Il 45 giri

 

Il 45 giri ti obbligava all’ascolto ripetuto (spesso fino alla nausea) di un unico brano. Il lato a riportava la canzone principale, il lato b un brano di minor rilevanza, spesso contenuto assieme all’altro nel medesimo long-playing, ogni tanto legato a epoche e dischi precedenti. Io non sono mai stato un nostalgico di quelli che bofonchiano tra i denti cose come “eh, ma ai miei tempi”, bensì un semiologo, un ermeneuta. Uno che vigila sui nessi fra le cose e su come questi cambiano nel tempo. Cosa lega l’ascolto infinito di un pezzo stampato su un 7 pollici in gommalacca e la durata delle relazioni affettive per esempio? L’abilità a una gestualità e a una ripetitività e a una sedimentazione lenta e profonda? La pazienza della memorizzazione e dell’apprendimento sul lungo termine? L’oggettualità?
Certo è che l’evoluzione tecnologica, specialmente nel campo della fruizione multimediale (musica e film in primis), ha prodotto tra le sue più immediate conseguenze la dispersione fisica di un rapporto fra le parti. L’arte si sfalda nei modi dell’invisibile e dell’impalpabile. Nell’era della musica in tasca, nell’era, dico, della compattezza e dell’iperconcentrazione, non sorprende perciò che anche i legami tra gli individui – secondo la macabra concomitanza che unisce psicologia e consumo – siano scaduti a puri e impalpabili aneliti. Occasioni. Senza volto. Senza corpo. O anima. O memoria.

Patrick Gentile

 

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