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Giuseppe Parini e i “giovin signori” di oggi

 

 

 

 

Giuseppe Parini è stato certamente stato il più frizzante degli illuministi milanesi, colui il quale sferzò, con la sua ironia, la classe nobiliare della Lombardia “austriaca” della seconda metà del ’700. qNella sua opera più celebre, Il Giorno, narra, in versi endecasillabi, la tipica giornata del “giovin signore”, l’esemplare esponente del patriziato milanese, dal risveglio a tarda mattina fino al rientro a casa a notte fonda. L’Autore funge da “precettor d’amabil rito”, com’egli stesso si definisce, sempre pronto a mostrare al suo signore i trucchi e i modi per riempire, con stuzzicanti e coinvolgenti avventure, i tanti momenti di noia. L’opera è un capolavoro insuperato di umorismo. Parini, d’altronde, conosceva bene gli ozi e le abitudini della nobiltà milanese, secondo quello stile di vita condensato nell’adagio “vizi privati e pubbliche virtù”, perché l’aveva frequentata a lungo, quando era stato precettore presso le aristocratiche famiglie dei Serbelloni e degli Imbonati. Emerge, quindi, un ritratto sì caricaturale, ma rispondente al vero. Tutto è teso alla presa in giro e alla messa alla berlina dei nobili e dei loro stravaganti modi di vivere. Finanche il linguaggio, il cui uso è così volutamente fine e ricercato, denso di metafore fascinose e richiami mitologici dal sapore barocco, in modo da risultare spesso comico, serve alla causa. La critica di Parini (immagine a destra) al mondo nobiliare non è stata, però, soltanto distruttiva. Non semplice disapprovazione o preconcetta avversione: egli sperava che i nobili la smettessero di vivere da parassiti e partecipassero attivamente alla vita sociale, che si impegnassero in politica e, forti della loro posizione e della loro ricchezza, contribuissero a migliorare la società. Il portato di queste riflessioni è più attuale che mai, oggi, che si sta facendo un gran parlare di caste e presunta negligenza dei politici.

 

Pubblicato il 22 luglio 2011 su www.caravella.eu

 

 

 

La nascita, nell’Europa medievale, delle scuole laiche
e delle Università, interpretata in maniera molto singolare

 

 

 

Tratto dal mio “La Letteratura Italiana – Dalle origini al primo Novecento”, Eurilink University Press, 2022, pp. 42-43

 

“…Verso la metà dell’XI secolo, tuttavia, qualcosa cominciò a cambiare. Qualcuno decise di mettersi in concorrenza con la Chiesa. “Perché devono essere solo loro a insegnare, a scegliere le materie e i programmi? Perché la Bibbia deve essere l’unico manuale in uso di storia, geografia, letteratura, lingua, psicologia, fisica, chimica, architettura, ingegneria, astronomia, religione e pure educazione fisica?”.
Molti uomini, allora, estranei ai ranghi ecclesiastici, quando si incontravano all’osteria, la sera, dopo cena, cominciarono a discutere di filosofia aristotelica la quale, anche attraverso le traduzioni e i commenti dei dotti arabi Avicenna e Averroè, era giunta in Occidente. Così, parla oggi, discuti domani, leggiti il libro per dopodomani, i conversanti aumentavano sempre di più. Gli osti facevano affari d’oro, perché avevano messo la consumazione obbligatoria e, quando si faceva tardi, fittavano pure qualche camera per la notte con la prima colazione compresa. La cuccagna, per i gestori di osterie e taverne, però, durò poco. Ben presto, in tanti decisero di riunirsi in luoghi più adatti alle discussioni, alla lettura e allo studio.
Ed ecco che nacquero le Università e, in due secoli, dall’XI al XIII, ne sorsero in tutta Europa. Ogni città importante aveva la propria. Vi si poteva studiare la filosofia, le lettere, il diritto e le cosiddette arti liberali, fondamento di tutta l’istruzione dei secoli precedenti: la grammatica, la retorica, la dialettica, la musica, l’astronomia, l’aritmetica e la geometria. Tutto era molto ben organizzato: gli studenti, dopo aver letto i testi consigliati dai maestri, sceglievano quale corso seguire e in che materia diventare dotti.
Essi, inoltre, erano liberi di discettare con i docenti, senza dover sostenere esami, né scritti, né orali, ma, semplicemente, confrontando il loro pensiero con quello degli antichi, come, ad esempio, Aristotele e tanti altri, e con i compagni di banco. Era, dunque, un metodo di insegnamento e apprendimento molto particolare. Se oggi fosse ancora così, molti studentelli ne approfitterebbero e non imparerebbero un bel niente…”.

