Il Fedro di Platone

L’anima ricorda e vola

 

 

 

Il Fedro, dialogo sublime di Platone, presumibilmente composto nel 370 a.C., si erge come una maestosa colonna nell’atrio del tempio della filosofia antica, intrecciando, con sapiente ardire, pensiero filosofico, religioso e mitologico. Tra le sue pagine, come in un giardino di allori divini, si passeggia fra discorsi sull’amore, sulla conoscenza e sull’arte retorica.
Platone vi dipana la trama dell’eros, il desiderio d’amore che muove l’anima verso il bello assoluto. Con slancio poetico, il filosofo eleva questo sentimento dal terreno fisico a quello delle Idee pure, dove l’amore si trasfigura in veicolo di ascensione filosofica. Questa visione è intimamente connessa alla teoria platonica delle Idee, secondo cui la conoscenza vera si raggiunge contemplando tali forme pure, accessibili solamente attraverso un processo di reminiscenza intellettuale. Questo processo, tema caro alla dottrina platonica, qui si colora di toni mistici: il ricordo delle verità eterne diventa un rito di passaggio, una rinascita dello spirito che ascende al cielo delle idee immutabili e può essere interpretato anche come un ritorno all’origine divina dell’anima, una sorta di pellegrinaggio spirituale verso la purificazione e l’illuminazione.
Il dialogo insinua l’idea che l’anima umana possa essere migliorata e redenta attraverso il potere dell’eros filosofico, che spinge l’individuo a una comprensione più profonda della realtà e della propria natura spirituale. Questo processo di ascesa è intricatamente legato al concetto di dialettica, un metodo di questionamento e argomentazione che Socrate, personaggio del dialogo, utilizza per guidare il suo interlocutore verso la verità, innalzando l’intelletto di questi dalla conoscenza sensibile a quella intellegibile.
Il Fedro è impregnato anche di riferimenti e simbolismi religiosi, che richiamano le credenze e le pratiche cultuali dell’antica Grecia. La preghiera iniziale a Pan e alle Naiadi serve sì da omaggio formale alle divinità, ma stabilisce altresì un contesto in cui il discorso può essere visto come un’offerta spirituale. Inoltre, il concetto di anima che Platone sviluppa riflette la visione religiosa greca dell’immortalità e della metempsicosi, ovvero la trasmigrazione delle anime.
Il mito della biga alata è forse l’immagine più potente e incisiva del dialogo. Questa allegoria riferisce di un auriga divino che guida due cavalli: uno nobile e l’altro ribelle, simbolo del conflitto interno tra ragione e desiderio, mentre l’auriga rappresenta l’elemento spirituale, il logistikon, che deve controllare i cavalli per mantenere la biga sulla giusta strada verso il cielo delle Idee, l’Iperuranio. La narrazione incanta per la sua vivida carica immaginifica e si spinge oltre, fungendo da metafora del viaggio dell’anima verso la conoscenza e la divinità. Il mito, così, non è semplice racconto ma epifania filosofica, che svela l’incessante lotta dell’essere per raggiungere l’armonia celeste. Tale mito sottolinea anche la tensione tra il destino divino dell’anima e le sue inclinazioni terrene. La biga alata, infatti, simboleggia il viaggio ascensionale dell’anima verso il divino, sforzandosi di superare l’attrazione gravitazionale delle passioni basse per ritornare alla sfera delle forme pure.


Nel Fedro, Platone non esplora solo tematiche filosofiche e mitologiche profonde, ma si immerge anche nella natura e nel valore dell’arte retorica. Attraverso il dialogo tra Socrate e Fedro, il filosofo ateniese critica le pratiche retoriche a lui coeve, spesso vuote e manipolative, proponendo un modello di retorica basato sulla verità e sulla giusta conoscenza. Due concetti fondamentali in questo contesto sono la synopsis e la dihairesis, ovvero la visione d’insieme e l’arte di dividere correttamente i concetti.
La synopsis rappresenta la capacità di vedere l’argomento nella sua interezza, di comprendere il quadro generale prima di procedere con un’analisi dettagliata. Per Platone è essenziale, perché permette all’oratore di non perdere di vista il contesto più ampio in cui si inserisce il discorso. Una vera comprensione degli argomenti richiede una visione olistica che colleghi le parti al tutto, assicurando che ogni pezzo del discorso sia allineato con il principio guida o la verità fondamentale che si vuol comunicare. La synopsis aiuta a evitare manipolazioni e sofismi, promuovendo una retorica persuasiva, eticamente fondata e intellettualmente rigorosa. La diairesis, invece, è il processo di suddivisione accurata di un argomento in categorie e sottocategorie, che permette di trattare ogni parte con precisione e dettaglio. Questa tecnica è cruciale per affrontare qualsiasi tema complesso, poiché organizza il materiale in modo che ogni elemento sia esaminato secondo criteri chiari e razionali. Nel dialogo, Platone usa la diairesis per distinguere tra diverse forme di amore, evidenziando come una vera comprensione dell’eros non possa prescindere dalla capacità di discernere i suoi aspetti nobili da quelli bassi. Analogamente, una retorica efficace deve poter identificare e isolare i diversi aspetti di un argomento per trattarli con la specificità che meritano. La combinazione di synopsis e diairesis forma la base di ciò che Platone considera l’arte della vera retorica: una disciplina che persuade, educa e migliora chi ascolta. Tale approccio eleva la retorica da semplice tecnica di persuasione a strumento di verità e giustizia, facendo dell’oratore non un mero istigatore, ma un maestro, un guidatore di anime. In questo modo, la retorica acquisisce un valore etico ed epistemologico: da arte di parlare bene, ad arte di pensare e agire correttamente.
Il Fedro, velo iridescente di parole e concetti, dove il filosofico, il religioso e il mitico danzano in un balletto celestiale, non è solo un trattato sull’amore o un manuale di retorica, ma un viaggio dell’anima che, tra le spirali dell’ascensione spirituale e i vortici del discorso logico, cerca di raggiungere la verità ultima. Lettura indispensabile per chi anela a comprendere non solo Platone ma la natura stessa del pensiero umano, rimane una stella polare nel firmamento della letteratura filosofica, guidando gli “astronauti del pensiero” attraverso i cieli tumultuosi della vita verso ciò che è al di là del cielo, l’Iperuranio della saggezza eterna.

