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L’abbraccio del canto

Casella e la melodia del ricordo eterno

 

 

 

 

Casella, il musico fiorentino amico di Dante, appare nel Canto II del Purgatorio della Divina Commedia. La sua figura, avvolta da un’aura di dolcezza e nostalgia, incarna una delle più toccanti rappresentazioni dell’amicizia e dell’arte nella Commedia. Il sua comparsa è breve ma carica di significato simbolico ed emotivo.
Dante e Casella si incontrano sulla spiaggia del Purgatorio, in un momento sospeso tra il ricordo della vita terrena e l’attesa della purificazione. Casella appare come un’anima gentile, capace di riportare a Dante un conforto antico attraverso la musica. Quando il sommo poeta lo riconosce, il tono del suo discorso si colora subito di affetto e malinconia. Le prime parole di Dante rivolte all’amico sono piene di calore e desiderio di risentire quella musica che un tempo gli aveva offerto tanto sollievo:

E io: “Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!”.
(Purg. II, vv. 106-111)

In questi versi si percepisce il desiderio di Dante di trovare un momento di tregua dalle fatiche del viaggio, attraverso una consolazione che solo l’arte di Casella gli può offrire. La musica diventa qui un balsamo per l’anima affaticata, un ricordo dei tempi passati, quando l’amicizia e l’arte condividevano lo stesso respiro.

Casella, con la sua risposta affettuosa, non si sottrae alla richiesta dell’amico. Il canto che intona è una canzone, Amor che ne la mente mi ragiona, realmente composta da Dante e inclusa nel Convivio. La sua voce, sulla spiaggia del Purgatorio, sembra sospendere il tempo, creando un momento di perfetta armonia tra il mondo terreno e quello ultraterreno. La scena si carica di una bellezza malinconica, poiché i due amici, per un attimo, rivivono i giorni della vita passata.
Ma questa tregua dura solo un istante. Quando Casella inizia a cantare, tutte le anime presenti si fermano, incantate dalla dolcezza della melodia. Questo idillio viene bruscamente interrotto da Catone, che li richiama all’ordine, ricordando loro che non è tempo di indulgenza, ma di redenzione. Il suo ammonimento è severo:

Che è ciò, spiriti lenti?
Qual negligenza, quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
ch’esser non lascia a voi Dio manifesto.
(Purg. II, vv. 120-123)

Il richiamo di Catone segna la fine del momento di contemplazione e ci riporta alla realtà del cammino che Dante deve intraprendere. Casella, che per un attimo aveva riportato il poeta ai giorni della giovinezza, scompare tra le altre anime. Eppure, il ricordo di questo incontro resta potente, come un’eco lontana, un segno di quanto l’arte e l’amicizia possano elevare l’anima anche nei momenti più difficili.
Casella diventa così simbolo di una dolcezza che il Purgatorio stesso permette, pur nella sua tensione verso la purificazione. In lui, Dante riconosce il potere dell’arte di trasportare l’anima oltre il tempo e lo spazio, rendendola capace di avvicinarsi, almeno per un istante, a quell’armonia divina che solo alla fine del cammino potrà essere raggiunta.
In questa breve apparizione, Casella incarna l’elegia della memoria, dell’amicizia e dell’arte, capace di risvegliare in Dante l’umana nostalgia, ma anche di ricordargli che il cammino verso la salvezza non può arrestarsi per troppo tempo nella dolcezza del ricordo.

 

 

 

 

 

L’estetica del male

La rivoluzione poetica di Charles Baudelaire

 

 

 

 

Charles Baudelaire è stato uno spartiacque determinante nella storia della poesia. Con Les fleurs du mal (1857) ha rivoluzionato la lirica francese, ridefinendo, altresì, il ruolo stesso del poeta, spingendolo ai margini della società borghese e trasformandolo in testimone e vittima delle contraddizioni della modernità. Baudelaire non è soltanto il cantore dell’estetismo decadente o il padre del simbolismo: è il primo poeta che assume come oggetto la dissonanza, la frattura, l’impossibilità dell’armonia. La sua poetica è il tentativo estremo di salvare la bellezza in un mondo in rovina, di trovare l’assoluto nel fango, di cantare l’orrore senza negarlo.
Baudelaire scrive in un periodo di radicale trasformazione. La Parigi del Secondo Impero, modernizzata da Georges Eugène Haussmann, si espande, si industrializza, si velocizza. Il poeta si trova di fronte a una società in cui il progresso tecnico e scientifico produce nuove forme di alienazione e omologazione. La sua risposta non è nostalgia ma consapevolezza tragica. La modernità non è una stagione felice ma un processo di disgregazione inarrestabile. Come ha affermato Walter Benjamin, Baudelaire è il primo a trasformare l’esperienza dello shock urbano in materiale poetico. Non più la natura ma la folla, il rumore, la velocità, il mutamento incessante diventano oggetti della poesia. Nel suo Salon de 1846, Baudelaire scrive che la modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente – ma aggiunge che il compito dell’artista è proprio quello di cogliere l’eterno nel transitorio. La poesia, quindi, non può più rifugiarsi nell’idillio o nell’astratto: deve confrontarsi con l’instabile, con l’informe, con il presente.
Il titolo della sua raccolta più celebre, Les fleurs du mal, contiene già la sintesi di tutta la poetica baudeleriana: il male può dare origine a fiori, la bruttezza può essere trasfigurata, il dolore può diventare arte. Ma non c’è sublimazione: il male non viene negato, solo osservato, sezionato, trasfigurato. In poesie come Une charogne (Et le ciel regardait la carcasse superbe comme une fleur s’épanouir), la decomposizione del corpo femminile viene descritta con crudezza anatomica, ma anche con uno sguardo estetico che ne coglie la tragica bellezza. È qui che la poetica di Baudelaire tocca una delle sue vette: la bellezza è inseparabile dall’orrore. Questa tensione è la chiave della sua concezione dell’arte: il bello non è ciò che consola ma ciò che inquieta, che mette a nudo il dolore esistenziale. Il poeta è un esploratore dell’abisso, non un sacerdote dell’armonia.
La dialettica tra “Spleen” e “Ideale” è la struttura portante dell’intera opera. Lo Spleen rappresenta la noia, la paralisi, il tedio metafisico che assale l’uomo moderno. Non è semplice malinconia ma nausea dell’esistenza. In poesie come Spleen (Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle…), il cielo è come un coperchio che opprime l’anima, lo spazio si deforma, il tempo si blocca. È la descrizione di una condizione claustrofobica, in cui il soggetto è divorato dall’inutilità del vivere. All’opposto, L’idéal (Ce ne seront jamais ces beautés de vignettes… qui sauront satisfaire un cœur comme le mien), canta l’aspirazione alla bellezza, alla purezza, all’assoluto. Ma l’ideale è continuamente negato dalla realtà. Il poeta è, quindi, una figura tragica, condannata a desiderare ciò che non può raggiungere. Questa frattura interna, questa scissione dell’io, rende la poesia di Baudelaire profondamente moderna: l’unità è persa per sempre.