 

 

 

Papa Adriano V e l’avarizia: due malintesi letterari

 

 

 

Non di rado capita che, nella storia della letteratura, possano essere generati malintesi che eternano immagini e caratteristiche di personaggi storici non sempre rispondenti al vero. È il caso di papa Adriano V, al secolo Ottobono Fieschi, genovese, asceso al soglio di Pietro, settantenne, l’11 luglio del 1276 e morto dopo soltanto 39 giorni di pontificato. Molto poco, data l’estrema brevità del suo regno, ebbe occasione di compiere, riuscendo appena a convocare un concistoro segreto, nel quale sospese la costituzione apostolica Ubi periculum, contemplante le norme per l’elezione papale, riservandosi di riformarla successivamente, cosa che, però, non ebbe il tempo di fare. Nonostante non vi siano affatto conferme della sua presunta avarizia, Adriano V è stato vittima di due singolari equivoci letterari. È stato, infatti, collocato da Dante nella quinta cornice del Purgatorio, tra gli avari e i prodighi: “Spirto in cui pianger matura/ quel sanza ‘l quale a Dio tornar non pòssi,/ sosta un poco per me tua maggior cura./ Chi fosti e perché vòlti avete i dossi/ al sù, mi dì, e se vuo’ ch’io t’impetri/ cosa di là ond’io vivendo mossi”./ Ed elli a me: “Perché i nostri diretri/ rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima/ scias quod ego fui successor Petri./ Intra Sïestri e Chiaveri s’adima/ una fiumana bella, e del suo nome/ lo titol del mio sangue fa sua cima./ Un mese e poco più prova’ io come/ pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,/ che piuma sembran tutte l’altre some./ La mia conversïone, omè!, fu tarda; /ma, come fatto fui roman pastore,/ così scopersi la vita bugiarda./ Vidi che lì non s’acquetava il core,/ né più salir potiesi in quella vita;/ per che di questa in me s’accese amore./ Fino a quel punto misera e partita/ da Dio anima fui, del tutto avara;/ or, come vedi, qui ne son punita./ Quel ch’avarizia fa, qui si dichiara/ in purgazion de l’anime converse;/ e nulla pena il monte ha più amara./ Sì come l’occhio nostro non s’aderse/ in alto, fisso a le cose terrene,/ così giustizia qui a terra il merse./ Come avarizia spense a ciascun bene/ lo nostro amore, onde operar perdési,/ così giustizia qui stretti ne tene,/ ne’ piedi e ne le man legati e presi;/ e quanto fia piacer del giusto Sire, /tanto staremo immobili e distesi” (Pur. XIX, 91-126). In modo simile, Francesco Petrarca, nel suo Rerum Memorandum Libri (III, 95), asseconda il peccato del pontefice, salvo, poi, nella raccolta epistolare Rerum Familiarium Libri (IX, 25-28), rettificare il suo sbaglio. L’errore, in entrambe le “Corone fiorentine”, potrebbe aver avuto origine dalla lettura della Historia Pontificalis di Giovanni di Salisbury, scrittore inglese, vescovo di Chartres nella seconda metà del XII secolo, il quale attribuì a papa Adriano IV, il connazionale Nicholas Breakspear, grande avarizia, unita ad una smisurata sete di potere, vizi che, poi, sarebbero scomparsi proprio in seguito all’elezione papale, come risulta anche nei citati versi di Dante. Il duplice malinteso, quindi, sarebbe stato generato dalla sostanziale omonimia tra i due vicari di Cristo in terra.