 

 

 

Le maschere della Commedia dell’arte

 

 

 

La Commedia dell’arte, fenomeno culturale nato in Italia nel XVI secolo, prese il nome dall’accezione medievale del termine arte, ovvero mestiere, perché, per i recitanti, il teatro costituiva un lavoro e non una passione a cui dedicarsi nel tempo libero. Unitisi in cooperative, la compagnie teatrali, attori e, per la prima volta sulle scene, attrici, portavano le loro rappresentazioni sia nei palazzi signorili che nelle piazze e nei mercati. Tra le più celebri compagnie, quelle di Ser Maphio, padovana, dei Gelosi, milanese, dei Confidenti, fiorentina, degli Accesi, dei Fedeli e degli Uniti, mantovane. Tra gli attori, invece, degni di essere ricordati, Francesco Andreini, Alberto Naselli, Pier Maria Cecchini e la moglie Orsola, Francesco Gabrielli, Flaminio Scala, Silvio Fiorillo, Virginia Rotari e Giovanni Pellesini. La vera novità della Commedia dell’Arte era nel fatto che gli artisti non interpretavano testi scritti od opere drammaturgiche vere e proprie, quanto piuttosto recitavano rifacendosi ad un canovaccio, cioè all’insieme, a grandissime linee, degli elementi di una trama. Salivano sul palcoscenico improvvisando, con grande bravura e abilità, le situazioni più varie e divertenti possibili, ma che avevano sempre gli stessi protagonisti, le maschere, personaggi facilmente riconoscibili dall’abbigliamento e da caratteri propri, ogni volta identici. Esse avevano le stesse fattezze di quelle con le quali molti dei bimbi della mia generazione, me compreso, si travestivano a Carnevale: Arlecchino, servo imbroglione e sempre alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti; Balanzone, chiacchierone e presuntuoso; Brighella, servitore furbissimo e macchinatore di truffe e inganni di tutti i tipi; Colombina, giovinetta intelligente e maliziosa; Pulcinella, gobbo, spaccone e bugiardo; Tartaglia, cieco e balbuziente; Pantalone, vecchiaccio che correva sempre dietro alle donne. Queste maschere rappresentavano spettacoli davvero comici, i quali, però, a causa del carattere di improvvisazione, non sono stati quasi mai trascritti, per cui, oggi è alquanto difficile ricostruire con precisione, né tanto meno poter rappresentare, un’opera della Commedia dell’arte. Accanto a questi attori, comunque, ci fu, tuttavia, chi, tra il XVI e XVII secolo, continuò a fare teatro alla vecchia maniera, vale a dire, seguendo i soliti generi, la commedia, la tragedia e i drammi, ma con linguaggi e significati diversi, rispetto alla tradizione precedente: Giovan Battista Guarini, Federico Della Valle e Carlo de’ Dottori.

Pubblicato l’1 marzo 2017 su La Lumaca 

 

State, sovereignty, law and economics
in the era of globalization

 

 

 

Taken from my lectures as a Teaching Fellow in International Law, these reflections highlight how State sovereignty and International Law are profoundly influenced by globalization, economic integration and digital technologies, raising fundamental questions about global governance, State autonomy and the adaptation of legal structures to new economic and technological realities.

 

Part VI

On Hegel again

 

