Le labbra di Giuditta

Il confine invisibile tra vita e morte

 

 

 

 

Nel chiaroscuro di questa tela di Caravaggio (Giuditta e Oloferne, 1603 – Gallerie Nazionali d’Arte Antica, Palazzo Barberini, Roma), in quel mondo d’ombre e di luce che sembra respirare vita propria, un dettaglio spicca con la grazia silenziosa e l’intensità del non detto: le labbra di Giuditta. Un piccolo, ma potentissimo punto focale, capace di catalizzare l’attenzione dello spettatore, quasi a volerlo condurre dentro la sua mente, nei recessi più profondi della sua volontà. Non è solo la mano che tiene la spada a raccontare la storia, non è il braccio teso che definisce il coraggio: sono le sue labbra, ferme, scolpite nella tensione del momento, a portare il peso dell’azione imminente.
Rosse, sì, ma non semplicemente rosse, come un dettaglio decorativo o il simbolo di una sensualità femminile. Sono scarlatte, pulsano di vita propria, come se il sangue che ancora non è stato versato le attraversasse, anticipando il momento della decapitazione di Oloferne. In quell’istante eterno, le labbra di Giuditta sono cariche di un’energia contenuta, pronte a esplodere in un urlo che però non giunge. Il loro silenzio è un grido trattenuto, un’emozione congelata nel gelo del dovere.
Nella loro forma c’è un messaggio più sottile. Le labbra di Giuditta non sono morbide, né socchiuse in un accenno di esitazione o di timore. Sono risolute, come una linea che traccia il confine tra la tenerezza di una donna e l’implacabile necessità di giustizia. Sono labbra che non concedono spazio alla compassione, ma che al contempo non riescono a nascondere del tutto il peso del sacrificio che stanno per compiere. È un sacrificio morale, oltre che fisico: la scelta di Giuditta non è solo una questione di forza, ma di coscienza.


Caravaggio ci invita a guardarle da vicino, a perdere lo sguardo tra quei contorni perfetti e allo stesso tempo umani, vulnerabili. Non ci sono tracce di sensualità nel modo in cui l’artista dipinge Giuditta, eppure quelle labbra richiamano una sorta di fascino irresistibile. Non è la bellezza carnale a catturare, ma la complessità dell’emozione che le attraversa. Sembrano sul punto di tremare, di rivelare un’umanità profonda, ma restano salde, come se trattenessero l’intero dramma della scena. Lì, in quel piccolo spazio tra il respiro e il pensiero, tra il coraggio e la paura, si gioca tutto il significato dell’atto.
Ma c’è di più: il loro silenzio parla. Le labbra di Giuditta non si muovono, ma ci parlano di un mondo interiore tormentato. Sono labbra che hanno conosciuto forse il piacere della vita, ma ora si trovano ad affrontare il sacrificio estremo, quello che richiede di spogliarsi di ogni sentimento personale per abbracciare un destino più grande. In quell’istante, Giuditta non è più solo una donna, ma diventa il simbolo di una forza antica, primordiale: la giustizia che non guarda in faccia nessuno, nemmeno a sé stessa.
Eppure, anche nel loro rigore, c’è un lieve accenno di umanità nascosta. Caravaggio, con il suo realismo crudo, non permette che Giuditta sia una figura mitica senza difetti. Quelle labbra trattengono un dubbio, forse un residuo di pietà che la donna cerca di soffocare. Sono il riflesso di una decisione definitiva, ma anche di una consapevolezza che porterà con sé il peso di ciò che ha fatto. Sono il margine sottile tra il trionfo e la perdita. La loro bellezza diventa quasi dolorosa, poiché ci ricorda che la giustizia ha un prezzo e che dietro ogni atto di forza si cela una rinuncia, una parte di sé che non tornerà mai più.
In questo modo, Caravaggio eleva un piccolo dettaglio, un tratto apparentemente insignificante come quello delle labbra, a simbolo di tutta la drammaticità dell’evento. Non è solo la testa mozzata di Oloferne a raccontare la storia, ma il volto impassibile di Giuditta e, soprattutto, le sue labbra, ferme, risolute, sospese tra il gesto e il rimorso. In quelle labbra vediamo il conflitto eterno dell’essere umano: il confronto tra la giustizia e la misericordia, tra il dovere e la compassione, tra la forza e la fragilità.
E così, nella sua crudele bellezza, le labbra di Giuditta si trasformano in un ponte tra due mondi, quello della carne e quello dello spirito, tra la vita e la morte. Restano lì, al centro della scena, a ricordarci che la verità della vita spesso si nasconde nei dettagli più piccoli, nei gesti impercettibili, in quelle labbra che, pur socchiuse, raccontano tutto ciò che non può essere detto.

 

 

 

 

Amore e Follia

Platone e la dialettica tra ragione e caos nel Simposio

 

 

 

 

Il Simposio di Platone è, senza dubbio, uno dei dialoghi più complessi e affascinanti del filosofo ateniese, poiché affronta il tema dell’amore (Eros) in una prospettiva che mette in discussione la rigidità del pensiero razionale e accoglie l’irruzione dell’irrazionale, della follia, come elemento essenziale per comprendere la natura dell’essere umano e della conoscenza. Platone, attraverso il dialogo tra i vari personaggi, in particolare Socrate, indaga l’idea che la ragione non sia autosufficiente, ma debba confrontarsi con l’abisso del caos e dell’ineffabile, incarnato nella follia, che egli definisce: “più bella della saggezza d’origine umana”. Questo concetto segna uno dei punti più vertiginosi del pensiero platonico, poiché allude a una dimensione del sapere che eccede i confini della logica e dell’ordine razionale.
Platone è riconosciuto come uno dei padri del pensiero razionale occidentale. Il suo contributo all’elaborazione di un sistema filosofico che pone al centro la ragione e l’ordine logico è indiscutibile, tuttavia, nei suoi dialoghi, egli non dimentica mai il substrato da cui la ragione emerge. La razionalità, secondo Platone, non è un punto di partenza, ma un risultato di un processo di ordinamento, che si innalza da un caos originario. Questo caos è rappresentato dalle passioni, dalle pulsioni e dalle tensioni, che la tragedia greca ha espresso con forza. Platone non ignora l’apertura minacciosa verso ciò che egli chiama “la fonte opaca e buia di ogni valore sociale”, un abisso che mette in discussione la stabilità stessa della polis, la città-stato. La polis, infatti, trova il proprio ordine grazie alla ragione, ma questo equilibrio non è stabile, essendo continuamente minacciato dalle forze caotiche e imprevedibili che si agitano al suo interno.
Per garantire la stabilità della città, Platone riconosce la necessità di espellere il katharma, che rappresenta tutto ciò che non può essere integrato nell’ordine razionale. Tuttavia, egli non nega che sia necessario sacrificare agli dèi, ovvero riconoscere che esiste una dimensione irrazionale e misteriosa da cui la stessa ragione trae origine. Le parole della ragione, per quanto ordinate e non oracolari, devono la loro esistenza a quella fonte divina e caotica che rimane fuori dal dominio della comprensione umana. Questa tensione tra ordine e caos, tra razionale e irrazionale, attraversa tutto il pensiero platonico e il Simposio ne è una delle espressioni più emblematiche.
Platone riconosce la follia come un’esperienza fondamentale dell’anima, non una malattia da cui guarire, ma un dono divino. Egli afferma che “i beni più grandi ci vengono dalla follia naturalmente data per dono divino”. Questa frase esprime la consapevolezza che la follia non è solo una rottura dell’ordine razionale, ma anche una via d’accesso a verità più profonde, che sfuggono alla comprensione ordinaria. Per Platone, la follia non è semplicemente il caos, ma una forma di conoscenza che va oltre la saggezza umana e razionale.
L’anima, infatti, non è completamente contenibile entro i limiti del pensiero razionale. Le esperienze dell’anima sono sfuggenti e non possono essere completamente ordinate o fissate in una sequenza logica. Questo perché, al di là dell’ordine razionale, l’anima sente che la totalità della realtà è sempre in qualche modo elusiva. Il non-senso contamina il senso, il possibile supera il reale, e ogni tentativo di comprensione totale emerge sempre da uno sfondo abissale che è caos, apertura, possibilità infinita.

