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Mercury Rev

 

Il percorso artistico dei Mercury Rev, eroi della psichedelia contemporanea, è stato tanto poliedrico quanto spericolato, iniziato, coi primi lavori, all’insegna di una psichedelia caotica e delirante e continuato con la riscoperta di un certo pop genuino e orchestrale, condito con atmosfere barocche. I Mercury Rev rappresentano una delle più importanti mercuryrev_1_1354103595realtà dell’underground negli ultimi due decenni. La loro musica affonda le radici nel più glorioso passato. In essa, sono riconoscibili sicuramente influenze beatlesiane, tenue psichedelia stile Velvet Underground e atteggiamenti tipici del progressive. I Mercury Rev nascono nel 1989 a Buffalo, Stati Uniti, e, dopo qualche anno di gavetta e creazioni di colonne sonore per film minori, si ritrovano con la formazione definitiva. Il nucleo iniziale comprende l’originale ed eccentrico David Baker alla voce, il chitarrista Sean “Grasshopper” Mackiowiak, la flautista Suzanne Thorpe, Jimmy Chambers alla batteria, Jonathan Donahue alla chitarra e seconda voce e il bassista Dave Fridmann, già produttore e ingegnere del suono per i Flaming Lips. La storia del gruppo può essenzialmente suddividersi in due grandi fasi: una prima, in cui a farla da padrone è certa psichedelia delirante e drogata, a tratti demente e spesso molto caotica, e una seconda, in cui la band “riscopre” la canzone classica, fatta di strofa e ritornello, e condita da orchestre barocche e atmosfere degne del pop più genuino. Capolavoro della prima fase è “Yerself is steam“, Columbia Records, 1991. Il disco è talmente originale che riesce ad emanciparsi da qualsiasi forma di rock in voga all’epoca. E’ naturalmente lontano anni luce dal grunge (genere che non mai avuto nulla a che vedere con la psichedelia), ma anche da certa psichedelia tipicamente statunitense e dal sound shoegaze. “Yerself is steam” (ascolta) è essenzialmente un disco anarchico, che gioca tutto, o quasi, sulle dissonanze delle chitarre e su dolci melodie di flauto, che creano una atmosfera stralunata e delirante, a volte persino romantica. Dal disco viene Mercury+Revestratto come singolo “Chasing a bee” (ascolta), una ballata malata e decadente, in cui chiaramente si intuisce il devastante uso di droga della band. Da menzionare anche “Blue and black” (ascolta), agghiacciante melodia, retta da piano e orchestra, e cantata da un Baker più stravolto che mai. Degna di nota, anche “Sweet oddysee of a Cancer Cell T’ Th’ Center Of Yer Heart” (ascolta), pura sinfonia di rock psichedelico che accumula, per tre minuti, una tensione in grado di snervare l’ascoltatore, per poi esplodere in uno tsunami di distorsioni ululanti. Il pezzo è uno dei capolavori della band, una sintesi perfetta e cinica del loro modo di fare musica. L’apoteosi del loro rock è, però, nel pezzo finale, “Very sleepy rivers“, (ascolta) una ballata spettrale, dall’atmosfera opprimente e claustrofobica, dove la chitarra ripete in