The market narrative transforms into a tale of synchronism, capturing the temporal reality of individuals and propelling them into an electronic and offshore dimension where spatial and State boundaries dissolve. This process occurs in a context where anchorage becomes purely formal on a legal level and deeply meaningful economically. At the heart of market dynamics lies its very essence, outlined by a sphere where competition and the repetition of competitive challenges find their place. However, the existence of the market presupposes a legal and institutional framework, manifested through a set of laws, regulations, principles, and practices, thus inviting the State to participate, in a relationship where the market law becomes a matter for the State, sometimes in competition with other State entities.
In the global context, the uninterrupted presence of financial technology dominates, opening doors to new possibilities. The modern lex mercatorum operates in a globally undifferentiated and spatially de-qualified market, but still characterized by the political division into different States, aiming to overcome legal discontinuities and regulate uniformly the spatial deformity of territories, reconciling the needs of the stateless mercantile society with those of national States.
This situation introduces a dilemma between universality and multiplicity, renewing the concept of nomos, which no longer identifies with the unification of law and territory, but reflects the interdependence and independence of actors from the State, highlighting a permanent friction between States and markets. Consequently, the law finds itself weakened between the limited territoriality of norms and the universality of economic relations, challenging the old narratives of State.
This new dynamic sets Earth and Sea as symbols of the different potentialities of existence and contrasting scenarios of human history, where the Earth is seen as the mother of law and the Sea as a domain free from juridical and spatial boundaries, symbolizing infinite freedom.
Finally, the ancient act of land occupation, nomos, clashes with the universalism of economic exchanges, leading to the necessity of a new legal category that can rationalize the chaotic space of globalization. This need leads to the conception of a law that transcends terrestrial constraints, offering new perspectives to regulate the vast and indeterminate space of major economic exchanges, with technology emerging as a regulating principle. In this scenario, the law adapts to regulate the digital and transnational economy, challenging the traditional opposition between territorial law and global economy.
The rhetorical figure of the owl associated with Minerva is often invoked to attribute to Hegel and his philosophical thought a belated, almost posthumous role: that of intervening in reality only to confirm and ratify events that have already occurred. In this interpretation, Hegel’s philosophy would be reduced to an ideology that retroactively legitimizes what has already happened, thus representing a historical narrative written by the victors, emerging at twilight similarly to the appearance of an owl.
However, Hegel’s assertion that “what is real is rational, and what is rational is real” invites us to view the present through a conceptual lens, allowing the intellect to become an active agent in shaping reality. Consequently, the symbolism of the owl should not be interpreted as mere legitimization of the existing state of affairs, but rather as a call for thought to embark on a gradual and profound process of understanding, in order to mould the future. The task of conceptual elaboration thus proves essential for mediating and resolving conflicts, organizing them into a dynamic unity that, despite its cohesion, does not erase the distinctive peculiarities of each position.
Hegel thus emerges as the architect of thoughtful mediation, strongly opposing any attempt at immediate or superficial solutions. He criticizes the pursuit of intuitive and spontaneous genius, as well as rejects any form of mystical ecstasy or charisma, abhorring the presumption of those who claim to be direct spokespersons of divinity or interpreters of the absolute through altered states of consciousness. Dialectics, for Hegel, is precisely that method of thought capable of organizing and synthesizing conflict through careful and gradual elaboration, merging universality with the vital needs of every single component.

 

 

 

 

 

Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza
tra gli uomini

di Jean-Jacques Rousseau

Un terreno recintato e la società civile

 

 

 

 

Jean-Jacques Rousseau, nel suo Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini, pubblicato nel 1755, esamina le radici profonde e le conseguenze della diseguaglianza umana, presentando una critica serrata alle società moderne, basate sulle istituzioni e sulla proprietà privata. Quest’opera si distingue quale uno dei testi fondamentali nella storia della filosofia politica e sociale, proponendo una riflessione profonda che interpella ancora oggi il lettore su temi di bruciante attualità.
Il Discorso è stato scritto in un’epoca di grande fermento intellettuale, il cosiddetto “secolo dei Lumi”, durante il quale in Europa si principiò a mettere in discussione le strutture tradizionali del sapere e del potere. Rousseau si inserisce in questo dibattito con una posizione originale e spesso in contrasto con altri pensatori illuministi, come Voltaire e Diderot, critici nei suoi confronti. Il suo pensiero si fa portavoce di un ritorno alla natura e alla semplicità originaria dell’uomo, concetti che prefigurano i temi romantici e rivoluzionari successivi.
Il trattato è diviso in due parti principali. Nella prima, è descritto lo stato di natura dell’uomo, un periodo ideale in cui gli individui vivevano isolati, pacifici e in armonia con la natura, liberi da bisogni artificiali e dalla corruzione morale. Questa condizione utopica è segnata da una perfetta eguaglianza tra gli uomini, in netto contrasto con lo stato attuale. Nella seconda parte, è analizzato come l’umanità sia passata da questo stato di natura a quello di società civile. “Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare questo è mio, e trovò altri così ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie, quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pali o colmando il fosso, avesse gridato ai suoi simili: «Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; se dimenticherete che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, sarete perduti!»”, scrive Rousseau, ponendo l’accento sul ruolo della proprietà privata come origine principale delle diseguaglianze: con l’accumulo e la delimitazione della proprietà, si sviluppano invidia, competizione e, di conseguenza, il governo e le leggi come mezzi di protezione delle ricchezze acquisite. Questa transizione segna per Rousseau la perdita dell’originaria libertà e uguaglianza, dando vita a un’infelicità diffusa e a conflitti continui.
Uno dei pilastri filosofici del Discorso è proprio la riflessione su come la proprietà privata sia la radice delle diseguaglianze. Rousseau sostiene che, con la sua introduzione, gli esseri umani siano diventati competitivi, gelosi e aggressivi. Questa idea ha influenzato le successive teorie filosofiche e politiche, ponendo le basi per le discussioni moderne sul capitalismo e sul comunismo.