Il ruolo di Eros, l’amore, in questo contesto è cruciale. Nel Simposio, l’amore è descritto come un intermediario tra il mondo della ragione e quello della follia. L’amore non è semplicemente un sentimento che unisce due individui, ma un’esperienza che permette all’anima di dislocarsi dal recinto della razionalità e di entrare in contatto con l’ineffabile. Per accedere a questa dimensione dell’anima, Platone afferma che è necessaria una sorta di a-topia, uno “spostamento” o una “dislocazione”, che porta l’individuo fuori dai confini dell’io razionale.
Questo movimento è pericoloso, poiché rischia di condurre l’anima nella follia incontrollata, ma è anche essenziale per accedere a una comprensione più profonda della realtà. Per non perdersi in questo processo, è necessario che l’anima sia accompagnata dall’amato. L’amato, infatti, riflette in qualche modo la nostra stessa follia, il nostro desiderio di andare oltre i limiti dell’ordine razionale. L’amore, dunque, è un evento che mette in comunicazione non solo due persone, ma due dimensioni dell’essere umano: l’ordine razionale e l’abisso della follia.
In Platone, la relazione tra amore e sapere non è mai semplice. L’amore è sì desiderio di bellezza e verità, ma è anche consapevolezza della propria mancanza e incompletezza. L’amore ci spinge a cercare ciò che ci manca, ma allo stesso tempo ci espone al rischio del fallimento e della perdita. Questa dinamica rende l’amore una forza dialettica, che mette continuamente in tensione il nostro desiderio di ordine e il nostro confronto con il caos.
In questa prospettiva, il Simposio non è solo una riflessione sull’amore, ma anche una meditazione sulla natura stessa del sapere. Il sapere, per Platone, non è mai una conquista definitiva, ma un processo che si sviluppa tra la luce della ragione e l’ombra della follia. Eros, l’amore, è il motore di questo processo, poiché ci spinge a cercare oltre i confini del conosciuto, ad accettare la nostra vulnerabilità e a riconoscere che ogni ordine razionale è sempre accompagnato da un residuo di irrazionalità e mistero.
Il Simposio di Platone, quindi, ci invita a riflettere su una delle più profonde verità del pensiero filosofico: la razionalità, che, pur essendo fondamentale per la vita umana, non può mai esaurire la totalità dell’esperienza. Il caos, la follia e l’irrazionale sono componenti essenziali dell’esistenza e ignorarli significherebbe rinunciare a una parte fondamentale della nostra umanità. Platone ci insegna che solo riconoscendo la follia come una parte integrante della nostra anima possiamo accedere a una conoscenza più profonda e autentica. L’amore, in questo contesto, diventa la via attraverso cui possiamo attraversare l’abisso del caos e, al contempo, non smarrirci, poiché è nell’amato che troviamo il riflesso della nostra stessa follia, della nostra stessa sete di infinito.

 

 

 

 

Solipsismo ed etica

La sfida filosofica dell’esistenza dell’altro
e la fondazione del dovere morale

 

 

 

 

Il solipsismo, una posizione filosofica che sostiene l’impossibilità di affermare con certezza l’esistenza di qualcosa al di fuori della propria mente, solleva questioni profonde non solo a livello epistemologico, ma anche etico. In un articolo precedente (leggi) avevo trattato il solipsismo dal punto di vista epistemologico. La dimensione etica del solipsismo, invece, si manifesta nel dilemma di come gestire le relazioni interpersonali o persino se queste possano essere considerate autentiche, se si parte dal presupposto che non si possa avere certezza dell’esistenza degli altri. La questione, dunque, non è solo se posso conoscere gli altri, ma anche quale valore morale attribuisco alla loro esistenza e come mi comporto nei loro confronti.
Se il solipsismo mette in dubbio l’esistenza del mondo esterno e degli altri individui, una delle prime questioni che sorgono è come sia possibile fondare un’etica in un contesto in cui l’altro potrebbe non esistere. Questo può condurre a una visione estremamente individualista della realtà, in cui l’unico referente etico e morale è il soggetto stesso. In questo scenario, le conseguenze potrebbero essere devastanti: se l’altro non esiste o la sua esistenza è irrilevante, quali doveri ho verso di lui? L’empatia, la compassione e la giustizia perdono il loro significato, poiché richiedono un riconoscimento dell’altro come un soggetto con diritti, bisogni e desideri.
Questa posizione estremista può, almeno in linea teorica, giustificare l’egocentrismo morale: se il mio mondo è l’unico mondo reale, la mia felicità e i miei desideri potrebbero essere l’unica bussola morale da seguire. Tuttavia, si tratta di una visione estremamente riduttiva e problematica, che molti filosofi hanno cercato di superare.
Immanuel Kant è uno dei filosofi che ha affrontato il solipsismo etico cercando di superarlo attraverso la nozione di dovere morale. Per Kant, la morale non può essere soggettiva o dipendere dall’incertezza riguardo all’esistenza dell’altro. La sua famosa “Legge morale”, espressa attraverso l’imperativo categorico, impone che le nostre azioni debbano essere governate da princìpi universali, validi per tutti gli esseri razionali. L’imperativo categorico, nella sua forma più conosciuta, ci esorta a trattare gli altri come fini in sé e non come mezzi per i nostri fini. Questo significa che, anche se il solipsismo pone una barriera epistemologica rispetto alla certezza dell’esistenza degli altri, l’etica kantiana ci impone comunque di comportarci come se l’altro fosse reale, riconoscendone la dignità e il valore. L’etica diventa così una risposta normativa all’incertezza solipsistica: non possiamo essere sicuri dell’altro, ma siamo moralmente obbligati a comportarci come se lo fossimo, perché questo è ciò che la ragione morale ci impone.