Parigi non è solo sfondo ma protagonista. Nei Tableaux Parisiens, una delle sezioni de Les fleurs du mal, la città viene rappresentata come un luogo di spettacolo e degrado, di solitudine e metamorfosi. Il poeta-flâneur vaga tra i boulevard, osserva mendicanti, prostitute, ubriachi, passanti anonimi. La città è una macchina che produce identità instabili e relazioni fugaci. Non c’è più comunità ma solo individui isolati che si incrociano senza toccarsi davvero. In À une passante (Fugitive beauté dont le regard m’a fait soudainement renaître), la figura femminile è colta nell’attimo, in un lampo di bellezza che svanisce subito: la fugace bellezza il cui sguardo mi ha fatto rinascere. È una visione che contiene tutta la modernità: frammento, velocità, perdita.
Con la poesia Correspondances (La Nature est un temple où de vivants piliers laissent parfois sortir de confuses paroles), Baudelaire consegna una delle intuizioni più fertili della poesia moderna: il mondo è un insieme di simboli, di corrispondenze segrete tra le cose. I sensi non sono compartimenti separati ma comunicano tra loro: suoni, profumi, colori si mescolano in una sinestesia percettiva. Questo porta a un’idea del linguaggio poetico come evocazione, non descrizione. Il poeta è colui che sa leggere dietro le apparenze, che coglie l’invisibile nel visibile. È qui che nasce il simbolismo, che avrebbe permeato tutta la poesia europea del XX secolo. Eppure in Baudelaire c’è ancora il senso del limite: il simbolo non è mai pienamente afferrabile, l’unità del mondo è solo intuito, non conquistato.
Baudelaire rifiuta l’idea borghese del poeta come figura “utile” o decorativa. Il poeta è un emarginato, un escluso, un essere in eccesso. In L’Albatros (Le Poète est semblable au prince des nuées qui hante la tempête et se rit de l’archer) il poeta è paragonato al grande uccello marino, maestoso in volo e ridicolo a terra, zimbello della ciurma. Questa è la condizione del poeta nella società moderna: inadatto, fuori luogo, deriso. Ma è proprio questa esclusione che fa del poeta una figura visionaria. Non potendo integrarsi è costretto a guardare più in profondità, a diventare un veggente. Rimbaud, nella sua Lettre du Voyant, dichiarerà apertamente di voler portare avanti il programma baudeleriano.
Baudelaire è stato letto come precursore del simbolismo, del decadentismo, del modernismo. Ma la sua eredità va oltre le correnti letterarie. È il primo a porre al centro della poesia la crisi dell’identità, la frammentazione del soggetto, l’angoscia del tempo. La sua è una poesia della perdita, non della celebrazione. Il suo lascito non è uno stile ma un problema: come continuare a scrivere poesia in un mondo desacralizzato? Autori come T.S. Eliot, Paul Valéry, Fernando Pessoa, Pier Paolo Pasolini e perfino cantautori come Fabrizio De André devono qualcosa a Baudelaire. Non solo nella forma ma nell’atteggiamento: la poesia come esercizio di verità, come lotta contro l’anestesia dell’anima.
La poetica di Baudelaire non offre consolazioni ma strumenti per guardare in faccia l’oscurità. È una poesia fatta di fratture, di tensioni insanabili, di luci accecanti e abissi profondi. In un tempo come il nostro, segnato da nuove forme di disorientamento, la sua voce resta più che mai necessaria. Non per indicarci una via d’uscita ma per insegnarci a stare nel conflitto, nella bellezza feroce delle cose che finiscono.

 

 

 

 

La professione di fede di Dante e la visione trinitaria
in dialogo con la dottrina di Gioacchino da Fiore

 

 

 

 

Nel canto XXIV del Paradiso, Dante professa un’autentica confessio fidei, nella quale riassume l’essenza della sua credenza cristiana. La dichiarazione comincia con un atto di fede nel Dio unico ed eterno, creatore e motore dell’universo:

E io rispondo: Io credo in uno Dio
solo ed etterno, che tutto ’l ciel move,
non moto, con amore e con disio;
(vv. 130-132)

Il “non moto” è una chiara allusione all’“immobile motore” aristotelico, reinterpretato cristianamente: Dio muove l’universo non per necessità ma per attrazione amorosa, principio che rimanda alla nozione agostiniana della carità come forza ordinatrice del cosmo.
Dante continua proclamando che la sua fede è radicata tanto nella ragione quanto nella rivelazione, riconoscendo quali fonti autentiche di verità i testi sacri dell’Antico e del Nuovo Testamento:

e a tal creder non ho io pur prove
fisice e metafisice, ma dalmi
anche la verità che quinci piove

per Moïsè, per profeti e per salmi,
per l’Evangelio e per voi che scriveste
poi che l’ardente Spirto vi fé almi;
(vv. 133-138)

Il culmine della sua professione di fede è la dichiarazione trinitaria:

e credo in tre persone etterne, e queste
credo una essenza sì una e sì trina,
che soffera congiunto ‘sono’ ed ‘este’.
(vv. 139-141)

La capacità di dire insieme sono (plurale) ed este (singolare) è segno della perfetta unità e distinzione tra le tre Persone della Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo.

L’immaginario trinitario di Dante trova una fonte ricca e suggestiva nella visione storico-profetica di Gioacchino da Fiore (1130-1202), figura dirompente nel pensiero religioso medievale, la cui influenza si è estesa ben oltre la sua epoca. Dante ne riconosce la statura carismatica, riservandogli un posto tra i beati nel Paradiso, accanto a San Bonaventura:

…e lucemi dallato,
il calavrese abate Gioacchino
di spirito profetico dotato.
(Par., canto XII, vv. 139-141)

Il riconoscimento non è casuale. Dante coglie in Gioacchino sia il carisma del profeta sia l’audacia teologica di un interprete che ha tentato di dare forma simbolica e dinamica al mistero centrale della fede cristiana: la Trinità. A differenza dei grandi scolastici suoi contemporanei, Gioacchino non costruì un sistema concettuale, ma una visione simbolica della storia, fondata su una lettura spirituale della Bibbia, delle genealogie, dei numeri e delle analogie tra eventi storici.
Al centro del pensiero gioachimita c’è l’idea che la Trinità non riguardi solo la natura di Dio: è la forma stessa della storia della salvezza. Questo principio si incarna nella sua concezione delle tre età o status temporum, ciascuna sotto il segno di una Persona divina. L’età del Padre è il tempo dell’Antico Testamento, segnato dalla Legge, dalla distanza tra Dio e l’uomo, dalla paura reverenziale; il Padre si rivela nella sua maestà, come legislatore e guida del popolo eletto. L’età del Figlio ha inizio con l’incarnazione del Verbo e prosegue nel tempo della Chiesa. È l’epoca della redenzione, della grazia e dell’imitazione di Cristo. Ma è anche, secondo Gioacchino, un tempo ancora “imperfetto”, perché caratterizzato da mediazioni esterne, strutture giuridiche e potere ecclesiastico. L’età dello Spirito Santo è la grande attesa profetica gioachimita: un’epoca futura e definitiva, in cui la legge scritta sarà superata da una legge interiore, spirituale. In questa terza fase non sarà più necessaria la mediazione della gerarchia ecclesiastica: l’uomo vivrà in libertà spirituale, in una comunità fraterna guidata dallo Spirito. È il tempo della consolatio, della sapienza diretta, della piena interiorizzazione del messaggio cristiano.
Questa struttura trinitaria è più di una cronologia: è una visione escatologica. Ogni età compie la precedente ma senza annullarla, in un movimento analogo alle relazioni interne alle Persone divine. Il Figlio manifesta pienamente il Padre, lo Spirito Santo compie l’opera del Figlio nella vita dell’anima e della comunità.
Nel Liber Figurarum, l’opera che raccoglie le visioni più significative di Gioacchino, la Trinità è rappresentata mediante tre cerchi congiunti, tre volti o alberi genealogici tripartiti. Queste immagini intendono rendere visibile la coappartenenza tra Dio e il tempo, tra struttura divina e destino umano. Le tavole, accompagnate da brevi commenti esegetici, sono strumenti meditativi e pedagogici, rivolti non a definire quanto a svelare attraverso il simbolo.
È probabilmente da queste rappresentazioni che Dante trasse ispirazione per la descrizione visionaria della Trinità nel XXXIII canto del Paradiso, dove tre cerchi colorati e concentrici rappresentano simbolicamente il mistero trinitario.

