I viaggi di Gulliver, pubblicato anonimamente nel 1726, è un capolavoro di satira corrosiva, una denuncia spietata della modernità travestita da racconto fantastico e, al tempo stesso, una delle più inquietanti riflessioni sull’uomo mai scritte. Jonathan Swift, intellettuale irlandese complesso, dallo stile sottile e dalla contenutistica profonda, impiega il pretesto del viaggio immaginario non per intrattenere quanto per smascherare le ipocrisie del suo tempo.
Con l’abilità di un moralista cinico e disilluso, Swift utilizza le avventure del protagonista – il dottor Lemuel Gulliver – per passare al setaccio ogni aspetto della società del suo tempo: dalle istituzioni politiche alle convenzioni sociali, dalla scienza al diritto, dalla religione alla filosofia. Nulla sfugge alla sua critica feroce. I minuscoli Lillipuziani, i giganti di Brobdingnag, gli pseudo-scienziati di Laputa e gli inquietanti Houyhnhnms sono maschere allegoriche dietro cui Swift nasconde – ma solo fino a un certo punto – una visione amara, a tratti disperata, della condizione umana.
Il libro, pubblicato in pieno Illuminismo, si pose in netta controtendenza rispetto all’ottimismo razionalista dominante. Swift non credeva nel progresso, non aveva fiducia nella ragione, diffidava profondamente delle istituzioni. Dietro la patina di un’avventura esotica si celava, in realtà, un attacco radicale ai pilastri della civiltà occidentale settecentesca: l’idea che la storia procedesse verso il meglio, che la scienza portasse verità, che la politica mirasse al bene comune.
Il primo libro, Un viaggio a Lilliput, è forse il più noto e apparentemente leggero. Tuttavia, dietro i toni giocosi si cela una feroce caricatura della politica britannica del tempo. I lillipuziani sono piccoli non solo fisicamente ma anche moralmente e intellettualmente. Il loro regno è attraversato da faide ridicole (come quella tra chi rompe l’uovo dalla parte più grande e chi dalla parte più piccola) che parodiano le guerre religiose tra cattolici e protestanti. Il conflitto tra Lilliput e Blefuscu è l’eco farsesca delle tensioni tra Inghilterra e Francia.
Swift, che aveva vissuto da vicino la vita politica tra Inghilterra e Irlanda, sapeva quanto fossero ipocrite le dinamiche di potere. La sua satira prende di mira i Whig e i Tories, i giochi di palazzo, la diplomazia fine a sé stessa, la propaganda, la censura. Il potere, per Swift, non è né glorioso né razionale: è meschino, autocelebrativo, animato da vanità e calcolo. I ministri lillipuziani vengono scelti in base all’abilità acrobatica (chi salta più in alto), non alla competenza: una metafora brutale della mediocrità che domina i governi. Swift non si limita a ridicolizzare i politici. Estende la critica all’intero concetto di Stato come struttura basata sulla coercizione e sull’ambizione. Il potere, anziché garantire giustizia, serve a perpetuare sé stesso, usando ideologie e rituali per mascherare la propria brutalità. Il gigante Lemuel Gulliver, che potrebbe distruggere Lilliput con un solo gesto, si sottomette alle sue leggi assurde: è la parodia dell’uomo moderno, assuefatto all’autorità anche quando ne vede l’assurdità.

Nel terzo libro, Un viaggio a Laputa, Balnibarbi, Luggnagg, Glubbdubdrib e nel Giappone, Swift prende di mira l’altra grande fede del Settecento: la scienza. Laputa è un’isola volante governata da scienziati e matematici, che vivono immersi nei numeri, nei diagrammi, nei calcoli musicali, completamente disconnessi dal mondo reale. I loro servitori devono scuoterli fisicamente per farli prestare attenzione: una satira dell’intellettuale che ha perso ogni contatto con la vita concreta. Ma il bersaglio più feroce è l’Accademia di Lagado, una parodia della Royal Society di Londra. Qui gli scienziati sono impegnati in progetti assurdi: cercare di trasformare gli escrementi in cibo, estrarre raggi solari dai cetrioli, insegnare alle pecore a filarsi da sole. Sono esperimenti privi di senso pratico, condotti in nome di una razionalità che, paradossalmente, genera solo follia. Swift non è un antiscientifico né un oscurantista. Rifiuta il dogma illuminista secondo cui la scienza e la ragione porteranno inevitabilmente al progresso umano. Quando queste diventano fini a sé stesse, slegate dall’etica e dalla realtà, si trasformano in un’altra forma di superstizione. La satira di Laputa anticipa la critica alla tecnocrazia e all’alienazione dell’intelligenza che attraverserà la modernità.