continuazione una melodia svogliata e Baker, come in preda a un bad trip, canta in modo delirante, prima biascicando, poi urlando come un indemoniato. Il disco è un fulmine a ciel sereno, una sorta di anomalia nel panorama rock dell’epoca. Poche band riescono a suonare un rock così rumoroso ma condito da arrangiamenti curatissimi nei dettagli e melodici. Purtroppo, per una serie di vicissitudini discografiche, e a causa di Baker, che suona sempre imbottito di droghe, rovinando spesso le esibizioni live, l’album non avrà un gran successo e sarà snobbato da gran parte della critica. Dopo “Yerself is stem“, è la volta di “Boces” Beggars Banquet Records, 1993, secondo disco del primo corso psichedelico della band. “Boces” è, però, meno estremo e più dolce nelle melodie, ben lontano, quindi, dall’essere il clone del primo disco.Mercury_Rev_Lo_Res_Album_Art Dopo “Boces“, inizia la seconda fase della loro carriera musicale, all’insegna della riscoperta della canzone classica e del pop barocco e orchestrale. Simbolo per eccellenza di questo nuovo corso è “Deserter’s song“, V2 Records, 1998 (copertina a destra). “Deserter’s song” è un album elegante e dall’orchestrazione magniloquente, dalle atmosfere che richiamano la Belle Époque e dal cantato dolce e aggraziato. In quasi ogni pezzo del disco è presente una sorta di progressione per accumulazione, in base alla quale le canzoni iniziano con arrangiamenti scarni, eseguiti da pochi strumenti, per sfociare, pian piano, in un’apoteosi di suoni, che creano atmosfere sognanti. L’apertura è affidata a “Holes” (ascolta), canzone fiabesca e incantata, che sembra quasi aver la capacità di fermare il tempo. Poi, il capolavoro “Tonite it shows” (ascolta), introdotto da xilofono e fiati, cui seguono arie fantasy che accompagnano l’ascoltatore in un mondo di fiabe e folletti. “I collect coins” (ascolta), invece, spiazza tutti. Dopo aver messo in mostra la loro abilità di arrangiatori classici, i Mercury Rev, con questa mini ballata di piano, sembrano portare indietro nel tempo, per far assaporare la bellezza della musica anni ‘30. “Opus 40” (ascolta) è il pezzo più melodico del disco, un’orgia di suoni, colori e vitalità, un ritornello dalla spontaneità disarmante. “Hudson line” (ascolta) è una melodia hqdefaultingenua e infantile, puntellata dal sassofono e da sporche chitarre elettriche. “Goddess on a Highway” (ascolta) è il pezzo più rock del disco, anche se mantiene costante spensieratezza e ingenuità. “Deserter’s song” è, in conclusione, un capolavoro in cui tutto è perfetto, lussuoso e trasognante. Un’opera maestosa che non si può ascoltare con leggerezza, ma viverla e starci dentro. E’ un disco che chiede intimità, da ascoltare in solitudine, per poter essere apprezzato a fondo e capirne la grandezza. “Deserter’s song” è un disco assolutamente privo di tempo e avulso dal suo tempo, che si eleva fino ad altezze irraggiungibili per la maggior parte delle band anni ‘90. E’ forse la più bella esperienza musicale dei ‘90.