Pubblicato l’1 agosto 2017 su La Lumaca

 

 

 

 

Quel senso di nostalgia nella poesia crepuscolare
di Guido Gozzano

 

 

 

I primi vent’anni della mia vita li ho trascorsi stabilmente a Sant’Agata sui due Golfi, a casa dei miei genitori. Il balcone della mia camera da letto affacciava su un panorama mozzafiato: a sinistra, la collina di Santa Maria della Neve, poi, il Monte San Costanzo, al centro della scena, l’isola di Capri e, sulla destra, il colle del Deserto. Fin da bambino, mi incantavo a guardare, tra ottobre e novembre, il sole tramontare tra Capri e il mare. Ho sempre accostato questa immagine al ricordo della mia infanzia e della mia terra bellissima ogniqualvolta, essendone lontano, ho pensato ad esse. Anche il termine Crepuscolarismo mi rimanda a tale dolce memoria. La definizione di questo movimento poetico ha a che fare con il tramonto, proprio perché fu adoperata per definire quella tendenza compositiva che si sviluppò in Italia nei primi quindici anni del Novecento. Gabriele D’Annunzio aveva celebrato la poesia eroica, ponendo il poeta nella posizione di animatore della storia e creatore delle forze del futuro. I crepuscolari, al contrario, rifiutavano questa concezione del versificatore e della poesia, ripiegando su temi e movimenti più semplici, di declino, smorzati e spenti, comuni e usuali, nostalgici, come il sole che tramonta, appunto. Nel tramonto c’è tutta la nostalgia del giorno che sta per finire. Ecco il perché del termine Crepuscolarismo. Il più famoso poeta crepuscolare fu senza dubbio Guido Gozzano. Nato a Torino nel 1883, studiò con poco profitto alle scuole superiori, si iscrisse all’Università senza, però, laurearsi. Si interessò soltanto alla letteratura e alla poesia. Visse molto poco, 33 anni, distrutto dalla tisi. Il suo compendio poetico che vale la pena leggere è “Colloqui”. La poetica di Gozzano risente della malattia e del continuo confrontarsi con essa, dell’incertezza del futuro e del rifugio in un passato tutto da ricordare. Ecco perché essa è dotata di una forte componente nostalgica. Il poeta avrebbe desiderato solo essere felice, poter amare ed essere amato, ma la malattia glielo impedì. Ne sono dimostrazione due tra le sue liriche migliori: “L’amica di Nonna Speranza” e “Cocotte”. Non ebbe mai la pretesa di voler essere considerato un grande poeta. Verseggiò con tristezza, quasi piangendo!

Pubblicato l’1 giugno 2017 su La Lumaca

 

 

Le maschere della Commedia dell’arte

 

 

 

La Commedia dell’arte, fenomeno culturale nato in Italia nel XVI secolo, prese il nome dall’accezione medievale del termine arte, ovvero mestiere, perché, per i recitanti, il teatro costituiva un lavoro e non una passione a cui dedicarsi nel tempo libero. Unitisi in cooperative, la compagnie teatrali, attori e, per la prima volta sulle scene, attrici, portavano le loro rappresentazioni sia nei palazzi signorili che nelle piazze e nei mercati. Tra le più celebri compagnie, quelle di Ser Maphio, padovana, dei Gelosi, milanese, dei Confidenti, fiorentina, degli Accesi, dei Fedeli e degli Uniti, mantovane. Tra gli attori, invece, degni di essere ricordati, Francesco Andreini, Alberto Naselli, Pier Maria Cecchini e la moglie Orsola, Francesco Gabrielli, Flaminio Scala, Silvio Fiorillo, Virginia Rotari e Giovanni Pellesini. La vera novità della Commedia dell’Arte era nel fatto che gli artisti non interpretavano testi scritti od opere drammaturgiche vere e proprie, quanto piuttosto recitavano rifacendosi ad un canovaccio, cioè all’insieme, a grandissime linee, degli elementi di una trama. Salivano sul palcoscenico improvvisando, con grande bravura e abilità, le situazioni più varie e divertenti possibili, ma che avevano sempre gli stessi protagonisti, le maschere, personaggi facilmente riconoscibili dall’abbigliamento e da caratteri propri, ogni volta identici. Esse avevano le stesse fattezze di quelle con le quali molti dei bimbi della mia generazione, me compreso, si travestivano a Carnevale: Arlecchino, servo imbroglione e sempre alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti; Balanzone, chiacchierone e presuntuoso; Brighella, servitore furbissimo e macchinatore di truffe e inganni di tutti i tipi; Colombina, giovinetta intelligente e maliziosa; Pulcinella, gobbo, spaccone e bugiardo; Tartaglia, cieco e balbuziente; Pantalone, vecchiaccio che correva sempre dietro alle donne. Queste maschere rappresentavano spettacoli davvero comici, i quali, però, a causa del carattere di improvvisazione, non sono stati quasi mai trascritti, per cui, oggi è alquanto difficile ricostruire con precisione, né tanto meno poter rappresentare, un’opera della Commedia dell’arte. Accanto a questi attori, comunque, ci fu, tuttavia, chi, tra il XVI e XVII secolo, continuò a fare teatro alla vecchia maniera, vale a dire, seguendo i soliti generi, la commedia, la tragedia e i drammi, ma con linguaggi e significati diversi, rispetto alla tradizione precedente: Giovan Battista Guarini, Federico Della Valle e Carlo de’ Dottori.

