che vede gli eventi umani sotto la guida della provvidenza divina. La città di Dio non è solo un’apologia del cristianesimo in un’epoca di crisi ma anche un profondo esame del significato della storia e del destino umano. La dualità tra la città celeste e quella terrena costituisce una potente metafora della lotta eterna tra bene e male, riflettendo le ansie e le speranze di un’epoca in trasformazione. Attraverso questo testo, Agostino difende la sua fede ma traccia anche una mappa per la comprensione cristiana del mondo che resisterà per secoli.

 

 

 

 

Monadologia di Gottfried Wilhelm Leibniz

Monade, uno e tutto

 

 

 

 

Pagina manoscritta di Leibniz

Monadologia, scritta nel 1714 e pubblicata postuma nel 1720, è certamente l’opera filosofica più influente di Gottfried Wilhelm Leibniz, filosofo, matematico e scienziato tedesco. Si colloca nel contesto del razionalismo del XVII secolo, un periodo in cui la filosofia e la scienza tentavano di spiegare l’universo anche attraverso il principio di ragion sufficiente e l’uso della logica e della matematica.
Monadologia presenta una metafisica molto originale, con l’introduzione del concetto di monade, entità semplice e indivisibile, che costituisce tutto l’esistente. Ogni monade è una sostanza semplice, senza parti, che esiste indipendentemente da altre monadi. Nonostante, quindi, l’indipendenza e isolamento metafisico, ciascuna monade riflette l’intero universo, in un modo unico alla propria prospettiva particolare. Ciò implica che le monadi non possano influenzarsi fisicamente l’una con l’altra, poiché sono sincronizzate in una maniera non causale, attraverso l’armonia prestabilita da Dio.
Leibniz distingue diversi tipi di monadi, classificandole in base alle loro capacità percettive e cognitive. Questa differenziazione è fondamentale per comprendere come il filosofo concepisca l’organizzazione gerarchica del cosmo, dalla materia inanimata alle anime umane e agli angeli. Le monadi entelechiali o semplici sono quelle più basiche e rudimentali. Caratterizzate da percezioni molto confuse, che non permettono una consapevolezza distinta o riflessiva, sono associate alle entità inanimate, come le pietre e i minerali, e sono poste al livello più basso della scala ontologica, la pura esistenza potenziale o “entelechia” in forma basilare. Le monadi animate o anime possiedono percezioni più chiare e distinte rispetto a quelle entelechiali. Non solo percepiscono, ma sono anche capaci di memoria, il che permette loro una forma minima di consapevolezza temporale. Le monadi animate corrispondono agli animali e differiscono dalle semplici monadi entelechiali per la loro capacità di rispondere in modo più complesso agli stimoli esterni. Le monadi razionali o spiriti, invece, si collocano al livello più elevato nella gerarchia e sono associate agli esseri umani e agli spiriti puri, come gli angeli. Queste monadi non solo hanno percezioni chiare e distinte, ma possiedono anche la ragione, la capacità di riflettere su se stesse e di riconoscere le verità etiche e universali. Queste facoltà permettono alle monadi razionali di essere consapevoli delle leggi immutabili dell’universo e di comprendere il proprio posto nel grande ordine delle cose. La monade suprema, Dio, possiede una infinita capacità di percezione e il potere di prevedere tutti gli eventi dell’universo. Dio differisce da tutte le altre monadi in quanto è l’origine dell’armonia prestabilita, coordinando le relazioni tra tutte le monadi senza alcuna interazione causale diretta tra loro. La monade divina è causa ultima e spiegazione di tutto ciò che esiste, mantenendo il cosmo in un ordine perfetto e razionale.
Ciascuna monade è poi caratterizzata da due qualità principali: percezione e appetizione. La percezione è la rappresentazione interna dello stato dell’universo che ogni monade contiene; l’appetizione è la forza che spinge ogni monade a passare da una percezione all’altra, guidando il suo sviluppo e la sua evoluzione. Le monadi cambiano i loro stati interni non a causa di interazioni esterne, ma a causa dei principi interni che guidano la loro evoluzione.