Pier Luigi Tizzano

 

Slowdive

 

La straordinaria intuizione di fondere le atmosfere eteree del dream pop coi riverberi distorti degli shoegazer, ha fatto degli Slowdive una delle band più originali sulla scena underground dei primi anni ‘90. Il loro sound, suggestivo ed evocativo, pieno di colore e fantasia,slowdive_1 ha colpito dritto al cuore gli appassionati di rock e non solo. Gli Slowdive rappresentano, senza ombra di dubbio, l’ala più romantica del movimento shoegaze. Anzi, essi sono la band più significativa di questa particolare corrente, che caratterizzò la scena britannica, tra il finire degli ‘80 e gli inizi ’90, ancor più dei My Bloody Valentine (leggi articolo), band troppo originale e fuori dagli schemi, per poter essere inquadrata con facilità in qualsivoglia genere. Siamo nel 1989, quando tre ragazzi timidi, poco più che adolescenti, decidono di metter su una band e inseguire il loro sogno musicale. Si tratta di Neil Halstead e Rachel Goswell, al canto e alle chitarre, e di Nick Chaplin al basso. Sarà presto reclutato un batterista, Adrian Sell, e, infine, si unirà anche un terzo chitarrista, Christian Savill. Il nome della band si ispira a un sogno fatto dal bassista e non come erroneamente spesso si crede, alla famosa canzone dei Siouxsie. La prima demo tape, contenente due canzoni, in cui le voci sussurrate e sognanti vengono sommerse da distorsioni Slowdive-maindi chitarre lancinanti, li accosta subito al movimento degli shoegazer, che viveva in quegli anni il suo periodo di massimo splendore. Nel 1990, finalmente, un contratto discografico e la band dà vita al primo omonimo Ep. A far colpo sul pubblico ci pensa “Avalyn” (ascolta), una canzone lenta e rarefatta, in cui inizia ad emergere il loro stile personale e una visione piuttosto pessimistica della vita. La musica avanza lenta e, come in trance, le voci sono soffuse, eppure dal forte potere evocativo. E’ chiaro, ascoltando il brano, che il rock degli Slowdive è l’ideale punto d’incontro tra il dark dei primi anni ‘80, i rumori degli shoegazer e le atmosfere sognanti dei Cocteau Twins (leggi articolo). Con il secondo Ep, “Morningrise” (ascolta), la band perfeziona il suo stile e inizia a volare alto, tra un pubblico, che li segue, sempre più numeroso. La title track è una ballata di rara bellezza, disarmante, di quelle che lasciano col fiato sospeso. Just_For_a_DayPoi, c’è “Losing today” (ascolta), dalle atmosfere cupe e tenebrose, cantata con un filo di voce, quasi impercettibile. Ormai, tutto è pronto per il gran debutto e, nel 1991, la band crea “Just for a Day”, Creation Records (copertina a destra), il grande capolavoro della loro carriera musicale. Dopo gli splendidi Ep, l’attesa era forte e da loro ci si aspettava un gran disco. “Just for a Day” andò ben oltre le aspettative del pubblico più esigente. Ascoltarlo è un’esperienza che può segnare per la vita. E’ un po’ come entrare in quei quadri che ritraggono panorami solenni e incontaminati, avvolti, però, da una nebbia lattiginosa, che crea quell’atmosfera un po’ malinconica, In tal senso, si può citare come esempio “Catch the breeze” (ascolta), una canzone dominata da un ritmo irregolare, sul quale si inseriscono chitarre tintinnanti e una melodia triste, ma dal forte impatto emotivo, e con un ritornello di un romanticismo senza tempo. Poi, il finale strumentale, con le tre chitarre che intrecciano i loro feedback, creando una musica che è pura astrazione ambientale. Si può, inoltre, riportare “Ballad of sister Sue” (ascolta), una ballata tragica e struggente, maledettamente malinconica ma che non intristisce l’ascoltatore, bensì lo rapisce, per trasportarlo in un mondo dove malinconia è bellezza, pura, ingenua, incontaminata. Altrove, invece, prende il sopravvento la bellezza della melodia, celestiale e maestosa. maxresdefaultE’ il caso di “Celia’s dream” (ascolta) e dell’omaggio ai maestri Cocteau Twins, “Brighter” (ascolta). La band riesce anche ad evitare di essere ripetitiva, producendo canzoni ambiziose che vanno oltre il semplice concetto di strofa-ritornello. E’ il caso di “Spanish air” (ascolta), un pezzo possente ed orchestrale, ai limiti del progressive, una lunga cavalcata onirica con un ritornello medioevale e un arrangiamento tanto elegante quanto complesso. La chiusura del disco è affidata a “Primal” (ascolta), una canzone per certi versi devastante, ma avvolta in una sorta di trance mistica, che evoca la ricerca della pace interiore, almeno fino a quando non trova spazio un crescendo che sfocia in una magnifica psichedelia strumentale. Definire “Just for a Day” un capolavoro è forse riduttivo. “Just for a Day” è una vera e propria opera d’arte, firmata da ragazzi poco più che ventenni. Un’opera immensa, maestosa, incontaminata, visionaria e rivoluzionaria, onirica e sensuale. Un disco da ascoltare fino a perdere i sensi ed estraniarsi dalla realtà. Irripetibile e immortale.

Pier Luigi Tizzano

 

 

Sigur Rós

 

