Archivio mensile:Maggio 2025

Il gioco serio dell’inganno
Poetiche della beffa nel Decameron di Giovanni Boccaccio

 

 

 

 

In questo mio ultimissimo saggio, appena pubblicato da HARbif Editore, analizzo la funzione narrativa, simbolica e sociale della beffa nel Decameron di Giovanni Boccaccio. Attraverso una lettura tematica e stilistica, ho esaminato le diverse tipologie di beffa – morale, sociale, amorosa e sessuale – mostrandone il ruolo cruciale come dispositivo narrativo e specchio dei mutamenti culturali del Trecento. La beffa diventa così strumento di critica, affermazione individuale e riflessione metanarrativa. Ho messo in luce come, nel contesto della crisi post-peste e della nascente sensibilità umanistica, Boccaccio elabori una poetica dell’inganno fondata sull’intelligenza, sulla parola e sulla libertà, dove il riso si fa atto liberatorio e insieme forma di conoscenza.

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Il pensiero e l’eterno

I Platonici di Cambridge tra scienza e rivelazione

 

 

 

 

Nel pieno del turbolento Seicento inglese, epoca di guerre civili, rivoluzioni scientifiche e crisi religiose, un gruppo eterogeneo di pensatori scelse di seguire una strada poco battuta. I cosiddetti Platonici di Cambridge, attivi perlopiù all’interno dell’Università di Cambridge, proposero una visione filosofica e teologica che sfidava le correnti dominanti dell’epoca. Non formarono mai un movimento organizzato, né redassero un manifesto comune, ma condivisero un’impostazione spirituale, metafisica e razionale che si oppose tanto al rigido razionalismo meccanicista quanto al fanatismo religioso. Il loro pensiero costituì uno dei tentativi più originali e profondi di riconciliare la fede con la ragione, la scienza con la morale, la spiritualità con la filosofia.
Il Seicento inglese fu un secolo di profonde fratture. La guerra civile tra monarchici e parlamentari, l’esecuzione di re Carlo I, il regime puritano di Oliver Cromwell e la successiva restaurazione monarchica disegnarono un panorama instabile e inquieto. A questi eventi si aggiunsero scontri religiosi accesi tra anglicani, puritani, presbiteriani, cattolici e altre minoranze dissidenti. Ma la frattura più sottile, e forse più radicale, fu quella che si aprì tra fede e scienza. La nascita della scienza moderna, con figure come Galileo, Keplero, Boyle e Cartesio, mise in discussione le concezioni cosmologiche e metafisiche tradizionali. La razionalità sembrava allontanarsi sempre più dal sacro, e il nuovo sapere rischiava di svuotare il mondo di significato spirituale.
Fu proprio in questo contesto che i Platonici di Cambridge cercarono una terza via. Rifiutando sia l’autoritarismo teologico sia il riduzionismo materialista, si impegnarono in un’opera di sintesi: accettare i progressi della scienza senza rinunciare alla dimensione trascendente della realtà; affermare la centralità della ragione senza cadere nel razionalismo sterile; difendere la religione, depurandola dalle sue incrostazioni dogmatiche e settarie.
Il pensiero dei Platonici di Cambridge affonda le sue radici nella filosofia di Platone, ma è profondamente rielaborato attraverso le lenti del neoplatonismo tardoantico e del platonismo cristiano rinascimentale. Platone forniva la struttura di base: un mondo intelligibile eterno, ideale, ordinato, di cui il mondo sensibile è solo un’ombra imperfetta. Il neoplatonismo di Plotino arricchiva questa visione con una dimensione mistica e gerarchica, in cui l’anima tende a ricongiungersi con l’Uno, fonte di ogni essere e di ogni bene. Il platonismo rinascimentale, in particolare quello di Marsilio Ficino, riportava questi concetti all’interno del pensiero cristiano, fondendo la ricerca filosofica con l’aspirazione spirituale.
A questa matrice filosofica si aggiungeva un robusto impianto teologico, ispirato in parte a Sant’Agostino e all’umanesimo cristiano. I Platonici di Cambridge ritenevano che la vera religione non potesse essere imposta da autorità esterne, né ridotta a dogmi o riti vuoti. Essa doveva essere vissuta interiormente, compresa attraverso l’intelletto, sostenuta dalla moralità e animata da un amore sincero per la verità. In questo senso, la ragione non era per loro un nemico della fede, ma il suo strumento più nobile.