Questa gerarchizzazione delle monadi consente a Leibniz di spiegare sia la varietà dell’esistenza che l’unità dell’universo. Attraverso questa struttura, egli propone un modello organico dove ogni livello di esistenza contribuisce all’intero, in un modo che riflette la perfezione e la saggezza divine. Le diverse capacità delle monadi, dalla semplice percezione alla piena razionalità, mostrano come l’universo di Leibniz sia profondamente interconnesso e finalizzato, con ogni monade che gioca il suo ruolo specifico all’interno dell’armonia generale.
Uno degli aspetti centrali della filosofia di Leibniz è il principio di ragione sufficiente, secondo cui nulla accade senza una causa o una spiegazione. Tale principio è strettamente legato al cosiddetto ottimismo leibniziano, espresso nella famosa affermazione, “viviamo nel migliore dei mondi possibili”. Il filosofo, infatti, sostiene che, data la sapienza e la bontà di Dio, il mondo esistente sia il migliore che potesse creare, nonostante la presenza del male e del dolore.
Monadologia si può dividere in tre sezioni principali: Principi metafisici generali; Natura e qualità delle monadi; Dio e l’ordine dell’universo, strutturate in una serie di brevi paragrafi, ciascuno dei quali sviluppa un aspetto del sistema filosofico leibniziano. Il filosofo comincia delineando i postulati fondamentali della sua filosofia, l’esistenza delle monadi e il principio di ragione sufficiente. La seconda sezione dettaglia la natura interna delle monadi, il loro funzionamento e come queste riproducano l’universo. La terza esplica il ruolo di Dio quale monade suprema, che contiene le ragioni ultime di tutte le cose e ha creato e organizzato l’universo. Nella parte finale, approfondisce come la sua teoria delle monadi influenzi la comprensione dell’etica, del destino dell’anima umana e la giustizia divina.
La struttura di Monadologia riflette l’intento dell’Autore di offrire una visione coerente e compatta del cosmo. Il suo sistema filosofico risponde alle domande metafisiche sulla natura della realtà, offrendo anche una base per affrontare questioni di etica e teologia in modo razionale e ottimista. La visione di un universo ordinato e determinato da una divinità benevola fornisce una giustificazione filosofica per l’accettazione del destino e per l’impegno nel perseguire il bene, in accordo con l’ordine divino.
Monadologia ha avuto un impatto significativo sulla filosofia e su altre discipline quali la teologia, la scienza e la matematica. Quest’opera di Leibniz rimane una delle più profonde e complesse del periodo moderno. La capacità di sintetizzare questioni di metafisica, teologia ed etica sotto un unico sistema coesivo dimostra la genialità del filosofo e il suo duraturo impatto sullo sviluppo del pensiero occidentale. Attraverso la sua lettura, ci si trova di fronte a una visione del mondo che sfida la comprensione della realtà e del posto dell’uomo in essa, rendendola lezione essenziale per chiunque sia interessato alla filosofia e alla sua storia.

 

 

 

 

La nascita, nell’Europa medievale, delle scuole laiche
e delle Università, interpretata in maniera molto singolare

 

 

 

Tratto dal mio “La Letteratura Italiana – Dalle origini al primo Novecento”, Eurilink University Press, 2022, pp. 42-43

 

