Quanti sbreghi nelle toppe. Quanta miseria. Una fretta rozza di cose, il trito dei discorsi smozzicati, gragnole di rosari nel chiuso delle tasche. Briciole che ci graffiano le dita. Una vecchiaia di odori, astanterie, cucine predate da una caligine di colpe. Presi a cucchiaiate. Ricuciti a mezz’aria. In bilico da piani ignobili. Pareti di alfabeti per miopi. Arrampicati come gatti sulle ringhiere. Ci guardiamo. Tutti. Lo stadio della pelle. I denti. Se dimagriamo. Se ingrassiamo. Se siamo vegani o crudisti. Passeracci sotto una pioggia che massacra. Puniti. Spericolati. Vinti.
Questa rivista, uscita in settantaquattro numeri, uno ogni dieci giorni, tra il giugno 1764 e il maggio 1766, raccolse intorno a sé i maggiori intellettuali dell’Illuminismo milanese. Fondata da Pietro Verri, ad essa facevano capo i membri dell’Accademia dei Pugni, società culturale tra i cui soci sarebbero stati annoverati anche Primo Carnera, Nino Benvenuti, Patrizio Oliva e Agostino Cardamone (scherzo!), e così chiamata a causa dell’epilogo molto animato delle riunioni: scazzottate degne di Bud Spencer e Terence Hill. Gli articoli, tutti molto interessanti e riguardanti gli argomenti più vari e di interesse pubblico, ebbero le firme prestigiose di Pietro e Alessandro Verri, Cesare Beccaria, Pietro Secchi, Paolo Frisi, per citare i più autorevoli. Il comitato di redazione decise di rivolgersi ad un pubblico nuovo di lettori, non solo sapientoni e letterati, ma anche gente comune, piccoli professionisti, artigiani e donne. Questa fu una grande novità perché permise al sapere di uscire dalla torre d’avorio, dove, per secoli, era stato confinato, e di mettersi al servizio di tutti, secondo quel precetto tipicamente illuminista dell’uso intelligente della conoscenza per migliorare la società. Nei quattro fogli del Caffè, infatti, si poteva leggere tutto quello che era di interesse pubblico, dal commercio all’economia, dalla medicina all’agricoltura, dalla sanità alla politica.
Pietro Verri
Figlio del conte Gabriele e di Barbara Dati, nacque a Milano il 12 dicembre 1728. Il padre, col quale non ebbe mai un buon rapporto, fu molto severo, tanto da farlo studiare presso i collegi più terribili di Milano e provincia, esperienze che segnarono profondamente l’animo del giovane Pietro. Al ritorno in famiglia, i litigi col babbo ripresero più forti di prima, fino alla rottura definitiva, quando divenne l’amante di Maria Vittoria Ottoboni Boncompagni, moglie del duca Gabrio Serbelloni, gente molto in vista a Milano. Fu scandalo e il conte Gabriele, un alto funzionario del governo milanese, per lo scorno quasi non usciva più di casa. La relazione con la duchessa, donna molto colta e chic, instillò nel giovanotto la passione per il teatro e per la cultura francese, oltre che la voluttà nell’alcova. Il ménage con l’aristocratica amante, però, dopo qualche anno finì, lasciandolo così male da decidere di darsi alla vita militare, andando a combattere come ufficiale dell’esercito austriaco contro i prussiani. Al rientro a Milano fondò, col fratello Alessandro e i “pugili” della citata Accademia, Il Caffé e, allo stesso tempo, prese lavoro nell’amministrazione pubblica austriaca del capoluogo lombardo. A questi anni risale la composizione delle sue opere principali: le Meditazioni sull’economia politica, il Discorso sull’indole del piacere e del dolore, le Osservazioni sulla tortura, e i Ricordi a mia figlia, scritto per la figlioletta Teresa, nata proprio poche settimane prima. Posso dire con (quasi) certezza che, senza Pietro Verri e i suoi instancabili sforzi per la cultura e la sua diffusione, l’Illuminismo milanese sarebbe stato molto meno luminoso.