Tra le figure principali, Henry More rappresentò l’anima più visionaria e spiritualista del gruppo. Affascinato dal pensiero cartesiano, ne condivise alcuni presupposti ma ne rifiutò la conclusione meccanicista. Per More, l’universo non poteva essere spiegato soltanto come una macchina composta da materia in movimento. Elaborò, così, l’idea di uno “spirito della natura”, una forza ordinatrice, intermedia tra Dio e la materia, che dava forma e coerenza all’universo senza ridurlo a puro determinismo. Profondamente interessato anche a fenomeni soprannaturali, More vedeva in questi eventi manifestazioni di una realtà spirituale sottesa al mondo visibile. Ralph Cudworth, forse il più sistematico tra i Platonici, dedicò la sua opera maggiore, The True Intellectual System of the Universe, a confutare le forme antiche e moderne di ateismo. Convinto che la realtà fosse retta da princìpi morali eterni e intelligibili, Cudworth sosteneva che il bene e il male non derivassero da convenzioni umane né dalla volontà arbitraria di un sovrano, ma esistessero oggettivamente nel cosmo e fossero riconoscibili dalla ragione. La sua difesa di una “legge morale naturale” anticipò il pensiero etico razionalista del Settecento. John Smith, pur lasciando pochi scritti, incarnava lo spirito più profondamente religioso del gruppo. Nei suoi Discorsi scelti, affermava che la vera religione fosse quella che nasce dall’interiorità e dalla luce dell’intelletto. La conoscenza di Dio non è una questione di autorità, ma di esperienza spirituale vissuta nella coscienza. Per Smith, l’amore per la verità era già di per sé un atto di avvicinamento a Dio. Una figura eccezionale fu Anne Conway, amica e discepola di Henry More, che propose una visione vitalista e monistica della realtà. Per Conway, ogni essere è dotato di vita e coscienza; non esistono entità puramente materiali. Tutto è spirituale, tutto è partecipe dell’essere divino. La sua filosofia, in netto contrasto con il dualismo cartesiano, anticipò molte idee che si ritroveranno in Leibniz e nella filosofia tedesca dell’Ottocento.
Ciò che accomunava i Platonici di Cambridge era una concezione della filosofia come via di elevazione, come disciplina spirituale. Non vedevano nella filosofia un semplice esercizio logico o speculativo, ma un percorso di purificazione dell’anima, un ritorno a una verità dimenticata. Credevano che la ragione, se guidata dal desiderio di bene e non corrotta dall’orgoglio, fosse in grado di conoscere Dio. Questo approccio li portava a concepire l’universo non come un meccanismo cieco, ma come un ordine morale e spirituale. La realtà, secondo loro, è intrinsecamente intelligibile, finalistica, attraversata da un principio di bene. L’essere umano ha una natura razionale, non solo nel senso logico ma nel senso più profondo di partecipazione all’intelligenza divina. Perciò, ogni forma di relativismo morale era per loro inaccettabile. Il bene non è soggettivo, ma universale, eterno, riconoscibile da chiunque possegga una mente lucida e un cuore integro. Questa visione si rifletteva anche nella loro idea di religione. I Platonici rifiutavano tanto il dogmatismo ecclesiastico quanto l’entusiasmo settario. La vera religione, dicevano, è quella che trasforma l’anima, non quella che impone rituali o dottrine. In questo, si ricollegavano a una lunga tradizione mistica e spirituale che attraversava il cristianesimo, pur aprendosi anche a una concezione più universale della verità religiosa. Credevano che ogni essere umano, anche fuori dalla fede cristiana, potesse avere accesso alla verità divina se mosso da sincera ricerca e rettitudine morale.
L’impatto dei Platonici di Cambridge non fu immediato, né rumoroso. Non dettarono mode né imposero sistemi, ma le loro idee circolarono silenziosamente nei dibattiti filosofici e teologici del secolo successivo. Le loro riflessioni anticiparono il deismo illuminista inglese, influenzarono pensatori come Leibniz, Samuel Clarke e George Berkeley, contribuendo alla nascita di una teologia morale più razionale, libera dal dogma ma non scettica. Il loro tentativo di riconciliare scienza, filosofia e religione può apparire oggi anacronistico, ma è proprio la loro marginalità storica a renderli attuali. In un’epoca come la nostra, segnata da una crescente polarizzazione tra tecnicismo scientista e rigurgiti di spiritualismo acritico, la loro proposta di un sapere che sia al contempo razionale e spirituale, scientifico e morale, si rivela sorprendentemente moderna. Non cercavano certezze assolute, ma un equilibrio profondo tra pensiero e vita.
I Platonici di Cambridge rappresentano, dunque, una delle voci più originali del pensiero europeo moderno. Immersi in un’epoca inquieta, seppero opporsi alla banalizzazione della religione e alla disumanizzazione della filosofia. La loro fede nella ragione illuminata, nella bontà intelligibile dell’universo e nella dignità spirituale dell’uomo è una lezione ancora attuale. Non furono utopisti né ideologi, ma pensatori capaci di parlare al cuore e alla mente. E proprio per questo, meritano di essere riscoperti.

 

 

 

 

 

Dalle ‘Cose Nuove’ al nuovo umanesimo:
Leone XIII e Leone XIV

 

L’eredità sociale della Rerum Novarum
nel Magistero del nuovo pontefice

 

 

Quando papa Leone XIII pubblicò l’enciclica Rerum Novarum, il 15 maggio 1891, la Chiesa ruppe un lungo silenzio sulla questione sociale, con una forza che sorprese sia i critici che i fedeli. Fu il primo intervento sistematico del Magistero pontificale sulle condizioni di vita della classe lavoratrice, sulla giustizia economica e sulla responsabilità politica. La Rerum Novarum è una mappa concettuale che, ancora oggi, orienta la dottrina sociale della Chiesa. Con un linguaggio lucido e denso di contenuti etici e filosofici, Leone XIII pose le basi per una teologia del lavoro, una visione integrale dell’uomo e un ripensamento del ruolo dello Stato, fondati su radici cristiane, tomistiche e personaliste…

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Le ipostasi dell’Essere

Fondamenti metafisici e trasformazioni ontologiche
dall’Uno plotiniano alla Scolastica

 

 

 

 

L’uso del termine “ipostasi” in filosofia ha radici profonde e si sviluppa attraverso una lunga storia di riflessione sul rapporto tra l’essere, le idee e la realtà. Originariamente, il termine greco “ὑπόστασις” (hypóstasis) significa “ciò che sta sotto” o “fondamento”, e questo concetto assume diverse sfumature a seconda del contesto filosofico in cui viene applicato.
Plotino, il fondatore del Neoplatonismo, applica il termine ipostasi alle tre sostanze del mondo intelligibile, ovvero l’Uno, l’Intelletto (o Nous) e l’Anima. Questi tre princìpi, nella sua visione, formano la gerarchia ontologica della realtà e sono fondamenti che si collocano oltre il mondo sensibile.
L’Uno: l’ipostasi fondamentale e più alta. L’Uno, secondo Plotino, non è solo un principio di unità, ma una realtà che trascende ogni essere, persino l’esistenza stessa. È la fonte di tutto, paragonabile a una luce che emana dal sole ma che rimane, per natura, ineffabile e inafferrabile. L’Uno è l’ipostasi primaria, da cui deriva ogni altra realtà, ed è assolutamente semplice, privo di divisione o pluralità.
L’Intelletto (Nous): è la seconda ipostasi e rappresenta l’atto del pensiero puro e dell’autocoscienza. Mentre l’Uno è oltre l’essere e l’intellegibile, l’Intelletto è l’ipostasi che comprende tutte le idee o forme platoniche. È il luogo dell’essere e della conoscenza ed è il primo effetto dell’Uno. Nell’Intelletto si trovano tutte le realtà intelligibili, che sono contemplate eternamente in un’unità organica.
L’Anima: la terza ipostasi che media tra il mondo intelligibile e il mondo sensibile. L’Anima ha una duplice natura: da un lato, contempla l’Intelletto, dall’altro, genera e organizza il mondo sensibile. È tramite l’Anima che la realtà intelligibile si riflette nel mondo fenomenico. In questo senso, l’Anima costituisce il ponte tra il mondo eterno delle forme e il mondo mutevole della materia.
In questo schema, ogni ipostasi deriva dalla precedente e, sebbene inferiori rispetto all’Uno, mantengono un legame essenziale con esso, poiché tutto proviene dall’Uno come causa prima e somma fonte di ogni realtà.

