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Baustelle

 

I Baustelle sono una piccola rivoluzione tutta italiana. Sono la pop band che più di tutte ha fatto e continua a fare pop nel belpaese, quello con la P maiuscola, vero, genuino, ispirato principalmente ai grandi compositori degli anni ‘60 e ben lontano dalle logiche commerciali delle case discografiche, che sfornano fenomeni da baraccone e ritornelli demenziali dell’estate al mare e nelle disco. La band nasce nel 1994 a Siena, come classica formazione di studenti universitari, che cercano di suonare in qualche locale per sbarcare il lunarioBaustelle - XL e finanziarsi gli studi. Sin dal primo momento, è chiaro che l’anima del gruppo sia Francesco Bianconi, talentuoso e passionale musicista toscano, innamorato dei grandi autori degli anni ‘60 e ‘70, in primis De Andrè, ma anche Piero Ciampi, Battisti, Battiato e soci. Gli altri membri sono Rachele Bastreghi, cantante e tastierista, Fabrizio Massara, arrangiatore e tastierista, e Claudio Brasini, chitarrista. Dopo vari ep piuttosto noiosi e snobbati dal pubblico, la svolta avviene nel 2000, con il primo disco autoprodotto, dal titolo “Il sussidiario illustrato della giovinezza” Baracca&Burattini. Si tratta di un album molto particolare, quasi una sorta di concept, che narra di un’adolescenza spensierata e tutta italiana. Il disco ha immediatamente successo, anche grazie ai duetti vocali Bianconi – Rastreghi, divenendo in breve un vero e proprio album di culto per quella generazione che non si rispecchia nelle classifiche nazionali e cerca nella musica indipendente la sua identità perduta. Nel 2003, arriva “La moda del lento”, Mimo Sound Records, in un momento molto particolare per la band, che sta quasi per sciogliersi per problemi economici e per le incertezze sul futuro. “La moda del lento” è un disco accattivante e un po’ diverso rispetto al primo. Meno Baustelle-La_Malavita-Frontalchitarre elettriche e più elettronica e atmosfere dal gusto retrò, per un pop ben più raffinato rispetto al “Sussidiario”. Dopo “La moda del lento”, la band ottiene finalmente un contratto con la Warner Records e dà in pasto al pubblico “La malavita”, 2005 (copertina a sinistra). “La malavita(ascolta) è l’album per eccellenza dei Baustelle, non solo per via del loro passaggio ad una major (la Warner), ma perché segna le definitive scelte stilistiche e musicali della band. Nel disco si avverte, innanzitutto, una decisa svolta in senso cantautoriale. Bianconi abbandona il carattere personale dei testi per gettarsi su temi esistenziali e ben più profondi. “La malavita” è un disco drammaticamente romantico e dal gusto dolce-amaro. Tema dominante di tutte le tracce è il mal di vivere. Su 11 brani, infatti, due parlano di suicidio e i restanti nove narrano degli esclusi della società. “La malavita” inizia con una intro strumentale, “Cronaca nera(ascolta), in cui la Bastreghi si cimenta in un lungo assolo sul suo strumento, a cui seguono basso chitarra e batteria. Un’apertura che si sposa perfettamente con la seconda traccia del disco, “La guerra è finita“, estratta, poi, come singolo. “La guerra è finita(ascolta) è in assoluto il capolavoro del disco e della band. La melodia pop è perfetta e orecchiabile, la voce di Bianconi retrò e il testo, di una bellezza disarmante e ricco di rime originali, narra la storia di un’adolescente che finisce col suicidarsi dopo essere caduta nella trappola Baustelle-verticaledella tossicodipendenza. “La guerra è finita” è una vera e propria anomalia nel panorama pop italiano, quasi una piccola rivoluzione. E’ il modo con cui Bianconi e soci annunciano al belpaese che la musica made in Italy non è morta, che ancora c’è spazio per testi profondi e realistici ed è possibile farli apprezzare al grande pubblico. Altra grande canzone è “Revolver” (ascolta), cantata da Rachele Batreghi, con voce fredda ma decisa. Poi, “I provinciali(ascolta), perfetto connubio tra elementi orchestrali e rock, che narra dell’alienazione e dell’arretratezza delle provincia italiana. “Un romantico a Milano(ascolta), invece, tratta dello smarrimento della figura del romantico nella fredda e apatica metropoli settentrionale. In “Sergio(ascolta), Bianconi racconta dello scemo del villaggio, mente in “Il corvo Joe(ascolta) il volatile diventa metafora degli esclusi e dei derelitti. Il finale del disco è affidato a “Cuore di tenebra“, lampante citazione del romanziere Joseph Conrad, in cui i Baustelle, forse un po’ banalmente, suggeriscono l’amore come il miglior antidoto al mal di vivere. “La malavita” è un ottimo disco pop, con canzoni ben fatte e dai temi affascinanti e profondi, in controtendenza rispetto al resto della musica italiana, che anno dopo anno cade sempre più in basso. I Baustelle sono musicalmente attivi tutt’ora e dopo “La malavita” hanno pubblicato diversi album validi e ottimi singoli (“Colombo“, “L’aereoplano“, “Gli spietati“, “La morte non esiste più“) cimentandosi con temi sempre più complessi e a volte schierandosi politicamente. L’ultimo album si intitola “Fantasma“, Warner Atlantic, datato 2013.