Pubblicato l’1 marzo 2017 su La Lumaca 

 

Alano di Lille e il libro che pochissimi leggono

 

 

 

Che la Natura fosse un grande libro, nelle cui pagine sono scritte tutte le cose riguardanti i viventi, fu chiaro già ai primi uomini. Essi, infatti, impararono dalla Natura a conservare sé stessi e da essa trassero le condizioni migliori e più opportune per la loro sopravvivenza. Vi fu un uomo, però, che su quel libro ne scrisse un altro, intitolandolo De planctu Naturae (Il pianto della Natura). Costui si chiamava Alano ed era originario di Lille, in Francia, ove nacque intorno al 1125. qFu così colto che i contemporanei lo chiamarono doctor universalis perché, quando lo ascoltavano, sembrava loro di sfogliare il romanzo con cui era stato costruito l’Universo mondo. L’opera di Alano, ad ogni modo, non è di piacevolissima lettura, specialmente per il lettore contemporaneo, perché risente del pessimismo schiettamente medievale nei confronti della condizione umana (mi sovvengono anche il De contemptu mundi, Il disprezzo del mondo, di Lotario di Segni, il futuro papa Innocenzo III, e la Elegia de diversitate fortunae, Elegia sull’avversità della fortuna, di Arrigo da Settimello, che pure si muovono in quel senso). Ciononostante, bisogna essere a lui grati per alcuni versi riportativi: “Omnis mundi creatura/ quasi liber et pictura/ nobis est in speculum/ nostrae vitae, nostrae mortis/ nostri status, nostrae sortis/ fidele signaculum” (Ogni creatura dell’universo, quasi fosse un libro o un dipinto, è per noi come uno specchio della nostra vita, della nostra morte, della nostra condizione, segno fedele della nostra sorte). qTroppo spesso si confonde il sapere soltanto con quanto è scritto nei libri e ci si affanna ad apprendere quante più notizie possibili, quasi come se la conoscenza dipendesse esclusivamente dal numero delle date dei maggiori eventi storici che si riuscisse a mandare a memoria o da quanti nomi di personaggi famosi si conoscano. Il primo modo di apprendere il sapere è leggere il libro della Natura o, sarebbe meglio dirla con Alano, il libro delle creature della Natura. A ciò fa eco un altro pensatore, l’inglese Thomas Hobbes, il quale affermò, circa cinquecento anni dopo, nella prefazione del suo Leviatano, che la sapienza non si acquistasse leggendo i libri, ma leggendo gli uomini. Il problema cruciale per il genere umano, purtroppo, consiste nel fatto che molti non passino neppure un’ora né in biblioteca, né in campagna.

 

Pubblicato l’8 settembre 2011 su www.caravella.eu

 

 

 

La filosofia inglese e le sue leggi “concrete”

 