Nel medioevo, con la filosofia Scolastica, il concetto di ipostasi subisce un’evoluzione. Gli scolastici, come Tommaso d’Aquino, adottano una distinzione tra sostanza in senso generale e sostanza individuale. Per gli Scolastici, l’ipostasi è la sostanza individuale concreta, distinguendosi dalla sostanza universale o comune. Questo si ricollega alla loro riflessione sulla natura degli individui e delle essenze.
Nella Scolastica, l’ipostasi non riguarda più solo i princìpi trascendenti del mondo intelligibile, ma diventa un termine chiave per descrivere l’individuo nella sua concretezza ontologica. Ogni entità individuale che possiede una propria identità e sussistenza autonoma è considerata un’ipostasi. Ciò contrasta con la sostanza universale, che si riferisce a una natura comune condivisa da più individui, come “umanità” o “animalità”.
In un senso più ampio, l’ipostasi, in filosofia, viene anche utilizzata per indicare la personificazione di concetti astratti, specialmente quelli legati al mondo soprannaturale o metafisico. Ciò avviene quando si attribuiscono qualità individuali e quasi personali a concetti che altrimenti rimarrebbero astratti. Un esempio classico potrebbe essere il concetto di Giustizia o Morte, concepiti in molte culture come figure autonome dotate di personalità, azione e volontà proprie.
Questo processo di ipostatizzazione è comune in molte tradizioni mitologiche e religiose, dove concetti complessi o forze naturali vengono resi comprensibili attraverso la loro personificazione. Ad esempio, nella mitologia greca, concetti come il Tempo (Crono) o l’Amore (Eros) sono stati trasformati in divinità, con ruoli ben definiti nel pantheon, assumendo forme concrete e narrative.
Infine, il termine “ipostasi” assume anche una valenza ontologica profonda, quando viene usato per riferirsi a “ciò che sta sotto” le apparenze, ovvero l’essenza ultima della realtà, distinta dai fenomeni o dalle apparenze esterne. In questo senso, l’ipostasi è ciò che garantisce l’esistenza reale e sostanziale di qualcosa al di là delle sue manifestazioni empiriche. Rappresenta, dunque, l’essenza stessa di una cosa, ciò che la rende reale e sussistente, indipendentemente dal modo in cui si presenta ai sensi.

 

 

 

 

Amore e Follia

Platone e la dialettica tra ragione e caos nel Simposio

 

 

 

 

Il Simposio di Platone è, senza dubbio, uno dei dialoghi più complessi e affascinanti del filosofo ateniese, poiché affronta il tema dell’amore (Eros) in una prospettiva che mette in discussione la rigidità del pensiero razionale e accoglie l’irruzione dell’irrazionale, della follia, come elemento essenziale per comprendere la natura dell’essere umano e della conoscenza. Platone, attraverso il dialogo tra i vari personaggi, in particolare Socrate, indaga l’idea che la ragione non sia autosufficiente, ma debba confrontarsi con l’abisso del caos e dell’ineffabile, incarnato nella follia, che egli definisce: “più bella della saggezza d’origine umana”. Questo concetto segna uno dei punti più vertiginosi del pensiero platonico, poiché allude a una dimensione del sapere che eccede i confini della logica e dell’ordine razionale.
Platone è riconosciuto come uno dei padri del pensiero razionale occidentale. Il suo contributo all’elaborazione di un sistema filosofico che pone al centro la ragione e l’ordine logico è indiscutibile, tuttavia, nei suoi dialoghi, egli non dimentica mai il substrato da cui la ragione emerge. La razionalità, secondo Platone, non è un punto di partenza, ma un risultato di un processo di ordinamento, che si innalza da un caos originario. Questo caos è rappresentato dalle passioni, dalle pulsioni e dalle tensioni, che la tragedia greca ha espresso con forza. Platone non ignora l’apertura minacciosa verso ciò che egli chiama “la fonte opaca e buia di ogni valore sociale”, un abisso che mette in discussione la stabilità stessa della polis, la città-stato. La polis, infatti, trova il proprio ordine grazie alla ragione, ma questo equilibrio non è stabile, essendo continuamente minacciato dalle forze caotiche e imprevedibili che si agitano al suo interno.
Per garantire la stabilità della città, Platone riconosce la necessità di espellere il katharma, che rappresenta tutto ciò che non può essere integrato nell’ordine razionale. Tuttavia, egli non nega che sia necessario sacrificare agli dèi, ovvero riconoscere che esiste una dimensione irrazionale e misteriosa da cui la stessa ragione trae origine. Le parole della ragione, per quanto ordinate e non oracolari, devono la loro esistenza a quella fonte divina e caotica che rimane fuori dal dominio della comprensione umana. Questa tensione tra ordine e caos, tra razionale e irrazionale, attraversa tutto il pensiero platonico e il Simposio ne è una delle espressioni più emblematiche.
Platone riconosce la follia come un’esperienza fondamentale dell’anima, non una malattia da cui guarire, ma un dono divino. Egli afferma che “i beni più grandi ci vengono dalla follia naturalmente data per dono divino”. Questa frase esprime la consapevolezza che la follia non è solo una rottura dell’ordine razionale, ma anche una via d’accesso a verità più profonde, che sfuggono alla comprensione ordinaria. Per Platone, la follia non è semplicemente il caos, ma una forma di conoscenza che va oltre la saggezza umana e razionale.
L’anima, infatti, non è completamente contenibile entro i limiti del pensiero razionale. Le esperienze dell’anima sono sfuggenti e non possono essere completamente ordinate o fissate in una sequenza logica. Questo perché, al di là dell’ordine razionale, l’anima sente che la totalità della realtà è sempre in qualche modo elusiva. Il non-senso contamina il senso, il possibile supera il reale, e ogni tentativo di comprensione totale emerge sempre da uno sfondo abissale che è caos, apertura, possibilità infinita.