Rousseau, poi, esamina la relazione tra libertà individuale e accettazione del potere politico, interrogandosi sulla legittimità delle istituzioni che privano l’individuo della libertà a favore dell’ordine sociale. Questo dibattito, tra l’altro, è fondamentale nella storia della filosofia politica e continua a influenzare il pensiero liberale e democratico.
Il filosofo ginevrino è chiaro nel distinguere le diseguaglianze naturali (di forza o intelligenza) da quelle sociali, che derivano da convenzioni umane, come la legge e la proprietà. La sua opera spinge anche a riflettere su come le strutture sociali modellino e, talvolta, distorcano le relazioni umane.
Sebbene Rousseau sia stato un filosofo dell’Illuminismo, molte sue idee conducono una critica radicale del concetto di progresso tecnologico e culturale che altri suoi contemporanei celebravano. Infatti, vede proprio nel progresso la causa di nuove diseguaglianze e dipendenze, una visione che prefigura le moderne critiche al neoliberismo e alla globalizzazione. La sua visione di un’armonia perduta tra l’uomo e la natura è diventata un riferimento per i movimenti ecologisti, mentre la sua critica delle diseguaglianze alimenta il dibattito sulla redistribuzione delle risorse e sulla giustizia economica.
L’analisi di Rousseau, quindi, invita a una riflessione critica sulle basi stesse delle nostre società moderne. Egli suggerisce che le diseguaglianze non siano un inevitabile prodotto naturale ma il risultato di scelte politiche e sociali, spesso radicate in istituzioni ingiuste. La sua critica alla proprietà privata e il suo ideale di un ritorno a uno stato più naturale e egualitario continuano a influenzare le discussioni contemporanee su giustizia sociale, diritti umani e ambientalismo.
Nel Discorso, Rousseau non solo traccia un ritratto critico dell’evoluzione sociale dell’umanità ma pone anche le fondamenta per una filosofia della libertà e dell’eguaglianza. Le sue considerazioni filosofiche e sociali continuano a essere di straordinaria attualità, sfidando le nostre concezioni di giustizia, potere e umanità. La sua opera, quindi, rimane una lettura essenziale per chiunque sia interessato a comprendere le radici filosofiche delle diseguaglianze sociali ed economiche.
La capacità di Rousseau di connettere la filosofia con le questioni sociali concrete rende il suo lavoro immortale, provocatorio e profondamente umano, offrendo spunti di riflessione validi ancora oggi, in un’epoca in cui le diseguaglianze continuano a essere al centro del dibattito politico e sociale globale.

 

 

 

Alano di Lille e il libro che pochissimi leggono

 

 

 

Che la Natura fosse un grande libro, nelle cui pagine sono scritte tutte le cose riguardanti i viventi, fu chiaro già ai primi uomini. Essi, infatti, impararono dalla Natura a conservare sé stessi e da essa trassero le condizioni migliori e più opportune per la loro sopravvivenza. Vi fu un uomo, però, che su quel libro ne scrisse un altro, intitolandolo De planctu Naturae (Il pianto della Natura). Costui si chiamava Alano ed era originario di Lille, in Francia, ove nacque intorno al 1125. qFu così colto che i contemporanei lo chiamarono doctor universalis perché, quando lo ascoltavano, sembrava loro di sfogliare il romanzo con cui era stato costruito l’Universo mondo. L’opera di Alano, ad ogni modo, non è di piacevolissima lettura, specialmente per il lettore contemporaneo, perché risente del pessimismo schiettamente medievale nei confronti della condizione umana (mi sovvengono anche il De contemptu mundi, Il disprezzo del mondo, di Lotario di Segni, il futuro papa Innocenzo III, e la Elegia de diversitate fortunae, Elegia sull’avversità della fortuna, di Arrigo da Settimello, che pure si muovono in quel senso). Ciononostante, bisogna essere a lui grati per alcuni versi riportativi: “Omnis mundi creatura/ quasi liber et pictura/ nobis est in speculum/ nostrae vitae, nostrae mortis/ nostri status, nostrae sortis/ fidele signaculum” (Ogni creatura dell’universo, quasi fosse un libro o un dipinto, è per noi come uno specchio della nostra vita, della nostra morte, della nostra condizione, segno fedele della nostra sorte). qTroppo spesso si confonde il sapere soltanto con quanto è scritto nei libri e ci si affanna ad apprendere quante più notizie possibili, quasi come se la conoscenza dipendesse esclusivamente dal numero delle date dei maggiori eventi storici che si riuscisse a mandare a memoria o da quanti nomi di personaggi famosi si conoscano. Il primo modo di apprendere il sapere è leggere il libro della Natura o, sarebbe meglio dirla con Alano, il libro delle creature della Natura. A ciò fa eco un altro pensatore, l’inglese Thomas Hobbes, il quale affermò, circa cinquecento anni dopo, nella prefazione del suo Leviatano, che la sapienza non si acquistasse leggendo i libri, ma leggendo gli uomini. Il problema cruciale per il genere umano, purtroppo, consiste nel fatto che molti non passino neppure un’ora né in biblioteca, né in campagna.