Perché gli inglesi hanno dominato il mondo per almeno quattro secoli

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Gli inglesi, per quel che concerne la storia del pensiero, si sono distinti dagli altri popoli europei, antichi e moderni, a causa di quella impronta, ad essi del tutto peculiare, tendenzialmente antimetafisica ed essenzialmente pragmatica. A scorrere rapidamente quella storia, infatti, ciò può essere facilmente notato: quando il Medioevo volgeva ormai al termine, mentre nelle scuole del resto d’Europa i dotti erano ancora impelagati nelle dispute scolastiche sulle prove dell’esistenza di Dio, sugli universali, sulla Trinità e sui quodlibeta, Roger Bacon, filosofo, scienziato e mago, il doctor mirabilis (dottore dei miracoli), fondava la gnoseologia empirica, secondo la quale l’esperienza sia il vero e unico mezzo per acquisire conoscenza del mondo. Tre erano, secondo il filosofo, i modi con cui l’uomo potesse comprendere la verità: con la conoscenza interna, data da Dio tramite l’illuminazione; con la ragione, la quale, però, non è bastevole, e, infine, con l’esperienza sensibile, ovvero tramite i cinque sensi, il non plus ultra di cui esso possa disporre e che gli consente di avvicinarsi alla reale conoscenza delle cose. Il frate francescano William of Ockham, il doctor invincibilis (dottore invincibile), con il suo famosissimo rasoio, semplificò al massimo la spiegazione dei fenomeni, mostrando l’inutilità di moltiplicare le cause e di introdurre enti al di là della fisica: “Frustra fit per plura, quod fieri potest per pauciora” (è inutile fare con più, ciò che si può fare con meno). Francis Bacon, il filosofo dell’adagio “Sapere è potere”, padre della rivoluzione scientifica e del metodo scientifico nell’osservazione e nello studio dei fenomeni attraverso l’induzione, meglio definita e rinnovata rispetto a quella aristotelica, fu avversatore dei pregiudizi, da lui chiamati idola (idoli o immagini), che impedivano la reale conoscenza e intelligenza della natura, e fu ispiratore di un’altra grande mente inglese, Isaac Newton, lo scienziato-osservatore empirico per eccellenza. Thomas Hobbes diede spiegazione a tutti gli aspetti della realtà col suo materialismo meccanicistico, annullando la res cogitans (sostanza pensante) di Cartesio e il suo ambiguo rapporto con la res extensa (sostanza materiale), retroterra sul quale basò la sua concezione della natura umana, della condizione di guerra di tutti contro tutti (l’homo homini lupus), del patto di unione e del patto di società, dai quali sarebbero poi nati, rispettivamente, la civiltà e, attraverso la rinuncia da parte di ogni uomo al suo diritto su tutto e la cessione di questo al sovrano, lo Stato, il Leviathan (Leviatano). John Locke, l’empirista, l’autore di An essay concerning human under standing (Saggio sull’intelletto umano), sosteneva che tutta la conoscenza umana derivasse dai sensi. Indagò le idee e i processi conoscitivi della mente, criticando l’innatismo cartesiano e leibniziano e, tra l’altro, fu strenuo propugnatore del liberalismo politico e della tolleranza religiosa. David Hume, l’estremo dell’empirismo inglese, asseriva, come Locke, che la conoscenza non fosse innata, ma scaturisse dall’esperienza. Egli negò sia la sostanza materiale che quella spirituale, tutto riducendo a sensazione e stato di coscienza. Demolì il concetto di causa, ritenendolo mero costume della mente, suscitato dall’abitudine, e postulò, quali conoscenze universali e necessarie, soltanto quelle della geometria, dell’algebra e dell’aritmetica. Adam Smith, filosofo ed economista, teorizzò l’idea che la concorrenza tra vari produttori e consumatori avrebbe generato la migliore distribuzione possibile di beni e servizi, poiché avrebbe incoraggiato gli individui a specializzarsi e migliorare il loro capitale, in modo da produrre più valore con lo stesso lavoro. E, infine, l’Utilitarismo di Jeremy Bentham e John Stuart Mill prima, con tutte le implicazioni morali (o moralmente inglesi), legate ai concetti di “utile” e di “felicità“, e quello di Henry Sidgwick, poi, col suo edonismo etico, mediante il quale aggiunse importanti precisazioni ai concetti dell’utilitarismo classico. Queste riflessioni filosofiche hanno certo corrispettivo pratico allorquando si osservano attentamente tutte le sfaccettature dell’English way of life e dei princìpi che, ancora oggi, lo animano. Il motivo per cui gli inglesi, fino a circa settant’anni fa, hanno realmente dominato il mondo (basti pensare al British Empire e al Commonwealth), ha le proprie basi nel pragmatismo che, dal 1200 in poi, ha caratterizzato le sue classi intellettuali e, di riflesso, quelle deputate all’azione. Un popolo non condizionato dalla religione, come lo sono stati, dal Medioevo alle soglie dell’età contemporanea, la maggior parte dei Paesi cattolici europei, libero di sottomettere altre genti, che non ha combattuto in nome di Dio ma degli uomini, era destinato ad avere il ruolo che ha avuto e che ancora ha. Del resto, negli stessi anni in cui un bardo venuto dalle Midlands incantava gli spettatori del Globe Theatre a Londra, mettendo in scena l’amore tra Romeo e Giulietta, la filosofia dell’essere e del non essere e la gelosia di Otello, la regina Elisabetta I nominava baronetto il più astuto e lesto pirata della storia: sir Francis Drake!