Alessandro Verri
Fratello minore di Pietro, nacque nel 1741 e fu più furbo del maggiore perché, per non farsi ammorbare oltremodo dal padre, molto presto, fece i bagagli e, dopo aver collaborato al Caffè, se ne andò a Parigi e Londra e, poi, a Roma, dove visse fino alla morte, nel 1816. Appassionato di teatro e lui stesso attore per diletto, fu uno dei primi a tradurre le opere di Shakespeare in italiano. Scrisse anche due romanzi, le Avventure di Saffo poetessa di Mitilene e la Vita di Erostrato. Avendo vissuto così tanto tempo lontano da Milano, pian piano, abbandonò lo spirito illuminista che aveva caratterizzato la prima fase della sua vita e ripiegò su visioni un po’ più cupe dell’esistenza, che saranno, poi, determinanti nel Romanticismo. Ne è prova una sua opera, le Notti romane al sepolcro degli Scipioni, scritto che compose in occasione del ritrovamento archeologico delle sepolture di quest’importante famiglia della Roma antica, in cui figura, che dalle tombe escano le ombre di romani illustri per discutere della grandezza e della rovina dell’impero più potente della Terra.
Cesare Beccaria
Il marchese Beccaria nacque a Milano nel 1738. Come Pietro Verri ebbe grosse e dure litigate con i genitori, a causa di una donna che, però, non era moglie di un nobile conosciutissimo, quanto una ragazza di famiglia povera, Teresa Blasco, che lui amò tantissimo e che, grazie anche all’aiuto proprio del Verri, il quale mediò con i suoi parenti, riuscì a sposare. Oltre ai contributi giornalistici al Caffè, Beccaria fece due cose importanti nella vita: la prima, diede i natali alla figlia Giulia, la futura madre di Alessandro Manzoni, e la seconda, scrisse Dei delitti e delle pene, un saggio che ebbe un successo esagerato in tutta Europa, tanto da farlo diventare l’idolo di molti dei filosofi dell’Illuminismo francese, in particolare di Voltaire. In questo trattato, colmo di spirito illuminista, Beccaria sostiene l’abolizione della pena di morte perché, a suo avviso, questa non fa né diminuire i crimini, né è buona come deterrente. “È più utile prevenire i delitti mostrando la certezza della pena – scrive l’autore – perché, per un criminale, è meglio morire che passare la vita in galera. Ma quando un ergastolano scappa dal carcere e mette in pericolo la vita dei cittadini, allora può essere messo a morte.” Questo libro dovrebbe rappresentare un articolo fondamentale della Costituzione di molti paesi del mondo, i quali, ahimè, evidentemente, ancora non hanno ancora visto o sentito parlare di Illuminismo.
Vorrei appassionarmi di più alle persone allontanare i cani da guardia da davanti il portone regalare frutta nel cesto ai nuovi vicini stringergli la mano sullo steccato che divide i nostri giardini apparecchiare sotto il pergolato e concederci il bicchiere della staffa fumare senza fretta rievocare l’infanzia i blocchi di partenza vorrei avere ore e spazio un modo per farci strada gli uni negli altri dedali di sassi radici sottoterra strami ed abissi ferite da cucire garze per rattoppare certe stanze rimaste disabitate quindi abitarci poi poi starcene zitti nell’erba bagnata col sussurro delle rane e quello delle bombe farlo adesso che sono ancora lontane.
A volte qualcuno mi chiede perché scrivo. Così sulle prime mi ritrovo a farfugliare, a incartarmi. Poi recupero il ritmo e allora glielo spiego. Che a me scrivere serve come la fame e come la sete. È motore e tubo di scappamento. Aria e merda. Io devo fiutare il tanfo nauseante della vita e poi pestarlo sulla carta. Se non lo faccio non riesco a vedere nemmeno l’atroce bellezza dell’esserci. Devo scriverla l’esistenza. Se voglio farci pace.
Su Facebook la tendenza è quella di fare opinionismo. Tutti parlano di tutto. Politica. Sport. Ecologia. Attualità. Quasi che non siano bastati, tra elementari, medie e liceo, tredici anni di temi in classe in cui ci veniva chiesto, a noi ragazzini indifferenti e idealisti di quegli anni sciolti, ciò che pensavamo del mondo. Poi ci hanno dato i social. E quei temini (sovente con gli stessi identici errori ortografici di allora) si perpetuano ‘in omne tempus’. Tutti a pronunciarsi su tutto. Lo stesso fervore. La stessa pletora. La stessa enfasi. La stessa retorica. In una corsa alla divulgazione che quasi fa spavento. Il telegiornale e poi il social, adiacenti l’uno all’altro come un “Porta a Porta” senza fine. Opinionisti sulle nostre belle sedie ergonomiche. O sui marciapiedi. Poco cambia. L’importante è dir la propria. L’importante è dirla, oppure averla detta. Come, fa niente. Non siamo mica dei Voltaire. E del come non frega più una mazza a nessuno. Che noia. Baudelairiana noia. Spleen.