Se l’emozione avesse un nome, con ogni probabilità, si chiamerebbe Sigur Rós. La musica della Rosa della Vittoria (così, Sigur Rós viene tradotto dall’islandese all’italiano) è il genuino frutto dell’incontro tra tanti stili e suggestioni artistiche. Sigur RósUn decadente e romantico mix tra psichedelia, shoegaze, dream pop e post rock, con una strizzatina d’occhio all’eleganza senza tempo della musica classica. Il risultato è una musica più unica che rara, tremendamente sentimentale, tormentata, fragile, capace di emozionare fino ai brividi e fortemente istintiva. Una musica che ha fatto innamorare mezzo mondo, proiettando i Sigur Rós su palcoscenici sempre più importanti. La storia della band comincia nel 1994 in Islanda. Inizialmente, il gruppo è un terzetto formato da un chitarrista cantante, Jónsi Birgisson, un bassista, Georg Hólm, e un batterista, Ágúst Ævar Gunnarsson. La loro carriera prende il volo in men che non si dica, grazie alla connazionale Bjork (cantante e produttrice discografica), che nota subito la grande abilità della band nel creare una musica semplice ma disarmante e inserisce una loro canzone in un’antologia per celebrare i 40 anni dell’indipendenza islandese dalla Danimarca. Qualche anno dopo, l’album di debutto: Von. Il disco mette subito in chiaro la propensione della band verso atmosfere psichedeliche ed è solo l’inizio di un percorso artistico, coronato da successi in ogni dove e vendite da capogiro. Una carriera ancora attiva e coronata, ultimamente, da Kveikur, il loro disco più rock. Ma il capolavoro, forse la pietra miliare della band, l’album Sigurros()che più di tutti rappresenta il manifesto per eccellenza del loro modo di fare musica, è ( ) (copertina a sinistra), FatCat Records. ( ) è il terzo lavoro in studio degli islandesi, datato 2002. Il disco mette a nudo i Sigur Rós, rinunciando sia alla sperimentazione psichedelica del primo lavoro (Von), sia alle partiture orchestrali del suo predecessore (Agaetis Byrjun). La band islandese, con questo lavoro, punta al più totale minimalismo: nessun titolo, nessuna informazione, nessuna lingua con cui esprimersi (come già accaduto per i Cocteau Twin). Birgisson, infatti, non utilizza alcuna parola, ma solo suoni insensati e improvvisati, finendo per usare la voce come un altro strumento, che si aggiunge al già straordinario sound. L’album si compone di otto lunghe tracce, in cui si possono trovare le più disparate influenze, dai Radiohead al post rock e allo slowcore dei Low. Ci sono, ovviamente, anche echi dei Pink Floyd e di un certo modo di fare psichedelica. La più grande forza dei Sigur Rós sta proprio nel riuscire a mescolare tante influenze, reinventandole in un sound personalissimo, che ancora oggi è tra i più innovativi della scena rock mondiale. In questo disco c’è solo la musica, una musica che emoziona come poche e che affiora lenta e inesorabile, intensa, fragile e struggente. I brani non hanno nomi e non ci sono testi. L’ascoltatore è padrone di dare qualsiasi titolo alle otto tracce del disco e di inventare qualsiasi testo. L’unica pecca di questo album è forse un’eccessiva tendenza al melenso e al lacrimevole, ma, per fortuna, questa è eccedente solo nella prima traccia (ascolta), una struggente e ripetitiva frase di piano, sulla quale il cantato di Birgisson sembra quasi far male al cuore.sigur_ros La seconda traccia (ascolta), forse la più astratta del disco, è composta da tenui gemiti campionati, sui quali si inseriscono gli altri strumenti, con una calma e una lentezza quasi straziante. La traccia numero tre (ascolta), invece, è pura poesia, un lento crescendo di piano, che regala sei minuti di emozioni pure, sei minuti di tregua e di pace, sei minuti lontani da un mondo sempre più alieno e crudele. Poi, c’è la quarta traccia (ascolta), una tenerissima e melodica marcia, che avanza piano fino a quando una paradisiaca melodia di tastiera non introduce la parte finale, basata su un sound più duro e una batteria che picchia più minacciosa. Ma in questo disco non c’è solo pace. Dalla traccia numero sette (ascolta), i Sigur Rós cominciano ad alternare momenti di quiete e di tempesta. Emblematico, in tal senso, è il caso dell’ottava e ultima traccia (ascolta), che sul finire viene brutalmente travolta da una cavalcata di suoni psichedelici e dall’incalzare di una batteria massiccia e metallica.15e4d2c0-162c-11e3-a5c8-720952d2a5e4 ( ) è, in definitiva, l’album della maturità artistica e stilistica dei Sigur Rós. Con esso, la band finalmente trova la sua dimensione sonora ideale. L’unico scopo di ( ) è regalare un’emozione sincera e genuina, far tornare bambini, innocenti e candidi, liberare dal peccato. ( ) ci offre un aiuto per estraniarci da quella prigione che noi umani abbiamo costruito con le nostre stesse mani. E’ un disco da ascoltare nel buio della nostra stanza, con gli occhi chiusi e il cuore aperto verso il magico mondo che ci offre, un mondo fatto di maestosi paesaggi, visioni paradisiache, fate, folletti e gnomi. Un mondo libero, colmo di gioia infantile e amore.

