Archivio mensile:Novembre 2024

David Hume e la supremazia delle passioni

La ragione come strumento al servizio dell’emozione

 

 

 

David Hume, uno dei più influenti filosofi dell’Illuminismo scozzese, elaborò una visione radicale e innovativa sulla relazione tra ragione e passioni, sfidando le concezioni tradizionali del pensiero filosofico. L’idea che “la ragione è, e deve essere, schiava delle passioni” sintetizza la sua teoria fondamentale, esposta nel Trattato sulla natura umana, secondo cui l’essere umano non agisce mosso principalmente dalla logica o dalla razionalità pura, ma dalle emozioni, dai desideri e dagli impulsi.
Per comprendere l’originalità del pensiero di Hume, è essenziale situarlo nel contesto filosofico dell’Illuminismo. I filosofi del tempo sottolineavano il potere della ragione come mezzo per accedere alla verità e controllare la realtà. Hume, invece, rovesciò questa prospettiva: mentre questi vedevano la ragione come guida sovrana della vita umana, Hume riconobbe il primato delle passioni come motore delle azioni umane. In questo quadro, la ragione non è altro che uno strumento che serve le passioni, il cui ruolo è subordinato alle emozioni che dominano le scelte individuali.
Hume distingue due tipi di conoscenza: conoscenze di relazioni tra idee e conoscenze di fatti. Le prime si riferiscono alle verità logico-matematiche, che sono universali e immutabili, mentre le seconde riguardano il mondo empirico e possono essere influenzate dalle percezioni sensoriali. Tuttavia, nessuna di queste conoscenze può motivare l’azione da sola; le passioni sono le vere forze propulsive. La ragione, quindi, ha la funzione di fornire le informazioni e i mezzi per raggiungere gli obiettivi determinati dalle passioni, ma non può generare il desiderio di agire autonomamente.
Hume approfondisce la sua analisi distinguendo tra passioni dirette e indirette. Le passioni dirette sono reazioni immediate a esperienze o sensazioni, come dolore, gioia, paura e speranza. Le passioni indirette, invece, sono più complesse e si sviluppano attraverso interazioni con la società, come l’orgoglio, la vergogna, l’amore e l’odio. Queste emozioni non solo influenzano, ma definiscono il modo in cui percepiamo il mondo e le nostre azioni.

Nella visione di Hume, la ragione svolge un ruolo di supporto. Può modulare le passioni e analizzare le conseguenze delle azioni, ma non è essa stessa a motivare l’agire umano. La ragione illumina il percorso, suggerendo strategie e soluzioni, ma la decisione di intraprendere un’azione è sempre radicata nel desiderio e nelle emozioni. Questa concezione sfida la visione più razionalista dell’epoca, che considerava la ragione come la guida suprema e indipendente delle scelte morali.
L’idea che la ragione sia schiava delle passioni ha profonde implicazioni in campo etico. Mentre i filosofi razionalisti come Immanuel Kant sostenevano che la moralità derivasse da principi universali e razionali, Hume argomentò che i giudizi morali fossero il risultato di sentimenti e reazioni emotive. Quando diciamo che qualcosa è “buono” o “cattivo”, non stiamo esprimendo un giudizio oggettivo basato sulla ragione, ma una reazione soggettiva. Le emozioni, dunque, sono la base della moralità, e i giudizi etici variano in base alle esperienze e ai sentimenti comuni all’umanità, piuttosto che seguire un rigido schema razionale.
La concezione di Hume della ragione come “schiava delle passioni” ha trasformato la comprensione della mente umana e del comportamento etico. Ha aperto la strada a una filosofia più empatica e realistica, riconoscendo l’essere umano come un’entità complessa guidata da un intreccio di emozioni e ragione. Questa prospettiva ha avuto un impatto duraturo non solo sulla filosofia, ma anche su psicologia, etica e scienze cognitive, influenzando il modo in cui comprendiamo la motivazione e il comportamento umano.

L’inno alla menzogna

L’arte come rivolta e verità suprema in Oscar Wilde

 

 

 

 

La decadenza della menzogna di Oscar Wilde, pubblicato, per la prima volta, nel 1889, è un saggio emblematico del pensiero dell’autore e dell’estetismo di fine Ottocento, un movimento che rivendicava la centralità dell’arte e della bellezza nella vita contro l’imperante utilitarismo e moralismo della società vittoriana. Wilde, figura iconica di questo movimento, utilizza questo saggio per presentare una difesa appassionata della finzione e della menzogna creativa come essenza stessa dell’arte e della cultura.
La forma dialogica, scelta non casualmente da Wilde, richiama l’antica tradizione platonica e ci introduce a una discussione vivace e stimolante tra Vivian e Cyril. Vivian, la voce principale e alter ego intellettuale di Wilde, espone una teoria estetica audace e paradossale, mentre Cyril funge da contrappunto scettico, un elemento essenziale per creare un dibattito in cui le idee si scontrano e si raffinano. La scelta di questa struttura permette a Wilde non solo di presentare i propri argomenti in modo teatrale, ma anche di coinvolgere il lettore in una riflessione attiva.
Wilde sostiene che la menzogna, lungi dall’essere un atto riprovevole, rappresenta l’apice dell’arte. In un mondo in cui la verità è spesso associata al banale e al convenzionale, l’artista, secondo Wilde, ha il dovere di creare mondi nuovi e visioni superiori della realtà attraverso l’invenzione e la finzione.
Questa difesa della menzogna va letta non come un elogio dell’inganno in senso etico, ma come una celebrazione del potere immaginativo dell’arte, capace di rivelare verità più profonde attraverso l’invenzione. L’arte, sostiene Vivian, deve elevarsi al di sopra della realtà e non limitarsi a imitarla in maniera pedissequa. Questa idea sfida direttamente le concezioni naturalistiche dell’epoca, che cercavano nell’arte uno specchio della realtà.

