Archivi giornalieri: 14 Luglio 2015

Sisters of Mercy

 

Ascoltare i Sisters of Mercy è un po’ come fare un viaggio dannato negli inferi del rock. Tra voci catacombali, cavalcate elettroniche e danze tribali, la band è riuscita nell’impresa di stregare l’intera generazione anni ‘80 e non solo. I Sisters of Mercy, assieme ad altre band sistersofmercy_1_1354922937importanti come i Bahuaus o la “regina della notte” Siouxsie, sono tra i principali protagonisti della stagione dei “darkettoni”, ragazzi vestiti rigorosamente di nero e adoratori di una musica tetra e depressa. Ma, in realtà, la band britannica è andata ben oltre gli stereotipi del genere, riuscendo a coniare un sound personalissimo, dato dalla combinazione tra chitarre distorte, in stile hard rock, e ossessive ritmiche elettroniche. Un sound maestoso e imponente, capace di evocare passioni violente, grazie anche al timbro vocale del “messia del gotico”, il cantante Andrew Eldritch, vero e proprio asso della band. Il gruppo si forma in Inghilterra, a Leeds. Sisters of Mercy (sorelle della misericordia) sono le prostitute dell’omonima canzone di Leonard Cohen. La band ama l’ambiguità tra il significato originale dell’espressione, che si riferisce ad un ordine di suore, e la prostituzione. latestL’esordio non è dei più facili. Partiti da un funk rock snobbato dal pubblico, il timone della nave è presto preso da Eldritch, il quale, col suo carisma e la sua voce cavernosa, riesce a conquistare i patiti del rock e, in particolare, della darkwave anni ‘80. Nel 1983, la band riesce a sfondare ed entrare nell’olimpo degli dei del dark, assieme a Siouxsie, Bahuaus, Cure e Joy Division. I Sisters of Mercy irrompono sulle scene con un sound rock molto elettronico, ossessivo e pieno di riferimenti esoterici. Con questa formula, arrivano i primi successi, come “Anaconda” (ascolta) e “Alice” (ascolta), destinata, poi, a diventare uno dei loro capolavori. “Alice” sembra il classico pezzo in stile Siouxsie, a cui si aggiunge, però, quel tocco di originalità, grazie alla voce lugubre del “messia del gotico”. I Sisters of Mercy sono ormai pronti per il grande passo e registrano il loro primo Ep, “The Reptile House“, Merciful Release, 1983 (ascolta). In questo Ep sono già presenti i primi gioielli della band, come la cover spettrale di “Gimme Shelter” (ascolta) e “Temple of Loveindex (ascolta), destinata a divenire leggenda, uno dei più grandi pezzi della storia del dark e del rock tutto. Subito dopo l’Ep, la consacrazione a dark band di culto con l’album “First and last and always“, Merciful Release, 1985 (copertina a destra). Il disco è, in assoluto, il più brillante della loro carriera. La band riesce a coniare, sin dall’esordio discografico, uno stile assolutamente unico. Le loro atmosfere sono tra le più macabre della stagione dark, grazie, soprattutto, al cantato catacombale di Eldritch. Ma ascoltandoli, il lato oscuro della loro musica passa a volte inosservato, perché i Sisters of Mercy riescono, nonostante tutto, a proporre canzoni ballabili e di una certa metodicità. “First and last and always” (ascolta) è una sintesi di tutto il loro modo di fare, e contiene, tra l’altro, la canzone più malata della band: “Marian” (ascolta), una spaventosa danza macabra, un cerimoniale tetro e di eterna perdizione, cantato dal “messia del gotico” in un tono così basso e cavernoso da incutere persino paura. “Marian” è una canzone che da sola vale un intero disco ed è, senz’altro, uno dei capolavori indiscussi del dark e, oserei dire, del rock tutto. Oltre “Marian“, nel disco spicca anche “Black Planet” (ascolta), una canzone depressa e ipnotica, con tanto di cori liturgici come da migliore tradizione del dark. “Walk away” (ascolta) è, invece, una canzone sfrenata e distruttiva, in cui si nota chiaramente l’influenza dei Cure. “Possession” (ascolta) è un vero e proprio rituale del male: TSOM85+-+1una canzone lenta e paranoica, dall’atmosfera tanto avvolgente quanto inquietante. Il disco chiude in bellezza, con un altro capolavoro, la lunga “Some kind of stranger” (ascolta), che sembra quasi voler evocare una marcia di dannati verso l’inferno. Dopo il primo disco la band pubblica altri due validi album, per poi sciogliersi. “First and last and always” rimane il loro capolavoro assoluto, un disco tetro e claustrofobico, depresso e pieno di paure. Un disco dominato da danze macabre e misteriose e che, grazie alle sue atmosfere da rituale occulto, mescolate a ritmi ballabili, sembra quasi voler invitare l’ascoltatore ad affrontare i propri demoni interiori e non aver paura dell’ignoto. Un disco che accompagna nelle tenebre e mostra che, in fondo, queste non sono così negative come abbiamo sempre creduto.