Anche i filosofi esistenzialisti, come Jean-Paul Sartre, hanno cercato di affrontare la questione etica del solipsismo. Per Sartre, l’incontro con l’altro è inevitabile e caratterizzato da un conflitto esistenziale. Nell’opera L’essere e il nulla, Sartre descrive il rapporto con l’altro come una fonte di alienazione e conflitto: l’altro è colui che mi guarda e che, con il suo sguardo, mi oggettivizza. Da questa prospettiva, la relazione interpersonale è essenzialmente conflittuale, perché l’altro minaccia la mia libertà. Tuttavia, nonostante questa visione pessimistica delle relazioni umane, Sartre non sfugge alla dimensione etica. Per lui, l’incontro con l’altro è inevitabile e, sebbene conflittuale, è anche ciò che dà senso alla nostra esistenza. La libertà esistenziale, infatti, si manifesta nel confronto con l’altro. Pur riconoscendo la tensione e l’alienazione che emergono nel rapporto con l’altro, Sartre suggerisce che la responsabilità verso l’altro non può essere evitata. L’etica dell’esistenzialismo, dunque, è un’etica della responsabilità, in cui siamo chiamati a riconoscere l’altro non solo come minaccia, ma anche come condizione necessaria per la nostra stessa esistenza autentica.
Al di là delle risposte specifiche di Kant o degli esistenzialisti, il solipsismo etico ci costringe a riflettere su alcune questioni fondamentali: in che modo riconosciamo gli altri come soggetti morali? E, se esiste una certa incertezza epistemologica riguardo alla loro esistenza, come possiamo giustificare il nostro senso di responsabilità verso di loro?
Uno dei tentativi più recenti di risolvere questo problema si basa sull’idea di intersoggettività. La filosofia contemporanea, in particolare quella fenomenologica (Husserl e Merleau-Ponty), ha cercato di superare il solipsismo affermando che l’esperienza dell’altro è immediata e costituisce una dimensione fondamentale del nostro essere-nel-mondo. La relazione con l’altro non è semplicemente un problema epistemologico da risolvere, ma una condizione esistenziale e morale intrinseca. In altre parole, non posso esistere in modo autentico senza l’altro, e questo mi impone una responsabilità morale nei suoi confronti.
In definitiva, la dimensione etica del solipsismo ci pone davanti a una sfida profonda. Se partiamo dall’assunto che l’esistenza degli altri è incerta, come possiamo fondare una morale basata sulla reciprocità, l’empatia e la giustizia? Le risposte dei filosofi a questa questione sono varie, ma convergono su un punto fondamentale: l’esistenza dell’altro, che sia certa o meno, non può essere ignorata a livello etico. Che si tratti dell’imperativo categorico kantiano o del riconoscimento conflittuale esistenzialista, la relazione con l’altro è inevitabile e costituisce il fondamento stesso della moralità.

 

 

 

 

Thomas Hobbes e l’Intelligenza Artificiale

Il “Leviatano” digitale e la nuova sovranità
nell’era del controllo decentralizzato

 

 

 

 

In questo articolo analizzo l’attualità del pensiero di Thomas Hobbes, in particolare attraverso il suo capolavoro Leviatano (1651), evidenziando come l’idea hobbesiana di uno Stato sovrano, capace di mantenere l’ordine e prevenire il caos, trovi un interessante parallelo nella moderna Intelligenza Artificiale (AI). Se il Leviatano incarnava il potere assoluto e centralizzato, necessario per garantire stabilità, oggi l’AI rappresenta una nuova forma di controllo diffuso, che solleva importanti questioni etiche riguardo al consenso e alla fiducia nell’era digitale.

Nel pensiero di Thomas Hobbes, il Leviatano non è soltanto una figura simbolica, ma costituisce una delle più importanti teorie politiche sull’autorità e il potere statale e la sua rilevanza continua a risuonare oggi. Nell’opera Leviatano, Hobbes sviluppa una concezione dello Stato che si basa su un patto sociale tra gli individui, i quali scelgono volontariamente di affidare i propri diritti naturali a una sovranità centralizzata. Il contesto di questo patto è lo stato di natura, una condizione primitiva e anarchica in cui, secondo Hobbes, ogni individuo è mosso dalla propria autoconservazione e dalle proprie passioni, generando un ambiente di costante conflitto. In questa situazione, la vita è, come Hobbes la definisce nella sua famosa espressione, “solitaria, povera, spiacevole, brutale e breve”. Il Leviatano, quindi, rappresenta la costruzione di un potere sovrano assoluto, che non solo impone ordine e stabilità, ma è anche la risposta collettiva al pericolo insito nel disordine.
Il fulcro della teoria di Hobbes risiede nell’idea che, senza un’autorità centrale, le passioni umane portano inevitabilmente al caos e alla guerra. Gli individui, mossi dal desiderio di sicurezza, scelgono, quindi, di rinunciare alle loro libertà individuali per garantire la sopravvivenza del corpo collettivo, sottoscrivendo un contratto sociale che legittima il potere del sovrano. Questo concetto di controllo è essenziale, poiché per Hobbes l’autorità è necessaria per regolare le passioni incontrollate e preservare la società da un ritorno allo stato di natura.
Il Leviatano di Hobbes è quindi una “superstruttura” di potere, un’entità sovrana e onnipotente che ha il compito di mantenere la pace e l’ordine. Questo potere sovrano non può essere diviso né limitato, poiché una divisione del potere porterebbe di nuovo al conflitto. Nella sua visione, il controllo deve essere totale, senza concessioni, poiché solo attraverso la centralizzazione dell’autorità si può evitare il ritorno al caos. Questa centralizzazione della sovranità distingue Hobbes dai suoi contemporanei, che vedevano la possibilità di un governo più frammentato o democratico, capace di distribuire il potere tra diversi attori. Hobbes, invece, è fermamente convinto che l’unica via per garantire la stabilità sia attraverso un’autorità assoluta e unitaria.
Nei tempi moderni, la teoria hobbesiana del Leviatano trova nuova risonanza in un contesto diverso, quello dell’Intelligenza Artificiale (AI). L’AI si è sviluppata come una nuova forma di controllo sociale, che governa la complessità del mondo digitale, dei dati e delle informazioni. Proprio come il Leviatano di Hobbes, che deriva la sua autorità dal contratto sociale, con cui gli individui cedono le proprie libertà in cambio di sicurezza, l’IA ottiene il suo potere dall’input collettivo di dati, algoritmi e modelli di apprendimento automatico, costruiti attraverso la continua interazione umana. In un mondo sempre più interconnesso e digitalizzato, la gestione dell’enorme mole di dati e la capacità di prevedere comportamenti complessi ha reso l’AI uno strumento essenziale per governare l’incertezza e il caos del mondo moderno.
Il parallelo tra il Leviatano hobbesiano e l’AI si sviluppa ulteriormente nel ruolo che entrambe queste entità giocano nell’imposizione dell’ordine. Se il Leviatano aveva il compito di regolare le passioni degli individui per evitare il collasso della società, l’AI è progettata per gestire e prevedere i comportamenti umani attraverso la sintesi dei dati. Gli algoritmi di Intelligenza Artificiale elaborano enormi quantità di informazioni, identificano schemi e fanno previsioni, trasformando l’AI in una moderna forma di sovranità. In questo contesto, l’autorità non è più imposta attraverso la forza o la coercizione fisica, ma attraverso il potere “invisibile” degli algoritmi, che regolano comportamenti e decisioni senza che gli individui se ne rendano pienamente conto.