Wilde critica la tradizione platonica che vede l’arte come imitazione della natura, sottolineando come questa visione sia responsabile di una decadenza culturale. Al contrario, l’arte dovrebbe prendere le distanze dalla natura e proporre qualcosa di completamente nuovo e diverso, una creazione originale che trascende la banalità del mondo tangibile. Per Wilde, la realtà è limitata, imperfetta e grezza; l’arte, invece, è raffinata, ideale e trasformativa.
Questa critica alla mimesi anticipa in parte idee moderne sulla funzione dell’arte, che si distacca dall’essere solo un riflesso della realtà per diventare un’interpretazione o una costruzione indipendente. La modernità ha accolto molte di queste idee, influenzando movimenti artistici e letterari successivi, come il surrealismo e il modernismo, che esplorarono la dimensione del sogno, della finzione e del non convenzionale.
Uno degli aforismi più celebri di Wilde, “La vita imita l’arte molto più di quanto l’arte imiti la vita”, riassume una delle idee chiave del saggio. Secondo questa prospettiva, la realtà prende forma dai modelli artistici e non viceversa. Le mode, i comportamenti e persino le emozioni sono influenzati dall’arte, che agisce come un filtro attraverso il quale la società percepisce e costruisce la propria esperienza. Wilde anticipa così la concezione secondo cui i fenomeni culturali plasmano le nostre percezioni della realtà, un’idea che diventerà centrale nella filosofia e nella critica culturale del Novecento.
La decadenza della menzogna, quindi, non costituisce solo una difesa teorica dell’arte, ma anche una critica sottile e ironica alla società del tempo. Wilde mette in discussione il culto della scienza, del progresso e della verità empirica, sostenendo che una società ossessionata da questi valori rischia di diventare priva di fantasia e di bellezza. La provocazione non è fine a se stessa; piuttosto, serve a scardinare il conformismo intellettuale e a incoraggiare un ritorno all’apprezzamento dell’arte per il suo valore intrinseco.
Le riflessioni di Wilde sulla menzogna e sull’arte sono ancora oggi fonte di ispirazione per il dibattito sull’autonomia dell’arte. La sua difesa dell’immaginazione come strumento di verità superiore ha influenzato non solo la letteratura e l’arte visiva, ma anche la critica filosofica e la teoria della percezione. In un’epoca in cui le rappresentazioni digitali e i mondi virtuali stanno ridefinendo la nostra esperienza del reale, le idee di Wilde sulla finzione e sull’illusione appaiono particolarmente pertinenti.
La sua opera sfida le nozioni tradizionali di verità e realtà, e ci invita a considerare l’importanza di preservare lo spazio dell’immaginazione come un regno di libertà creativa e introspezione. La decadenza della menzogna ci ricorda che, nella sua forma più alta, l’arte è un mezzo attraverso il quale possiamo sfuggire alla tirannia della realtà per scoprire nuove prospettive e significati.

 

 

 

 

Le diverse concezioni filosofiche dello Stato

Da Platone a Fichte, tra ragione, giustizia e libertà

 

 

 

L’idea dello Stato è stata al centro delle riflessioni di molti filosofi, ognuno dei quali ha offerto una prospettiva unica, che riflette la propria visione della natura umana e delle strutture sociali. L’analisi di Platone, Kant, Hegel e Fichte rivela approcci distinti che esaminano lo Stato non solo come istituzione politica ma come elemento fondamentale della realizzazione umana e del progresso sociale.
Platone, nel dialogo Repubblica, analizza la nascita e la struttura ideale dello Stato, partendo dall’idea che esso emerga per rispondere ai bisogni fondamentali dell’uomo. L’essere umano, secondo Platone, non è autosufficiente; è costretto a vivere in comunità per sopravvivere e prosperare. Lo Stato nasce, dunque, per soddisfare le necessità basilari, ma la sua funzione non si limita alla mera sopravvivenza. Platone immagina uno Stato guidato dalla ragione, in cui ogni cittadino occupa il proprio posto in base alle sue capacità e inclinazioni naturali, dando vita a una società giusta e ordinata.
L’idea centrale è che la giustizia non sia solo una virtù personale ma un principio che deve essere incarnato nella struttura stessa dello Stato. Platone divide la società in tre classi: i filosofi-re, i guerrieri e i produttori. I filosofi-re, che possiedono la conoscenza del bene e del giusto, governano lo Stato; i guerrieri difendono e proteggono; i produttori provvedono ai bisogni materiali della società. Questa divisione mira a creare una città armoniosa in cui ogni parte contribuisce al benessere dell’intero.
Immanuel Kant, nella sua filosofia politica, vede lo Stato come un’entità necessaria per garantire la libertà e l’ordine attraverso il diritto. La sua concezione è profondamente legata all’idea di libertà come autonomia, ovvero la capacità di agire secondo la propria ragione, ma nel rispetto della libertà degli altri. Il diritto, per Kant, non è una limitazione arbitraria della libertà individuale, ma una condizione per la sua realizzazione. La legge, emanata dallo Stato, deve essere giusta e universale, rispondendo a ciò che Kant chiama l’imperativo categorico: agire in modo che la massima della propria azione possa diventare una legge universale.
Kant ritiene l’idea di “contratto sociale” quale fondamento dello Stato. Tuttavia, diversamente da altri pensatori come Hobbes o Rousseau, vede il contratto come un modello regolativo piuttosto che storico. Lo Stato non è soltanto un meccanismo di controllo ma un’istituzione morale che permette agli individui di vivere in una società giusta, dove la libertà e l’uguaglianza sono preservate.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, filosofo tedesco dell’Idealismo, pone lo Stato al vertice del processo dialettico, considerandolo l’incarnazione concreta dello spirito oggettivo. Per Hegel, la realtà è mossa da un processo dialettico che implica tesi, antitesi e sintesi, attraverso cui lo spirito si sviluppa e si realizza progressivamente. In questa prospettiva, lo Stato rappresenta la sintesi suprema in cui la libertà individuale e quella collettiva si uniscono in un’armonia razionale.
Hegel considera lo Stato come l’incarnazione della razionalità e della moralità oggettive, distinguendolo dalle associazioni private, come la famiglia e la società civile, che si muovono in un ambito più ristretto. La famiglia è per Hegel la base naturale della società, caratterizzata da affetti e legami personali, mentre la società civile è il luogo del mercato e delle relazioni economiche, dove prevalgono interessi individuali. Lo Stato, invece, supera e include queste sfere, integrandole in una totalità razionale e universale. In tal modo, lo Stato non limita la libertà individuale ma la realizza, poiché ogni cittadino trova la propria vera libertà nella partecipazione alla volontà generale, che riflette la razionalità universale.
Johann Gottlieb Fichte, filosofo idealista tedesco, elabora una visione dello Stato più centrata sull’individuo e sulla sua relazione con la collettività. Lo Stato, per Fichte, è il risultato dell’interazione e della volontà collettiva degli individui che lo compongono. La sua visione è profondamente influenzata dall’idea che l’uomo, per realizzare la propria libertà e dignità, debba trovare un equilibrio tra l’individualità e il bene comune.
Lo Stato fichtiano non si limita a proteggere i diritti naturali dell’individuo, ma li promuove attivamente. In un’ottica di giustizia sociale, Fichte ritiene che lo Stato abbia il compito di creare le condizioni per cui ogni individuo possa sviluppare pienamente le proprie potenzialità. Egli introduce l’idea di uno Stato etico, in cui il benessere comune è prioritario e la libertà di ognuno è concepita come una libertà che contribuisce al rafforzamento della comunità nel suo complesso.
Le concezioni di Platone, Kant, Hegel e Fichte, pur nella loro diversità, mettono in luce la complessità e la profondità del concetto di Stato. Questi contributi filosofici, pertanto, restano fondamentali per comprendere le basi teoriche della politica moderna e per riflettere su come lo Stato possa essere organizzato per garantire libertà, giustizia e progresso sociale.

