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Tsipras e Varoufakis: l’accordo con l’UE non è una sconfitta!

 

Venerdì 20 febbraio 2015 il Governo greco e i ministri dell’Economia dell’Eurozona si sono accordati per prolungare di quattro mesi gli aiuti finanziari alla Grecia. Atene ha rinunciato a parlare di taglio del debito, ad introdurre unilateralmente misure umanitarie e si è impegnata a non fare marcia indietro sulle misure imposte dalla Troika senza l’ok dei creditori. CRISIS-1Dall’altro lato, il Governo ellenico è riuscito a strappare importanti concessioni, come già detto, in primis, quattro mesi di tempo per mettere a punto un nuovo piano di riforme targato Syriza, la possibilità di cambiare, con il benestare dei creditori, le misure di austerity previste dal vecchio programma di Antōnīs Samaras, che prevedeva l’aumento dell’IVA, e nuovi tagli per 2,5 mld entro fine febbraio. Ma ciò che più è importante, la possibilità di chiudere il 2015 con un avanzo primario inferiore al 3%, originariamente imposto dalla Troika. E allora, perché tutto questo gridare al fallimento? Il Premio Nobel Paul Krugman scrive sul New York Times: “Nulla di ciò che è successo giustifica la pervasiva retorica del fallimento. In realtà, la mia sensazione è che stiamo vedendo una diabolica alleanza qui tra gli scrittori di sinistra con aspettative irrealistiche e la stampa economica, che ama la storia della debacle greca perché è quello che dovrebbe accadere a debitori arroganti”. Per comprendere meglio quanto è successo, bisogna chiarire come la principale materia del contendere riguardasse un solo numero: la dimensione del surplus primario greco, che quantifica la differenza tra le entrate e le spese, senza contare gli interessi sul debito. Questo, in parole spicciole, misura le risorse che la Grecia sta effettivamente trasferendo ai suoi creditori. Tutto il resto, tra cui la dimensione nominale del debito, rileva solo nella misura in cui colpisce l’avanzo primario che la Grecia è costretta a detenere. Riuscire ad avere un surplus, in un tale periodo di crisi, è stato un risultato notevolissimo per la Grecia, raggiunto a costo di enormi sacrifici. La questione è capire se il nuovo Governo sarà costretto ad imporre ulteriori misure di austerity per rispettare i piani, concordati dal precedente, Greek PM Tsipras addresses a news conference after a EU leaders summit in Brusselsche prevedevano un surplus primario triplicato nei prossimi anni, con un immenso costo per l’economia del paese e per i cittadini. Syriza, il suo leader Alexīs Tsipras (foto a sinistra) e il ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, sull’argomento, non hanno indietreggiato di un centimetro ed hanno, anzi, ottenuto nuova flessibilità per quest’anno. Il linguaggio sugli avanzi futuri, inoltre, è rimasto fumoso. Potrebbe significare tutto o niente. Tornando alla domanda originaria, perché tutto questo urlare alla debacle? Ad onor del vero, la politica fiscale non è l’unico problema. C’erano e ci sono questioni legate alla privatizzazione dei beni, sulle quali Syriza ha accettato di non intervenire sugli accordi già conclusi, alla regolamentazione del mercato del lavoro, dove, le riforme strutturali  dell’era dell’austerità apparentemente rimangono. Syriza  ha altresì accettato di combattere l’evasione fiscale, anche se il motivo per cui la riscossione delle imposte sia ritenuta una sconfitta per un governo di sinistra rimane un mistero. papavassileou-troikqCiò nonostante, non si può non riconoscere che la Grecia, almeno provvisoriamente, sembra aver fatto finire il ciclo di austerity selvaggia, si è riappropriata di buona parte della sua sovranità, confermando che, d’ora in poi, gli ordini non verranno più da istituzioni esterne, ma che il governo greco è in grado di definire una grande parte della sua agenda e, in ultima analisi, ha reso un enorme favore al resto dell’Europa. Tutta l’Unione ha bisogno di mettere fine a questa folle austerità e, fortunatamente, ci sono stati segnali incoraggianti quando la Commissione Europea ha deciso di non multare Italia e Francia per il superamento dei loro obiettivi di disavanzo. C’è da chiedersi, scrive Krugman, se la vicenda greca ha avuto un ruolo in questa epidemia di ragionevolezza.