Pier Luigi Tizzano

Mercury Rev

 

Il percorso artistico dei Mercury Rev, eroi della psichedelia contemporanea, è stato tanto poliedrico quanto spericolato, iniziato, coi primi lavori, all’insegna di una psichedelia caotica e delirante e continuato con la riscoperta di un certo pop genuino e orchestrale, condito con atmosfere barocche. I Mercury Rev rappresentano una delle più importanti mercuryrev_1_1354103595realtà dell’underground negli ultimi due decenni. La loro musica affonda le radici nel più glorioso passato. In essa, sono riconoscibili sicuramente influenze beatlesiane, tenue psichedelia stile Velvet Underground e atteggiamenti tipici del progressive. I Mercury Rev nascono nel 1989 a Buffalo, Stati Uniti, e, dopo qualche anno di gavetta e creazioni di colonne sonore per film minori, si ritrovano con la formazione definitiva. Il nucleo iniziale comprende l’originale ed eccentrico David Baker alla voce, il chitarrista Sean “Grasshopper” Mackiowiak, la flautista Suzanne Thorpe, Jimmy Chambers alla batteria, Jonathan Donahue alla chitarra e seconda voce e il bassista Dave Fridmann, già produttore e ingegnere del suono per i Flaming Lips. La storia del gruppo può essenzialmente suddividersi in due grandi fasi: una prima, in cui a farla da padrone è certa psichedelia delirante e drogata, a tratti demente e spesso molto caotica, e una seconda, in cui la band “riscopre” la canzone classica, fatta di strofa e ritornello, e condita da orchestre barocche e atmosfere degne del pop più genuino. Capolavoro della prima fase è “Yerself is steam“, Columbia Records, 1991. Il disco è talmente originale che riesce ad emanciparsi da qualsiasi forma di rock in voga all’epoca. E’ naturalmente lontano anni luce dal grunge (genere che non mai avuto nulla a che vedere con la psichedelia), ma anche da certa psichedelia tipicamente statunitense e dal sound shoegaze. “Yerself is steam” (ascolta) è essenzialmente un disco anarchico, che gioca tutto, o quasi, sulle dissonanze delle chitarre e su dolci melodie di flauto, che creano una atmosfera stralunata e delirante, a volte persino romantica. Dal disco viene Mercury+Revestratto come singolo “Chasing a bee” (ascolta), una ballata malata e decadente, in cui chiaramente si intuisce il devastante uso di droga della band. Da menzionare anche “Blue and black” (ascolta), agghiacciante melodia, retta da piano e orchestra, e cantata da un Baker più stravolto che mai. Degna di nota, anche “Sweet oddysee of a Cancer Cell T’ Th’ Center Of Yer Heart” (ascolta), pura sinfonia di rock psichedelico che accumula, per tre minuti, una tensione in grado di snervare l’ascoltatore, per poi esplodere in uno tsunami di distorsioni ululanti. Il pezzo è uno dei capolavori della band, una sintesi perfetta e cinica del loro modo di fare musica. L’apoteosi del loro rock è, però, nel pezzo finale, “Very sleepy rivers“, (ascolta) una ballata spettrale, dall’atmosfera opprimente e claustrofobica, dove la chitarra ripete in continuazione una melodia