 

 

 

 

La Volontà e la Potenza

Schopenhauer e Nietzsche a confronto

 

 

 

 

Il confronto tra il concetto di Volontà in Arthur Schopenhauer e quello di volontà di potenza in Friedrich Nietzsche rappresenta un tema fondamentale nella filosofia moderna, evidenziando le profonde differenze di visione tra i due pensatori riguardo alla natura umana e al significato dell’esistenza.
Per approfondire tale raffronto, è utile esaminare le implicazioni ontologiche, etiche e pratiche di ciascun concetto, oltre che il contesto storico-filosofico che ha influenzato queste teorie.
Schopenhauer fonda la sua visione sul concetto di noumeno kantiano, ossia la realtà che esiste al di là della nostra percezione sensoriale. In Il mondo come volontà e rappresentazione, sostiene che, sebbene il mondo come lo percepiamo sia una rappresentazione mentale, esiste una realtà sottostante: la Volontà. Questa non è la volontà individuale e conscia di una persona, ma una forza universale e cieca, che opera al di sotto della superficie di tutte le cose, manifestandosi nel desiderio incessante di vivere, crescere e perpetuarsi.
Schopenhauer ritiene che questa Volontà sia priva di razionalità e significato, portando inevitabilmente alla sofferenza. Ogni essere umano, spinto da questo desiderio incessante, si trova in una condizione di perenne insoddisfazione. La felicità, nella visione schopenhaueriana, è transitoria e momentanea, poiché raggiungere un obiettivo non fa che generare nuovi desideri e perpetuare il ciclo di frustrazione.
La sua prospettiva pessimista è chiara quando afferma: “La vita è essenzialmente dolore, e tanto più si sale nella perfezione della forma, tanto più il dolore aumenta”. “La vita umana deve essere una sorta di errore: la sua condizione preminente è in ogni caso la sofferenza” (Il mondo come volontà e rappresentazione).
Per Schopenhauer, la redenzione dall’incessante sofferenza generata dalla Volontà è possibile solo attraverso la negazione del volere, che può essere raggiunta tramite pratiche ascetiche, la contemplazione estetica e un distacco radicale dai desideri materiali. Questo avvicinamento alla tradizione filosofica orientale, in particolare al buddhismo, implica una via di liberazione che abbandona la lotta e accetta la rinuncia come strada verso la serenità.

Nietzsche riformula l’idea di Volontà, trasformandola in una forza creativa ed essenziale per la realizzazione dell’individuo. A differenza della Volontà schopenhaueriana, che è cieca e dolorosa, la volontà di potenza è un impulso positivo, vòlto all’affermazione, alla crescita e al superamento dei propri limiti. Nei suoi scritti, tra cui Al di là del bene e del male e Così parlò Zarathustra, Nietzsche sviluppa un pensiero in cui la volontà di potenza rappresenta la spinta fondamentale che anima l’intero universo e si manifesta in tutti gli esseri viventi come desiderio di affermarsi e migliorarsi.
La volontà di potenza nietzschiana non è solo un’energia vitale, ma è un principio ontologico che trasforma la vita in un atto creativo. Questo concetto si contrappone alla morale tradizionale e alla visione ascetica proposta da Schopenhauer. Nietzsche critica apertamente la negazione della volontà e la visione pessimistica della vita, vedendo in esse un segno di debolezza e di decadenza. La sua filosofia, invece, celebra la vitalità, l’audacia e la capacità di creare nuovi valori in un mondo privo di significato intrinseco.
Come Nietzsche dichiara in La gaia scienza: “Dio è morto. Dio resta morto. E noi lo abbiamo ucciso. […] Non è forse la grandezza di quest’atto troppo grande per noi? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, solo per esserne all’altezza?”. Questa affermazione sottolinea l’idea che, senza un ordine cosmico prestabilito o valori assoluti, l’uomo è libero (e obbligato) a forgiare il proprio destino attraverso la propria volontà di potenza. L’essere umano, secondo Nietzsche, deve abbandonare il risentimento e l’atteggiamento rinunciatario per diventare il superuomo (Übermensch), un individuo che crea e impone i propri valori senza essere limitato dalle morali tradizionali.
Dal punto di vista etico, Schopenhauer e Nietzsche propongono due visioni diametralmente opposte. Schopenhauer vede nella compassione e nella rinuncia agli impulsi egoistici un ideale morale, influenzato anche dalla sua conoscenza del pensiero buddista e della mistica orientale. Il suo etos è incentrato sull’empatia e sulla comprensione del dolore universale, considerando la pietà e l’autodisciplina come virtù suprema.
Nietzsche, al contrario, rigetta la compassione come debolezza e promuove un’etica del potere e dell’affermazione. Egli accusa la morale cristiana e quella schopenhaueriana di promuovere un’etica dei deboli, soffocando l’autentico potenziale umano. Il superuomo nietzschiano, che incarna la volontà di potenza, rappresenta colui che trasforma la propria esistenza in un’opera d’arte, accettando la lotta, il conflitto e persino la sofferenza come parti integranti del processo di crescita.
L’approccio schopenhaueriano si riflette anche nella sua concezione dell’arte, vista come un mezzo per sublimare la Volontà e trovare momentaneo sollievo dal ciclo di desiderio e sofferenza. L’esperienza estetica permette di distaccarsi dal mondo della rappresentazione e di cogliere, per un attimo, la quiete. La musica, per Schopenhauer, è l’arte suprema perché esprime direttamente l’essenza della Volontà.
Nietzsche, che inizialmente apprezza Schopenhauer, si distacca progressivamente da questa visione, sviluppando una concezione dell’arte come manifestazione della volontà di potenza. In La nascita della tragedia, approfondisce la tensione tra il dionisiaco e l’apollineo, celebrando il dionisiaco come simbolo della forza creatrice e distruttiva della vita, l’incarnazione della volontà di potenza. L’arte, per Nietzsche, non è una fuga dalla realtà, ma un’affermazione della vita stessa, con tutte le sue contraddizioni.
La differenza tra la Volontà di Schopenhauer e la volontà di potenza di Nietzsche, pertanto, è molto più di una semplice opposizione concettuale; rappresenta due visioni del mondo e della vita umana profondamente diverse. La Volontà di Schopenhauer è un impulso cieco che porta inevitabilmente alla sofferenza e dalla quale l’uomo deve distaccarsi per trovare pace. Al contrario, la volontà di potenza nietzschiana è un principio affermativo e dinamico, che vede nella lotta e nel superamento di sé stessi la più alta espressione dell’essere umano. Mentre Schopenhauer invita alla rassegnazione e alla compassione, Nietzsche incita all’azione e al superamento. Queste visioni divergenti hanno influenzato profondamente non solo la filosofia, ma anche la letteratura, l’arte e la cultura moderna, stimolando riflessioni sul significato della vita, del potere e della sofferenza.