Presentazione del libro di Carmine Iovine, “Asharm. Dove Gandhi ha sconfitto la camorra”, Marotta&Cafiero Editori, 2015. La storia dell’AsharamSanta Caterina, a Castellammare di Stabia, nato in una palazzina un tempo appartenuta ad una potente famiglia camorristica. Nelle stesse sale dove si decideva della vita e della morte, adesso si gioca e si vive l’esperienza bellissima dell’accoglienza, dell’ascolto, della conoscenza e della partecipazione. E della condivisione. Sì, perché ad Asharam convivono varie associazioni: Legambiente e Libera, un’officina popolare per la riparazione delle biciclette – l’Officina Filangieri, dal nome della locale biblioteca restaurata con il contributo delle associazioni-, una radio libera e tante iniziative per i bambini, i giovani e gli adulti di un quartiere considerato quello con il più alto tasso criminale della città stabiese. Introduzione e interviste a Carmine Iovine e Giuseppe Trotta, di Riccardo Piroddi. Letture di Marilena Altieri e Frenk Tortora. Riprese video di Antonino De Angelis. Organizzazione generale, musiche e foto di Mimmo Bencivenga, proprietario della Libreria Indipendente di Sorrento.
Incontro con Michael Deeley Jr, figlio del produttore del film “Blade Runner” di Ridley Scott (1982), con Harrison Ford e Rutger Hauer.
La storia, gli interpreti, la produzione e una serie di aneddoti di un film considerato un cult del genere fantascientifico, raccontati da chi è stato osservatore diretto di alcune delle fasi di pre-produzione. Interpretazione di alcuni inserti, recitati dal vivo, creati ex-novo da Michael Deeley Jr, per comprendere il cosiddetto “cuore nascosto” dell’Opera. Moderatore e intervistatore Riccardo Piroddi. Recitazione di Marilena Altieri, Teresa Vitiello, Salvatore Guadagnuolo, Mimmo Bencivenga e Michael Deeley Jr. Foto di Nino Casola. Video di Antonino De Angelis. Organizzazione generale e musiche di Mimmo Bencivenga, proprietario della Libreria Indipendente.
Ciak, si legge! Terzo appuntamento con la rassegna letteraria-cinematografica, organizzata dall’Associazione Giovanile “361°”. Dal romanzo di Roald Dahl, “La fabbrica di cioccolato” (1964), al film di Tim Burton “La fabbrica di cioccolato” (2005), con Johnny Depp, Freddie Highmore, David Kelly, Helena Bonham Carter e Noah Taylor. Un filo tra i libri e il cinema, tra la letteratura e i grandi film. Un filo che lega tutta la serie di appuntamenti: si comincia con la proiezione di un film, tratto da un romanzo di successo e, in conclusione dello stesso appuntamento, sarà suggerito il libro da cui è tratta la pellicola presentata nel successivo. L’acquisto del libro, oggetto dell’incontro susseguente, sarà possibile alla fine di ogni appuntamento! Conduzione e moderazione di Riccardo Piroddi. Letture di Rosaria Langellotto. Organizzazione generale di Ilaria Ferraro, in collaborazione, per la parte tecnica, con i giovani dell’Officina “361°”. Il cioccolato che i partecipanti hanno potuto degustare è stato messo a disposizione dal rinomato laboratorio di pasticceria-cioccolateria del “Roxy Bar”, di Giuseppe Esposito. Fotografie di Pier Luigi Tizzano.
Questa foto voglio dedicarla a quante e quanti si ricordavano (e si ricordano) dei diritti delle donne negli eticamente avanzati stati arabi, soltanto quando l’ultimo Presidente del Consiglio, eletto dai cittadini, rantolava di inferiorità culturale o quando lo fa qualche esponente politico, ideologicamente loro avverso. Ingabbiare le donne, seppure in una stia di tessuto, è un chiaro segno di inferiorità culturale. Punto! Su questo non c’è nulla da discutere. Nessun buonismo, nessuna filantropia e nessuna Boldrini. Solo inferiorità etica e culturale!!!