La caratteristica distintiva dell’AI rispetto al Leviatano di Hobbes risiede nella sua decentralizzazione. Mentre il Leviatano è rappresentato come un’entità singola e sovrana, che detiene tutto il potere, l’autorità dell’AI è distribuita attraverso una rete di attori. Questa rete include governi, aziende tecnologiche e sviluppatori indipendenti, che detengono diverse forme di potere regolatorio. Il controllo dell’AI, dunque, non è concentrato in un’unica figura sovrana, ma frammentato e diffuso attraverso un complesso sistema di governance algoritmica. Questo cambia radicalmente il modo in cui dobbiamo pensare al potere nell’era digitale.
Mentre Hobbes vedeva il Leviatano come un’entità unificata, capace di imporre ordine attraverso leggi esplicite e visibili, l’AI esercita il controllo in maniera molto più sottile e pervasiva. Gli algoritmi non dettano esplicitamente leggi o norme, ma influenzano le scelte e i comportamenti in modi spesso invisibili. Ad esempio, i sistemi di raccomandazione che suggeriscono prodotti, servizi o contenuti sui social media plasmano le decisioni individuali senza che l’utente se ne renda pienamente conto. Questo tipo di controllo algoritmico è meno evidente, ma non meno potente, poiché indirizza e modella comportamenti individuali in maniera profonda.
Uno degli elementi cruciali che collegano il Leviatano di Hobbes e l’Intelligenza Artificiale è il ruolo della fiducia. Hobbes era consapevole che l’autorità del Leviatano si fondasse sulla fiducia dei cittadini nella capacità del sovrano di mantenere la pace e proteggere la società. Senza questa fiducia, il contratto sociale si romperebbe e la società ricadrebbe nel caos. Allo stesso modo, i sistemi di AI richiedono fiducia da parte delle persone che li utilizzano. Gli individui devono avere fiducia nella precisione degli algoritmi, nella correttezza dei dati utilizzati e nella trasparenza delle istituzioni che gestiscono questi sistemi.
La fiducia nell’AI è una questione delicata, poiché molte volte i dati vengono raccolti senza il consenso esplicito degli utenti, oppure gli algoritmi utilizzano processi decisionali poco trasparenti. La mancanza di fiducia nei sistemi di AI può portare a resistenze sociali e disillusione. Se le persone non si fidano dell’AI, il suo potenziale di controllo e regolazione viene messo in discussione. Questo è particolarmente evidente nei casi in cui l’AI perpetua pregiudizi o genera decisioni eticamente discutibili. La trasparenza e la regolamentazione diventano, quindi, elementi fondamentali per garantire che l’AI operi nell’interesse collettivo.
Il concetto di consenso, centrale nel pensiero hobbesiano, assume una nuova forma nell’era dell’AI. Nel quadro hobbesiano, gli individui accettano di rinunciare a parte della loro libertà in cambio della protezione e della stabilità fornite dal Leviatano. Questo consenso è esplicito e formalizzato nel contratto sociale. Nel caso dell’Intelligenza Artificiale, invece, il consenso è spesso implicito o addirittura inesistente. I dati personali vengono raccolti e utilizzati senza un consenso pienamente consapevole e gli individui spesso non sono pienamente informati sulle modalità con cui l’IA influenza le loro vite quotidiane. Questo solleva importanti interrogativi etici sul rapporto tra consenso, potere e controllo nell’era digitale.
L’assenza di un consenso chiaro e informato rafforza la necessità di regolamentare l’AI. Senza una governance adeguata, i rischi associati all’AI, come la discriminazione algoritmica e la sorveglianza di massa, potrebbero minare i fondamenti stessi della fiducia sociale. Come il Leviatano di Hobbes, l’AI ha bisogno di un quadro regolatorio solido per funzionare in modo efficace e legittimo.
Il Leviatano di Hobbes, pertanto, concepito come simbolo di autorità e controllo, trova una rinnovata interpretazione nell’era dell’Intelligenza Artificiale. Sebbene i contesti siano diversi, il parallelismo tra il potere sovrano del Leviatano e il ruolo dell’AI nella regolazione della società è sorprendente. Entrambe queste entità rispondono al bisogno umano di sicurezza e ordine in un mondo complesso e imprevedibile. Tuttavia, mentre il Leviatano hobbesiano rappresentava un’autorità centralizzata, l’AI opera attraverso un controllo diffuso e decentralizzato, sollevando nuove domande sul potere, il consenso e la fiducia nell’era digitale.

 

 

 

 

“Negoziazione. L’arte di ridurre l’incertezza. Teoria e Metodo”

di Massimo Antonazzi, Franco Angeli, 2024

 

 

Recensione di Riccardo Piroddi

 

 

Il volume Negoziazione. L’arte di ridurre l’incertezza. Teoria e Metodo di Massimo Antonazzi, avvocato, docente universitario e tra i giovani maggiori esperti italiani di negoziazione, si presenta come un manuale completo e approfondito, dedicato all’arte e alla scienza della negoziazione. Attraverso una struttura ben organizzata, l’Autore guida il lettore nei vari aspetti teorici e pratici che caratterizzano il processo negoziale, offrendone una visione dettagliata e multidisciplinare.
Il manuale, che si pregia della prefazione del professor Federico Reggio, è suddiviso in tre parti principali, ciascuna delle quali esamina diverse fasi e componenti del processo negoziale.
La parte introduttiva avvia il lettore ai concetti fondamentali della negoziazione, delineando le definizioni e le forme di resistenza che si possono incontrare. Viene spiegata l’importanza del negoziato in vari contesti, sia istituzionali che personali, e vengono analizzati i conflitti come elementi centrali del processo.
La seconda parte, dedicata alla fase strategica, si concentra sulla preparazione del negoziato, evidenziando l’importanza di una preparazione meticolosa e ben strutturata. Vengono vagliati gli elementi tangibili, come la struttura di interessi, gli obiettivi, il potere, il tempo e il luogo della negoziazione, e quelli intangibili, come le emozioni, il sistema di credenze, la motivazione e le distorsioni cognitive.
La terza parte del manuale si addentra nella gestione delle emozioni durante il negoziato, le euristiche e le distorsioni cognitive che possono influenzare la fase operativa, la psicologia dei gruppi e le tecniche di negoziazione con soggetti di culture diverse, evidenziando l’importanza della comunicazione interculturale e delle differenze culturali.