 

 

 

 

 

History of Medieval Church


Part IV


The Early Medieval Church (400-1050) or the King’s Church

 

 

 

Political-religious background to the Holy Roman Empire

With the transfer of the imperial seat from Rome to Constantinople (May 11th, 330) and the subsequent disintegration of the Western Empire by the barbarians (476), along with the rapid Christianization of the new Germanic populations—through which they assimilated Latin culture—the papacy, heir to Latin heritage, organization, and imperial culture, became the focal point of the nascent Western world. The connection to Rome was based on two main ideas: one religious-ecclesiastical and the other religious-political.
Regarding the first, it should be noted that in late antiquity, the Latinity of the Church and the West was centered in North Africa, which was the birthplace of great martyrs, theologians, and apologists. However, with the Islamic conquest of North Africa, it was lost to the Western world, which found its natural point of reference in the Church of Rome and the papacy.
These religious ties with Rome were particularly established and strengthened by the Anglo-Saxon monk Boniface.
The entire Catholic Europe, therefore, looked to Rome as the reference point for its Christian identity in which all recognized themselves.
It was not, of course, a legal dependency, but a moral one, and we will see how, in the High Middle Ages under Innocent III, a legal assertion was also initiated.
As for the second idea, it would be affirmed with Charlemagne in the attempt to revive the Roman Empire, whose intent was to unite the entire West under a single political and religious leadership. Thus, the Augustinian dream of the “Civitas Dei,” the Kingdom of God on earth, was realized.

Formation of the Papal States

As long as the Roman Empire served as a unifying force for the peoples, the Church had no need for material power as it was supported by the Empire. However, when the Empire began to crumble, the Church fragmented into various local churches. This led to the need for the pope’s political autonomy to defend spiritual independence.
During the time of Gregory I (590-604), thanks to the “Justinian Code,” the popes already held power over Rome, and bishops were recognized as public figures.
Two events strengthened the papacy during Gregory I’s time:

  • The possession of large tracts of land, received as donations (the so-called “Patrimonium Petri”).
  • The papal governance acting as a substitute for the exarch of Ravenna, who was unable to manage his power. The popes soon became the true masters of Rome.

 

The Roman Church and the Franks

The birth of the Christian West found its original nucleus in the relations between the Frankish Kingdom and the Church. With Clovis, a first concentration of lordships was established over a vast area, but it was under the Carolingians that power was consolidated under a single ruler. By 680, they were already mayors of the palace under the Merovingians and concentrated significant power in the region of the Meuse and Rhine. The victory of Charles Martel at Poitiers in 732 against the Arabs strengthened the Carolingian position, making it easy for Pippin the Short to depose the last Merovingian, Childeric III, and have himself proclaimed king by the greats of the kingdom and consecrated by Frankish bishops.
Thus, the Frankish kingdom was being formed, leading among European powers and becoming champions of Christianity for halting the Arab advance at Poitiers. It was to them that Gregory III (731-741) turned around 739-740 to oppose the Lombards, submission to whom would have reduced the popes to mere territorial bishops under their control.
This move by Gregory III was historically significant as it indicated the new direction of the Western Church: a first step that would detach it definitively from the East, creating its own empire in the West. The decisive date of this separation can ideally be marked as 741, when the figures of Gregory II, replaced by Pope Zacharias for the Church; Charles Martel, replaced by his sons Carloman and Pippin III for the Franks; and Leo III, succeeded by his son Constantine V for the Eastern Empire, disappeared almost simultaneously. Carloman withdrew from the political scene, leaving the position to his brother Pippin III, who turned to Pope Zacharias for reassurance on the legality of his ascent to the Frankish throne. Zacharias pragmatically resolved the matter by asserting that it was better to call king the one who actually held power rather than the one who had been stripped of authority.
Pippin was thus elected king and anointed. This anointing, inspired by that of Saul and David, took on a sacred and religious character and developed a sacramental theology of anointing. This consecratory anointing legitimized the involvement of kings in Church affairs and vice versa. Thus, a profound union between temporal and spiritual power was forming to the point that Innocent III (1202) declared that only he had the right to examine who had been elected king. The king, therefore, became a theocratic sovereign and could govern the Church, which, incorporated into the Kingdom, reserved the right to approve the king’s election.
After the death of the Lombard Liutprand (744), King Aistulf resumed expansionist policies and advanced to Rome with the intention of making it the capital of Italy. Pope Stephen II (752-757), having asked Emperor Constantine V for help in vain as he was preoccupied with the iconoclastic controversy, turned to Pippin III, who not only promised assistance but also the return of the Exarchate of Ravenna.
Pippin III’s prompt acceptance of the invitation concealed his ambition to extend his influence in Italy and annex the Lombards to the Frankish kingdom.
After an initial failed attempt at the diet of Bernacum, which ended inconclusively, Pippin III secured approval for papal assistance with the diet of Quierzy and promised vast Italian territories to the pope.
Thus, after a failed diplomatic attempt to persuade King Aistulf to return the land to the pope, Pippin III, through two military campaigns, repeatedly defeated Aistulf, who was forced to cede a third of his treasure and vast lands to the pope. This donation by Pippin marked the birth of the Papal States. The formation of the Papal States immediately triggered a power struggle, and upon the death of Pope Paul I, brother of Stephen II, various nobles and noble factions placed Constantine, who ruled for a year, and then Philip, who was deposed after a few months, on the papal throne. Finally, Stephen III (768-772) was duly elected.
These incidents highlighted the need for regulations for papal elections, which gradually evolved over the centuries, leading to the two-thirds requirement of the cardinal assembly (1179).
Under Adrian I, the Church began to mint its own currency and date diplomas according to the years of the pontificate. The final break from Constantinople would come with Charlemagne and the establishment of the Holy Roman Empire.