Il quarto e ultimo libro, Un viaggio nel paese degli Houyhnhnms, è il più inquietante e radicale. Qui Gulliver incontra una razza di cavalli dotati di ragione, che vivono in una società perfetta, ordinata, pacifica. Non conoscono menzogna, avidità, guerra, invidia. In loro non c’è passione, solo equilibrio e logica. A contrastarli ci sono gli Yahoos, esseri umani degenerati, violenti, lussuriosi, avidi: lo specchio brutale dell’umanità. Gulliver finisce per odiare la propria specie, si identifica con gli Houyhnhnms e, una volta tornato in Inghilterra, non riesce più a sopportare la compagnia degli uomini. La trasformazione è completa: dall’osservatore ironico del primo libro, Gulliver diventa un misantropo radicale. Swift non presenta gli Houyhnhnms come un modello da seguire. Sono freddi, privi di empatia, incapaci di amare. Il loro mondo è privo di arte, di fantasia, di individualità. Questa è l’utopia che si trasforma in incubo. L’ideale razionale, se portato all’estremo, cancella ciò che rende umano l’uomo. L’utopismo di Swift è reazionario, nel senso più profondo: non propone un ritorno nostalgico al passato ma denuncia l’idea stessa che la natura umana sia perfettibile. Swift non crede nel progresso né nelle riforme né nelle rivoluzioni: crede che l’uomo sia intrinsecamente corrotto e che ogni tentativo di riformarlo conduca al disastro o alla disumanizzazione.
I viaggi di Gulliver è un’opera che non offre consolazione. Ogni speranza viene messa in crisi. La politica è un gioco di nani vanitosi, la scienza è ridotta a esperimenti ridicoli, l’utopia è un mondo senz’anima. Gulliver non cresce, non si emancipa: si spezza. La sua parabola è quella della disillusione assoluta, che culmina nel rifiuto totale della società e della propria specie. Eppure, proprio in questa negazione, l’opera conserva una forza straordinaria. È un grido contro ogni forma di dogmatismo – politico, religioso, scientifico. Swift demolisce tutto ma non per compiacersi nel nichilismo: lo fa per rimarcare che la realtà è più complessa delle ideologie, che l’uomo non è né angelo né bestia, quanto qualcosa di sfuggente, fragile e irriducibile a qualunque sistema.
I viaggi di Gulliver è un libro pericoloso perché non si lascia addomesticare. Né romanzo d’avventura né semplice allegoria morale, è un’opera che resiste a ogni semplificazione. È satira, sì, ma di una lucidità talmente spietata da rasentare la disperazione. È utopia, ma solo per mostrare quanto l’utopia possa essere disumana. È fantasia, ma come mezzo per dire la verità che nessuno vuole sentire. Swift non scrive per confortare ma per disturbare. Il suo Gulliver non è un eroe: è un testimone che torna dal mondo con una sola, amarissima verità: l’uomo, in ogni sua forma, è forse l’animale più ridicolo e più pericoloso dell’universo.


Il Discorso sulle scienze e sulle arti di Jean-Jacques Rousseau, pubblicato nel 1750, segnò l’inizio della sua riflessione critica sulla civiltà e sulla condizione umana. Quest’opera, scritta in risposta a un concorso indetto dall’Accademia di Digione, gli valse il primo premio e lo rese celebre nel dibattito filosofico del tempo. In essa, Rousseau sostiene una tesi radicale e in netta contrapposizione con la visione dominante dell’Illuminismo: il progresso delle scienze e delle arti non ha reso gli uomini migliori; al contrario, ha contribuito alla loro corruzione morale. Egli ribalta la convinzione diffusa tra i philosophes secondo cui la diffusione del sapere porterebbe inevitabilmente a un miglioramento della società. Afferma, invece, che la civiltà, con il suo sviluppo intellettuale e materiale, abbia allontanato l’umanità dalla virtù e dalla felicità autentica.