Pier Luigi Tizzano

Se fossimo tutti meno stupidi e superficiali

 

Dal profondo del dolore, sulla necessità di accettare la fine della vita: “Non moriamo perché ci ammaliamo, ma ci ammaliamo perché dobbiamo morire”, così ci ricorda Michel Foucault (Nascita della clinica: il ruolo della medicina nella costituzione delle scienze umane oppure, con sottotitolo, Una archeologia dello sguardo medico (1963), trad. Alessandro Fontana, Einaudi, Torino 1969), affrontando i tre più insormontabili tabù delle nostre società: la vecchiaia, la malattia, la morte. Sembra tutto razionalmente accettabile, tutto così “naturale”, tutto “nelle cose”, specialmente quando una persona si fa molto vecchia, ma non è così, per lo meno non è così specialmente quando si attivano le dinamiche degli affetti, quando sei coinvolto in prima persona, eppure bisogna cominciare proprio da qui e, ripercorrere il significato dell’esistenza e il senso stesso della vita. L’altra sera mi capitò di vedere in TV Anna Marchesini, mitica interprete teatrale di grande forza espressiva, consumata da una devastante artrite reumatoide. Ero solo, in poltrona, oppresso da un pesante senso di angoscia, come mi capita da un po’ di tempo in qua. Di là, mamma, la mia mamma, che si lamentava nel sonno dei quasi suoi ottantanove anni, come fa ormai tutte le sere, tutte le notti. Anna Marchesini parlava dal di dentro della sua malattia, non nascosta, né esibita: semplicemente vissuta come un momento della sua vita e ha raccontato della sua scrittura, del suo teatro e della morte come di un altro momento della nostra vita, perché, sempre di vita si tratta. La ascoltavo e pensavo che ci sono argomenti tabù che si cerca di rimuovere. Pensavo che se le strade si riempissero di gente malata, o vecchia, che se la TV invece di mostrare sempre corpi levigati, giovani e belli, mostrasse le donne e gli uomini come realmente sono,forse cambieremmo la nostra testa, ma soprattutto il nostro atteggiamento verso la vita e verso la morte e anche verso noi stessi. Invece nella nostra società, la malattia è una vergogna e la vecchiaia pure lo è e si nasconde la prima e la seconda. Le si isola entrambe – per la vergogna – in luoghi di sofferenza e di segregazione: gli ospizi, le case di cura, le cliniche, gli ospedali. Espelliamo dalle nostre vite i segni tangibili di ciò che invece fa parte della vita e sono essi stessi la vita. Anna Marchesini parlava e io mi sono sentito pian piano una serenità interiore, anche se ero consapevole di che tipo di notte mi aspettava. Continuiamo a vergognarci della malattia, nascondiamo asetticamente la morte e  vediamo solo gente sana e giovane e bella, che è pure giusto, ma non è la verità, o meglio: la verità della vita non è solo questa: quando incontriamo qualcuno che sta male siamo presi da un turbamento fuori misura, come se non sapessimo che quello è il nostro specchio. Così il dolore per la vecchiaia di mia mamma sempre più stanca mi riporta a una sua accettazione, benché non sia facile, a meno di non inserirsi in un processo incessante che è la vita stessa, così miei due infarti. Cerco di adeguarmi ai cambiamenti del mio corpo che, paradossalmente sono più facili da accettare che non i cambiamenti del corpo di mia madre o di una persona che si ama profondamente, perché il tuo corpo ha reazioni, mentre non puoi fare nulla per il corpo di un altro, se non assistere impotente. Ecco, mi sembra che il tabù della nostra epoca sia la mancanza di consapevolezza delle cose importanti e tragiche e essenziali della vita: cioè queste cose, contro la banalità di un mondo o di comportamenti fatti da smile stupidi come faccine perennemente sorridenti. Forse bisognerebbe parlare di queste cose non in modo macabro o funebre ma come un fatto vitale, perché la morte e la vita infine sono esattamente la stessa cosa. Ed eccoci ritornati al punto di partenza: nella visione greca dell’uomo la vita si concede finché non sopraggiunge la malattia e la morte e la filosofia- che mi ha sempre soccorso – serve anche a ricordarci che, necessariamente,  noi non moriamo perché ci ammaliamo ma ci ammaliamo perché siamo mortali e che questo incessante movimento non è altro che la vita stessa.

Franco Cuomo

 

il_ciclo_della_vita

 

 

Isolamento

 

Ci si isola. Ci si isola per la nausea che ci assale alla gola. Ci si isola perché non si sopportano più le frasi preconfezionate degli altri. Perché gli altri non sanno più come fare a rapportarsi a noi. Non c’è dell’anacronistico superomismo in questo. C’è solo la cortina di plastica trasparente che ci separa e divide. Ci si isola quando non si è più capaci di tollerare la sfida, la compassione, la solidarietà ingenua e superflua. Ci si isola perché ogni cosa sembra così intrisa di banalità, di fiacco autocompiacimento. Ci si isola perché non ci si sente capiti. O, peggio, perché si viene fraintesi. Il fraintendimento è il portato, il carcame di questo tempo barbugliante. Ed è per questo che ci si isola. Perché alla fine si sono esaurite tutte le alternative.

Patrick Gentile

 

solidao