 

Pubblicato l’8 settembre 2011 su www.caravella.eu

 

 

 

La filosofia inglese e le sue leggi “concrete”

 

Perché gli inglesi hanno dominato il mondo per almeno quattro secoli

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Gli inglesi, per quel che concerne la storia del pensiero, si sono distinti dagli altri popoli europei, antichi e moderni, a causa di quella impronta, ad essi del tutto peculiare, tendenzialmente antimetafisica ed essenzialmente pragmatica. A scorrere rapidamente quella storia, infatti, ciò può essere facilmente notato: quando il Medioevo volgeva ormai al termine, mentre nelle scuole del resto d’Europa i dotti erano ancora impelagati nelle dispute scolastiche sulle prove dell’esistenza di Dio, sugli universali, sulla Trinità e sui quodlibeta, Roger Bacon, filosofo, scienziato e mago, il doctor mirabilis (dottore dei miracoli), fondava la gnoseologia empirica, secondo la quale l’esperienza sia il vero e unico mezzo per acquisire conoscenza del mondo. Tre erano, secondo il filosofo, i modi con cui l’uomo potesse comprendere la verità: con la conoscenza interna, data da Dio tramite l’illuminazione; con la ragione, la quale, però, non è bastevole, e, infine, con l’esperienza sensibile, ovvero tramite i cinque sensi, il non plus ultra di cui esso possa disporre e che gli consente di avvicinarsi alla reale conoscenza delle cose. Il frate francescano William of Ockham, il doctor invincibilis (dottore invincibile), con il suo famosissimo rasoio, semplificò al massimo la spiegazione dei fenomeni, mostrando l’inutilità di moltiplicare le cause e di introdurre enti al di là della fisica: “Frustra fit per plura, quod fieri potest per pauciora” (è inutile fare con più, ciò che si può fare con meno). Francis Bacon, il filosofo dell’adagio “Sapere è potere”, padre della rivoluzione scientifica e del metodo scientifico nell’osservazione e nello studio dei fenomeni attraverso l’induzione, meglio definita e rinnovata rispetto a quella aristotelica, fu avversatore dei pregiudizi, da lui chiamati idola (idoli o immagini), che impedivano la reale conoscenza e intelligenza della natura, e fu ispiratore di un’altra grande mente inglese, Isaac Newton, lo scienziato-osservatore empirico per eccellenza. Thomas Hobbes diede spiegazione a tutti gli aspetti della realtà col suo materialismo meccanicistico, annullando la res cogitans (sostanza pensante) di Cartesio e il suo ambiguo rapporto con la res extensa (sostanza materiale), retroterra sul quale basò la sua concezione della natura umana, della condizione di guerra di tutti contro tutti (l’homo homini lupus), del patto di unione e del patto di società, dai quali sarebbero poi nati, rispettivamente, la civiltà e, attraverso la rinuncia da parte di ogni uomo al suo diritto su tutto e la cessione di questo al sovrano, lo Stato, il Leviathan (Leviatano). John Locke, l’empirista, l’autore di An essay concerning human under standing (Saggio sull’intelletto umano), sosteneva che tutta la conoscenza umana derivasse dai sensi. Indagò le idee e i processi conoscitivi della mente, criticando l’innatismo cartesiano e leibniziano e, tra l’altro, fu strenuo propugnatore del liberalismo politico e della tolleranza religiosa. David Hume, l’estremo dell’empirismo inglese, asseriva, come Locke, che la conoscenza non fosse innata, ma scaturisse dall’esperienza. Egli negò sia la sostanza materiale che quella spirituale, tutto riducendo a sensazione e stato di coscienza. Demolì il concetto di causa, ritenendolo mero costume della mente, suscitato dall’abitudine, e postulò, quali conoscenze universali e necessarie, soltanto quelle della geometria, dell’algebra e dell’aritmetica. Adam Smith, filosofo ed economista, teorizzò l’idea che la concorrenza tra vari produttori e consumatori avrebbe generato la migliore distribuzione possibile di beni e servizi, poiché avrebbe incoraggiato gli individui a specializzarsi e migliorare il loro capitale, in modo da produrre più valore con lo stesso lavoro. E, infine, l’Utilitarismo di Jeremy Bentham e John Stuart Mill prima, con tutte le implicazioni morali (o moralmente inglesi), legate ai concetti di “utile” e di “felicità“, e quello di Henry Sidgwick, poi, col suo edonismo etico, mediante il quale aggiunse importanti precisazioni ai concetti dell’utilitarismo classico. Queste riflessioni filosofiche hanno certo corrispettivo pratico allorquando si osservano attentamente tutte le sfaccettature dell’English way of life e dei princìpi che, ancora oggi, lo animano. Il motivo per cui gli inglesi, fino a circa settant’anni fa, hanno realmente dominato il mondo (basti pensare al British Empire e al Commonwealth), ha le proprie basi nel pragmatismo che, dal 1200 in poi, ha caratterizzato le sue classi intellettuali e, di riflesso, quelle deputate all’azione. Un popolo non condizionato dalla religione, come lo sono stati, dal Medioevo alle soglie dell’età contemporanea, la maggior parte dei Paesi cattolici europei, libero di sottomettere altre genti, che non ha combattuto in nome di Dio ma degli uomini, era destinato ad avere il ruolo che ha avuto e che ancora ha. Del resto, negli stessi anni in cui un bardo venuto dalle Midlands incantava gli spettatori del Globe Theatre a Londra, mettendo in scena l’amore tra Romeo e Giulietta, la filosofia dell’essere e del non essere e la gelosia di Otello, la regina Elisabetta I nominava baronetto il più astuto e lesto pirata della storia: sir Francis Drake!