“…Verso la metà dell’XI secolo, tuttavia, qualcosa cominciò a cambiare. Qualcuno decise di mettersi in concorrenza con la Chiesa. “Perché devono essere solo loro a insegnare, a scegliere le materie e i programmi? Perché la Bibbia deve essere l’unico manuale in uso di storia, geografia, letteratura, lingua, psicologia, fisica, chimica, architettura, ingegneria, astronomia, religione e pure educazione fisica?”.
Molti uomini, allora, estranei ai ranghi ecclesiastici, quando si incontravano all’osteria, la sera, dopo cena, cominciarono a discutere di filosofia aristotelica la quale, anche attraverso le traduzioni e i commenti dei dotti arabi Avicenna e Averroè, era giunta in Occidente. Così, parla oggi, discuti domani, leggiti il libro per dopodomani, i conversanti aumentavano sempre di più. Gli osti facevano affari d’oro, perché avevano messo la consumazione obbligatoria e, quando si faceva tardi, fittavano pure qualche camera per la notte con la prima colazione compresa. La cuccagna, per i gestori di osterie e taverne, però, durò poco. Ben presto, in tanti decisero di riunirsi in luoghi più adatti alle discussioni, alla lettura e allo studio.
Ed ecco che nacquero le Università e, in due secoli, dall’XI al XIII, ne sorsero in tutta Europa. Ogni città importante aveva la propria. Vi si poteva studiare la filosofia, le lettere, il diritto e le cosiddette arti liberali, fondamento di tutta l’istruzione dei secoli precedenti: la grammatica, la retorica, la dialettica, la musica, l’astronomia, l’aritmetica e la geometria. Tutto era molto ben organizzato: gli studenti, dopo aver letto i testi consigliati dai maestri, sceglievano quale corso seguire e in che materia diventare dotti.
Essi, inoltre, erano liberi di discettare con i docenti, senza dover sostenere esami, né scritti, né orali, ma, semplicemente, confrontando il loro pensiero con quello degli antichi, come, ad esempio, Aristotele e tanti altri, e con i compagni di banco. Era, dunque, un metodo di insegnamento e apprendimento molto particolare. Se oggi fosse ancora così, molti studentelli ne approfitterebbero e non imparerebbero un bel niente…”.

 

 

 

La Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino

Dio, il mondo e l’uomo

 

 

 

 

La Summa Theologiae, composta da Tommaso d’Aquino tra il 1265 e il 1274, è senza dubbio uno dei capolavori più influenti della filosofia e della teologia medievale. Quest’opera monumentale, infatti, riflette la profondità del pensiero del suo autore e la complessità delle questioni filosofiche e religiose del Medioevo.
Tommaso d’Aquino, teologo e filosofo dell’Ordine Domenicano, intraprende la stesura della Summa con l’intento di creare un compendio teologico che fosse educativo ed esaustivo per quanti cercassero risposte alle questioni della fede e dell’esistenza. L’opera è divisa in tre parti principali, che trattano di Dio, della creazione e della cristologia; della natura umana, della morale e della legge; e, infine, dei sacramenti e dell’escatologia.

Prima Parte: Dio e la creazione
Questa parte della Summa, contenente 119 questioni, si concentra sulla natura e gli attributi di Dio, sulla creazione del mondo e sulla natura degli angeli. Approfondisce l’esistenza e la natura di Dio attraverso le famose cinque vie per provarne l’esistenza, argomentazioni filosofiche che deducono l’esistenza di Dio contemplando aspetti del mondo naturale come il movimento, le cause, la necessità, i gradi di perfezione e l’ordine del mondo. La prima via è costituita dal cosiddetto “motore immobile”, di palese derivazione aristotelica. Tommaso osserva che tutto nel mondo naturale è in movimento, il che implica una progressione di movimenti o cambiamenti e che ogni movimento dev’essere causato da un altro movimento o motore. Tuttavia, per evitare un regresso all’infinito, deve esserci un “primo motore” non mosso da null’altro. Questo primo motore è Dio. La seconda via riguarda le cause efficienti. In natura, c’è un ordine di cause efficienti (le cause che innescano un evento). Analogamente al primo argomento, non è possibile procedere all’infinito in questa catena di cause, perché non ci sarebbe una causa prima. Pertanto, deve esistere una prima causa efficiente, Dio. La terza via sonda l’esistenza di cose possibili, che possono esistere e non esistere. Tutto ciò che è possibile ha un tempo in cui non esiste. Se tutto fosse possibile, ci sarebbe stato un tempo in cui nulla esisteva, ma se questo fosse vero, nulla potrebbe esistere ora, perché ciò che non esiste non può causare l’esistenza di sé stesso o di qualcos’altro. Quindi, deve esistere qualcosa di necessario, esistente per sua natura e non per causa di altro, Dio. La quarta via si fonda sui gradi di perfezione osservati nelle cose. Le cose nel mondo possono essere più o meno buone, vere, nobili, eccetera. Questi gradi presuppongono l’esistenza di un massimo, il culmine di tutte queste proprietà, che è “il più vero”, “il più buono” e così via. Questo massimo in ogni genere deve essere la causa di tutte queste perfezioni e, quindi, Dio. La quinta via deriva dall’ordine naturale del mondo, dove tutto agisce secondo una legge e un ordine, anche gli enti privi di conoscenza come i corpi naturali. Quest’ordine non può essere dovuto al caso, ma deve essere diretto da qualcosa dotato di conoscenza e intelligenza, un essere intelligente che guida tutte le cose al loro fine, Dio. Tommaso tratta poi la dottrina della Trinità, spiegandone il mistero attraverso l’uso della ragione umana fino ai limiti consentiti dalla teologia. Infine, discute della creazione, incluso il ruolo degli angeli, e della distinzione tra essenze ed esistenze nelle creature.