Pier Luigi Tizzano

 

 

My Bloody Valentine

 

Partiti come band dark punk, i My Bloody Valentine sono arrivati a una singolarissima fusione tra rock psichedelico e atmosfere sognanti, passando alla storia come uno dei più importanti gruppi dei primi anni ‘90 e come gli inventori del genere shoegaze. La loro musica è un macigno di suoni caotici e muri di distorsioni sovrapposte, che non concedono tregua all’ascoltatore, trascinandolo in un viaggio che è insieme infernale e celestiale. mybloodyvalentine_1_1356628573La band nasce a Dublino nel 1983 e, dopo anni di sperimentazioni, concerti in locali semisconosciuti e cambi di formazione, la maestosa creatura My Bloody Valentine riesce a sfondare ed entrare di diritto nella storia del rock. Peccato, però, che la sua parabola duri solo due, seppure straordinari, album: Isn’t anything e Loveless, rispettivamente datati 1988 e 1991. In questi due dischi vi è racchiusa tutta l’enorme portata innovativa della loro arte. Un sound unico e inimitabile, costituito da un imponente muro sonoro, che marca una musica caotica ma delicata al tempo stesso, dura ma sognante, disordinata ma, in fondo, ordinata, ricca di inestricabili grumi sonori, con le chitarre sovraccaricate di feedback ed effetti stranianti e stordenti, con le voci e le melodie appena abbozzate, bisbigliate e sommerse da un mare di rumore. È stata la stampa inglese a inventare il termine shoegazers (letteralmente i fissa scarpe, e, di qui, il genere shoegaze) per l’insolita attitudine dei ragazzi di starsene a capo chino sui loro strumenti durante i concerti. La spiegazione più plausibile di questo strano fenomeno potrebbe trovarsi nel fatto che gli shoegazers (tra i quali rientrano anche altre band importanti come gli Slowdive o i Pale Saints) vivono in un tutt’uno con la loro musica, una sorta di amore spirituale coi propri strumenti. 1362117626_tumblr_le7eiz0dL01qdh7boI due dischi sono capolavori del rock, ma forse quello che brilla un pochino in più per genio, è il secondo, Loveless, Creation Records (copertina a destra). L’album parte con Only shallow  (ascolta), fatta di strati su strati di chitarre rumorose e tremolanti sui quali la voce angelica della cantante Bilinda Butcher canta melodia sommesse e distanti. Con Only shallow è subito chiaro lo scopo della band: creare vortici di suoni distorti e rumorosi, amalgamati perfettamente tra di loro e volti a formare un tutt’uno che fluttui per minuti e minuti. Per i My Bloody Valentine è molto più importante la ricerca del sound che il ritornello. Poi, c’è Loomer  (ascolta), una canzone dura e aggressiva, un micidiale hardcore addolcito come sempre dalla voce angelica, etera e paradisiaca della Butcher. Il capolavoro è To Here Knows When  (ascolta), la cui melodia è dolcissima e lontana, sepolta da tonnellate di rumore. La distorsione delle chitarre è estrema e accoppiata ad un quartetto d’archi “artificiale”. Ne viene fuori un’overdose di suoni distruttivi. Ma tutto si fonde alla perfezione, come in un puzzle, a dimostrazione del genio dei musicisti capaci di unire ciò che sembra essere diviso e contrapposto. I brani centrali del disco suonano più regolari, somigliando a delle classiche rock song, le quali, però, vengono ogni tanto stravolte da bizzarri motivetti elettronici. My+Bloody+Valentine+ImageAltro capolavoro da menzionare è Come in alone (ascolta), nella quale sembrano aleggiare le mitiche atmosfere della psichedelica anni ‘70. Poco dopo l’uscita del disco, i My Bloody Valentine sparirono dalla circolazione per riunirsi solo nel 2013, con la pubblicazione di MBV. La loro è stata una rivoluzione incompiuta, spazzata via nel giro di qualche anno dal britpop di band come gli Oasis, che banalizzeranno e renderanno quasi inesistente quel magico connubio tra rumore e dolci melodie. Loveless rimarrà il manifesto dei My Blood Valentine e di un modo tutto particolare di fare musica: un disco meraviglioso, astratto, etero. Un sogno nel sogno.

Pier Luigi Tizzano