The Donation of Constantine

To cement greater autonomy and power for the Papal States, the most famous forgery in history appeared: the “Donation of Constantine” or “Constitutum Constantini.” It likely emerged under Pope Stephen II (750) and consists of two parts: a “Confessio” in which Constantine professes his faith and recounts how he was miraculously cured of leprosy by Pope Sylvester; and the “Donatio,” where Constantine, before departing for Constantinople, recognized the supremacy of the bishop of Rome over the patriarchates of Alexandria, Antioch, Jerusalem, and Constantinople. The pope was also granted the regalia of “basileus,” including the purple mantle, scepter, and mounted escort, which conferred temporal power over the Western Empire and independence from the Eastern one. The clergy were equated with the Senate and authorized to adorn their mounts with white trappings; the emperor personally deposited the act of donation on the tomb of St. Peter. The complete text of the “Donation” appeared for the first time around the mid-9th century in the “Pseudo-Isidorian Decretals,” another medieval forgery, and was long regarded as authentic. It was only in the 15th century that humanists like Nicholas of Cusa and Lorenzo Valla proved its falsehood. However, the exact time, place, and purpose of this forgery remain unclear. It was likely created within papal circles to justify Rome’s independence from Byzantium and the founding of a Papal State.

 

 

 

Il Liside di Platone

L’amicizia come ricerca filosofica del bene e della verità

 

 

 

 

Il dialogo Liside di Platone, tra quelli giovanili del filosofo, affronta il tema dell’amicizia (philia) attraverso una conversazione tra Socrate e due giovani, Liside e Ippotale. Questo testo è un’indagine filosofica che non consegna una definizione precisa o definitiva dell’amicizia, ma tratta le varie dimensioni e complessità che essa comporta, lasciando il lettore con interrogativi più che con risposte.
Il dialogo si apre con l’incontro tra Socrate e Ippotale, un giovane innamorato di Liside, ma troppo timido e impacciato per esprimere i suoi sentimenti. Socrate offre allora la propria guida al giovane su come comportarsi e inizia un dibattito filosofico sull’amicizia, coinvolgendo Liside e un altro adolescente, Menesseno. Questo scenario iniziale presenta già un’osservazione sull’amicizia: essa nasce, spesso, dal desiderio di legame con l’altro, che però può manifestarsi in modi diversi e a volte poco consapevoli, come nel caso di Ippotale.
L’amicizia, nel dialogo, viene illustrata attraverso una serie di domande e ipotesi. Socrate guida Liside e Menesseno a riflettere su ciò che rende due persone amiche, suggerendo varie possibilità e scartandole, una per una. Le ipotesi che emergono sono varie. Una prima, è che l’amicizia nasca tra simili, ovvero tra persone che condividono interessi, valori o tratti di personalità. Tuttavia, Socrate mette in discussione questa teoria, sostenendo che il “simile” non ha bisogno di nulla, in quanto è già completo, e non cerca quindi un altro simile. In questo modo, l’ipotesi viene criticata e sembra contraddittoria: se siamo uguali, perché avremmo bisogno l’uno dell’altro? Un’altra ipotesi suggerita è che l’amicizia sorga tra opposti, con l’idea che ognuno di noi sia “completato” dalla presenza di qualcuno che possiede ciò che noi non abbiamo. Comunque, questa teoria viene messa in discussione, perché Socrate osserva che anche gli opposti possono essere incompatibili o entrare in conflitto, minacciando l’armonia del legame. Successivamente, Socrate propone che l’amicizia possa essere motivata dalla ricerca del bene. L’uomo desidera il bene e, per questo, cerca amicizia con coloro che considera “buoni”. Tuttavia, anche questa teoria incontra problemi, poiché ci si chiede se sia realmente possibile essere attratti solo dal bene e se questo possa generare un legame reciproco e duraturo. Infine, Socrate esamina l’idea che l’amicizia possa sorgere da un principio di utilità, ovvero dall’essere utili gli uni agli altri. In questo senso, l’amicizia sarebbe fondata sulla necessità di colmare delle mancanze. Una simile concezione, però, risulta riduttiva, poiché sembra escludere il sentimento disinteressato che spesso si associa all’amicizia.

Alla fine del dialogo, Platone non dà una soluzione univoca a queste ipotesi. Socrate conclude lasciando i suoi interlocutori in una situazione di aporia, ossia di sospensione del giudizio. Non si arriva a una definizione chiara di cosa sia l’amicizia e questo è emblematico del metodo socratico, che mira più a suscitare dubbi e a stimolare il pensiero critico nei discepoli che a fornire risposte definitive. In questo modo, il dialogo Liside non fornisce una verità assoluta sull’amicizia ma invita il lettore a riflettere sulla sua natura complessa e sulle molteplici forme che essa può assumere.
Da questa analisi emerge come Platone interpreti l’amicizia non solo come un legame affettivo, ma come una ricerca costante del bene e della verità. Il desiderio di conoscere e migliorarsi reciprocamente diventa una delle possibili basi del legame amichevole. In un certo senso, l’amicizia diventa un mezzo per la conoscenza di sé e degli altri, una pratica filosofica di introspezione e di ricerca del bene comune.
Questa concezione dell’amicizia ha una forte valenza etica, in quanto si collega all’idea di una tensione costante verso la virtù. In altre parole, Platone mostra che l’amicizia, se autentica, è orientata al miglioramento e alla crescita, superando le semplici dinamiche di utilità o di somiglianza. Essa è una pratica relazionale che consente ai soggetti coinvolti di riconoscere le proprie mancanze e di aspirare insieme alla conoscenza e alla bontà, nella convinzione che l’altro ci aiuti a colmare un vuoto interiore.
Il dialogo Liside tratta l’amicizia come un concetto dinamico e complesso, che non si lascia ridurre a semplici definizioni. Platone, con il suo metodo dialettico, vaglia le varie dimensioni di questo legame umano fondamentale, evidenziando come esso sia strettamente connesso alla ricerca del bene e della verità. Attraverso il dialogo, viene operata una riflessione filosofica che va oltre le semplici spiegazioni e invita a considerare l’amicizia come un percorso di crescita e di arricchimento personale, un legame che spinge a migliorare se stessi e a cercare costantemente il bene in sé e negli altri.