 

Sir Francis Bacon (1561-1626)

 

Pubblicato l’1 aprile 2017 su La Lumaca

 

Le Meditazioni Metafisiche di Cartesio

La luce della vera conoscenza

 

 

 

In un’epoca ancora dominata dalle ombre lunghe della scolastica medievale ma che presto sarebbero state spazzate via dal nascente uso della ragione, Cartesio (René Descartes), nelle Meditazioni Metafisiche, pubblicate in latino, col titolo Meditationes de prima philosophia, nel 1641, si inerpica in un cammino solitario e intimo nei meandri della mente umana e della stessa esistenza. Quest’opera non è solamente un testo filosofico, ma rappresenta un vero e proprio poema in prosa sulla ricerca dell’indubbia verità.
Descartes intraprende il suo percorso con il dubbio metodico, quella “notte oscura dell’anima” in cui tutte le certezze precedentemente accolte vengono messe in discussione, invitando il lettore a spogliarsi di ogni preconcetto per farsi accompagnare in una catabasi nelle profondità della propria coscienza. È un inizio che assomiglia più a un rito di purificazione che a un’esercitazione logica.
 
Prima Meditazione: Delle cose che si possono mettere in dubbio
Descartes principia con il processo del dubbio metodico, sfidando la validità delle proprie percezioni e delle conoscenze acquisite. Egli dubita di tutto ciò che è appreso tramite i sensi, poiché questi possono essere ingannevoli, e persino delle verità matematiche, considerando l’ipotesi di un “genio maligno” che potrebbe ingannarlo sistematicamente. Questa meditazione pone le fondamenta del suo inquisitorio filosofico, demolendo tutte le certezze per ricostruirle su basi più solide.
 
Seconda Meditazione: Della natura dello spirito umano; e che esso è più facile a conoscere del corpo
Dopo aver demolito tutte le sue credenze, Cartesio trova una certezza irrefutabile: il fatto stesso di dubitare dimostra la sua esistenza come entità pensante. Emerge il famoso Cogito, ergo sum (Penso, dunque sono), prima verità incontrovertibile dell’edificio cartesiano. Questa affermazione si erge come un faro di verità in mezzo alle tempeste del dubbio, un punto fermo da cui prendere le misure dell’esistenza. È un momento di rivelazione quasi mistica, dove il soggetto scopre la propria inalienabile essenza come essere pensante, indipendente dalle ingannevoli percezioni sensoriali e dalle opinioni altrui. In questa meditazione, l’Autore esplora la natura dell’io o res cogitans e stabilisce che le idee chiare e distinte siano quelle su cui si possa basare la conoscenza certa.
 
Terza Meditazione: Di Dio; che Egli esiste
L’argomentazione sulla prova dell’esistenza di Dio è intricata come un arazzo normanno, tessuto di logica e di intuizioni filosofiche. Nonostante le possibili controversie interpretative, la visione cartesiana di un Dio perfetto, causa prima di tutto, serve a stabilire un ordine cosmico dal quale nulla può prescindere. Descartes introduce l’argomento dell’esistenza di Dio partendo dal principio che debba esistere una causa per la sua idea di sostanza perfetta e infinita. Utilizzando l’argomentazione ontologica e quella dalla causalità, propone che solo un essere perfetto e supremo, come Dio, può essere la fonte dell’idea di perfezione assoluta che è presente nella mente umana, confermando, così, non solo l’esistenza di Dio, ma anche che Dio non può essere ingannatore.
 
Quarta Meditazione: Della verità e dell’errore
Questa meditazione si concentra sulla natura dell’errore, che Descartes attribuisce alla volontà umana quando opera senza il pieno supporto dell’intelletto. Qui, il filosofo affronta il problema di come possa esistere l’errore se un Dio perfetto ha creato un mondo che riflette la sua perfezione. La soluzione risiede nella libertà di arbitrio: l’errore emerge quando l’uomo estende il proprio libero arbitrio oltre ciò che la sua capacità intellettuale può supportare.


Quinta Meditazione: Delle cose materiali e dell’esistenza reale del mondo esterno e di Dio, riprovata
L’Autore ritorna alla prova dell’esistenza di Dio e presenta l’argomentazione ontologica più formalmente. Inoltre, inizia a trattare il problema dell’esistenza del mondo materiale, sostenendo che la chiarezza e distinzione delle percezioni sensoriali siano garanzia della loro veridicità, sotto la premessa dell’esistenza di un Dio non ingannatore.
 
Sesta Meditazione: Del concorso delle cose materiali
L’ultima meditazione completa l’opera con la discussione sull’esistenza del mondo materiale, considerando anche la materia e il suo rapporto con la mente. Qui, Cartesio stabilisce le basi del “dualismo cartesiano”, distinzione radicale tra res cogitans (la mente) e res extensa (la materia), due realtà ontologicamente diverse ma interconnesse, destinazione finale di questo pellegrinaggio filosofico. Introduce il concetto di esprits animaux (spiriti animali) e spiega come corpo e mente, sebbene completamente separati in natura, interagiscano e causino movimenti fisici e sensazioni. Conclude, quindi, che esiste un mondo esterno, i cui corpi hanno proprietà che corrispondono alle percezioni delle menti.
 