Il ruolo di Eros, l’amore, in questo contesto è cruciale. Nel Simposio, l’amore è descritto come un intermediario tra il mondo della ragione e quello della follia. L’amore non è semplicemente un sentimento che unisce due individui, ma un’esperienza che permette all’anima di dislocarsi dal recinto della razionalità e di entrare in contatto con l’ineffabile. Per accedere a questa dimensione dell’anima, Platone afferma che è necessaria una sorta di a-topia, uno “spostamento” o una “dislocazione”, che porta l’individuo fuori dai confini dell’io razionale.
Questo movimento è pericoloso, poiché rischia di condurre l’anima nella follia incontrollata, ma è anche essenziale per accedere a una comprensione più profonda della realtà. Per non perdersi in questo processo, è necessario che l’anima sia accompagnata dall’amato. L’amato, infatti, riflette in qualche modo la nostra stessa follia, il nostro desiderio di andare oltre i limiti dell’ordine razionale. L’amore, dunque, è un evento che mette in comunicazione non solo due persone, ma due dimensioni dell’essere umano: l’ordine razionale e l’abisso della follia.
In Platone, la relazione tra amore e sapere non è mai semplice. L’amore è sì desiderio di bellezza e verità, ma è anche consapevolezza della propria mancanza e incompletezza. L’amore ci spinge a cercare ciò che ci manca, ma allo stesso tempo ci espone al rischio del fallimento e della perdita. Questa dinamica rende l’amore una forza dialettica, che mette continuamente in tensione il nostro desiderio di ordine e il nostro confronto con il caos.
In questa prospettiva, il Simposio non è solo una riflessione sull’amore, ma anche una meditazione sulla natura stessa del sapere. Il sapere, per Platone, non è mai una conquista definitiva, ma un processo che si sviluppa tra la luce della ragione e l’ombra della follia. Eros, l’amore, è il motore di questo processo, poiché ci spinge a cercare oltre i confini del conosciuto, ad accettare la nostra vulnerabilità e a riconoscere che ogni ordine razionale è sempre accompagnato da un residuo di irrazionalità e mistero.
Il Simposio di Platone, quindi, ci invita a riflettere su una delle più profonde verità del pensiero filosofico: la razionalità, che, pur essendo fondamentale per la vita umana, non può mai esaurire la totalità dell’esperienza. Il caos, la follia e l’irrazionale sono componenti essenziali dell’esistenza e ignorarli significherebbe rinunciare a una parte fondamentale della nostra umanità. Platone ci insegna che solo riconoscendo la follia come una parte integrante della nostra anima possiamo accedere a una conoscenza più profonda e autentica. L’amore, in questo contesto, diventa la via attraverso cui possiamo attraversare l’abisso del caos e, al contempo, non smarrirci, poiché è nell’amato che troviamo il riflesso della nostra stessa follia, della nostra stessa sete di infinito.

 

 

 

 

La filosofia siete voi: elogio di una gioventù che interroga

Lettera ai giovani studenti

 

 

 

Cari ragazzi,

voglio parlarvi di una parola che, a prima vista, sembra distante da voi. Filosofia.

Lo so. A sentirla, il rischio è che subito la vostra mente corra a immagini scolorite: libri pieni di parole difficili, nomi antichi, formule astratte, interrogazioni infinite. La filosofia pare appartenere a un’altra epoca. A un mondo che cammina piano, che ragiona lentamente, mentre voi vivete immersi in una realtà che accelera sempre, che cambia in continuazione, che vi chiede di essere veloci, efficienti, costantemente connessi. Eppure, lasciate che vi dica questo: la filosofia è più vicina a voi di quanto pensiate. E mai come oggi è urgente che le vostre vite si incrocino con essa.
Perché la filosofia non è lusso per intellettuali. Non è sapere elitario, non è esercizio sterile. È, prima di tutto, una forma di vita. Un modo di stare al mondo. È l’arte – antica e sempre nuova – di porsi domande radicali, quelle che toccano il fondo delle cose, quelle che mettono in discussione ciò che diamo per scontato.
E voi, anche se non lo chiamate così, siete pieni di filosofia. Ne siete abitati ogni giorno, senza accorgervene. Vi fate domande vere, spesso nel silenzio delle vostre stanze o nel chiasso dei social. Chi sono? Chi sto diventando? In cosa credo davvero? Come si costruisce un amore che non sia finzione? Qual è il mio posto in questo mondo che sembra scivolare dalle mani? Che senso ha la sofferenza, la morte, la solitudine?
Non sono domande “da adulti”. Non sono domande teoriche. Sono le vostre domande. E sono le stesse che Platone, Spinoza, Kierkegaard, Camus, Simone de Beauvoir si sono posti. La differenza è che a loro è stato detto che quelle domande valevano la pena. Che erano degne. A voi, troppo spesso, si dice il contrario: che pensare è tempo perso, che l’importante è saper vendersi, sapersi adattare, sapersi promuovere. Che bisogna smettere di chiedere e iniziare a fare. Ma chi ha detto che pensare non è fare?
Viviamo in un’epoca affollata di opinioni e povera di pensiero. Dove tutti parlano ma pochi ascoltano. Dove tutto è comunicazione ma quasi nulla è comprensione. In questo rumore assordante, la filosofia è una forma di resistenza. È un atto di libertà. Significa prendersi il diritto di fermarsi, di riflettere, di sospendere il giudizio. Di dire: aspetta, non mi basta quello che mi state dicendo, voglio capire davvero.
È difficile? Sì. Ma non impossibile. È scomodo? Sicuramente. Ma necessario. Perché senza pensiero non c’è libertà. E senza libertà non c’è umanità.