Uno dei punti di forza del volume è la sua capacità di combinare teoria e pratica in modo efficace. Antonazzi presenta concetti teorici e li collega anche a esempi pratici, rendendo il contenuto chiaro e, soprattutto, applicabile. La divisione del libro in parti distinte permette una comprensione graduale e approfondita delle diverse fasi del negoziato, favorendo un approccio metodico e sistematico.
L’Autore esamina con attenzione sia gli elementi tangibili che intangibili del negoziato, sottolineando l’importanza di entrambi. Ad esempio, nella sezione dedicata agli elementi tangibili, discute in dettaglio la struttura di interessi, il potere, il tempo e il luogo della negoziazione. Questi elementi sono cruciali per la costruzione di una strategia efficace e per la gestione delle dinamiche di potere all’interno del negoziato.
Allo stesso modo, la trattazione degli elementi intangibili è approfondita e ben articolata. Antonazzi analizza come le emozioni, le distorsioni cognitive e la motivazione possano influenzare il processo negoziale. Questo approccio multidisciplinare, che incorpora conoscenze di psicologia e neuroscienza, arricchisce il testo e fornisce al lettore strumenti utili per comprendere e gestire meglio le dinamiche emotive e cognitive durante le trattative.
Un altro aspetto rilevante del volume è l’accento posto sulla preparazione come elemento imprescindibile del negoziato. Antonazzi sostiene che gran parte del successo di una negoziazione dipenda dalla preparazione e dalla raccolta di informazioni. Questo principio è illustrato attraverso l’analisi di vari scenari negoziali, che evidenziano come una buona preparazione possa ridurre l’incertezza e aumentare le possibilità di successo.
Negoziazione. L’arte di ridurre l’incertezza. Teoria e Metodo è un’opera di grande valore per chiunque desideri approfondire l’arte della negoziazione. Con un approccio dettagliato e multidisciplinare, il libro offre una panoramica completa delle competenze necessarie per diventare un negoziatore efficace. La combinazione di teoria e pratica, insieme alla trattazione approfondita dei vari argomenti, rende questo volume un prezioso strumento di apprendimento per professionisti e studiosi del settore.
Il manuale di Massimo Antonazzi costituisce, quindi, un contributo significativo allo studio della negoziazione, fornendo ai lettori una guida completa e dettagliata per affrontare con successo qualsiasi trattativa.

 

 

 

 

History of Medieval Church


Part II


The Separation of Rome from Constantinople

 

 

 

The Causes of the Separation

Various factors contributed to the birth of the Middle Ages, among which the alliance between the Church and the barbarian populations played a significant role. This was encouraged by the gradual separation of Rome from Constantinople during the 8th century.
The slow and progressive detachment between East and West has its roots as early as the 5th century.
Until 397, the year of St. Ambrose’s death, the Church was uniform throughout the Roman Empire, which acted as a unifying force. However, by the 5th century, strong tensions began to arise between the churches of the Eastern and Western regions. The factors that favoured the separation between the East and the West were essentially three:

  • Linguistic divergence: Greek, the official language of the Church, was replaced by Latin. The Western Church began to ignore Greek, introducing Latin within its practices. In this regard, Pope Damasus (380) introduced Latin into the Western liturgy and entrusted St. Jerome with the translation of the Septuagint from Greek into Latin, which resulted in the creation of the “Vulgate.” This language shift altered the way things were understood and communicated, leading to a change in culture and perspective. Thus, the East remained Byzantine, while the West became Latin.
  • Political fracture: The Western Roman Empire quickly collapsed under the pressure of barbarian invasions, while the Eastern Roman Empire lasted until the 15th century, ending with the fall of Constantinople (1453) to the Arabs. Additionally, there developed a strong Western aversion toward the East, which, in an effort to alleviate the pressure from the barbarians, granted them settlements in the West, which the East regarded as barbarized and culturally inferior.
  • Different ecclesiastical structures: On May 11, 330, Emperor Constantine moved the imperial seat from Rome to Constantinople, the new Rome. In the West, this created a political and administrative void that the Church slowly and tacitly filled, becoming the natural heir to the former Western Empire, which had been effectively abandoned by the emperor. Consequently, Rome, along with the West, believed it could operate independently, effectively abandoning the Eastern Emperor and his Empire.

Additionally, differing views on the Church separated the East from the West:

  • In the East, the structure was quadripatriarchal (Antioch, Alexandria, Constantinople, Jerusalem), with Rome as the fifth patriarchate.
  • Moreover, for the East, decisions were to be made communally and with mutual agreement. It was thus inconceivable that Rome alone would decide for and over everyone. Consequently, the East developed a communal approach, while the West adopted a monarchical one.

Beyond all else, the general atmosphere had changed: the East, by nature, was contemplative, while the West had a practical and concrete view of things. This different mindset was reflected in the respective liturgies: those of the East were elaborate and rich in symbolism, while those of the West were sober and practical.
These various sources of friction between East and West manifested as early as the 5th century in two ruptures in relations: the first lasting 11 years (404–415), the second lasting 50 years (484–534), the latter caused by the issuance of Zeno’s Henotikon (482), which sought to resolve Christological disputes between the Monophysites and Dyophysites following the Council of Chalcedon (451).


From the 5th century onward, the East and the West followed paths that increasingly alienated them from each other, particularly regarding the Monophysite and Dyophysite issues left unresolved by Chalcedon, from which emerged Monothelitism and Monoenergism. The East, in particular, struggled to reconcile the supreme purity of God with the fallen nature of humanity. This Monothelite controversy was addressed at the Council in Trullo I (680), restoring relations between the two Churches.
However, this fragile peace was disrupted by Justinian II (685–695), who sought to interfere in the internal affairs of the Church concerning ecclesiastical discipline. To this end, he convened a council, the Council in Trullo II, in 692 without consulting Pope Sergius I (687–701). This council, intended by the emperor to complete the work of the two previous councils—namely, the Fifth (Second Council of Constantinople in 553) and the Sixth (Third Council of Constantinople in 680), also known as Trullo I—came to be known as the Quinisext Council. Of the 102 canons approved, many were in open conflict with Western Church customs, and as a result, Pope Sergius I refused to sign them, rejecting even the copy reserved for him, despite intense imperial pressure. An agreement on these canons was reached only with Pope Constantine I (708–715), who accepted only about fifty of them after traveling to Constantinople, where the privileges of the Roman Church were renewed.
 
New Controversies: Leo III and Popes Gregory II and Gregory III

After the resolution of the 102 canons from the Council in Trullo II or Quinisext (692), peace between the state and the Church was again disrupted by two disputes between Emperor Leo III and Popes Gregory II (715–731) and Gregory III (731–741).
Upon ascending the throne, Leo III had to engage in significant military efforts to defeat the Arabs and quell the rebellion in Sicily. These wars drained the imperial treasury, prompting Leo III to impose heavy taxes on the Roman Church, thereby violating its privileges. Gregory II firmly opposed these imperial abuses, regarding them as a grave offense to the Western Church. Leo III, in turn, interpreted the papal refusal as an act of rebellion, which he sought to suppress, though unsuccessfully, due to a popular uprising and the unexpected support of the Lombards for the pope

The Iconoclastic controversy

Another point of conflict between the Empire and the Papacy was the iconoclastic controversy, which unfolded in two phases and lasted about a century.
The first phase (726–787) began with Leo III’s order to destroy the images in Constantinople and persecute the monks who guarded them. It was during this phase that John of Damascus intervened, introducing the distinction between adoration and veneration.
The iconoclastic movement was condemned by the Roman Church, and relations with Constantinople worsened when Leo III, as part of an imperial reorganization, significantly reduced the territorial jurisdiction of the Roman Patriarchate in favour of that of Constantinople. Rome lost control of Southern Italy, Sicily, Greece, Macedonia, and the Balkan Peninsula. The conflict continued with Leo III’s son, Constantine V, who persisted in the fight against images, developing a theological justification for iconoclasm.
The situation was resolved at the Second Council of Nicaea (787), convened by Empress Irene in agreement with Pope Adrian (772–795), although the council was not approved by the Synod of Frankfurt, convened by Charlemagne, who had been excluded from the conciliar decision-making process due to a misunderstanding.
 