 

Sir Francis Bacon (1561-1626)

 

Pubblicato l’1 aprile 2017 su La Lumaca

 

La vera storia di “Wonderful tonight“:
Eric Clapton e Pattie Boyd

 

 

 

Patricia Anne Boyd, chiamata Pattie, aveva 35 anni quando, nel 1979, sposò Eric Clapton. qLo aveva conosciuto all’epoca in cui era stata sposata con un’altra leggenda della musica contemporanea: George Harrison, il chitarrista dei Beatles, di cui Clapton era grande amico. Per lei, George (foto a sinistra) aveva scritto quella dolcissima canzone, che Frank Sinatra definì la più bella canzone d’amore mai scritta: Something. Nonostante questo, nonostante fossero “la coppia perfetta”, giovani, belli, ricchi e famosi, quasi personaggi di un romanzo di Francis Scott Fitzgerald, il loro matrimonio finì nel 1974. Eric Clapton era innamorato di Pattie già dalla fine degli anni ’60, ma ella era già sposata. L’unica cosa che il grande chitarrista poté fare, fu confidarle il suo amore, attraverso un’altra bellissima canzone, Layla. Quando Pattie capì che era dedicata a lei, trasalì. “Sei pazzo? Io sono sposata con George!”. Gli disse. Lui, allora, tirò fuori una bustina dalla tasca e gliela mostrò: “Se non fuggi con me, io prendo questa”. “Che cos’è?”. “Eroina”. “Non fare lo stupido!”. “No, è proprio così, è finita!”.  Per tre anni Clapton scese all’inferno ma vi risalì quando Pattie, finalmente, dopo aver divorziato da Harrison, decise di vivere con lui. La sera del 7 settembre 1976, Pattie ed Eric (foto a destra) stavano per andare alla festa che Paul e Linda McCartney tenevano annualmente in onore di Buddy Holly. “Non avevo ancora deciso cosa indossare. Eric era già pronto da molto e mi aspettava pazientemente, giocherellando con la sua chitarra. Come era dolce, almeno in quei primi tempi! Quando, finalmente, io fui pronta e scesi, gli chiesi: Do I look all right? e lui, invece di rispondere suonò quello che aveva appena composto,: It’s late in the evening/ she’s wondering what clothes to wear/ She puts on her makeup/ and brushes her long blonde hair/ And then she asks me/ Do I look all right?/ And I say, yes, you look wonderful tonight(ascolta). Anche questa “magia”, tuttavia, sarebbe finita, come spesso accade alle celebrità. La “Bellissima stasera” non avrebbe infiammato più il cuore di Clapton. qPattie ed Eric divorziarono quando le avventure amorose di Slowhand divennero troppo frequenti. I due figli del chitarrista, di nati al di fuori del matrimonio, di cui uno, Conor, avuto dalla soubrette italiana Lori Del Santo, morto tragicamente cadendo da un grattacielo newyorkese, a soli quattro anni, furono per lei qualcosa di insuperabile. Nella sua autobiografia, intitolata Wonderful today e pubblicata nel 2007, Pattie Boyd scrive a proposito della canzone: “Per anni mi ha fatto piangere. Wonderful tonight è il più commovente ricordo di ciò che di buono c’era nella nostra relazione. Quando le cose tra noi iniziarono ad andare male era una tortura ascoltarla“.

 

Pubblicato il 4 agosto 2011 su www.caravella.eu

 
 

Groupies in the Sixties and Seventies. Let spend the night together!