 

 

 

Lo “scacco” esistenziale

Limite e consapevolezza nella filosofia
di Jaspers, Kierkegaard e Sartre

 

 

 

 

Karl Jaspers, uno dei principali rappresentanti della filosofia esistenzialista, sviluppa un’analisi profonda sulla condizione dell’uomo di fronte alla realtà, sostenendo che ogni tentativo di comprensione del mondo si scontra inevitabilmente con un “scacco”, una sorta di limite insuperabile. Secondo il filosofo, lo scacco o il naufragio non rappresenta un semplice fallimento, ma assume il ruolo di strumento di chiarificazione dell’esistenza stessa. Per Jaspers, lo scacco è infatti il senso ultimo della vita, una chiave interpretativa del divenire. Questo fallimento diventa così il mezzo per giungere a una consapevolezza più profonda dell’essere e per riconoscere la finitezza dell’uomo e i limiti della ragione.
La frase ricorrente di Jaspers, “filosofare è imparare a morire”, esprime un concetto chiave del suo pensiero: il confronto con lo scacco e l’accettazione dei limiti umani sono processi essenziali per cogliere l’essenza della propria esistenza. Per lui, filosofare non è semplicemente cercare risposte o verità assolute, ma è piuttosto un’esperienza che implica l’accettazione del “naufragio” dell’intelletto e della volontà di dominio sulla realtà. Imparare a morire significa, in questo contesto, imparare a sperimentare lo scacco, vivere consapevolmente i limiti e la vulnerabilità dell’essere umano.
Questa visione è stata condivisa, pur con prospettive differenti, da altri filosofi esistenzialisti. Søren Kierkegaard, ad esempio, ha percorso la dimensione esistenziale dell’individuo in termini di angoscia e disperazione, sentimenti che scaturiscono dalla consapevolezza del proprio limite e dalla percezione di uno “scacco” esistenziale. La disperazione, secondo Kierkegaard, è la condizione in cui l’uomo si trova di fronte all’incertezza del proprio essere, la sua incapacità di dominare il senso della propria esistenza. Lo “scacco” qui non è solo un ostacolo ma è la condizione ontologica dell’essere umano, che si confronta con il paradosso di essere libero, ma, al contempo, limitato. La sua angoscia, quindi, è il risultato della tensione tra ciò che l’uomo vorrebbe essere e ciò che realmente è, in una continua oscillazione tra possibilità e limite.

Jean-Paul Sartre, da parte sua, porta avanti l’idea di “scacco” sotto un’altra luce, riconducendolo a quello che lui chiama il “fine assoluto”. Nella sua prospettiva, la condizione esistenziale non riguarda soltanto l’angoscia o la disperazione ma è segnata dalla scoperta del fallimento della conoscenza oggettiva di arrivare a comprendere il senso ultimo della vita. Per Sartre, l’uomo è “condannato alla libertà”, poiché senza riferimenti assoluti è costretto a scegliere e a dare un senso alla propria esistenza in un mondo privo di significati preconfezionati. In questo processo, lo scacco è la consapevolezza della mancanza di un fondamento ultimo della realtà che, paradossalmente, libera l’individuo di creare significato in totale autonomia, anche a rischio dell’assurdo.
Il concetto di “scacco” o “naufragio” diventa, quindi, centrale nella filosofia esistenzialista, perché permette di passare dalla conoscenza oggettiva a una forma di conoscenza più intima e personale, la conoscenza esistentiva. Non si tratta di un sapere che si può acquisire attraverso la logica o la razionalità, ma di un sapere vissuto, esperienziale, che nasce dal confronto diretto con il limite, l’incertezza e il fallimento. Questa conoscenza esistentiva, frutto di una profonda presa di coscienza del limite umano, conduce l’individuo a un’autenticità che trascende la pura razionalità, spingendolo a esplorare il significato della propria esistenza nella sua pienezza e complessità.
Per i filosofi esistenzialisti, pertanto, il concetto di “scacco” non rappresenta semplicemente una sconfitta, ma è piuttosto un passaggio essenziale verso una comprensione più profonda e autentica dell’essere umano. Il “naufragio” della conoscenza razionale e oggettiva apre infatti la strada a una consapevolezza più completa, che si rivela solo attraverso l’accettazione del limite e la riflessione esistenziale. In questo modo, lo scacco diventa non solo una condizione inevitabile della vita, ma anche una via per la verità esistenziale e l’autenticità individuale.

 

 

 

 

Bernardino Telesio

Il precursore della scienza moderna tra empirismo e fede

 

 

 

 

Bernardino Telesio (1509-1588), filosofo rinascimentale italiano, è considerato tra i precursori della scienza moderna grazie al suo approccio empirico e alla critica del sapere dogmatico di stampo aristotelico e scolastico. Un punto centrale della sua filosofia è il legame tra naturalismo e religione, che egli interpreta come una sintesi unica tra osservazione empirica della natura e fede religiosa.
Telesio è stato uno dei primi filosofi a promuovere un metodo conoscitivo basato sull’osservazione diretta della natura, opponendosi alla speculazione metafisica. A suo avviso, per comprendere la realtà occorreva abbandonare i dogmi della filosofia Scolastica, specialmente quelli di matrice aristotelica, per affidarsi all’esperienza sensibile. Questo approccio lo portò a concepire la natura come un’entità dotata di princìpi interni e capaci di autoregolarsi, senza bisogno di interventi divini.
Nella sua opera principale, De rerum natura iuxta propria principia (La natura delle cose secondo i propri princìpi), Telesio sostiene che la natura operi seguendo leggi intrinseche e indipendenti, come il caldo e il freddo, senza richiedere interferenze soprannaturali. Questa interpretazione della natura come forza autonoma anticipa il naturalismo moderno, che si sarebbe sviluppato successivamente con Galileo e Newton.
Nonostante il suo orientamento empirico, Telesio non rifiutava la religione. Uomo di fede, egli ne riconosceva l’importanza per la vita dell’uomo e per la comprensione dell’universo. La sua conciliazione tra fede e visione naturalistica è, però, complessa e ambigua: pur non negando l’esistenza di Dio e dei princìpi religiosi, sosteneva che questi avesse creato un mondo capace di autogestirsi. Ciò permetteva di concepire la natura come un sistema libero e indipendente, pur sempre frutto della volontà divina.