The Second Phase (814–843)

The second phase of the iconoclastic controversy occurred under Leo V, who launched a new offensive against the veneration of images, attributing the Empire’s poor state to the relaxation of the struggle against images. Empress Theodora, like Irene, convened a new council in 843, which restored the veneration of images and established the Feast of the Triumph of Orthodoxy, still celebrated today on the first Sunday of Lent.

The Motivations of Iconoclasm

The motivations behind iconoclasm were rooted not only in Exodus 20:4 and Deuteronomy 4:15, which prohibit the worship of images, but also in Jewish and Islamic cultures, which viewed images as a violation of God’s transcendence, asserting that He cannot be represented. Additionally, early Church tradition was opposed to images, and bishops feared a return to idolatry and paganism.
These reasons found theological support at the Council of Hieria (754).
Opposing the iconoclast position, John of Damascus emphasized the important distinction between “adoration,” reserved for God alone, and “veneration,” due only to the saints.
It was also highlighted that, through the Incarnation, God Himself took on the image of man, and thus, humanity is permitted to use images in worship, which, far from containing or representing divinity, instead point toward it.

 

 

 

La metamorfosi del reale

Il potere del digitale e dell’Intelligenza Artificiale
nel rimodellare l’essenza dell’esistenza 

 

 

 

Negli ultimi decenni, la nostra società ha vissuto una trasformazione profonda, tanto evidente quanto difficile da comprendere nella sua totalità. Il digitale e l’Intelligenza Artificiale (IA) non stanno solo mutando le dinamiche della nostra vita quotidiana, ma sembrano anche incidere sulla stessa struttura ontologica della realtà. Non si tratta più soltanto di come noi, in quanto esseri umani, interpretiamo e comprendiamo il mondo, ma di un vero e proprio sconvolgimento che coinvolge l’essenza del reale. In questo contesto, ci troviamo di fronte a un cambiamento che investe le fondamenta stesse di ciò che consideriamo come “reale”.
Fino a non molto tempo fa, la realtà era concepita come qualcosa di statico, un insieme di fatti e fenomeni esterni a noi, che esistono indipendentemente dalla nostra percezione. Questo modello realistico, che ha dominato la filosofia occidentale fin dall’antichità, vedeva la realtà come un dato, qualcosa di oggettivo e immutabile. L’avvento del digitale ha iniziato a mettere in discussione questa prospettiva.
Con la digitalizzazione, le interazioni umane, la conoscenza e persino l’esperienza stessa si sono progressivamente smaterializzate. Pensiamo alla nostra presenza online: profili social, avatar nei mondi virtuali, simulazioni e modelli digitali. Questi nuovi modi di essere e interagire generano interrogativi sul confine tra ciò che è “reale” e ciò che è “virtuale”. Il virtuale non è più solo una copia o una rappresentazione del reale, ma diventa un nuovo tipo di realtà, con proprie regole e leggi, capace di influenzare il mondo fisico e la nostra percezione di esso.
L’Intelligenza Artificiale aggiunge un ulteriore livello di complessità a questa trasformazione. Non solo ci permette di elaborare e comprendere enormi quantità di dati, ma, in molti casi, produce delle realtà che sono autonome rispetto al controllo umano. Gli algoritmi di machine learning, ad esempio, non si limitano a replicare modelli già esistenti: sono capaci di creare nuove strutture, di “apprendere” e di fare previsioni che modificano il mondo che ci circonda. Ciò porta a un cambiamento profondo nel nostro rapporto con la realtà. Non siamo più i soli a costruire il significato del mondo: le macchine contribuiscono in modo attivo a creare la nostra esperienza del reale. Ciò che era visto come un compito esclusivo della mente umana – l’interpretazione e l’organizzazione dei fenomeni – è ora condiviso con entità digitali autonome. Questa co-creazione solleva domande di natura ontologica: cosa significa “essere reale” in un mondo dove l’IA genera soluzioni, previsioni e persino emozioni artificiali?


Uno degli aspetti più evidenti di questo cambiamento ontologico è la crescente fluidità della realtà. Il concetto di identità, sia a livello personale che sociale, è messo alla prova dalla capacità delle tecnologie digitali di manipolare, replicare e ridefinire l’informazione. Gli esseri umani interagiscono quotidianamente con simulazioni di sé stessi, con versioni virtuali che possono essere modificate a piacimento. Il confine tra l’autenticità e la simulazione diventa sempre più labile. Inoltre, con l’avvento delle tecnologie immersive come la realtà aumentata e virtuale e con lo sviluppo di algoritmi capaci di generare contenuti sempre più indistinguibili dalla realtà, il mondo virtuale non è più un semplice riflesso del mondo fisico. La differenza tra ciò che è “vero” e ciò che è “falso” diventa più sfumata. Si vive, si lavora e si interagisce in una realtà ibrida, dove l’informazione digitale e fisica si fondono in un continuum che rende difficile stabilire punti fermi ontologici.
In questo nuovo scenario, la realtà non può più essere vista come qualcosa di stabile e predefinito, quanto piuttosto quale processo dinamico in continuo divenire. Il digitale e l’Intelligenza Artificiale non si limitano a sconvolgere la nostra percezione della realtà, ma ne ridefiniscono attivamente le strutture. L’idea che la realtà sia una costruzione fissa, eterna, sta cedendo il passo a una visione più fluida e malleabile, dove le tecnologie non solo interpretano il mondo, ma contribuiscono a plasmarlo.
La natura stessa del reale si trasforma in qualcosa di contingente e malleabile, influenzata da forze artificiali che non rispondono più solo ai criteri della percezione umana. Le leggi che governano la realtà, come il tempo, lo spazio e la causalità, possono essere reinterpretate o ridefinite attraverso la tecnologia, come accade con gli algoritmi predittivi o i modelli di simulazione avanzata.
Il cambiamento ontologico della realtà solleva inevitabilmente questioni etiche e filosofiche, che approfondirò in un prossimo articolo dedicato. Se la realtà può essere manipolata e ricostruita attraverso la tecnologia, quali sono i limiti? Chi detiene il potere di determinare cosa è reale e cosa no? Come cambia la nostra responsabilità morale in un mondo dove le macchine partecipano attivamente alla creazione della realtà?
Le risposte a queste domande non sono semplici. Tuttavia, è chiaro che ci troviamo di fronte a una svolta storica. Il digitale e l’Intelligenza Artificiale non solo ampliano la nostra capacità di conoscere e intervenire nel mondo, ma alterano le stesse basi del nostro essere nel mondo. La realtà, in definitiva, non è più un dato, ma un processo che si evolve insieme alle tecnologie che la mediano.
Il cambiamento ontologico della realtà, indotto dalle tecnologie digitali e dall’Intelligenza Artificiale, rappresenta una delle sfide filosofiche e culturali più significative del nostro tempo. Non ci troviamo più semplicemente a dover comprendere una realtà esterna attraverso i nostri strumenti cognitivi, ma siamo chiamati a ripensare cosa significhi essere, esistere e conoscere in un mondo dove la tecnologia gioca un ruolo attivo nella costruzione del reale. La realtà non è più una struttura statica, ma un campo di forze dinamiche, costantemente ridefinite dall’interazione tra umano e artificiale.