Le Meditazioni Metafisiche non sono solo un’indagine sulle fondamenta della conoscenza e dell’esistenza, ma sono anche un’opera d’arte che sfida il tempo. Descartes scrive con una prosa che è tanto rigorosa quanto evocativa, capace di trasportare il lettore in un’epoca di rivoluzioni intellettuali. Attraverso il suo stile, il filosofo non si limita a presentare argomenti, ma invita a un’esperienza, a un’esplorazione personale che va oltre il mero intelletto. Le Meditazioni rimangono una guida per chi cerca nella filosofia non solo risposte, ma anche domande più profonde, un invito a navigare nel mare aperto del pensiero, sotto il cielo stellato delle grandi questioni esistenziali. Un classico senza tempo, che continua a interrogare e ispirare, ponte tra il mondo antico e il moderno, tra la poesia dell’esistenza e la scienza.

 

 

 

Essere e Tempo di Martin Heidegger

Essere, esser-ci

 

 

 

Essere e Tempo di Martin Heidegger, pubblicato per la prima volta nel 1927, è uno dei testi fondamentali della filosofia contemporanea e costituisce un’opera cruciale nel pensiero del XX secolo. La complessità e la profondità delle tematiche affrontate lo rendono sfidante ma incredibilmente ricco.
Il nucleo centrale dell’opera è una profonda indagine sull’essere. Heidegger si propone di rivisitare e rifondare la metafisica attraverso una domanda che appare decettivamente semplice: “Che cos’è l’essere?” Questo interrogativo, nonostante la sua apparente immediatezza, si rivela di grande complessità e portata, poiché invita a un esame minuzioso e radicale dell’ontologia, la branca della filosofia che studia l’essenza delle cose.
Nel suo argomentare, l’Autore critica apertamente la tradizione filosofica occidentale, accusandola di avere spesso trascurato o assunto come scontata questa fondamentale questione. Secondo Heidegger, gran parte del pensiero precedente ha fallito nel dare una risposta adeguata a cosa effettivamente sia l’essere, limitandosi a trattare temi più superficiali o derivativi. Egli sostiene che un’autentica comprensione dell’essere sia vitale e necessaria per la filosofia, poiché solo partendo da una corretta interpretazione dell’essere si possono comprendere tutte le altre questioni ontologiche ed esistenziali.
Nel contesto della sua indagine filosofica, Heidegger introduce un concetto chiave, quello di Dasein. Questa parola tedesca, traducibile come “esserci” o “presenza”, è usata specificatamente per descrivere l’essere umano, ponendo l’accento sulla modalità particolare e concreta con cui gli esseri umani manifestano la loro esistenza nel mondo. L’uso di questo termine non è casuale, ma riflette l’intenzione del filosofo di sottolineare una distinzione fondamentale tra l’esistenza umana e quella degli altri enti.
Il Dasein è caratterizzato principalmente dal suo “essere-nel-mondo”, espressione che indica non solo come l’esistenza umana sia sempre un’esistenza con altri enti all’interno di un mondo condiviso, ma anche che questa immersione nel mondo sia una caratteristica inseparabile e definitoria del modo di essere dell’essere umano. Secondo Heidegger, l’essere umano non è un soggetto isolato che si trova in un mondo esterno, ma è profondamente integrato e interagisce continuamente con l’ambiente che lo circonda.
Approfondendo il concetto di Dasein, il filosofo esplora la natura dell’esperienza umana attraverso vari aspetti della vita quotidiana e delle strutture esistenziali fondamentali, come l’ansia, il tempo, la morte. Queste riflessioni portano alla luce come l’essere umano sperimenti il mondo e si relazioni a esso in modi che sono radicalmente diversi da quelli di qualsiasi altro ente. Il Dasein è quindi visto come un ente per cui, nel proprio essere, è in gioco il proprio stesso essere; è l’unico ente per cui vale la pena porsi la domanda dell’essere.

Attraverso l’analisi del Dasein, Heidegger mira altresì a rivelare come le strutture fondamentali dell’essere umano siano configurate dalla loro specificità esistenziale e dalla loro capacità di riflettere e interrogarsi sull’essere. Ciò porta a una comprensione più profonda della condizione umana, che si distacca dall’approccio più tradizionale della metafisica, orientato piuttosto verso una descrizione oggettiva degli enti. Heidegger, con la sua focalizzazione sul Dasein, apre quindi una nuova via per comprendere non solo cosa significhi esistere come essere umano, ma anche come questo modo di essere influenzi la percezione di tutto ciò che ci circonda.
La temporalità è una componente essenziale dell’essere per Heidegger. Egli sostiene che l’essere sia intrinsecamente temporale e che il tempo non sia solo un mero sfondo neutro per gli eventi: è un elemento attivo che forma l’essere stesso. L’analisi della temporalità conduce il filosofo a esplorare la storicità del Dasein, ovvero la sua capacità di comprendere e configurare il proprio passato e futuro.
Uno degli aspetti più noti di Essere e tempo è l’analisi dell’angoscia come stato fondamentale del Dasein. L’angoscia rivela la verità sull’essere del Dasein, mostrando la sua completa solitudine e separazione dagli altri enti. Attraverso l’angoscia, il Dasein si confronta con la propria mortalità e finitudine, portando alla luce la realtà dell’essere verso la morte.
Heidegger distingue tra le modalità di esistenza autentica e inautentica del Dasein. L’inautenticità si verifica quando il Dasein vive in modo superficiale, seguendo convenzioni sociali senza riflettere sulla propria esistenza. Al contrario, l’autenticità è uno stato in cui il Dasein si assume la responsabilità del proprio essere, vivendo in modo pienamente consapevole e deliberato.
Essere e Tempo, pertanto si presenta come un’opera profondamente critica nei confronti della metafisica tradizionale. Heidegger sfida le concezioni prevalenti di verità, conoscenza e realtà, proponendo un nuovo modo di pensare che enfatizza la questione dell’essere piuttosto che la ricerca di essenze fisse o immutabili.
La sua opera più famosa non è solo un’indagine filosofica profonda sull’essere, ma anche una sfida lanciata al lettore a riflettere sulla propria esistenza in modi nuovi e sorprendenti. La ricchezza delle sue tematiche e la profondità del suo sguardo filosofico, infatti, continuano a influenzare e provocare pensatori in molteplici campi.