Tale concezione, tuttavia, si avvicina a un’idea di deismo: Dio avrebbe creato il mondo e le sue leggi, ma non interverrebbe continuamente nel suo funzionamento. Telesio, così, garantiva l’autonomia della natura senza negare la presenza divina, che per lui restava essenziale. La religione, quindi, non si opponeva alla conoscenza empirica, ma rispondeva a domande di ordine spirituale: la filosofia naturale esplorava i princìpi fisici del mondo, mentre la religione si occupava dell’origine e del senso ultimo dell’esistenza.
La conciliazione tra naturalismo e religione in Telesio costituisce uno dei tratti più originali della sua filosofia. A differenza di molti pensatori medievali e rinascimentali, che vedevano nella natura un riflesso diretto della volontà divina, Telesio riteneva che essa possedesse una propria autonomia, senza che ciò implicasse la negazione di Dio, ma piuttosto una reinterpretazione del suo ruolo. Dio era l’origine della natura, ma questa, una volta creata, operava seguendo le proprie leggi.
Questo pensiero risultò innovativo, poiché si distaccava dal teocentrismo medievale e anticipava il razionalismo e l’empirismo, consegnando una visione del mondo comprensibile attraverso leggi naturali autonome, ma dove la religione forniva un contesto morale e spirituale. Telesio pose, quindi, le basi per una filosofia in cui la religione poteva coesistere con la ricerca empirica della realtà.
Il pensiero di Telesio non fu privo di critiche, specie da parte dei circoli religiosi e accademici conservatori, che lo consideravano una minaccia alla visione tradizionale del mondo. Tuttavia, la sua filosofia influenzò pensatori come Tommaso Campanella e Giordano Bruno, che proseguirono nello sviluppo di un’indagine empirica della natura e di una religiosità meno vincolata dai dogmi ecclesiastici.
Telesio gettò inoltre le basi per una forma di pensiero scientifico che sarebbe diventata fondamentale per lo sviluppo della scienza moderna. La sua idea di una natura dotata di proprie leggi preannunciò il metodo scientifico di Galileo e la concezione di un mondo comprensibile attraverso l’osservazione e la ragione, un mondo che, pur riflettendo l’opera di Dio, non necessitava di costante intervento divino per funzionare.
Bernardino Telesio, dunque, è una figura chiave nel passaggio dalla visione medievale a quella moderna della natura e del sapere. La sua ricerca di una sintesi tra naturalismo e religione rappresenta un momento cruciale nella storia della filosofia, proponendo una natura dotata di leggi autonome senza escludere una dimensione religiosa. Telesio, così facendo, ha gettato le basi per una visione del mondo che avrebbe consentito lo sviluppo della scienza moderna, lasciando aperta la possibilità di una dimensione spirituale in cui l’uomo potesse continuare a cercare risposte sul senso ultimo della vita.
In questo modo, la filosofia di Telesio dimostra che è possibile perseguire la conoscenza attraverso l’osservazione della natura, trovando al contempo nella fede una cornice etica e spirituale in armonia con l’indagine empirica.

 

 

 

 

L’euristica filosofica

Strategie mentali per comprendere la realtà
da Aristotele a Kahneman e Tversky

 

 

 

 

L’euristica, in ambito filosofico, è un concetto utilizzato per descrivere metodi intuitivi o strategie mentali che gli esseri umani impiegano per risolvere problemi e prendere decisioni in modo rapido ed efficiente. Il termine deriva dal greco “heurískein”, che significa “scoprire” o “trovare”. Sebbene l’euristica sia spesso associata alla psicologia cognitiva, in filosofia costituisce una riflessione profonda sui limiti della razionalità e sull’affidabilità delle intuizioni umane. Nel corso della storia della filosofia, vari pensatori hanno proposto teorie sul ruolo dell’euristica, ciascuno con una prospettiva unica che si interseca con la logica, l’etica e la metafisica.
Aristotele, considerato il padre della logica, sviluppò il concetto di sillogismo come strumento euristico per comprendere il mondo attraverso il ragionamento deduttivo. I suoi sillogismi, basati su premesse maggiori e minori, rappresentano una forma primitiva di euristica poiché aiutano a derivare conclusioni senza esaminare ogni singolo caso. Aristotele proponeva che il ragionamento euristico, pur non essendo sempre infallibile, fosse utile per raggiungere conoscenze generali su princìpi naturali e morali. In questo modo, l’euristica era vista come un compromesso tra la ricerca della verità e l’efficacia pratica. Un sillogismo classico potrebbe essere: “Tutti gli uomini sono mortali; Socrate è un uomo; dunque, Socrate è mortale”. Questo tipo di ragionamento non esamina la mortalità in senso assoluto ma fornisce una verità pratica utile, che si basa sull’assunzione condivisa.
Immanuel Kant osservò che l’intelletto umano non è in grado di comprendere completamente la realtà in sé stessa (il noumeno) ma può solo accedere ai fenomeni attraverso una struttura euristica. Nella Critica della ragion pura, Kant introduce concetti quali le categorie dell’intelletto, che funzionano come euristiche per interpretare l’esperienza. Queste categorie –causalità, quantità e qualità, tra le altre – sono strumenti innati della mente umana che aiutano a organizzare l’esperienza empirica, rendendo possibile la conoscenza. Secondo Kant, l’idea di causalità è una sorta di euristica innata: noi percepiamo il mondo in termini di cause ed effetti, perché ciò ci permette di dare un senso alla realtà. Questa non è una rappresentazione oggettiva della natura, ma una “scorciatoia” necessaria per orientarsi nel mondo fenomenico.

Charles Sanders Peirce, fondatore del pragmatismo, propose l’abduzione come tipo di ragionamento euristico. L’abduzione è un processo intuitivo attraverso il quale si formulano ipotesi a partire da dati incompleti o incerti. Peirce sottolineò che il pensiero euristico non segue le rigide regole della deduzione o dell’induzione, ma si basa sull’interpretazione creativa di indizi per formulare una teoria plausibile. L’abduzione, per Peirce, è centrale nei processi scientifici, poiché permette di avanzare nuove ipotesi senza dati completi, per poi testarle successivamente. Immaginiamo di trovare tracce di fango all’ingresso di casa. Con l’abduzione, possiamo ipotizzare che qualcuno con scarpe sporche sia entrato. Non è una conclusione certa, ma un’ipotesi plausibile che nasce dall’interpretazione euristica di un segnale.
Hans-Georg Gadamer, nei suoi lavori sull’ermeneutica, sostiene che ogni interpretazione sia influenzata da pregiudizi e da una comprensione preliminare che funge da euristica. Secondo Gadamer, il processo interpretativo non è mai neutrale ma sempre mediato da tradizioni culturali e storiche, che guidano la comprensione. In questo contesto, l’euristica si manifesta come un filtro interpretativo, attraverso il quale l’individuo costruisce il significato dei testi e delle esperienze. Gadamer afferma che quando leggiamo un testo antico, i nostri pregiudizi e la nostra conoscenza pregressa ci guidano nell’interpretazione. Essi fungono da euristica per orientarci in una comprensione che non può essere puramente oggettiva, ma è arricchita dalla nostra prospettiva storica e culturale.
Daniel Kahneman e Amos Tversky, pur essendo psicologi, hanno avuto un impatto rilevante sulla filosofia della mente e dell’etica con la loro teoria delle euristiche. Essi hanno dimostrato che gli esseri umani spesso utilizzano scorciatoie mentali per prendere decisioni, anche se ciò comporta il rischio di errori sistematici. Le euristiche come la “rappresentatività” e la “disponibilità” mostrano come tendiamo a giudicare la probabilità di un evento in base alla sua somiglianza con altri eventi o alla facilità con cui ci viene in mente, anziché basarci su dati oggettivi. Ad esempio, se qualcuno ha recentemente letto di un incidente aereo, potrebbe sopravvalutare la probabilità di un incidente simile a causa dell’euristica della disponibilità. Questo errore di giudizio riflette il modo in cui l’euristica influenza le scelte quotidiane, anche se non sempre conduce alla verità.
L’euristica in filosofia, pertanto, approfondisce come strumenti di pensiero, scorciatoie mentali e pregiudizi strutturino la conoscenza e influenzino la nostra capacità di interpretare il mondo. Da Aristotele a Kant, da Peirce a Gadamer e, infine, a Kahneman e Tversky, l’euristica è stata analizzata come un mezzo essenziale per l’orientamento umano nel mondo, nonostante i suoi limiti e le sue imperfezioni. La filosofia, quindi, non si limita a criticare l’euristica per i suoi potenziali errori, ma la riconosce come una risorsa indispensabile per navigare la complessità della realtà.