 

 

 

Scritti su Nietzsche (2016 – 2024)

HARbif Editore

 

 

 

 

Il volume raccoglie riflessioni, articoli e interventi redatti tra il 2016 e il 2024, che collegano la filosofia nietzschiana a una varietà di concetti e contesti. I contributi, sistemati nella sequenza temporale della redazione, affrontano temi centrali del pensiero nietzschiano, come il concetto di “caos creativo”, la dottrina dell’“eterno ritorno”, l’Oltreuomo e la critica distruttiva alla metafisica occidentale, in una prospettiva personale e intima sul filosofo tedesco. Nel suo insieme, il volume si distingue per un approccio che intreccia filosofia ed esistenza umana, presentando Nietzsche come un pensatore vitale, capace di ispirare riflessioni profonde sulla vita, sulla libertà e sulla creazione artistica. Riccardo Piroddi, attraverso la filosofia di Nietzsche, analizza l’evoluzione spirituale dell’individuo, la tensione tra ordine e caos e la vittoria nietzschiana sulla metafisica occidentale, elevando il filosofo tedesco a oracolo del futuro, che fornisce chiavi di lettura profonde e innovative per comprendere il mondo e le sfide contemporanee.

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Il dilemma del solipsismo

La solitudine della coscienza e la sfida dell’intersoggettività

 

 

 

 

Il concetto di solipsismo, centrale nella riflessione filosofica, viene affrontato da diversi pensatori con sfumature e prospettive differenti, portando a sviluppi teorici che variano dal riconoscimento dell’altro fino alla negazione di una realtà condivisa.
Innanzi tutto, il solipsismo è una teoria filosofica che sostiene che l’unica realtà certa e conoscibile sia quella della propria mente. Secondo tale posizione, tutto ciò che esiste al di fuori della propria coscienza potrebbe essere illusorio o inaccessibile. In altre parole, non possiamo avere una conoscenza diretta del mondo esterno o delle menti altrui, ma solo delle nostre percezioni ed esperienze soggettive. Questa teoria pone domande profonde sulla natura della realtà, della conoscenza e della coscienza e porta a riflettere sui limiti della nostra capacità di comprendere l’esistenza oltre il nostro punto di vista individuale. Sebbene il solipsismo sia raramente adottato come una visione globale del mondo, viene spesso utilizzato come strumento filosofico per esplorare i confini della percezione e della conoscenza umana.
Cartesio si confronta con il problema del solipsismo all’interno del suo progetto di fondazione della conoscenza sulla certezza indubitabile. Il celebre Cogito ergo sum (Penso, dunque sono) costituisce il punto di partenza per Descartes, poiché l’esistenza del pensiero proprio è l’unica verità immediata e autoevidente a cui il soggetto può arrivare senza possibilità di errore. Tuttavia, Cartesio si scontra con il limite di questo principio: se l’esistenza del proprio pensiero può essere affermata con certezza, non altrettanto può dirsi dell’esistenza degli altri. Il pensiero altrui, infatti, non può essere conosciuto con la stessa immediatezza e chiarezza con cui il soggetto conosce il proprio. Questo conduce a un solipsismo problematico in Descartes: se la certezza dell’esistenza è legata alla sola auto-coscienza, l’esistenza degli altri non può essere dimostrata con lo stesso rigore. Nonostante Cartesio tenti di uscire da questo vicolo cieco attraverso l’affermazione dell’esistenza di Dio come garante della realtà del mondo esterno, il problema resta irrisolto. L’Io cartesiano rimane, in una certa misura, prigioniero della propria soggettività, poiché non può accedere all’esperienza altrui con lo stesso grado di evidenza. Di qui, la tentazione del solipsismo, che non viene completamente eliminata dal progetto cartesiano.
Friedrich Nietzsche, invece, porta il discorso sul solipsismo verso un estremo esistenzialista. Nella sua visione nichilista, il solipsismo non è solo una condizione filosofica ma diventa una realtà esistenziale. La “morte di Dio”, ossia la crisi dei valori tradizionali e la perdita di ogni fondamento metafisico, porta all’annullamento di ogni verità comune e condivisa. In questo contesto, il soggetto si ritrova solo con se stesso, senza più una rete di significati comuni che possa mediare il suo rapporto con gli altri o con il mondo. Nietzsche arriva a un solipsismo radicale, dove l’individuo è costretto a costruire la propria realtà in assenza di verità universali. La solidarietà umana e la possibilità di una comune intesa vengono distrutte, poiché l’esistenza si riduce a una lotta per l’affermazione della propria volontà e dei propri valori. Il solipsismo nietzschiano è dunque una condizione di isolamento assoluto, in cui l’unica certezza è il proprio esistere come volontà di potenza. Questo annullamento di ogni traccia di natura comune porta, secondo Nietzsche, alla rivolta contro qualsiasi idea di universalità e alla glorificazione di un individualismo estremo, in cui non esiste altro che l’autorealizzazione dell’individuo.


Edmund Husserl, fondatore della fenomenologia, ha elaborato una riflessione approfondita sul tema del solipsismo, rivedendolo in una chiave che potrei definire “solipsismo trascendentale”. Secondo Husserl, il solipsismo non va inteso come una negazione dell’esistenza degli altri, ma piuttosto come un punto di partenza necessario per comprendere l’intersoggettività. Nel suo metodo fenomenologico, il ritorno dell’Io su se stesso (la reductio fenomenologica) è un passo fondamentale per cogliere la struttura della coscienza e l’originaria relazione del soggetto con il mondo. Questo movimento di ritorno, però, non chiude l’Io in un’autoreferenzialità assoluta; al contrario, proprio nel momento in cui l’Io si riflette su di sé scopre che la sua esperienza è sempre relazionale e aperta agli altri. Husserl sostiene che l’altro è costitutivo della soggettività individuale. La consapevolezza della propria esistenza è inseparabile dal riconoscimento dell’esistenza degli altri e solo attraverso l’incontro con l’altro l’Io può completare la propria esperienza del mondo. In questo senso, l’intersoggettività non è una semplice aggiunta alla soggettività singola, ma la sua condizione di possibilità: senza la presenza di altri Io, l’individuo non potrebbe formare una coscienza autentica di sé stesso. Si supera così il solipsismo per arrivare a una forma di intersoggettività più profonda e autentica, che costituisce la base della comunità umana.
Il solipsismo, tuttavia, ha implicazioni non solo epistemologiche ma anche etiche: se non posso affermare con certezza l’esistenza degli altri, che ruolo gioca la relazione interpersonale nella mia vita? Questo problema è stato affrontato da vari filosofi, da Kant, che cerca di superare il solipsismo con il concetto di dovere morale, fino a filosofi esistenzialisti come Sartre, che cercano di risolvere la questione attraverso l’esperienza concreta del conflitto e dell’incontro con l’altro.
A breve, percorrerò, in un articolo dedicato, anche questa variante etica del solipsismo.