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;

e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.
(vv. 115-120)

I “tre giri” danteschi, distinti nei colori, ma identici nella sostanza, evocano direttamente l’immaginario figurativo gioachimita. Anche qui, la Trinità non è spiegata, è contemplata.

Pur riconoscendone il valore spirituale, Dante prende le distanze dall’escatologia più radicale di Gioacchino. L’idea di una futura “età dello Spirito” che possa superare la rivelazione evangelica e la struttura della Chiesa suscitò sospetti già nel XIII secolo e fu condannata, in parte, dal Concilio Lateranense IV (1215), che pur non citando Gioacchino per nome, ne mise in discussione le implicazioni teologiche.
Dante non abbracciò queste idee estreme. La sua Commedia non profetizza una terza rivelazione, ma culmina in una visione beatifica atemporale, in cui la verità della fede trova il suo compimento fuori dal tempo, nel punto eterno dell’Amore divino. L’età dello Spirito, per Dante, non è un’epoca storica futura: è una condizione spirituale già accessibile nell’esperienza mistica e nella comunione dei santi. La tensione profetica gioachimita viene così interiorizzata e armonizzata con la dottrina cristiana tradizionale.
Dante e Gioacchino da Fiore convergono su un punto fondamentale: la Trinità come forma dinamica e generativa della realtà. In Gioacchino, la Trinità diventa la struttura profonda del tempo e della storia; in Dante, è la chiave della visione finale, la sorgente dell’essere e della beatitudine.
Entrambi cercano, con mezzi diversi – il simbolo profetico e la poesia teologica – di esprimere l’inesprimibile: un Dio che è insieme Uno e Trino, distante e intimo, giudice e amante, inizio e fine.
Gioacchino aprì una nuova via nell’interpretazione della storia sacra, proponendo un’escatologia radicale della liberazione spirituale. Dante ne raccolse l’intuizione e la trasfigurò, facendo della Trinità non solo la fine del viaggio ultraterreno ma la forma ultima della conoscenza e dell’amore, quell’amor che move il sole e l’altre stelle.

 

 

 

Tommaso d’Aquino e Dante Alighieri

Convergenze dottrinali e trasfigurazione poetica

 

 

 

 

Tommaso d’Aquino non è, per Dante, una semplice fonte tra le tante: è la colonna portante della sua visione del mondo, il sistema attraverso cui l’universo acquista senso, ordine e finalità. La teologia e la filosofia dell’Aquinate offrono al poeta non soltanto un lessico concettuale, quanto una struttura ontologica completa – un’impalcatura che regge la Divina Commedia su più piani: cosmologico, antropologico, morale, epistemologico e politico. Quando Dante guarda al cielo, all’anima umana, alla giustizia divina o alla distribuzione dei poteri terreni, dietro ogni scelta poetica si intravede un quadro teorico rigoroso, spesso riconducibile all’elaborazione tomista della dottrina cristiana. Eppure, sarebbe un errore ridurre il poeta a un mero esecutore di un pensiero altrui. Dante non è uno scolaro che ripete la lezione: è un autore che rilegge, interpreta, piega e, talvolta, sfida l’autorità stessa che lo ispira. Se Tommaso offre la mappa, è Dante che traccia il percorso. Nella Divina Commedia, l’eredità tomista non è mai trasferita in modo meccanico: è rifusa in una forma poetica che ne amplifica il potere immaginativo e ne rivela al contempo i punti di tensione. È all’interno della dimensione visionaria – tra il viaggio oltremondano e la rappresentazione simbolica del reale – che il pensiero tomista si trasforma. Le gerarchie celesti diventano moti d’amore, la legge morale si fa dramma interiore, la razionalità filosofica si intreccia con la grazia, la fede, la profezia. In questo, Dante compie un’operazione radicale: umanizza il pensiero scolastico senza impoverirlo, lo trasfigura senza tradirlo. Accanto al filosofo sistematico, egli pone il poeta profeta; accanto al teologo che ordina il sapere, l’autore che narra la salvezza come cammino personale e collettivo. Il risultato è un’opera che accoglie l’eredità dell’Aquinate, rilanciandola, vivificandola e mettendola in dialogo con l’immaginazione e con le contraddizioni dell’esperienza umana.

Tommaso nel Cielo del Sole: un’autorità dottrinale e spirituale

Nei canti X e XI del Paradiso, Tommaso compare tra i savi che ruotano intorno a Dante e Beatrice. Non è solo un sapiente, è il” sapiente che apre il discorso. Lo fa con misura, chiarezza e reverenza, tratti tipici del suo stile. Dante assegna a Tommaso la funzione di interprete della storia sacra della sapienza. È significativo che sia proprio il domenicano a lodare la vita di san Francesco: una scelta che esprime un desiderio di conciliazione tra gli ordini mendicanti, spesso in contrasto nel Trecento. Ma è anche un riconoscimento della carità intellettuale di Tommaso, in linea con quanto egli stesso scrive nella Summa Theologiae: “Nec benevolentia sufficit ad rationem amicitiae, sed requiritur quaedam mutua amatio, quia amicus est amico amicus. Talis autem mutua benevolentia fundatur super aliqua communicatione. Cum igitur sit aliqua communicatio hominis ad Deum secundum quod nobis suam beatitudinem communicat, super hac communicatione oportet aliquam amicitiam fundari. De qua quidem communicatione dicitur I ad Cor. I, fidelis Deus, per quem vocati estis in societatem filii eius. Amor autem super hac communicatione fundatus est caritas. Unde manifestum est quod caritas amicitia quaedam est hominis ad Deum” (Per l’amicizia non basta neppure la benevolenza, ma si richiede l’amore scambievole: poiché un amico è amico per l’amico. E tale mutua benevolenza è fondata su qualche comunanza. Ora, essendoci una certa comunanza dell’uomo con Dio, in quanto questi ci rende partecipi della sua beatitudine, è necessario che su questo scambio si fondi un’amicizia. E di questa compartecipazione così parla S. Paolo: “Fedele è Dio, per opera del quale siete stati chiamati alla comunione del Figlio suo”. Ma l’amore che si fonda su questa comunicazione è la carità. Dunque, è evidente che la carità è un’amicizia dell’uomo con Dio. STh, II-II, q. 23, a. 1). La carità quale fondamento dell’amicizia tra l’uomo e Dio è anche il principio di unità tra scienza e fede in Paradiso, dove la luce dell’intelletto è inseparabile dalla luce dell’amore.