La vostra generazione sta crescendo in mezzo a contraddizioni enormi. Vi si dice che potete essere tutto, ma poi vi si chiede di scegliere in fretta. Vi si dice che siete unici, ma poi vi si misura in base a standard impersonali. Vi si parla di inclusività, ma poi si favorisce l’omologazione. Vi si propone un mondo fluido, ma senza mappe. È normale sentirsi spaesati. È umano sentirsi fragili. Ma proprio lì, in quella fragilità, può nascere qualcosa di potente: la possibilità di pensare, davvero.
La filosofia non vi promette salvezza, né successo. Non vi dà risposte prefabbricate. Vi offre un modo diverso di stare in questo mondo. Vi insegna a guardare con attenzione, a distinguere il vero dal verosimile, a tollerare il dubbio senza esserne schiacciati. Vi insegna che l’intelligenza non è solo calcolo ma anche cura. Che la ragione non è nemica dell’emozione ma suo alleato più profondo. Che la libertà non è fare ciò che si vuole ma diventare ciò che si è.
Vi chiederanno spesso di essere “produttivi”. La filosofia, invece, vi chiederà di essere presenti. Vi chiederanno di avere “risultati”. La filosofia vi chiederà di avere radici. Vi chiederanno di avere certezze. La filosofia vi insegnerà a non averne paura quando queste vacillano.
E vi accorgerete, se vi lascerete toccare, che le parole della filosofia cominciano a parlarvi. Non come formule da memorizzare ma come strumenti per vivere meglio, per vivere con più consapevolezza il tempo che vi è dato. Che un pensiero letto per caso può illuminare un dubbio che vi portavate dentro da anni. Che un filosofo morto da secoli può diventare, un interlocutore, quasi un amico. Perché la vera filosofia non muore. È sempre viva. È sempre attuale. Perché parla dell’umano. E voi siete profondamente, ostinatamente umani.
Vi auguro incontri veri: con docenti che vi parlino, non solo che vi interroghino. Con libri che vi feriscano, non solo che vi formino. Con domande che vi abitino, che non vi lascino in pace. Perché solo chi è abitato da domande profonde può vivere in modo autentico. Vi auguro la pazienza del pensiero, la lentezza del dubbio, il coraggio dell’inquietudine. E, soprattutto, vi auguro di non spegnere mai quella fiamma che vi rende capaci di meravigliarvi. Perché chi si meraviglia non è mai del tutto prigioniero.
La filosofia è per chi non si rassegna. Per chi vuole vedere chiaro anche quando il mondo è opaco. Per chi vuole restare umano, quando tutto intorno spinge alla disumanizzazione. E se avrete il coraggio di continuare a camminare, cessando di fingere di sapere tutto, allora – anche senza accorgervene – sarete filosofi. Non per mestiere: per vocazione.
Non abbiate fretta di diventare. Imparate a essere. E non smettete mai di cercare.
 
Riccardo

 

 

 

 

Dalla Città di Dio alla selva oscura

Gli influssi agostiniani nelle opere di Dante Alighieri

 

 

 

 

Il pensiero di Sant’Agostino ha avuto un impatto profondo, pervasivo e durevole sull’opera di Dante Alighieri. Non si tratta di una semplice influenza dottrinale o di un ricorso sporadico a fonti patristiche: l’agostinismo si insinua nei nuclei vitali del pensiero dantesco, modellandone la visione dell’uomo, di Dio e del cosmo. La lezione del vescovo di Ippona risuona, in forme diverse, in tutta la produzione di Dante: dalla tensione spirituale della Vita Nova alla costruzione filosofico-politica del Convivio e del De Monarchia, fino all’impianto monumentale e teologico della Divina Commedia.
Sant’Agostino rappresenta per Dante un interlocutore privilegiato, non solo per l’autorevolezza teologica riconosciuta nel Medioevo, quanto per l’eccezionale profondità con cui aveva saputo indagare l’interiorità umana, il mistero del tempo, la natura del desiderio e il rapporto tra ragione e fede. La sua opera, in particolare le Confessioni e La Città di Dio, fornisce a Dante strumenti concettuali e spirituali per articolare una poetica che non è mera espressione estetica ma mezzo di elevazione morale e salvezza.
Nella Divina Commedia, l’influenza agostiniana si manifesta a più livelli. A livello antropologico, Dante eredita da Agostino l’idea dell’uomo come essere in cammino, segnato dal peccato ma orientato verso il bene, capace di elevarsi attraverso la grazia. La struttura stessa del poema, che racconta un itinerario dall’errore alla verità, ricalca l’arco esistenziale delle Confessioni: un pellegrinaggio interiore che parte dalla dispersione dell’io e culmina nella visione unificante di Dio. A livello teologico, la centralità dell’amore ordinato – che Agostino definisce come ordo amoris, ossia la giusta gerarchia dell’amore – trova un riflesso diretto nella concezione dantesca del peccato e della beatitudine. L’Inferno e il Paradiso non sono che rappresentazioni simboliche della distorsione o del giusto orientamento dell’amore umano.
Ciò che, tuttavia, rende davvero profonda l’assimilazione agostiniana da parte di Dante è il modo in cui il poeta riesce a tradurre in forma poetica e narrativa concetti altamente speculativi. La memoria, l’introspezione, la tensione verso l’eterno, l’instabilità della volontà umana: tutte dimensioni centrali nell’agostinismo cristiano vengono incarnate in personaggi, episodi e paesaggi. Dante non si limita a citare Agostino: lo trasfigura, lo fa parlare attraverso Beatrice, Virgilio, san Bernardo; ne distilla la sostanza e la inserisce in un disegno simbolico e letterario senza precedenti.
Analizzare questo legame significa pertanto entrare nel cuore della poetica dantesca. L’agostinismo non è per Dante un sistema da adottare ma una matrice viva, un orientamento spirituale e intellettuale con cui misurarsi. Comprendere come questa influenza agisca, quali elementi vengano accolti e quali rielaborati, consente non solo di leggere Dante con maggiore profondità, ma anche di cogliere l’originalità con cui egli risponde, da poeta e pensatore, alle grandi domande dell’uomo medievale: chi sono, da dove vengo, dove vado.