svogliata e Baker, come in preda a un bad trip, canta in modo delirante, prima biascicando, poi urlando come un indemoniato. Il disco è un fulmine a ciel sereno, una sorta di anomalia nel panorama rock dell’epoca. Poche band riescono a suonare un rock così rumoroso ma condito da arrangiamenti curatissimi nei dettagli e melodici. Purtroppo, per una serie di vicissitudini discografiche, e a causa di Baker, che suona sempre imbottito di droghe, rovinando spesso le esibizioni live, l’album non avrà un gran successo e sarà snobbato da gran parte della critica. Dopo “Yerself is stem“, è la volta di “Boces” Beggars Banquet Records, 1993, secondo disco del primo corso psichedelico della band. “Boces” è, però, meno estremo e più dolce nelle melodie, ben lontano, quindi, dall’essere il clone del primo disco.Mercury_Rev_Lo_Res_Album_Art Dopo “Boces“, inizia la seconda fase della loro carriera musicale, all’insegna della riscoperta della canzone classica e del pop barocco e orchestrale. Simbolo per eccellenza di questo nuovo corso è “Deserter’s song“, V2 Records, 1998 (copertina a destra). “Deserter’s song” è un album elegante e dall’orchestrazione magniloquente, dalle atmosfere che richiamano la Belle Époque e dal cantato dolce e aggraziato. In quasi ogni pezzo del disco è presente una sorta di progressione per accumulazione, in base alla quale le canzoni iniziano con arrangiamenti scarni, eseguiti da pochi strumenti, per sfociare, pian piano, in un’apoteosi di suoni, che creano atmosfere sognanti. L’apertura è affidata a “Holes” (ascolta), canzone fiabesca e incantata, che sembra quasi aver la capacità di fermare il tempo. Poi, il capolavoro “Tonite it shows” (ascolta), introdotto da xilofono e fiati, cui seguono arie fantasy che accompagnano l’ascoltatore in un mondo di fiabe e folletti. “I collect coins” (ascolta), invece, spiazza tutti. Dopo aver messo in mostra la loro abilità di arrangiatori classici, i Mercury Rev, con questa mini ballata di piano, sembrano portare indietro nel tempo, per far assaporare la bellezza della musica anni ‘30. “Opus 40” (ascolta) è il pezzo più melodico del disco, un’orgia di suoni, colori e vitalità, un ritornello dalla spontaneità disarmante. “Hudson line” (ascolta) è una melodia hqdefaultingenua e infantile, puntellata dal sassofono e da sporche chitarre elettriche. “Goddess on a Highway” (ascolta) è il pezzo più rock del disco, anche se mantiene costante spensieratezza e ingenuità. “Deserter’s song” è, in conclusione, un capolavoro in cui tutto è perfetto, lussuoso e trasognante. Un’opera maestosa che non si può ascoltare con leggerezza, ma viverla e starci dentro. E’ un disco che chiede intimità, da ascoltare in solitudine, per poter essere apprezzato a fondo e capirne la grandezza. “Deserter’s song” è un disco assolutamente privo di tempo e avulso dal suo tempo, che si eleva fino ad altezze irraggiungibili per la maggior parte delle band anni ‘90. E’ forse la più bella esperienza musicale dei ‘90.

Pier Luigi Tizzano