Ordine cosmico e metafisica dell’Essere

Il cosmo dantesco è un ordine gerarchico e finalizzato, retto da leggi razionali che hanno origine nell’Actus Purus tomista, ossia Dio. In Dante, questa struttura si manifesta nella mirabile armonia delle sfere celesti e nella simbologia della rosa celeste. Tommaso definisce Dio come ipsum esse subsistens: “Substantia enim est ens per se subsistens. Hoc autem maxime convenit Deo. Ergo Deus est in genere substantiae” (La sostanza è di per sé sussistente. Ora, sussistere così conviene soprattutto a Dio. Dunque, Dio è nel genere sostanza. STh, I, q. 3, a. 5). Per Tommaso, ogni ente partecipa all’essere in misura differente, secondo una gerarchia che rispecchia la sua distanza dalla perfezione divina. “Praeterea, quanto aliquod agens est virtuosius, tanto ad magis distans eius actio procedit. Sed Deus est virtuosissimum agens. Ergo eius actio pertingere potest ad ea etiam quae ab ipso distant, nec oportet quod sit in omnibus” (Quanto più potente è un agente, a tanto maggior distanza arriva la sua azione. Ora, Dio è un agente onnipotente. Dunque, la sua azione può giungere anche alle cose che distano da lui; e non è necessario che sia in tutte le cose. STh, I, q. 8, a. 1). Questa idea è trasposta poeticamente nella Commedia, dove i beati appaiono in diverse sfere, non per diversa beatitudine, ma per diversa manifestazione della gloria. Il concetto tomista di ordo universi, cioè che l’universo è più perfetto nella varietà delle creature che non nella uniformità, trova eco nei versi:

… “Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante.

(Par., I, vv. 103-105)

L’anima razionale e l’intelletto

La concezione dell’anima in Dante deriva direttamente dalla dottrina tomista dell’anima come forma del corpo e dell’intelletto come sua facoltà più alta. Nella Summa Theologiae si legge: “Anima igitur intellectiva est forma absoluta, non autem aliquid compositum ex materia et forma. Si enim anima intellectiva esset composita ex materia et forma, formae rerum reciperentur in ea ut individuales, et sic non cognosceret nisi singulare, sicut accidit in potentiis sensitivis, quae recipiunt formas rerum in organo corporali, materia enim est principium individuationis formarum. Relinquitur ergo quod anima intellectiva, et omnis intellectualis substantia cognoscens formas absolute, caret compositione formae et materiae” (Perciò, l’anima intellettiva è una forma assoluta, non già un composto di materia e di forma. Infatti, se l’anima intellettiva fosse composta di materia e di forma, le forme delle cose sarebbero ricevute in essa nella loro individualità; e così essa conoscerebbe le cose soltanto nella loro singolarità, come avviene nelle potenze sensitive, che ricevono le forme delle cose in un organo corporeo: la materia infatti è il principio di individuazione delle forme. Rimane dunque che l’anima intellettiva e ogni sostanza intellettuale, che conosca le forme nella loro assolutezza, non è composta di materia e di forma. STh, I, q. 75, a. 5). Nel canto XXV del Purgatorio, Dante riprende la dottrina della generazione dell’anima e del ruolo dell’intelletto possibile e agente in modo estremamente fedele:

Sangue perfetto, che poi non si beve
da l’assetate vene, e si rimane
quasi alimento che di mensa leve,

prende nel core a tutte membra umane
virtute informativa, come quello
ch’a farsi quelle per le vene vane.

(Purg., XXV, vv. 37-42)

Tommaso, infatti, distingue fra intelletto possibile (recettivo, passivo) e intelletto agente (attivo, astrattivo), una ripartizione fondamentale nella gnoseologia medievale: “Sicut et in aliis rebus naturalibus perfectis, praeter universales causas agentes, sunt propriae virtutes inditae singulis rebus perfectis, ab universalibus agentibus derivatae, non enim solus sol generat hominem, sed est in homine virtus generativa hominis; et similiter in aliis animalibus perfectis. Nihil autem est perfectius in inferioribus rebus anima humana. Unde oportet dicere quod in ipsa sit aliqua virtus derivata a superiori intellectu, per quam possit phantasmata illustrare” (Anche nel mondo degli esseri fisici più perfetti vediamo che, oltre alle cause efficienti più universali, esistono nei singoli esseri perfetti le loro proprie capacità derivate dalle cause universali: infatti non è soltanto il sole che genera l’uomo, ma nell’uomo stesso vi è la virtù di generare altri uomini; così si dica per gli altri animali perfetti. Ora nella sfera degli esseri inferiori non vi è niente di più perfetto dell’anima umana. Perciò bisogna concludere che esiste in essa una facoltà derivata da un intelletto superiore, mediante la quale possa illuminare i fantasmi. STh, I, q. 79, a. 4). Dante assume tale distinzione per spiegare l’ascensione conoscitiva dell’uomo, culminante nella visione beatifica.

Etica, virtù e beatitudine

Secondo Tommaso, la beatitudine suprema dell’uomo è la visione dell’essenza divina (visio Dei). Questo è il punto d’arrivo sia della teologia sia del cammino dantesco. Nella Summa, Tommaso scrive: “Praeterea, beatitudo est ultimus finis, in quem naturaliter humana voluntas tendit. Sed in nullum aliud voluntas tanquam in finem tendere debet nisi in Deum; quo solo fruendum est, ut Augustinus dicit. Ergo beatitudo est idem quod Deus” (La beatitudine è l’ultimo fine, al quale tende per natura la volontà umana. Ma la volontà non deve avere come fine un oggetto diverso da Dio; poiché di lui soltanto dobbiamo fruire, secondo l’espressione di S. Agostino. Dunque, la beatitudine è Dio stesso. STh, I-II, q. 3, a. 8). Dante realizza questa dottrina nel momento culminante della Commedia:

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle.

(Par., XXXIII, vv. 142-145)

Qui si conclude il cammino di razionalizzazione tomista della fede. L’amore è l’ultima forma del sapere, non irrazionale, ma illuminato dalla grazia e perfetto nella visione.

Il pensiero politico: armonia e conflitto con Tommaso

Nel De Monarchia, Dante costruisce una visione della monarchia universale che ha molti tratti comuni con il pensiero tomista, ma anche divergenze importanti. Tommaso ammette una subordinazione dell’Impero al Papa (con eco dell’auctoritas spiritualis superiore al potestas temporalis): “Potestas spiritualis distinguitur a temporali. Sed quandoque praelati habentes spiritualem potestatem intromittunt se de his quae pertinent ad potestatem saecularem. Ergo usurpatum iudicium non est illicitum” (Il potere spirituale è distante da quello temporale. Ma talora i prelati che sono investiti di un potere spirituale s’immischiano in affari che riguardano il potere temporale. Quindi il giudizio usurpato non è illecito. STh, II-II, q. 60, a. 6). Dante, invece, scrive: “Per questo l’uomo ha avuto bisogno di una duplice guida in vista di una duplice meta: il sommo Pontefice che guidasse il genere umano alla vita eterna per la via segnata dalla rivelazione, e l’Imperatore, che sugli insegnamenti filosofici dirigesse il genere umano verso la felicità temporale” (De Monarchia, III, 15, 10). Dunque, per Dante, Papato e Impero devono essere autonomi ma armonici, entrambi ordinati a Dio, ma non subordinati l’uno all’altro.