 

 

 

Il noema

Dall’intuizione aristotelica alla fenomenologia di Husserl

 

 

 

 

Il termine noema rimanda un concetto filosofico che ha avuto un’evoluzione notevole nel corso della storia del pensiero, passando dall’epistemologia aristotelica alla fenomenologia husserliana.
Nel contesto della filosofia aristotelica, il noema è inteso come una nozione fondamentale dell’intelletto. Secondo Aristotele, la conoscenza si articola in diversi livelli, partendo da una base di percezione sensoriale fino ad arrivare a una comprensione più complessa e astratta.
Aristotele definisce il noema come ogni nozione conosciuta “immediatamente” dall’intelletto, cioè senza passare per un’analisi discorsiva o per una deduzione logica. Il noema rappresenta, quindi, un’intuizione intellettuale immediata, una comprensione unitaria di un oggetto o di un’idea. È un concetto che non richiede ulteriore elaborazione, perché è percepito come un tutto indivisibile. In questo senso, il noema è considerato il punto di partenza della conoscenza discorsiva. La conoscenza discorsiva, ovvero la capacità di ragionare, argomentare e costruire concetti complessi, si basa, infatti, su queste intuizioni iniziali. In Aristotele, dunque, il noema è il materiale “grezzo” su cui l’intelletto lavora per costruire una comprensione più articolata della realtà.
Con Edmund Husserl, fondatore della fenomenologia, il termine noema acquisisce una nuova dimensione e un significato molto più specifico rispetto a quello aristotelico. Per Husserl, il noema è legato alla struttura dell’atto percettivo e alla teoria della coscienza intenzionale. Husserl sostiene che ogni atto di coscienza è intenzionale, cioè è sempre rivolto verso un oggetto. Questo oggetto, che viene colto dall’atto intenzionale della coscienza, è definito, appunto, noema. È il “contenuto” dell’atto di coscienza, ciò che viene percepito, pensato o immaginato. Il noema, quindi, è la realtà che appare alla coscienza nel momento in cui questa compie un atto percettivo o intellettuale. Nella fenomenologia husserliana, la distinzione tra noesi e noema è cruciale. La noesi è l’atto stesso della percezione o dell’intenzionalità della coscienza (ad esempio, il percepire, il pensare, l’immaginare), mentre il noema è il contenuto dell’atto, ciò che viene “pensato” o percepito. In altre parole, mentre la noesi si riferisce al lato soggettivo dell’esperienza, il noema riguarda il lato oggettivo o l’oggetto intenzionale così come si manifesta alla coscienza.

La differenza principale tra Aristotele e Husserl risiede nell’approccio epistemologico e fenomenologico che entrambi danno al concetto di noema. Per Aristotele, il noema è un’intuizione immediata e indivisibile dell’intelletto; è una comprensione immediata di una nozione, non mediata da ragionamenti discorsivi. Per Husserl, invece, il noema non è tanto un atto intuitivo quanto un oggetto dell’intenzionalità della coscienza. È ciò verso cui la coscienza si dirige, il “pensato” in ogni atto di coscienza intenzionale. In Aristotele, il soggetto è più implicito nel processo di conoscenza; l’attenzione è posta sull’oggetto conosciuto in modo immediato. Husserl, al contrario, mette in primo piano la coscienza e l’atto intenzionale del soggetto, rendendo il noema una costruzione fenomenologica che dipende dal modo in cui la coscienza percepisce e interpreta la realtà.
Un aspetto comune in entrambe le concezioni, che va sottolineato, è la distinzione tra noema e sensazione. In entrambi i filosofi, il noema non è un semplice dato sensoriale, ma un’entità intellettuale o intenzionale. In Aristotele, il noema si distingue dalla sensazione, perché non è una percezione sensoriale diretta, ma un’intuizione dell’intelletto che percepisce l’essenza o la forma di un oggetto. In Husserl, invece, la distinzione è ancora più netta: il noema è l’oggetto intenzionale della coscienza, che si manifesta indipendentemente dalla mera sensazione fisica. La sensazione può essere il punto di partenza dell’esperienza, ma il noema rappresenta la realtà così come è data alla coscienza nella sua complessità fenomenologica.
L’idea di noema costituisce, pertanto, un esempio illuminante di come i concetti filosofici possano evolvere nel tempo, assumendo significati diversi a seconda del contesto teorico. In Aristotele, il noema è il punto di partenza della conoscenza intellettuale, un’intuizione immediata e indivisibile dell’intelletto. In Husserl, diventa l’oggetto intenzionale di un atto di coscienza, il “pensato” che emerge dall’interazione tra il soggetto e il mondo fenomenologico. Questa evoluzione riflette anche il cambiamento nella concezione della conoscenza: da una visione realista e oggettiva (Aristotele) a una visione fenomenologica e soggettiva (Husserl), dove l’oggetto della conoscenza non è qualcosa di indipendente dalla coscienza, ma qualcosa che si manifesta e prende forma attraverso l’esperienza soggettiva.
Il noema, quindi, non è solo un concetto filosofico, ma una lente attraverso cui osservare il modo in cui la mente umana si relaziona con la realtà, trasformando l’esperienza sensoriale in una comprensione intellettuale o fenomenologica più complessa e articolata.