Giuseppe De Simone

 

 

Debito pubblico, Europa e monetizzazione

 

Tra i tanti problemi che attanagliano l’economia italiana ormai da decenni, un ruolo predominante è rivestito dall’enorme debito pubblico. Accumulato già a partire dagli anni ’80, quando si consumò il divorzio tra Tesoro e Palazzo Koch, la sua genesi storica mostra come ne siano state determinanti per la crescita il basso gettito fiscale e gli alti costi di remunerazione del capitale preso in prestito. Alla radice del problema, poi, non bisogna dimenticare l’evasione fiscale e la scarsa competitività del sistema produttivo italiano, come dimostrato da anni di deficit commerciale. Senza una forte crescita del PIL, ridurre l’onere del debito risulta operazione assai ardua. Come qualsiasi debitore in crisi, anche lo Stato ha due possibili vie d’uscita: l’austerity o il ripudio del debito dichiarando il default. Cattura12Quali sarebbero, dunque, le conseguenze di un fallimento sovrano? Il debito pubblico italiano è detenuto dalle banche e da altri intermediari finanziari italiani (circa il 35%), dalle famiglie italiane (circa il 13%), dagli investitori esteri (circa il 30%) e, infine, dalla BCE e dalla Banca d’Italia (10%). Rinnegarlo oggi, quindi, comporterebbe l’impoverimento di una buona parte dell’economia. La prima conseguenza di un default sarebbe il collasso del sistema finanziario (in quanto le banche si troverebbero con un patrimonio netto negativo), che si riverserebbe, poi, drammaticamente, sull’economia reale. Indagando i dati relativi a cento crisi sistemiche, si osserva come il PIL della nazione che ripudia il debito cala tra il 10% e il 35% e sono necessari, mediamente, 8 anni per ritornare ai livelli ante crisi. Alla luce di ciò, si discute sul serio di come questa possa essere una possibilità concreta per l’Italia? Il nostro Paese è già in una perdurante crisi finanziaria e aggiungervi un default sul debito sovrano spingerebbe ancor di più verso il baratro quel che resta della nostra economia. Da tempo, nel dibattito europeo si dibatteva dell’opportunità di una terza via: la monetizzazione del debito pubblico. gAnche la BCE con il suo QE, nonostante abbia dovuto cedere sulla ripartizione delle responsabilità, sembra muoversi nella stessa direzione seguita, in passato, dalla Bank of England, dalla Bank of Japan e dalla FED (foto a destra)  Interessante, soprattutto, il caso giapponese, che presenta molte analogie con la nostra condizione, tant’è che da molti l’Italia è vista come il possibile Giappone europeo. Il Paese nipponico ha vissuto vent’anni di stagnazione e deflazione, fin quando, nel 2013, il nuovo premier Shinzo Abe ha nominato governatore della Bank of Japan Haruhiko Kuroda il quale ha immediatamente annunciato un piano di quantitative and qualitative easing (QQE), che, combinato con le altre politiche giapponesi, sembra stia dando i suoi frutti su molti fronti. L’inflazione è salita all’1,5% e “inaspettatamente” anche l’economia si è rimessa in moto, posizionando nuovamente il Giappone fra le economie più performanti del globo. Premettendo che buona parte dei problemi europei e di paesi come l’Italia sono dovuti anche, e soprattutto, a difficoltà strutturali e, dunque, non solo alle politiche eccessivamente restrittive della BCE del governatore Mario Draghi (foto a lato), le evidenze mostrano come le politiche espansive si siano rilevate più efficienti, in un’ottica di crescita e di occupazione. La disoccupazione, negli Stati Uniti, ad esempio, è calata dal 12% al 6,7% e sembra che, su 4 milioni di nuovi posti di lavoro creati dal settore privato in America, tra il 2009 e il 2012, la metà siano la conseguenza delle azioni della Banca Centrale e delle politiche di deficit spending del Governo. Finalmente anche la BCE ha deciso di agire dal lato dell’offerta di moneta, finalmente… Anche se con colpevole ritardo. Attendiamo ora le risposte dei Governi.

 Giuseppe De Simone