 

 

 

The groupies scene was a phenomenon of the late Sixties and early Seventies, and various threatening social diseases have effectively put the mockers on groupiedom in the eighties, much to the chagrin of some straggling leftover rock ‘n’ rollers who remember the good times. It was at its height in the late Sixties havens of San Francisco, Los Angeles and New York. In 1969 the groupies knew they had arrived when the influential magazine Rolling Stone dedicated an entire issues to groupies their philosophy, their quirks, their motivation and – in a few cases – their regrets. A groupie is generally considered an avid, often female, fan of a band or musical performer. The term derives from the female attaching herself to a group, the band. While the band is the group, the female is the groupie. A groupie is considered more intense about her adored celebrities than a fan. A fan might have all the albums and a few pictures of her favourite band. She or he might also attend all the band’s performances within reasonable distance to his or her hometown. images9TDXLB30A groupie tends to follow the band, perhaps almost touring with them. The groupie will attempt contact with the band, either conversational or sexual in nature, and may become an annoyance by virtually stalking band members. Obsessive groupies will almost certainly involve themselves sexually with any members of the band including the roadies. Even if rejected, the groupie will usually keep trying with the goal of being considered part of the band, or important to a member of the band. The relationship of an obsessive groupie to a band is like a love relationship gone badly wrong. The obsessive groupie has little interest in anything but matters pertaining to the band. Unfortunately, such groupies are also fuelled by the “sex, drugs and rock and roll,” atmosphere of most popular bands and artists. With sex offered, and frequently drugs available, a groupie can easily become somewhat delusional about her importance. Not all musicians or groupies would necessarily take that stance. Many feel their experiences have been fantastic and wouldn’t change a thing. Ex groupie Pamela Des Barres’ (photo on the side) first novel I’m with The Band  and her last book Let spend the night together for example, are a positive look at the sexually charged groupie environment of the late 1960s and early 70s. The books are very frank and Des Barres does not spare the reader from excessive detail about her and other groupies sexual escapades. The books seem more like bragging regarding a lifestyle, than an expression of regret for her and their choices. Still based in L.A., Des Barres was once a member of the legendary Frank Zappa’s pet – project girl group Girls Together Outrageously. Now something of an icon, she’s written extensively about the rock ‘n’ roll scene of the ‘60s and ‘70s. The way Des Barres sees it, the groupies of the ‘60s were not mere sex partners for testosterone-poisoned guitar players; they were ground-breaking, chance-taking muses, self-lessly nurturing the creative impulses of the world’s up-and-coming musical geniuses.

 

Published in March 2008 on www.clubdtv.com

 

 

Artists and drugs

 

 

 

Artists, singers and drugs: a combination that often seems to be undivided. A lot of artists and singers confessed their use of drugs raising very important questions: “Is it fair that people who have such an enormous influence on teenagers, show them harmful, illegal behaviour?” Furthermore  “Do the drugs really help the artistic creativity and the performances on the stage or in a studio?” and “Should record labels check their artists for drugs use?”. gAbout the first question, is undoubted that youths look up to them as idols and models, trying to imitate them and dreaming day by day to be as they are. Who, handling a guitar, didn’t ever wish to be Jimi Hendrix (photo on the right) or Slash ? Who, humming a tune, didn’t ever imagine being Robbie Williams or Leona Lewis? Who, believing to be like them, never took drugs and then started to play or sing? A simple and fine dream that turned itself in a deadly addiction! Regarding to the other questions, there are several sides in the matter. Firstly, if an artist needs drugs to be creative, he really isn’t much of an artist. Although there can be something said for drugs impacting on a particularly creative period for artists. Heroin provided Jimmy Page with some amazing music. It also sustained Keith Richards for a number of years. Cocaine and the first three Oasis records. Ecstasy and The Verve’s A Northern Soul. Even look at the influence drugs had on The Beatles. They went from She Loves You to Tomorrow Never Knows. There are numerous examples of artists being very creative on drugs. But if a band cannot create without drugs, then they aren’t much of a band. All drugs can really alter perceptions, but they don’t give any skills an artist didn’t already have. In other words, they may provide some inspiration, but they don’t make one more creative. Inspiration and creativity aren’t the same thing. gIf you take a creative person and an uncreative person and give them the same source of inspiration, whether it’s a hit of acid or a pretty sunset, they’re going to come up with two very different pieces of art. Secondly, it is known the record companies want to make money first and foremost. If an artist, for example, is under contract for four albums, it is in the labels best interest to keep him clean in order to ensure the contract will be fulfilled. But on the other hand, if the labels want to start drug testing bands, rock & roll as we know it would probably die. However, the labels can exert some kind of control over an artist. Drugs have become such a huge aspect of the culture of music because of what they represent. They’re seen as a victimless crime outlawed by the establishment just because they’re prudes. So, taking drugs, singing about them and showing a bad behaviour, has become a symbol for the rebellious spirit of rock & roll.

 

Published in January 2008 on www.clubdtv.com