Seconda Parte: Etica e umanità
Questa parte è suddivisa in due sezioni (Prima Secundae e Secunda Secundae), in cui sono esposti, rispettivamente, i principi generali della morale e le virtù specifiche. Presenta, in totale, 303 questioni. La Prima Secundae indaga l’ultimo fine dell’uomo, gli atti umani, le passioni, le abitudini, le virtù e i vizi e la legge. Uno dei concetti chiave è quello della legge naturale, che postula l’esistenza di una legge morale universale basata sulla natura e la ragione. La Secunda Secundae esamina le virtù teologali (fede, speranza, carità), le virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza) e i doni dello Spirito Santo. Ogni virtù è approfondita dettagliatamente in una serie di questioni che ne indagano la natura, l’importanza e le implicazioni pratiche.

Terza Parte: Cristo e i sacramenti
La terza parte, comprendente 90 questioni e incompleta a causa della morte dell’Autore, è stata parzialmente compilata dai suoi studenti e da altri teologi medievali. Si concentra sulla vita e la missione di Cristo e sui sacramenti della Chiesa. Tratta della natura e del ruolo di Cristo, mediatore tra Dio e l’umanità, e della sua incarnazione, vita, atti e sacrificio salvifico. Vaglia poi la natura, il numero, gli effetti e i particolari di ciascuno dei sacramenti, con peculiare attenzione all’Eucaristia, intesa quale sacramento che delinea il culmine dell’intervento salvifico di Dio nell’umanità.

Ogni questione nella Summa si apre con una serie di obiezioni, che sollevano dubbi o quesiti riguardo all’argomento trattato, seguite da un “sed contra”, che offre un’antitesi basata sulla Scrittura o sull’autorità dei Padri della Chiesa, a cui Tommaso risponde con la “Respondeo”, esponendo la sua visione, seguita da repliche alle obiezioni iniziali. Questa struttura metodica facilita la comprensione degli argomenti, permettendo un dialogo costante tra differenti punti di vista.
Il contributo filosofico della Summa Theologiae è immenso. Tommaso armonizza il pensiero aristotelico con la dottrina cristiana, mostrando un notevole equilibrio tra ragione e fede. La sua trattazione dell’essere e dell’essenza, delle cause e delle prove dell’esistenza di Dio risultano essere veri pilastri della filosofia occidentale. Il filosofo si fa promotore di un realismo moderato, sostenendo che, sebbene le verità divine superino la ragione umana, vi siano verità accessibili e comprensibili attraverso la ragione naturale.
L’impatto della Summa Theologiae sulla filosofia e teologia cristiana è stato duraturo e profondo. L’opera non solo ha formato generazioni di teologi e filosofi, ma ha anche influenzato direttamente il pensiero della Chiesa Cattolica. La chiarezza con cui Tommaso tratta questioni complesse e la sua capacità di sintetizzare la fede e la ragione continuano a renderlo un punto di riferimento essenziale per gli studiosi contemporanei.
La Summa Theologiae rimane una delle opere più importanti e influenti nella storia del pensiero occidentale. Il suo approccio equilibrato e metodico alle questioni di fede e ragione, morale e teologia, rappresenta un monumento all’intelletto umano e alla ricerca della verità.