Interiorità e viaggio dell’anima

Uno dei concetti chiave del pensiero agostiniano è l’introspezione. Per Agostino, la verità si cerca dentro di sé, poiché è “più interiore della mia intimità e più elevato della mia sommità” (Confessioni, III, 6, 11). Dante recepisce questa idea nella costruzione del suo percorso poetico e spirituale: la Commedia è un viaggio dell’anima attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, ma è anche un itinerario interiore. La selva oscura iniziale rappresenta proprio la perdita del senso interiore, dell’orientamento dell’anima. Il viaggio diventa, così, un ritorno all’ordine spirituale, simile alla conversione agostiniana descritta nelle Confessioni: “Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo” (X, 27, 38). Questa tensione tra la dispersione esterna e il ritorno all’interiorità è centrale anche nella Commedia. La “selva oscura” in cui Dante si smarrisce è simbolo della perdita del centro interiore e della verità: “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita” (Inf., I, 1-3). Come Agostino, anche Dante concepisce il viaggio spirituale come un ritorno alla verità divina che è già impressa nell’anima, ma che il peccato e l’orgoglio hanno oscurato. Il cammino ultraterreno rappresenta un’esperienza di purificazione e di riappropriazione della propria interiorità.

Amore ordinato e disordinato

Ne La città di Dio (14, 28), Agostino definisce il peccato come amor sui usque ad contemptum Dei (amore di sé fino al disprezzo di Dio) e la virtù come amor Dei usque ad contemptum sui (amore di Dio fino al disprezzo di sé). In Dante troviamo questa distinzione riflessa nei motivi ricorrenti del disordine e dell’ordine dell’amore: l’Inferno è il regno degli amori disordinati, il Purgatorio è il luogo dove l’amore viene purificato e ordinato e il Paradiso è il trionfo dell’amore perfettamente ordinato verso Dio. La Commedia è, in questo senso, un poema sull’amore giusto e ingiusto, molto vicino alla teologia agostiniana. Inoltre, nelle Confessioni (XIII, 9, 10), Agostino presenta il peccato come un disordine dell’amore, dove l’uomo ama le creature più del Creatore. Scrive: “Pondus meum amor meus, eo feror quocumque feror” (Il mio peso è il mio amore; esso mi porta dovunque mi porto). Dante recepisce pienamente questa visione. Nell’Inferno sono puniti coloro che hanno amato in modo disordinato (lussuriosi, avari, superbi, ecc.). L’esempio dei lussuriosi Paolo e Francesca (Inf., V) mostra come l’amore umano, se non ordinato a Dio, conduce alla perdizione: “Amor condusse noi ad una morte” (v. 106). Nel Purgatorio, l’amore viene educato e riportato all’ordine, come mostra il discorso di Virgilio sul libero arbitrio e sull’amore naturale e razionale: “‘Né creator né creatura mai’, / cominciò el, ‘figliuol, fu sanza amore, / o naturale o d’animo; e tu ‘l sai’” (Purg., XVII, 91-93). Il Paradiso, infine, è la dimensione dell’amore perfettamente ordinato, dove tutto tende armonicamente a Dio: “L’amor che move il sole e l’altre stelle” (Par., XXXIII, 145). Questa sintesi dantesca riflette l’idea agostiniana che solo l’amore rivolto a Dio può fondare la vera beatitudine.

Memoria, tempo, eternità

Agostino fu uno dei primi pensatori a riflettere sul tempo in modo esistenziale e soggettivo. Nelle Confessioni (XI, 20, 26), distingue tra tre dimensioni temporali presenti nell’anima: memoria (passato), attenzione (presente), aspettativa (futuro) (“il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa”) Dante riprende questa visione nel modo in cui concepisce l’esperienza del viaggio, la reminiscenza del peccato e l’attesa della salvezza. Il tempo nella Commedia è linfa spirituale: nell’Inferno il tempo è cristallizzato, senza possibilità di mutamento. Nel Purgatorio, luogo agostinianamente “temporale”, l’anima può ancora redimersi. Il Paradiso è l’eternità, in cui il tempo è annullato nella visione di Dio. Un esempio chiaro dell’uso poetico del tempo interiore è la scena dell’apparizione di Beatrice: “Conosco i segni de l’antica fiamma” (Purg., XXX, 48). Dante collega la visione presente a una memoria passata, in un tempo interiore agostiniano che unisce passato e presente nella salvezza dell’anima.

L’allegoria come metodo interpretativo

In opere come De Doctrina Christiana, Agostino propone una lettura allegorica e spirituale della Scrittura, articolata in più sensi: letterale e allegorico. Dante riprende questo metodo nella costruzione della Commedia, opera che egli stesso, nella XIII Epistola a Cangrande della Scala, invita a leggere su quattro livelli: letterale, allegorico, morale e anagogico: “Per chiarire quello che si dirà bisogna premettere che il significato di codesta opera non è uno solo, anzi può definirsi un significato polisemos, cioè di più significati. Infatti il primo significato è quello che si ha dalla lettera del testo, l’altro è quello che si ha da quel che si volle significare con la lettera del testo. Il primo si dice letterale, il secondo invece significato allegorico o morale o anagogico” (20, 7). Per esempio, il personaggio di Beatrice non è solo una donna reale, ma anche figura della Grazia, della Teologia e della Sapienza divina. L’intero viaggio dantesco, quindi, può essere letto in senso storico (viaggio reale nell’aldilà), morale (cammino di perfezionamento), allegorico (viaggio dell’umanità verso Dio) e anagogico (prefigurazione della visione beatifica).

La Grazia come salvezza non meritata

Agostino sostiene che l’uomo non può salvarsi da solo, ma solo attraverso l’intervento gratuito della Grazia divina. Questo principio è fortemente presente nel cammino di Dante: l’intervento di Beatrice, voluto da santa Lucia e dalla Vergine Maria per soccorrere la sua anima smarrita è un esempio lampante di Grazia preveniente: “Donna è gentil nel ciel che si compiange / di questo ‘mpedimento ov’io ti mando, / sì che duro giudicio là sù frange” (Inf., II, 94-96). L’iniziativa è divina, non umana. Dante è salvato non perché meritevole, ma perché amato. Anche questo rispecchia pienamente l’antropologia agostiniana.