 

 

 

Archeologia ricoperta in via delle Botteghe Oscure, a Roma

 

 

 

Ho ritrovato queste foto nel mio pc. Le scattai, se non ricordo male, a settembre del 2012, alla cieca, intrufolando il braccio e la macchina fotografica tra le protezioni che delimitavano il cantiere. Si tratta di Via delle Botteghe Oscure, a Roma, tra Piazza Venezia e Largo di Torre Argentina. Erano in corso lavori per il prolungamento della linea tranviaria “8”, che dal vecchio terminale di Largo di Torre Argentina sarebbe dovuta giungere a Piazza Venezia. Bene, i resti della città antica sono stati, in breve tempo, ricoperti per permettere il passaggio dei binari del tram. Una testimonianza fotografica di ciò che, probabilmente, non sarà mai più visibile ad alcuno!

 

 

 

 

 

State, sovereignty, law and economics
in the era of globalization

 

 

 

Taken from my lectures as a Teaching Fellow in International Law, these reflections highlight how State sovereignty and International Law are profoundly influenced by globalization, economic integration and digital technologies, raising fundamental questions about global governance, State autonomy and the adaptation of legal structures to new economic and technological realities.

 

Part V

Sovereignty’s contexts

 

The territorial dimension characterizes and shapes the exercise of national sovereignty, outlining its foundational principles, strategies, and actions. It establishes the contexts in which sovereignty is manifested, implemented, or denied, in relation to the territorial realms of other nations. This dynamic of inclusion and exclusion, traditionally depicted through the dichotomy of “inside” versus “outside” (“in” versus “out”), emerges as the central issue. Here, “in” represents the activation of jurisprudence while “out” symbolizes the deactivation of economic dynamics, a suspension of State supremacy in relation to that similarly exercised by another State. However, this switching state (“on/off”) presents itself as almost a given mechanic, theoretically obvious but sometimes complex in practice, with reference to specific territorial areas delineated by borders. Conversely, in the homogenizing context of globalization: 1) the perception of limit, boundary, and territorial demarcation typical of the nation-State fades away, ceasing to be a reference point; 2) the conception of space expands, encompassing the entire planet and its surface. As a result, the world globe loses the distinctive colours of nations, fading under the visual effect created by the electronic whirlwind. The uniform non-colour of the market prevails, dominating with its monochromatic financial tone, and with the dissolution of territoriality as the organizing principle of the economy, it becomes unnatural for economic activities conducted on a global scale to depend on the nation-State framework. States, with increasingly indistinct borders, find themselves in a paradoxical condition: though not openly acknowledging it, they realize they are too small and inadequate for handling global phenomena, yet at the same time too large and sometimes not suitable for addressing local issues.


Economic power, by its nature and generally, appears indifferent to the space defined by political power: the former aspires to an unlimited spatial conception, while the latter is based on the premise of a limited space within which to exert influence. This does not imply that economic development should occur in a rule-free context, but rather that it can be facilitated by supranational institutions, which promote expansion beyond traditional national borders. The legal norm, the expression of a will impervious to conflict or competition, manifests the so-called “dominion power” of the State over the territory and the tangible. The relocation of a significant portion of economic relationships into an “a-spatial domain” de facto erodes the authority of national States and limits their territorial legal capacity. This phenomenon effectively establishes the right to choose one’s own legal system. The absence of universally recognized principles lays the groundwork for the governance of globalization actors: subjects operating in abstract relations from territorial contexts, on free paths, and without tangible physicality, within spaceless networks. This “requires a new law of spaces,” a blend of interstate, abstract, and artificial normativity. This, closely allied with technical and economic artificiality, implemented through interstate agreements, capable of adapting to any spatial configuration, represents the only effective method for addressing global issues through law. Here, the focus is on artificial normativity: 1) developed at the State level but expanded and enhanced through interstate agreements; 2) predestined to chase global phenomena and borderless markets, ubiquitous in the network; 3) aimed at unleashing an action potential equivalent to the breadth of global exchanges and mediating between territoriality and spatiality on a legal plane. In this context, “what predominates are not international conventions of uniform law”; rather, “the predominant element is the international circulation of standardized contractual models,” whose function as flexible and meta-national instruments is to consolidate the unity of law within the global market’s entirety.