Fede e ragione

Infine, il vero asse portante comune è la sinergia tra fede e ragione. Secondo Tommaso: “Per gratiam perfectior cognitio de Deo habetur a nobis, quam per rationem naturalem. Quod sic patet. Cognitio enim quam per naturalem rationem habemus, duo requirit, scilicet, phantasmata ex sensibilibus accepta, et lumen naturale intelligibile, cuius virtute intelligibiles conceptiones ab eis abstrahimus. Et quantum ad utrumque, iuvatur humana cognitio per revelationem gratiae. Nam et lumen naturale intellectus confortatur per infusionem luminis gratuiti. Et interdum etiam phantasmata in imaginatione hominis formantur divinitus, magis exprimentia res divinas, quam ea quae naturaliter a sensibilibus accipimus; sicut apparet in visionibus prophetalibus” (Noi mediante la grazia possediamo una conoscenza di Dio più perfetta che per ragione naturale. Eccone la prova. La conoscenza che abbiamo per ragione naturale richiede due cose: cioè dei fantasmi, o immagini, che ci vengono dalle cose sensibili, e il lume naturale dell’intelligenza, in forza del quale astraiamo dai fantasmi concezioni intelligibili. Ora, quanto all’una e all’altra cosa, la nostra conoscenza umana è aiutata dalla rivelazione della grazia. Infatti: il lume naturale dell’intelletto viene rinvigorito dall’infusione del lume di grazia. E talora si formano per virtù divina nell’immaginazione dell’uomo anche immagini sensibili, assai più espressive delle cose divine, di quel che non siano quelle che ricaviamo naturalmente dalle cose esterne; come appare chiaro nelle visioni profetiche. STh, I, q. 12, a. 13). E Dante, nel Convivio, riecheggia questo principio: “Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di propria natura impinta è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti” (Convivio, I, 1). L’intero cammino della Commedia è l’attualizzazione di questa potenzialità: dall’ignoranza iniziale dell’Inferno fino alla pienezza luminosa del Paradiso, l’intelletto umano, guidato dalla ragione e dalla grazia, ascende alla contemplazione divina.

La Divina Commedia è il poema della visione: non solo della visione beatifica, ma della visione razionale del mondo, secondo un ordine divino che Tommaso ha tracciato con la chiarezza del teologo e Dante ha cantato con la potenza del poeta. Dove Tommaso costruisce la cattedrale della ragione teologica, Dante la riempie di luce, suono, volto e voce. In questo senso, leggere Dante significa anche ascoltare l’eco del pensiero tomista, trasfigurato in poesia. L’ordine dell’universo, la gerarchia degli esseri, il fine ultimo dell’uomo: tutto ciò che nella Summa appare come architettura concettuale, nella Commedia prende vita, si anima, si fa esperienza sensibile e spirituale. Dante non si limita a recepire il modello di Tommaso; lo reinterpreta, lo rende carne e sangue, visione e cammino. È così che la teologia scolastica diventa teatro dell’anima e il pensiero si fa canto. Questa trasformazione non è semplice ornamento poetico ma un’operazione intellettuale profonda. Dante assume la struttura tomista non per rinchiudervisi ma per mostrarne la forza generativa: la sua poesia non è un commento, è un’estensione, una dimostrazione incarnata del pensiero teologico. Ogni figura che si incontra nel poema, ogni dialogo, ogni paesaggio ultraterreno, riflette una logica interna, un disegno preciso che affonda le radici nella filosofia per giungere alla visione escatologica. La Commedia si presenta, così, come l’altro volto della Summa Theologiae: dove quest’ultima si esprime per argomenti e definizioni, la prima risponde con immagini e movimenti dell’anima. In definitiva, il legame tra Tommaso e Dante non è quello tra un maestro e un discepolo ma tra due costruttori dello stesso edificio: l’uno con gli strumenti della ragione sistematica, l’altro con quelli della fantasia ordinata. E se il fine è lo stesso – mostrare la via che conduce a Dio – allora si può affermare che la Divina Commedia sia il completamento poetico della teologia tomista, il suo specchio narrativo, la sua forma visibile e percorribile. È in questo intreccio vertiginoso di dottrina e arte, di pensiero e visione, che si gioca la grandezza di Dante e l’inesauribile potenza del suo poema.

 

 

 

 

Jeanne Hébuterne: la luce di Modigliani

 

 

Recensione di Carmela Puntillo

 

 

 

Il libro di Stefania Colombo, Morellini Editore, 2024, racconta la vita di Jeanne Hébuterne, compagna del pittore Amedeo Modigliani, focalizzandosi sugli anni trascorsi con lui e sui giorni prima del suo suicidio. Parigi. La Prima guerra mondiale devasta l’Europa e il mondo. Una coppia lotta per sopravvivere nell’ambiente di Montparnasse, tra pittori, ritrovi allo “Chez Rosalie” (il ristorante degli artisti dove andavano a cenare Jeanne e Modigliani e dove la padrona, Teresa, un’italiana, li accoglie amichevolmente ed accetta che la paghino solo con i disegni di lui e non con denaro) e alla “Rotonde” (un locale dove Victor, il padrone, difende gli artisti anche contro la polizia che li controlla perché sono renitenti alla leva). Lei, Jeanne Hébuterne, compagna di “Modi”, ha abbandonato la sua vita borghese e benestante e ha accettato di vivere solo di arte e di amore, in una povertà difficile da gestire ma che ha voluto per coltivare queste due passioni. Il contrasto con il padre, tradizionalista e contrario a un’unione non ufficiale quale la convivenza con Modigliani, povero, alcolizzato e drogato, è profondo, tanto che Jeanne ha scelto di lasciare la casa dei genitori, rinnegandoli. La madre, di un cattolicesimo rigido e che vive una vita quasi monacale a cui vorrebbe che aderissero anche i figli, la condanna ugualmente ma prova tenerezza per lei e vuole aiutarla nelle sue difficoltà. Accetta, quindi, di accompagnarla in Provenza quando Amedeo ha bisogno di tepore perché ha la tubercolosi. In questa trama gli avvenimenti della vita presente si intrecciano a quelli della vita passata per mezzo di flash-back, rendendo la storia più interessante e creando una struttura dinamica. Abbiamo, quindi, un susseguirsi di vicende nella narrazione dettagliata della vita di lei: i giochi col fratello André quando facevano la gara sui gradini della chiesa, il temporale che li aveva colti un giorno quando stavano andando a catechismo, il suo desiderio di imparare l’arpa e l’imposizione dei genitori di studiare il violino, la partenza del fratello per la guerra, le lezioni all’Accademia Colarossi, l’incontro con l’amica Chana, la conoscenza di Modigliani, le pose per il pittore giapponese Foujita, il ripudio da parte del padre, la prima gravidanza, l’imbarazzo della scelta su a chi dare per prima la notizia, il bombardamento della chiesa di Saint-Gervais, la tosse di Amedeo che la svegliava di notte, il soggiorno in Provenza, il dolore del parto, il padre indifferente che non sa amarla, lei che non riesce ad amare la figlia, la fine della guerra, la vita per l’arte, la vita per Amedeo, il dolore di vedersi separata dalla sua bimba, Amedeo che non vuole farsi curare ma che poi decide di andare in Italia dove c’è più tepore, il tentativo di insegnarle l’italiano attraverso la pittura, l’aggravarsi della tubercolosi, Amedeo che è costretto a letto, Amedeo che ha un’emorragia e che è trasportato all’ospedale, la notizia della morte appresa indirettamente attraverso sussurri e mormorii, la visita all’ospedale al corpo morto, il dolore e la disperazione, il salto nel vuoto e la fine. Tutta una vita. E Modigliani riempie questi episodi con il suo umorismo, la sua arte perfetta da vero artista di Montparnasse che vuole condurre una vita “bouleverdière”, lontano dalle convenzioni della società e dallo schiacciamento della politica. Un romanzo veramente appassionante, che ci racconta la storia di un’anima e anche un po’ di storia d’Europa.