 

 

 

 

Il Trattato sulla Tolleranza di Voltaire

La ragione contro la violenza

 

 

 

Il Trattato sulla tolleranza di Voltaire, composto nel 1763, costituisce certamente uno dei testi più emblematici e incisivi del pensiero illuminista e si presenta quale appello appassionato alla tolleranza religiosa. La sua stesura è strettamente legata al caso Calas e ad altri casi simili, che suscitarono grandi dibattiti in tutta Europa. Voltaire, profondamente colpito dall’ingiustizia subita da Calas e dalla sua famiglia, utilizzò questo episodio per criticare l’intolleranza religiosa e la barbarie delle leggi che permettevano tale ingiustizia. L’opera, quindi, non solo ha contribuito a scuotere l’opinione pubblica dell’epoca, ma ha anche avuto un impatto significativo nel processo di riabilitazione postuma di Calas e degli altri, mostrando il potere della letteratura come strumento di critica sociale e di cambiamento.
Jean Calas, un mercante di stoffe protestante di Tolosa, fu accusato ingiustamente di aver ucciso suo figlio Marc-Antoine, nel 1761. Si sospettava che il motivo dell’omicidio fosse impedire al giovane di convertirsi al cattolicesimo, dato che la famiglia Calas era di fede ugonotta, in un’epoca e in una regione dominate dalla Chiesa cattolica. Nonostante la mancanza di prove, Calas fu torturato, giudicato e, infine, giustiziato, nel 1762. Voltaire, indignato, divenne attivamente coinvolto nel caso, scrivendo e facendo pressioni per la sua revisione, che culminò nella riabilitazione postuma di Calas, nel 1765. Simile al caso Calas, quello della famiglia Sirven. Pierre-Paul Sirven e sua moglie furono accusati dell’omicidio della loro figlia maggiore, che si era suicidata dopo essere stata forzatamente internata in un convento per convertirsi al cattolicesimo. La famiglia Sirven fu costretta a fuggire in Svizzera per evitare la stessa sorte di Calas. Anche in questo caso, Voltaire intervenne, aiutando i coniugi a ottenere un nuovo processo, che alla fine portò alla loro assoluzione, nel 1771. Il caso di La Barre, invece, rappresenta uno degli episodi più tragici di intolleranza religiosa nell’era pre-rivoluzionaria francese. François-Jean Lefebvre de La Barre, un giovane aristocratico, fu accusato di blasfemia e di irriverenza verso la religione cattolica, per non essersi tolto il cappello, non mostrando così rispetto, durante una processione religiosa, e per possedere un libro considerato sacrilego, il Dizionario Filosofico, proprio di Voltaire. Nel 1766, La Barre fu condannato a morte: torturato, decapitato e il suo corpo bruciato insieme al libro di Voltaire.

Questi casi, trattati da Voltaire in questa sua opera, non sono solo esempi storici di ingiustizia; sono anche potenti richiami all’importanza della tolleranza religiosa e della libertà personale. Voltaire adopera queste storie tragiche per criticare la collaborazione tra potere giudiziario e autorità religiose nel vessare le minoranze e imporre una conformità ideologica.
Il filosofo mostra come le dispute teologiche abbiano spesso fornito un pretesto per la violenza e l’oppressione. Difende l’idea che la tolleranza religiosa non solo sia una necessità etica e morale, ma anche una condizione essenziale per la pace e il progresso civile. La sua critica non risparmia nessuna confessione religiosa; invita tutti i credenti a riflettere sulla vera essenza dei loro insegnamenti spirituali, che secondo lui dovrebbero guidare verso la pace e la comprensione reciproca piuttosto che verso il conflitto.
Filosoficamente, il trattato contiene un’esposizione lucida dei principi dell’Illuminismo, come l’uso della ragione, l’importanza dell’individuo e il diritto alla libertà di pensiero e di espressione. Voltaire argomenta che la tolleranza sia una virtù tanto razionale quanto necessaria, sostenendo che nessun essere umano possegga la completa verità e che l’errore non debba essere perseguito con la forza, ma corretto con la ragione. Questo approccio non solo critica le istituzioni religiose dell’epoca, ma sfida anche le fondamenta stesse del potere politico, che si legittima attraverso l’assolutismo religioso.
Il Trattato sulla tolleranza, pertanto, resta un’opera profondamente significativa, che continua a essere rilevante. Il suo appello alla tolleranza fornisce lo spunto continuo di riflessione sulle questioni di libertà religiosa, convivenza civile e diritti umani. La lettura di questo testo rivela sì, gli orrori del passato, ma offre anche lezioni preziose per il presente e il futuro, nella lotta contro l’intolleranza e per la promozione della pace e della comprensione tra diverse culture e credenze.