 

 

 

Giambattista Marino: il principe del Barocco

 

 

 

 

Il principe dei poeti del Seicento, il vero re del secolo, l’uomo che diede l’impronta all’intera stagione poetica barocca, nacque a Napoli il 14 ottobre 1569. Trascorse l’infanzia felice nella sua città, frequentando ambienti intellettuali e culturalmente molto stimolanti. Sin da ragazzino, amò così tanto le lettere che al momento di cominciare a pensare seriamente al futuro litigò col padre, che lo avrebbe voluto uomo di legge, se andò via da casa e visse spensieratamente la sua passione. Era al servizio di Matteo di Capua, principe di Conca, quando capì che la vita di corte sarebbe stata l’unica a potergli garantire tutto quello che voleva: successo, soldi e belle donne. Per ottenere ciò, non esitò ad usare mezzi non sempre legali: Frans_Pourbus_the_Younger_-_Portrait_of_Giovanni_Battista_Marinofu, infatti, incarcerato due volte, la prima, per aver sedotto una minorenne, costringendola all’aborto, e la seconda, per aver falsificato alcune bolle vescovili. Influenti protettori, comunque, gli garantirono sempre i salvacondotto per uscire di galera. Di corte in corte, a Torino, nel palazzo di Carlo Emanuele I di Savoia, per entrare nelle grazie del duca e cercare di stabilirvisi, vitto e alloggio spesati, scrisse un Ritratto del serenissimo Don Carlo Emanuello duca di Savoia, che gli valse la nomina a Cavaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro, un’onorificenza importantissima la quale, però, fece morire d’invidia il poeta di corte Gaspare Murtola che addirittura tentò, senza riuscirci, di ammazzarlo. Marino, invece del coltello, per rispondere, usò la poesia, componendo la Murtoleide, una raccolta di sonetti dove lo combinò proprio male. Visse diversi anni dai Savoia, non sempre idillicamente, a causa della sua disinvoltura nel comporre versi, che spesso facevano infuriare i cortigiani e i suoi benefattori. La sua fama, intanto, cresceva giorno dopo giorno, così che, nel 1615, la Carla Bruni Sarkozy dell’epoca, ovvero Maria de’ Medici, non perché fosse modella e cantante, quanto piuttosto moglie del re di Francia Enrico IV, lo chiamò a palazzo come poeta di corte. A Parigi, il cavalier Marino se la spassò alla grande: col ricco stipendio di cortigiano versatogli dalla regina poté vivere come un nababbo, collezionando quadri, opere d’arte e la biancheria intima delle dame che passavano per la sua camera da letto. Scrisse molto in questo periodo, pubblicando quasi tutte le sue opere e una sontuosa edizione dell’Adone, il suo maggiore poema, tutto a spese del re Luigi XIII, il figlio di Maria. Qualche tempo dopo, però, le cose cominciarono a cambiare anche a Parigi. Decise, così, di tornare nella sua Napoli, dove fu accolto come un trionfatore, più di Fabio Cannavaro dopo la vittoria ai Mondiali di calcio del 2006. Turbato oltremodo dalle rotture di scatole dell’autorità ecclesiastica, riguardo la lussuria e le sconcezze contenute nell’Adone, morì all’ombra del Vesuvio il 25 Marzo 1625.

Le opere

Marino pubblicò la sua prima raccolta poetica nel 1602, intitolandola Rime, e, poi, ampliandola, per un totale di circa 900 componimenti, dati alle stampe dodici anni dopo, col titolo La Lira. Vi sono inclusi sonetti di vari argomenti: amorosi, sacri, encomiastici, boscherecci, marittimi, lugubri ed eroici.

“Or che da te, mio bene,
Amor lunge mi tiene, il pensier vago
spesso innanzi mi pon l’amata imago.
E qual ape ingegnosa,
quindi un giglio talor, quinci una rosa
scegliendo a suo diletto,
rappresentar mi sole
ne le più belle forme il caro oggetto;
e spesso mostra al cor, ch’egro si dole,
la tua beltà nel Ciel, gli occhi nel Sole”.

(Nel medesimo suggetto, 11)

“È sogno o ver? Se sogno, ahi, chi depinge
viva la bella imagine ala mente?
Come fiamma sì lucida e sì ardente
gelid’ombra notturna esprime e finge?”

(Sogno, vv. 1 – 4)

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Con La Sampogna, crestomazia divisa in due parti, otto idilli favolosi e quattro pastorali, Marino si confrontò con i miti greci e i drammi pastorali. Ne viene fuori un paesaggio silvano e bucolico arricchito dal prezioso linguaggio poetico dell’Autore.

“Seguillo il pin robusto,
carco di duri e noderosi scogli,
che per cercar de la perduta figlia
a la feconda dea prestò le faci;
seco condusse la compagna quercia,
arbore a Giove cara, e de le ghiande
(cibo de’ primi eroi) madre ferace”.

(La Sampogna, Idilli favolosi, Orfeo, vv. 762 – 768)

La Galeria, invece, sempre nello stile meraviglioso ed emozionante del poeta, è una raccolta di componimenti dedicati alla descrizione di opere d’arte, pitture e sculture, reali o immaginarie. Cosa fu Marino se non un pittore di parole e concetti? La sua poesia si avvale delle pennellate del prezioso e del ricercato, del sublime e dell’immaginifico, del viaggio della mente (con o senza sostanze illegali!).

L’Adone

Adone, scampato ad una terribile tempesta, approda sull’isola di Cipro, dove la dea Venere ha il suo bel palazzo. Cupido scocca una freccia e fa innamorare la madre del principe che, svegliatosi, viene pure lui colpito da un dardo, ricambiando, così, l’amore di Venere. imagesAdone, tutto innamorato della bella Cipride, ascolta Cupido e Mercurio mentre gli raccontano storie d’amore e viene poi accompagnato nel Giardino del Piacere, diviso in cinque parti, ognuna corrispondente ad uno dei cinque sensi, e alla fontana di Apollo. Marte, avvertito da Gelosia che Venere ama qualcun altro, corre a Cipro. Adone, avvertito in tempo, scappa e viene trasformato in un pappagallo per aver rifiutato l’amore di Venere. Mercurio, però gli fa riprendere il suo vero aspetto e, dalla padella alla brace, viene sequestrato da una banda di ladroni. Tornato a Cipro, dopo aver vinto una gara di bellezza, è incoronato re dell’isola e si riavvinghia a Venere ma Marte, durante una battuta di caccia, lo fa uccidere da un cinghiale. Adone muore fra le braccia di Venere, che trasforma il suo cuore in un fiore rosso, l’anemone. Solenni giochi funebri sono allestiti per onorare il bel giovane. Quest’opera è tra le più lunghe di tutta la Letteratura Italiana: 5.033 ottave, per un totale di 40.264 versi, distribuiti in venti canti. L’Adone è un poema sostanzialmente antinarrativo perché l’esile trama è soltanto il ponteggio adottato dell’Autore per edificare il suo castello di metafore e concetti, che tanta parte avevano nella poetica della meraviglia barocca. Marino dovette dare fondo a tutta la sua potenza immaginifica per costruire un’opera nella quale non è difficile perdersi, appunto perché manca il filo di Arianna, rappresentato dalla narrazione lineare degli eventi. Esso è un poema per immagini, come una galleria d’arte, dove sono esposti i quadri più splendidi e differenti. Descrittività, mito, citazioni, altissima ritmicità metrica e lirica, ne sono componenti fondamentali.