 

 

 

 

 

 

Il Coccodrillo e l’alchimia esoterica dell’anima

Viaggio iniziatico tra bene, male e redenzione

 

 

 

 

Le Crocodile ou la guerre du bien et du mal è un’opera velata e magnetica, una gemma nascosta tra i meandri del pensiero filosofico del XVIII secolo, partorita dalla mente enigmatica di Louis Claude de Saint-Martin, noto come “il filosofo sconosciuto”. Pubblicato nel 1799, questo testo si intreccia tra la narrazione e la teosofia, conducendo il lettore nei labirinti di una lotta eterna: quella tra le forze primigenie del bene e del male, dipinte con il pennello denso del simbolismo esoterico e animate da riflessioni filosofiche che sfiorano l’eterno.
L’opera nasce tra le ceneri ancora fumanti della Rivoluzione francese, riflesso delle tensioni e delle lacerazioni di un’epoca segnata dall’instabilità. Saint-Martin, testimone di quegli sconvolgimenti storici, riversa nel racconto la sua critica verso il materialismo imperante e il progressivo oblio dei valori spirituali. In questa tela narrativa, il coccodrillo diviene simbolo di una saggezza antica, sepolta ma non estinta, incarnando l’eterno dilemma tra l’apparenza ingannevole della materia e la verità luminosa dello spirito.
Non è semplice allegoria quella che l’autore offre, ma un trattato profondo mascherato da racconto, in cui l’indagine filosofica scruta le grandi domande dell’esistenza: la perenne dualità del bene e del male, la caduta dell’uomo e la sua anelata redenzione, la lenta ascesa verso la luce dell’illuminazione spirituale. Il titolo stesso è chiave e mistero, indicando una guerra che non è mera battaglia esteriore, ma un abisso che si spalanca dentro l’anima umana.
Attraverso il dialogo tra il protagonista e il coccodrillo, Saint-Martin sonda le forze invisibili che governano il mondo materiale, spingendo il lettore a scrutare oltre il velo del visibile. La materia diviene prigione e illusione, mentre lo spirito si presenta come via e liberazione. In questa visione si annida il cuore pulsante del pensiero martinista: la realtà fisica è frammento, il vero risiede nell’invisibile.
Tra le pieghe del racconto si insinua il mito della caduta dell’umanità: un tempo, l’uomo era in armonia con il divino, in un equilibrio ora spezzato dalle sue stesse scelte. La frattura non è solo carnale, ma soprattutto spirituale, e la redenzione appare come l’unico sentiero per riconquistare l’antica nobiltà perduta. Il cammino del protagonista diviene così archetipo della ricerca di ogni essere umano: un pellegrinaggio interiore verso la riconnessione con il divino, lontano dalle trappole della materialità.
L’illuminazione spirituale, in questo contesto, non è sterile concetto filosofico, ma fiamma viva che trasfigura l’anima. Saint-Martin la tratteggia come esperienza intima e profonda, una rivelazione che dissolve le ombre dell’ignoranza e schiude le porte della vera conoscenza: quella del sé come parte vibrante dell’universo. Il coccodrillo, in questo viaggio iniziatico, funge da custode della saggezza occulta, guida silenziosa che accompagna il protagonista attraverso le tappe di una trasformazione interiore.
Ma l’opera non si ferma alla contemplazione; essa chiama all’azione. Saint-Martin esalta la libertà umana e la responsabilità personale come cardini del cammino spirituale. Pur immerso in un mondo dominato da forze oscure, l’individuo conserva il potere della scelta, il diritto e il dovere di orientarsi verso il bene, attraverso un percorso di consapevolezza e disciplina interiore. Non è la fede cieca a salvare l’anima, ma il lavoro attivo su di sé, un tema che l’autore cesella attraverso le esperienze e le decisioni del protagonista.
Intessuta di simboli e allegorie, Le Crocodile si veste di un manto esoterico che riflette la profonda inclinazione di Saint-Martin per il misticismo. Il coccodrillo stesso diviene emblema di antiche saggezze e della duplice natura della creazione e della distruzione. Radicato nella terra e immerso nelle acque, esso incarna il ponte tra il tangibile e l’intangibile, la materia e lo spirito. Nel racconto, è più di un semplice interlocutore: è maestro iniziatico che apre al protagonista le porte di realtà occulte, guidandolo lungo sentieri invisibili.


La lotta tra luce e tenebra, tra forze che si contendono l’anima del mondo, è l’asse portante del testo. Una guerra non solo cosmica, ma anche interiore, che riverbera nei conflitti segreti di ogni uomo. Qui la tradizione gnostica si fa eco profonda, sussurrando che il male non è solo esterno, ma dimora anche nell’intimo umano. La via esoterica diviene dunque un percorso di purificazione, un cammino tortuoso che chiede al protagonista di riconoscere e vincere le ombre che albergano nel proprio cuore, per ascendere alla luce primigenia.
La caduta dell’uomo, come spesso nell’esoterismo, simboleggia la discesa dell’anima nel regno della materia, dove si spezza il legame naturale con il divino. Saint-Martin fa di questo tema il fulcro della sua narrazione, dipanando il filo sottile di un ritorno possibile: la riscoperta delle verità dimenticate, l’ascesa dall’oblio verso la luce. Il protagonista diviene così l’iniziato che, guidato dal coccodrillo, attraversa le prove dello spirito fino a riconnettersi con la propria origine celeste.
Il racconto segue la struttura del viaggio iniziatico: prove, rivelazioni, trasformazioni segnano il cammino del protagonista, che da uomo smarrito diviene testimone di verità superiori. Il coccodrillo, araldo di saggezze arcane, gli trasmette insegnamenti segreti, tessendo con lui un dialogo che è rito di passaggio. Non si tratta di mere nozioni, ma di una conoscenza che plasma l’essere e lo guida verso una nuova visione del sé e del cosmo.
In Le Crocodile, la conoscenza è potenza trasformativa. Non un bagaglio intellettuale, ma uno strumento di risveglio che muta profondamente chi ne viene toccato. Il protagonista torna al suo mondo terreno, ma non è più lo stesso: le verità apprese lo spingono a diffondere la luce ricevuta, a condurre altri sul sentiero della spiritualità, opponendosi all’ombra del materialismo che aveva soffocato la sua esistenza.
In definitiva, Le Crocodile è un invito sottile e potente a guardare oltre le apparenze, a interrogarsi sulle forze invisibili che muovono il mondo e l’anima umana. Saint-Martin tesse una trama densa di simbolismi, capace di parlare alle profondità dello spirito e di condurre il lettore in un viaggio che non è solo narrazione, ma esperienza. In queste pagine si cela un richiamo antico e universale: quello alla ricerca del senso più alto dell’esistenza e alla riconquista di una luce perduta, che ancora arde, silenziosa, nei recessi più profondi dell’essere.