 

 

 

 

La religione entro i limiti della semplice ragione
di Immanuel Kant

Critica della ragion religiosa

 

 

 

 

La religione entro i limiti della semplice ragione di Immanuel Kant, pubblicata nel 1793, analizza il rapporto tra la religione e la razionalità, proponendo una visione in cui la prima è interpretata attraverso il prisma della ragion pura, senza dipendenza dalle rivelazioni o dagli insegnamenti specifici di una fede particolare.
Kant si muove nell’ambito della sua critica della ragion pura e pratica, estendendo l’indagine alla religione. Sostiene che la moralità, non la dottrina dogmatica o i miracoli, dovrebbe essere la vera essenza della religione. La tesi principale è che la vera religione debba essere universale, basata sulla ragione e accessibile a tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro cultura o background religioso.
Il filosofo comincia la trattazione operando una distinzione tra religione naturale e religione razionale, entrambe considerate alternative alle religioni rivelate, come il cristianesimo tradizionale, ma differenti significativamente nei loro approcci e presupposti.
La religione naturale si fonda sull’osservazione del mondo naturale e dell’universo, da cui si traggono inferenze sulla natura e sull’esistenza di un Creatore. Questa forma di religione è accessibile agli esseri umani attraverso l’uso della ragione e dell’esperienza sensoriale, senza necessità di rivelazione divina o testi sacri. Kant ritiene che la religione naturale sia una forma di fede che rispetta i limiti della conoscenza umana ed evita superstizioni e dogmi. Nonostante ciò, la religione naturale da sola è limitata, poiché non può fornire una guida completa per la moralità, che il filosofo considera essenziale.
La religione razionale, invece, è strettamente legata all’etica kantiana e si basa interamente su principi razionali. Non solo accetta l’esistenza di Dio, causata dalla necessità di un ordine morale universale, ma pone anche i principi morali come fondamentali per la comprensione e la pratica della religione. La religione razionale trascende la semplice osservazione del mondo naturale e integra le nozioni di dovere e legge morale come manifestazioni della volontà divina. La religione razionale è quindi superiore alla religione naturale, perché incorpora la ragione pura e pratica, fornendo una base solida per un’etica universale che promuova la giustizia e la benevolenza.
Nel trattare il cristianesimo, Kant si impegna in una critica costruttiva, riconoscendone il valore delle dottrine centrali, pur sottoponendole al giudizio della ragion pura. La sua analisi del cristianesimo non mira a respingere la religione rivelata in toto, ma a purificarla dagli elementi superstiziosi e dogmatici, per rivelarne il nucleo morale universale. Critica aspetti del cristianesimo che ritiene basati su dogmi irrazionali, come la dipendenza da miracoli e rivelazioni che non possono essere giustificate attraverso la ragione, sostenendo che tali elementi distolgano dalla vera essenza della religione, ovvero il perseguimento del bene morale. Al contempo, stima il cristianesimo per il suo forte accento sulla moralità, in particolare, l’etica dell’amore e del sacrificio personale, rappresentati dalla figura di Gesù Cristo, visto come l’archetipo dell’“uomo morale”, la cui vita esemplifica la conformità alla legge morale universale, elementi ritraenti l’ideale della moralità che la religione razionale cerca di favorire. Il filosofo, pertanto, propone una reinterpretazione razionalizzata del cristianesimo, un cristianesimo purificato che funga da guida morale universale.