La Città di Dio e la visione politica

Ne La città di Dio, Agostino distingue tra la civitas Dei e la civitas terrena, fondate rispettivamente sull’amore di Dio e sull’amore del mondo. Dante recepisce questa distinzione e la sviluppa nella sua concezione dell’Impero e della Chiesa. Nel Paradiso, l’ordine perfetto è rappresentato dalla Gerusalemme Celeste, dove l’amore verso Dio regola ogni cosa. La corruzione della Chiesa e dell’Impero nel tempo presente è vista da Dante come tradimento della civitas Dei: Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di provincie, ma bordello! (Purg., VI, 76-78). L’invettiva politica di Dante si basa su una concezione agostiniana della storia: solo chi ama Dio più del potere terreno può costruire una vera civiltà.

Dante, pertanto, non si limita a prendere Agostino come autore di riferimento: ne fa una chiave di lettura dell’intera realtà. L’influenza agostiniana è spirituale, intellettuale e poetica. La Divina Commedia è, in fondo, una “seconda Confessione”, dove il poeta racconta il suo ritorno a Dio, passando attraverso il peccato, la consapevolezza, la purificazione e la beatitudine. L’uomo, per entrambi, è un essere ferito che solo nell’amore ordinato e nella Grazia trova la via della salvezza.

 

 

 

 

 

Jeanne Hébuterne: la luce di Modigliani

 

 

Recensione di Carmela Puntillo

 

 

 

Il libro di Stefania Colombo, Morellini Editore, 2024, racconta la vita di Jeanne Hébuterne, compagna del pittore Amedeo Modigliani, focalizzandosi sugli anni trascorsi con lui e sui giorni prima del suo suicidio. Parigi. La Prima guerra mondiale devasta l’Europa e il mondo. Una coppia lotta per sopravvivere nell’ambiente di Montparnasse, tra pittori, ritrovi allo “Chez Rosalie” (il ristorante degli artisti dove andavano a cenare Jeanne e Modigliani e dove la padrona, Teresa, un’italiana, li accoglie amichevolmente ed accetta che la paghino solo con i disegni di lui e non con denaro) e alla “Rotonde” (un locale dove Victor, il padrone, difende gli artisti anche contro la polizia che li controlla perché sono renitenti alla leva). Lei, Jeanne Hébuterne, compagna di “Modi”, ha abbandonato la sua vita borghese e benestante e ha accettato di vivere solo di arte e di amore, in una povertà difficile da gestire ma che ha voluto per coltivare queste due passioni. Il contrasto con il padre, tradizionalista e contrario a un’unione non ufficiale quale la convivenza con Modigliani, povero, alcolizzato e drogato, è profondo, tanto che Jeanne ha scelto di lasciare la casa dei genitori, rinnegandoli. La madre, di un cattolicesimo rigido e che vive una vita quasi monacale a cui vorrebbe che aderissero anche i figli, la condanna ugualmente ma prova tenerezza per lei e vuole aiutarla nelle sue difficoltà. Accetta, quindi, di accompagnarla in Provenza quando Amedeo ha bisogno di tepore perché ha la tubercolosi. In questa trama gli avvenimenti della vita presente si intrecciano a quelli della vita passata per mezzo di flash-back, rendendo la storia più interessante e creando una struttura dinamica. Abbiamo, quindi, un susseguirsi di vicende nella narrazione dettagliata della vita di lei: i giochi col fratello André quando facevano la gara sui gradini della chiesa, il temporale che li aveva colti un giorno quando stavano andando a catechismo, il suo desiderio di imparare l’arpa e l’imposizione dei genitori di studiare il violino, la partenza del fratello per la guerra, le lezioni all’Accademia Colarossi, l’incontro con l’amica Chana, la conoscenza di Modigliani, le pose per il pittore giapponese Foujita, il ripudio da parte del padre, la prima gravidanza, l’imbarazzo della scelta su a chi dare per prima la notizia, il bombardamento della chiesa di Saint-Gervais, la tosse di Amedeo che la svegliava di notte, il soggiorno in Provenza, il dolore del parto, il padre indifferente che non sa amarla, lei che non riesce ad amare la figlia, la fine della guerra, la vita per l’arte, la vita per Amedeo, il dolore di vedersi separata dalla sua bimba, Amedeo che non vuole farsi curare ma che poi decide di andare in Italia dove c’è più tepore, il tentativo di insegnarle l’italiano attraverso la pittura, l’aggravarsi della tubercolosi, Amedeo che è costretto a letto, Amedeo che ha un’emorragia e che è trasportato all’ospedale, la notizia della morte appresa indirettamente attraverso sussurri e mormorii, la visita all’ospedale al corpo morto, il dolore e la disperazione, il salto nel vuoto e la fine. Tutta una vita. E Modigliani riempie questi episodi con il suo umorismo, la sua arte perfetta da vero artista di Montparnasse che vuole condurre una vita “bouleverdière”, lontano dalle convenzioni della società e dallo schiacciamento della politica. Un romanzo veramente appassionante, che ci racconta la storia di un’anima e anche un po’ di storia d’Europa.

 

 

 

 

 

 

L’inganno del progresso

Rousseau e la condanna della civiltà corrotta

 

 

 

 