 

 

 

 

 

La favola delle api

Genesi del capitalismo e il paradosso morale
di Bernard de Mandeville

 

 

 

 

Bernard de Mandeville (1670-1733), medico e filosofo di origini olandesi, naturalizzato inglese, pubblicò la sua opera più celebre, La favola delle api: vizi privati, pubbliche virtù (The Fable of the Bees: or, Private Vices, Publick Benefits), nel 1714. Questo poemetto satirico è un testo provocatorio e fondamentale per comprendere le radici del pensiero economico moderno e le tensioni etiche della società capitalistica emergente.
Mandeville si stabilì in Inghilterra durante un periodo di profonde trasformazioni sociali ed economiche. Tra il XVII e il XVIII secolo, l’Europa attraversava una fase di grandi cambiamenti, segnati dall’ascesa della borghesia, dallo sviluppo del capitalismo e dalla nascita delle prime teorie economiche moderne. L’Illuminismo, pur celebrando la razionalità e i princìpi morali, fu anche un’epoca di critica alle istituzioni religiose e alle concezioni tradizionali della virtù. In questo contesto, Mandeville si distinse come una voce provocatoria e cinica, capace di mettere in discussione le fondamenta stesse del pensiero etico e sociale. L’Inghilterra del tempo stava conoscendo una rapida espansione economica, trainata dallo sviluppo del commercio globale, dai progressi tecnologici e dall’incremento del sistema bancario. Questo scenario portò a riflessioni inedite sul ruolo delle motivazioni umane nella prosperità collettiva. Mandeville, con La favola delle api, sovvertì l’idea tradizionale che il benessere della società derivasse dalla virtù, sostenendo invece che il vizio e l’interesse personale fossero il vero motore del progresso economico e sociale.
La favola delle api è strutturata in una combinazione di poesia e saggi filosofici. L’opera si apre con la poesia allegorica The Grumbling Hive: or, Knaves Turn’d Honest (L’alveare brontolone, o i furfanti resi onesti), che racconta in forma simbolica la storia di un alveare prospero, in cui ogni ape agisce in modo egoistico e spesso moralmente riprovevole. Tuttavia, questi vizi individuali si rivelano indispensabili per il benessere collettivo dell’alveare. Quando le api decidono di riformarsi e adottare una condotta morale virtuosa, l’alveare collassa, portando miseria e declino. Accanto alla poesia, Mandeville aggiunse, nelle edizioni successive, una serie di saggi esplicativi e note in cui approfondisce i temi principali, sviluppando riflessioni più articolate sul rapporto tra etica, economia e società. In alcune sezioni dialogiche, l’autore risponde alle critiche ricevute, spiegando la sua visione in modo più dettagliato e cercando di chiarire i malintesi che il suo lavoro aveva generato.
La poesia centrale dell’opera utilizza l’alveare come una metafora della società umana. In questo alveare, ogni ape persegue i propri interessi personali, agendo in modo egoistico e spesso moralmente discutibile, ma il risultato è una prosperità collettiva. L’avidità stimola il commercio, il lusso sostiene l’industria e l’arte e persino i comportamenti illegali creano occupazione, alimentando il sistema economico. Tuttavia, quando le api scelgono di abbandonare i propri vizi e di vivere secondo principi di virtù e onestà, l’alveare crolla. Rinunciando alle attività economiche che erano motivate dai vizi, l’alveare si impoverisce e torna a uno stato primitivo.
Questo paradosso centrale illustra l’idea controversa di Mandeville: ciò che è moralmente condannabile a livello individuale può essere benefico per la società nel suo complesso. La prosperità, secondo questa visione, non deriva dalla virtù, ma dalla gestione funzionale delle passioni e degli interessi egoistici.
Uno dei temi fondamentali dell’opera è il paradosso morale che lega i vizi privati alle pubbliche virtù. Mandeville sostiene che il benessere collettivo si fondi sulla ricerca egoistica del proprio interesse e che i comportamenti moralmente riprovevoli, come l’avidità e l’ambizione, siano in realtà indispensabili per il progresso economico. Questa visione anticipa, in parte, il pensiero di Adam Smith, anche se Mandeville adotta un tono più cinico, evidenziando come i vizi siano parte integrante della natura umana.

Un altro tema cruciale è la critica all’ipocrisia sociale. L’autore denuncia come le istituzioni religiose e politiche condannino ufficialmente il vizio, pur beneficiando implicitamente delle sue conseguenze economiche. L’ipocrisia delle élite viene messa in evidenza come uno dei pilastri su cui si regge la società capitalistica nascente.
Mandeville riflette anche sulla natura umana, descrivendola come intrinsecamente egoistica e passionale. Contrariamente a molti filosofi illuministi, che vedevano nella ragione il fondamento dell’ordine morale, egli sottolinea l’importanza delle passioni e degli istinti. Cercare di eliminare i vizi, secondo Mandeville, significa opporsi alla natura stessa e privare la società del suo principale motore di progresso.
Un altro aspetto importante è l’interdipendenza economica. Mandeville descrive la società come un sistema complesso, in cui ogni attività, anche la più immorale, contribuisce al benessere collettivo. Questa visione anticipa alcune delle teorie economiche moderne, sottolineando l’importanza del consumo e della spesa per sostenere l’economia.
Infine, l’autore mette in discussione l’idea di una società utopica basata esclusivamente sulla virtù. La storia dell’alveare dimostra che un sistema fondato su un’etica rigorosa e sulla purezza morale non è sostenibile. Al contrario, il progresso umano richiede compromessi e l’accettazione delle imperfezioni.
L’opera di Mandeville fu accolta con polemiche e critiche feroci. Molti contemporanei lo accusarono di giustificare il vizio e di promuovere una visione amorale della società. Filosofi come Joseph Butler e George Berkeley criticarono apertamente le sue teorie, considerandole pericolose e distruttive per i valori morali. Tuttavia, nonostante le polemiche, La favola delle api esercitò una profonda influenza sul pensiero economico e filosofico.
In ambito economico, Mandeville gettò le basi per il liberalismo economico, anticipando l’idea che l’interesse personale, se opportunamente incanalato, possa generare benefici collettivi. In filosofia morale, le sue riflessioni stimolarono il dibattito sul rapporto tra etica e politica, mentre in sociologia la sua opera rappresentò uno dei primi tentativi di analizzare le dinamiche sociali in modo realistico, mettendo in evidenza il ruolo delle istituzioni nel gestire i comportamenti individuali.
La favola delle api è un’opera che, nonostante la sua apparente semplicità allegorica, contiene riflessioni profonde e provocatorie sul rapporto tra morale, economia e progresso sociale. Mandeville invita il lettore a confrontarsi con le contraddizioni intrinseche della società moderna, in cui ciò che appare moralmente discutibile può rivelarsi indispensabile per il benessere collettivo. La sua visione, cinica ma realistica, continua a suscitare interrogativi sulla natura umana e sulle dinamiche che governano la prosperità delle società. Sebbene controversa, quest’opera rimane un punto di riferimento fondamentale per chiunque voglia comprendere le origini e le complessità del pensiero economico moderno.