La sua concezione è quella di una religione che, pur mantenendo le sue radici storiche e culturali, sia riformata per rispettare i principi della ragion pura e pratica, rendendola, così, vera e universale. Questa prospettiva sfida i credenti a riflettere sulle basi razionali della loro fede e suggerisce che la vera religiosità dovrebbe promuovere, anziché ostacolare, il progresso morale dell’umanità.
Tra le questioni più significative affrontate in quest’opera vi è quella riguardante la natura del male e del peccato. Kant introduce il concetto di “male radicale” nella natura umana, un’inclinazione verso il male che coesiste con la capacità dell’uomo di riconoscere e seguire il bene morale. Questo conflitto interno è generale e non può essere superato soltanto attraverso gli sforzi umani, richiedendo, invero, un cambiamento del cuore o una sorta di rinascita spirituale. Kant rimarca che la religione dovrebbe assecondare la moralità, non sostituirla, opponendosi a interpretazioni religiose che pongono la fede sopra la moralità o che giustificano azioni immorali attraverso la fede.
Altro aspetto importante è il ruolo di Dio nell’etica kantiana. Dio emerge non tanto come una figura da temere o adorare in senso tradizionale, ma come un ideale morale supremo verso il quale l’umanità dovrebbe tendere. Kant sostiene che l’idea di Dio serva quale punto di orientamento morale per facilitare l’aspirazione dell’uomo alla santità, ritenuta conformità alla legge morale.
La religione entro i limiti della semplice ragione è un’opera che sfida sia i credenti che gli scettici, invitandoli a considerare la religione da una prospettiva critica e razionale. Nonostante le sue premesse possano essere considerate radicali, specialmente nel contesto del XVIII secolo, il tentativo di Kant di armonizzare la fede con la ragione rimane una pietra miliare nel pensiero filosofico e religioso. L’opera sollecita una riflessione continua sulle basi della fede e sull’importanza della moralità, rendendola perennemente rilevante nel dialogo contemporaneo tra filosofia e religione.

 

 

 

Il Fedro di Platone

L’anima ricorda e vola

 

 

 

Il Fedro, dialogo sublime di Platone, presumibilmente composto nel 370 a.C., si erge come una maestosa colonna nell’atrio del tempio della filosofia antica, intrecciando, con sapiente ardire, pensiero filosofico, religioso e mitologico. Tra le sue pagine, come in un giardino di allori divini, si passeggia fra discorsi sull’amore, sulla conoscenza e sull’arte retorica.
Platone vi dipana la trama dell’eros, il desiderio d’amore che muove l’anima verso il bello assoluto. Con slancio poetico, il filosofo eleva questo sentimento dal terreno fisico a quello delle Idee pure, dove l’amore si trasfigura in veicolo di ascensione filosofica. Questa visione è intimamente connessa alla teoria platonica delle Idee, secondo cui la conoscenza vera si raggiunge contemplando tali forme pure, accessibili solamente attraverso un processo di reminiscenza intellettuale. Questo processo, tema caro alla dottrina platonica, qui si colora di toni mistici: il ricordo delle verità eterne diventa un rito di passaggio, una rinascita dello spirito che ascende al cielo delle idee immutabili e può essere interpretato anche come un ritorno all’origine divina dell’anima, una sorta di pellegrinaggio spirituale verso la purificazione e l’illuminazione.
Il dialogo insinua l’idea che l’anima umana possa essere migliorata e redenta attraverso il potere dell’eros filosofico, che spinge l’individuo a una comprensione più profonda della realtà e della propria natura spirituale. Questo processo di ascesa è intricatamente legato al concetto di dialettica, un metodo di questionamento e argomentazione che Socrate, personaggio del dialogo, utilizza per guidare il suo interlocutore verso la verità, innalzando l’intelletto di questi dalla conoscenza sensibile a quella intellegibile.
Il Fedro è impregnato anche di riferimenti e simbolismi religiosi, che richiamano le credenze e le pratiche cultuali dell’antica Grecia. La preghiera iniziale a Pan e alle Naiadi serve sì da omaggio formale alle divinità, ma stabilisce altresì un contesto in cui il discorso può essere visto come un’offerta spirituale. Inoltre, il concetto di anima che Platone sviluppa riflette la visione religiosa greca dell’immortalità e della metempsicosi, ovvero la trasmigrazione delle anime.
Il mito della biga alata è forse l’immagine più potente e incisiva del dialogo. Questa allegoria riferisce di un auriga divino che guida due cavalli: uno nobile e l’altro ribelle, simbolo del conflitto interno tra ragione e desiderio, mentre l’auriga rappresenta l’elemento spirituale, il logistikon, che deve controllare i cavalli per mantenere la biga sulla giusta strada verso il cielo delle Idee, l’Iperuranio. La narrazione incanta per la sua vivida carica immaginifica e si spinge oltre, fungendo da metafora del viaggio dell’anima verso la conoscenza e la divinità. Il mito, così, non è semplice racconto ma epifania filosofica, che svela l’incessante lotta dell’essere per raggiungere l’armonia celeste. Tale mito sottolinea anche la tensione tra il destino divino dell’anima e le sue inclinazioni terrene. La biga alata, infatti, simboleggia il viaggio ascensionale dell’anima verso il divino, sforzandosi di superare l’attrazione gravitazionale delle passioni basse per ritornare alla sfera delle forme pure.