Il Discorso sulle scienze e sulle arti di Jean-Jacques Rousseau, pubblicato nel 1750, segnò l’inizio della sua riflessione critica sulla civiltà e sulla condizione umana. Quest’opera, scritta in risposta a un concorso indetto dall’Accademia di Digione, gli valse il primo premio e lo rese celebre nel dibattito filosofico del tempo. In essa, Rousseau sostiene una tesi radicale e in netta contrapposizione con la visione dominante dell’Illuminismo: il progresso delle scienze e delle arti non ha reso gli uomini migliori; al contrario, ha contribuito alla loro corruzione morale. Egli ribalta la convinzione diffusa tra i philosophes secondo cui la diffusione del sapere porterebbe inevitabilmente a un miglioramento della società. Afferma, invece, che la civiltà, con il suo sviluppo intellettuale e materiale, abbia allontanato l’umanità dalla virtù e dalla felicità autentica.
Rousseau, come detto, scrive il Discorso in risposta alla domanda posta dall’Accademia di Digione: “Il progresso delle scienze e delle arti ha contribuito a migliorare i costumi?”. La sua risposta è un netto no e l’opera si sviluppa proprio come una dimostrazione di questa affermazione. Il testo è articolato in due parti: nella prima, il filosofo descrive i danni morali causati dal progresso delle conoscenze, mentre nella seconda approfondisce il modo in cui la civiltà ha favorito la corruzione degli uomini, creando una società basata sull’apparenza e sull’ingiustizia.
Nella parte iniziale, Rousseau prende di mira l’idea, largamente diffusa tra gli intellettuali del suo tempo, che la scienza e l’arte abbiano reso gli uomini migliori. Egli sostiene invece che questi ambiti abbiano avuto l’effetto opposto: piuttosto che promuovere la virtù, hanno incentivato il vizio, la vanità e il desiderio di distinzione. La conoscenza, lungi dall’essere un mezzo per raggiungere la saggezza, è diventata uno strumento di competizione e di corruzione morale. Secondo Rousseau, gli uomini antichi, privi delle sofisticazioni moderne, vivevano in maniera più semplice e più retta, senza le falsità e le maschere imposte dalla società colta.
Nella seconda parte, approfondisce la sua critica alle conseguenze sociali del progresso. Denuncia il ruolo delle istituzioni culturali, educative e politiche nel perpetuare una cultura dell’ipocrisia e dell’esteriorità. Secondo il filosofo, gli uomini moderni sono stati educati a perseguire il prestigio e la fama piuttosto che la vera conoscenza e la virtù. Questo ha portato alla diffusione di un modello di società in cui l’apparenza ha sostituito l’essere e in cui la ricerca della verità è stata soppiantata dalla volontà di piacere e di dominare gli altri. La civiltà, invece di elevare l’animo umano, ha creato individui alienati, incapaci di vivere in armonia con la propria natura.

Un elemento centrale della riflessione di Rousseau è la contrapposizione tra progresso materiale e progresso morale. Egli ritiene che, mentre le scienze e le arti hanno fatto grandi passi avanti nel fornire comfort e strumenti tecnologici all’umanità, hanno paradossalmente causato un declino della rettitudine morale. Rousseau porta l’esempio delle grandi civiltà del passato, come l’antica Grecia e Roma, per dimostrare che il fiorire delle arti e delle lettere sia sempre stato accompagnato da una decadenza morale e da un indebolimento delle virtù pubbliche. Secondo lui, quando un popolo diventa troppo raffinato e sofisticato perde il senso della giustizia e della solidarietà, sostituiti da un crescente individualismo e da una ricerca ossessiva del piacere.
A suo avviso, la cultura moderna ha prodotto una forma di conoscenza sterile, priva di autenticità e scollegata dai veri bisogni umani. Gli uomini non studiano più per migliorarsi, ma per apparire superiori agli altri; non cercano più la verità, ma il riconoscimento sociale. Questo ha generato una società di maschere, in cui la sincerità e la spontaneità sono state sostituite dalla falsità e dalla competizione. Per Rousseau, questa degenerazione morale è il risultato diretto del progresso, che ha trasformato la vita umana in un gioco di prestigio e di inganni.
Uno degli aspetti più innovativi di quest’opera è l’analisi della perdita dell’autenticità nella società moderna. Rousseau sostiene che la civiltà abbia reso gli uomini schiavi delle convenzioni sociali, costringendoli a vivere in modo innaturale. Mentre l’uomo primitivo era libero e spontaneo, l’uomo moderno è vincolato da norme e aspettative che lo obbligano a comportarsi in modo artificiale. Rousseau vede in questo processo una forma di alienazione, in cui l’individuo perde il contatto con la propria essenza e diventa un semplice ingranaggio in un sistema basato sull’apparenza. L’educazione, piuttosto che di liberare l’uomo, lo ha reso prigioniero di un sapere vuoto e formale. Le accademie, le università e le istituzioni culturali, invece di promuovere la saggezza, hanno creato una casta di intellettuali arroganti e distaccati dalla realtà. Questo ha portato alla formazione di una società in cui il valore di un individuo è determinato non dalla sua bontà o dal suo contributo al bene comune, ma dalla sua capacità di conformarsi agli standard imposti dalla cultura dominante.
Rousseau individua nel lusso uno dei simboli più evidenti della corruzione della civiltà moderna. Egli ritiene che il desiderio di ricchezza e di comodità abbia corrotto l’animo umano, portandolo a inseguire piaceri effimeri piuttosto che valori autentici. Il lusso non è solo una manifestazione di sfarzo materiale, ma una vera e propria malattia sociale, che genera disuguaglianze e fratture tra gli uomini. Le società primitive, prive di grandi ricchezze, erano anche più egualitarie e solidali, mentre la civiltà moderna ha prodotto una società stratificata, in cui pochi privilegiati godono di immense ricchezze mentre la maggioranza è relegata nella miseria.
Questo aspetto della sua critica anticipa molte delle idee che svilupperà nel Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, in cui analizzerà più in dettaglio come la proprietà privata e il progresso abbiano creato gerarchie ingiuste e forme di oppressione sociale. Nel Discorso sulle scienze e sulle arti, Rousseau getta le basi di questa riflessione, mostrando come il progresso, invece di portare giustizia e uguaglianza, abbia rafforzato il dominio dei più forti sui più deboli.
Il Discorso sulle scienze e sulle arti, quindi, porta una delle critiche più radicali alla civiltà moderna e all’idea di progresso. Rousseau mette in discussione la convinzione illuminista secondo cui la conoscenza conduca necessariamente al miglioramento della società, sostenendo invece che essa ha spesso prodotto disuguaglianza, alienazione e corruzione morale. La sua analisi, pur essendo radicata nel contesto del XVIII secolo, solleva interrogativi ancora attuali: il progresso scientifico e tecnologico rende davvero gli uomini migliori? Oppure, rischia di allontanarli dalla loro autenticità e di rafforzare le ingiustizie sociali?