 

 

 

 

 

L’evoluzione di Orlando

Dall’epica medievale alla complessità rinascimentale

 

 

 

 

La figura di Orlando costituisce una delle icone più celebri della letteratura cavalleresca europea, il cui significato si è arricchito e trasformato nel corso dei secoli. Dalla Chanson de Roland, monumento dell’epica medievale, passando per l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, fino all’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, il personaggio si evolve da simbolo eroico e cristiano a figura umana complessa, portatrice di dubbi, passioni e debolezze. Ciascuna di queste opere riflette un diverso momento storico, con il suo specifico contesto culturale, e offre un’immagine di Orlando che si adatta ai valori e alle tensioni ideali dell’epoca.

Orlando nella Chanson de Roland

La Chanson de Roland, composta intorno alla metà dell’XI secolo, è un poema epico di straordinaria importanza nella tradizione letteraria medievale. In questo testo, Orlando (o Roland) incarna il perfetto cavaliere cristiano, leale alla fede e al sovrano Carlo Magno. L’opera si colloca in un contesto in cui l’epica celebrava i valori feudali e religiosi, enfatizzando il legame tra il guerriero e la difesa della cristianità contro il nemico musulmano, percepito come il grande “altro” da combattere. Orlando si distingue per il suo eroismo tragico e la sua assoluta dedizione al dovere. Il momento culminante del poema è nel racconto della battaglia di Roncisvalle, in cui il paladino, alla guida della retroguardia dell’esercito di Carlo Magno, si sacrifica per difendere l’onore del proprio re e della propria religione. Durante l’imboscata, Orlando, pur vedendosi sopraffatto dai nemici, si rifiuta di suonare l’olifante per richiedere rinforzi, temendo che ciò possa macchiare il suo onore. Quando infine decide di farlo, è troppo tardi. Giunto allo stremo delle forze, tenta di spezzare la sua spada Durlindana. Non riuscendoci, si accascia sul terreno con le braccia incrociate in attesa della morte. Questa scena simbolizza il sacrificio e la gloria eterna, elementi cardine della concezione eroica medievale. Orlando muore da martire. La sua figura rappresenta, quindi, l’ideale trascendente del cavaliere che sacrifica tutto, anche la propria vita, per ideali superiori: la fede e la patria. Non vi è spazio per le passioni personali o i dilemmi interiori; Orlando è un eroe lineare, mosso da princìpi assoluti.

Orlando nell’Orlando innamorato di Boiardo

Nel passaggio al Rinascimento, l’immagine di Orlando subisce una profonda trasformazione. Matteo Maria Boiardo, con l’Orlando innamorato (1483), rivisita il paladino adattandolo ai gusti e alle aspettative della cultura umanistica e cortigiana. In questa nuova veste, Orlando non è più soltanto un guerriero al servizio della fede e del sovrano, ma diventa un uomo che vive intensamente i propri conflitti interiori, soprattutto quelli legati all’amore. La trama si sviluppa attorno alla passione di Orlando per Angelica, una principessa del lontano Oriente. Questo amore rappresenta una forza destabilizzante per il paladino, che si trova diviso tra il dovere cavalleresco e il desiderio personale. Se nella Chanson de Roland l’eroe era simbolo di disciplina e sacrificio, in Boiardo diventa un uomo fragile, vulnerabile alle emozioni e alle tentazioni. Questa caratterizzazione riflette l’interesse rinascimentale per l’individuo e per la complessità delle sue motivazioni. Il poema è anche fortemente segnato dall’elemento meraviglioso: Orlando e gli altri personaggi si muovono in un mondo popolato da incantesimi, creature magiche e castelli incantati. Questo scenario amplifica il senso di avventura e rende il paladino non solo un guerriero, ma anche un esploratore di mondi sconosciuti. Tuttavia, il poema si interrompe bruscamente, lasciando incompiuta la storia di Orlando e il suo amore tormentato per Angelica.

Orlando nell’Orlando furioso di Ariosto

L’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, pubblicato per la prima volta nel 1516 e successivamente ampliato, porta la figura di Orlando a una nuova maturità letteraria e psicologica. La cultura rinascimentale e il clima umanistico influenzano profondamente il poema, che unisce elementi epici, cavallereschi e lirici a una sottile ironia e a una riflessione sulla condizione umana. Nel Furioso, Orlando è ancora innamorato di Angelica, ma il suo amore si trasforma da passione a ossessione. Quando scopre che Angelica ama un altro uomo, Medoro, il paladino perde completamente il controllo di sé e cade in una follia distruttiva. Questo evento, simbolo della rottura dell’ordine cavalleresco, segna un punto di svolta nella rappresentazione del personaggio: l’eroe invincibile diventa un uomo sconfitto dalle proprie emozioni. Ariosto descrive la follia di Orlando con una mescolanza di tragicità e grottesco. L’episodio in cui il paladino, ormai privo di senno, vaga per il mondo devastando tutto ciò che incontra è emblematico dell’irrazionalità delle passioni umane. Alla fine, la sua ragione viene recuperata grazie all’intervento di Astolfo, che viaggia fino alla Luna per recuperare l’ampolla con il senno di Orlando, simboleggiando la possibilità di recuperare l’equilibrio, ma solo attraverso un atto straordinario e surreale. L’Orlando furioso non si limita a raccontare le vicende del protagonista, ma intreccia una molteplicità di storie e personaggi, consegnando una visione complessa e frammentata del mondo cavalleresco. Ariosto utilizza il registro ironico per mettere in discussione i valori tradizionali della cavalleria, mostrando come il desiderio, l’ambizione e l’irrazionalità siano forze centrali nella vita umana.

Differenze tra le opere e significati culturali

L’evoluzione della figura di Orlando riflette il mutamento dei valori e delle sensibilità attraverso i secoli. Nella Chanson de Roland, Orlando è un eroe epico, simbolo di un ideale assoluto, in cui prevalgono l’onore e il sacrificio. L’umanità del personaggio è subordinata all’ideale religioso e feudale. Nell’Orlando innamorato, diventa un uomo in balia dei propri sentimenti. L’amore e il conflitto interiore lo rendono più vicino al lettore, riflettendo l’interesse rinascimentale per la psicologia e l’individuo. Nell’Orlando furioso, l’eroe si dissolve in una figura tragica e ironica, il cui smarrimento rappresenta la crisi dell’ideale cavalleresco e, più in generale, la fragilità dell’essere umano.
In termini stilistici, si passa dalla solennità epica della Chanson de Roland alla sperimentazione narrativa di Boiardo e Ariosto, che introducono elementi lirici, ironici e fantastici in un tessuto letterario estremamente ricco.
La figura di Orlando, da eroe perfetto e incorruttibile a uomo tormentato e fragile, testimonia l’evoluzione della letteratura e della cultura europea. Ogni autore, reinterpretando il paladino, ha dato vita a un personaggio capace di incarnare i valori, le tensioni e i dubbi della propria epoca, rendendo Orlando un simbolo universale e senza tempo. Questo viaggio letterario, che parte dall’epica medievale per arrivare alla complessità del Rinascimento, non solo arricchisce il personaggio, ma lo trasforma in un emblema dell’essere umano e delle sue contraddizioni.