Nel Fedro, Platone non esplora solo tematiche filosofiche e mitologiche profonde, ma si immerge anche nella natura e nel valore dell’arte retorica. Attraverso il dialogo tra Socrate e Fedro, il filosofo ateniese critica le pratiche retoriche a lui coeve, spesso vuote e manipolative, proponendo un modello di retorica basato sulla verità e sulla giusta conoscenza. Due concetti fondamentali in questo contesto sono la synopsis e la dihairesis, ovvero la visione d’insieme e l’arte di dividere correttamente i concetti.
La synopsis rappresenta la capacità di vedere l’argomento nella sua interezza, di comprendere il quadro generale prima di procedere con un’analisi dettagliata. Per Platone è essenziale, perché permette all’oratore di non perdere di vista il contesto più ampio in cui si inserisce il discorso. Una vera comprensione degli argomenti richiede una visione olistica che colleghi le parti al tutto, assicurando che ogni pezzo del discorso sia allineato con il principio guida o la verità fondamentale che si vuol comunicare. La synopsis aiuta a evitare manipolazioni e sofismi, promuovendo una retorica persuasiva, eticamente fondata e intellettualmente rigorosa. La diairesis, invece, è il processo di suddivisione accurata di un argomento in categorie e sottocategorie, che permette di trattare ogni parte con precisione e dettaglio. Questa tecnica è cruciale per affrontare qualsiasi tema complesso, poiché organizza il materiale in modo che ogni elemento sia esaminato secondo criteri chiari e razionali. Nel dialogo, Platone usa la diairesis per distinguere tra diverse forme di amore, evidenziando come una vera comprensione dell’eros non possa prescindere dalla capacità di discernere i suoi aspetti nobili da quelli bassi. Analogamente, una retorica efficace deve poter identificare e isolare i diversi aspetti di un argomento per trattarli con la specificità che meritano. La combinazione di synopsis e diairesis forma la base di ciò che Platone considera l’arte della vera retorica: una disciplina che persuade, educa e migliora chi ascolta. Tale approccio eleva la retorica da semplice tecnica di persuasione a strumento di verità e giustizia, facendo dell’oratore non un mero istigatore, ma un maestro, un guidatore di anime. In questo modo, la retorica acquisisce un valore etico ed epistemologico: da arte di parlare bene, ad arte di pensare e agire correttamente.
Il Fedro, velo iridescente di parole e concetti, dove il filosofico, il religioso e il mitico danzano in un balletto celestiale, non è solo un trattato sull’amore o un manuale di retorica, ma un viaggio dell’anima che, tra le spirali dell’ascensione spirituale e i vortici del discorso logico, cerca di raggiungere la verità ultima. Lettura indispensabile per chi anela a comprendere non solo Platone ma la natura stessa del pensiero umano, rimane una stella polare nel firmamento della letteratura filosofica, guidando gli “astronauti del pensiero” attraverso i cieli tumultuosi della vita verso ciò che è al di là del cielo, l’Iperuranio della saggezza eterna.