Diogene di Sinope, meglio conosciuto come il Cinico, è certamente una delle figure più eccentriche e iconoclastiche della filosofia antica. Nato intorno al 412 a.C. a Sinope, città greca sul Mar Nero, fu discepolo di Antistene, il fondatore della scuola cinica. La filosofia cinica, che Diogene incarnò con estrema dedizione, si fonda su una critica radicale della società e dei suoi valori, favorendo, invece, la semplicità, l’autosufficienza e la virtù come unica vera ricchezza.
Diogene è famoso per la sua vita austera e per i molti aneddoti che lo vedono protagonista, spesso con intenti provocatori. Si dice che vivesse in una botte, rifiutando qualsiasi tipo di comodità materiale. Una delle storie più celebri narra dell’incontro con Alessandro Magno. Quando il re macedone, incuriosito dalla fama del filosofo, gli chiese se potesse fare qualcosa per lui, Diogene rispose semplicemente: “Sì, scansati, perché mi stai togliendo il sole”. Questa risposta incarna perfettamente l’atteggiamento cinico di Diogene verso il potere e la ricchezza, considerati irrilevanti rispetto alla libertà e alla felicità derivanti dall’autosufficienza.

La filosofia di Diogene si basa su pochi principi cardine, che mettono in discussione i valori convenzionali della società.
Credeva che la vera felicità fosse raggiungibile solo attraverso l’autosufficienza. Rifiutava il superfluo e viveva con il minimo indispensabile, dimostrando che la felicità non dipende dalle ricchezze materiali. Sfidava apertamente le norme e le convenzioni sociali. Per lui, le leggi e i costumi erano spesso artifici inutili che distoglievano gli individui dalla ricerca della vera virtù.
Seguendo la lezione di Socrate, considerava la virtù come l’unica vera ricchezza. Per lui, vivere secondo natura e in armonia con essa era l’obiettivo principale dell’esistenza.
Diogene praticava e promuoveva la parresia, la franchezza radicale nel dire la verità. Questo atteggiamento lo portava spesso a scontrarsi con le autorità e con i benpensanti del suo tempo.
Diogene è ricordato non solo per la sua vita ascetica e i suoi comportamenti provocatori, ma anche per l’impatto duraturo delle sue idee. La sua critica della società e delle sue ipocrisie ha influenzato molte correnti filosofiche successive, tra cui lo stoicismo. Inoltre, la sua figura continua a essere un simbolo di ribellione contro l’ingiustizia e l’irrazionalità, ispirando artisti, pensatori e ribelli di ogni epoca.
Diogene, quindi, non è solo un personaggio storico, ma un emblema della ricerca della verità e della virtù contro le convenzioni e le illusioni del mondo. La sua vita e la sua filosofia invitano a riflettere su ciò che veramente conta e su come si possa vivere in maniera più autentica e significativa.


Redistribuì terre, ridusse le tasse e promosse opere pubbliche, come la costruzione di acquedotti e templi. Favorì anche la cultura e la religione, sostenendo i culti locali e le celebrazioni religiose come le Panatenee, una sorta di festival che celebrava l’identità ateniese. Sotto il suo governo, Atene iniziò a emergere come un importante centro culturale, ponendo le basi per il successivo splendore dell’epoca classica. Alla morte di Pisistrato, il potere passò ai suoi figli, Ippia e Ipparco. Tuttavia, il regime dei due fratelli non riuscì a mantenere lo stesso equilibrio politico e, nel 514 a.C., Ipparco fu assassinato. Il governo tirannico di Ippia divenne sempre più repressivo, e nel 510 a.C., con l’aiuto degli spartani, il regime tirannico fu definitivamente abbattuto. La caduta dei Pisistratidi aprì la strada alle riforme democratiche di Clistene, che riorganizzarono il sistema politico ateniese per evitare il ritorno di un governo autocratico. L’esperienza tirannica, seppur breve, lasciò un’impronta indelebile sulla storia ateniese, poiché dimostrò i pericoli ma anche le potenzialità di un governo che andava oltre i confini tradizionali dell’aristocrazia.
Parigi non è solo sfondo ma protagonista. Nei Tableaux Parisiens, una delle sezioni de Les fleurs du mal, la città viene rappresentata come un luogo di spettacolo e degrado, di solitudine e metamorfosi. Il poeta-flâneur vaga tra i boulevard, osserva mendicanti, prostitute, ubriachi, passanti anonimi. La città è una macchina che produce identità instabili e relazioni fugaci. Non c’è più comunità ma solo individui isolati che si incrociano senza toccarsi davvero. In À une passante (Fugitive beauté dont le regard m’a fait soudainement renaître), la figura femminile è colta nell’attimo, in un lampo di bellezza che svanisce subito: la fugace bellezza il cui sguardo mi ha fatto rinascere. È una visione che contiene tutta la modernità: frammento, velocità, perdita.
“La felicità è una fortuna, donata da una divinità misteriosa, che accade all’improvviso. La fortuna, per essere felicità, bisogna averla sognata. La felicità non si può trattenere, svanisce in fretta e ritorna nel mistero dal quale proviene”.
un’epopea minuta, narrata con precisione antropologica ma anche con tenerezza asciutta. Non c’è nostalgia patetica né estetizzazione del degrado: la Torino degli anni ’70 è descritta per quella che era, una città operaia, ruvida, povera ma vitale. Il cortile prima e la Piazzetta poi diventano l’universo formativo: scuola, campo, arena sociale e palcoscenico. I dettagli sono puntuali e parlano una lingua viva. Le partite con il gesso a disegnare le aree, le infinite discussioni sui gol “alti” o “a mezza altezza”, la minaccia dell’ispettore Fumarola, le pistole ad acqua che si sformano dopo il primo spruzzo, la prima bicicletta – una Graziella da donna – pagata in giornalini. E proprio i giornalini, come le figurine, diventano moneta, misura di status e desiderio. La Piazzetta è un’economia parallela e una società con regole proprie, capace di autogestione e persino di redistribuzione. La narrazione è disseminata di personaggi che sembrano usciti da una novella neorealista: Facciolà, con i suoi oggetti sempre nuovi; Alfredo, che sposta di nascosto i pali per stringere la porta; Franco e Claudia, che svaniscono nella memoria come apparizioni infantili.

Nel cuore della tradizione filosofica occidentale, sin dall’epoca di Platone, pulsa una distinzione radicale e solenne: la contrapposizione tra il mondo dell’apparenza – transiente, imperfetto, legato ai sensi – e il mondo della verità – eterno, perfetto, conoscibile solo tramite la pura attività intellettuale. Questa cesura ontologica, elevata a cardine della metafisica, ha proiettato la propria ombra sull’intero corso della speculazione teologica, morale e scientifica occidentale. Contro tale architettura bimillenaria si è levato Friedrich Nietzsche, con la veemenza di un pensiero assoluto e la potenza dissolvitrice di una critica implacabile, spingendo alle estreme conseguenze il rifiuto di ogni dualismo e reclamando, con voce tragica, il riscatto del divenire sul mito dell’eterno.


come decadenza dall’originaria giustizia, ma anche come possibilità di recupero, attraverso l’imitazione della vita di Cristo e degli Apostoli. La Chiesa, dunque, dovrebbe essere il luogo in cui questa memoria evangelica viene custodita e praticata. Se, però, essa assume i modelli del mondo, si trasforma in potere secolare e si comporta come un qualsiasi attore politico, perdendo la propria funzione salvifica. Solo attraverso la rinuncia radicale alla proprietà e al dominio, la comunità cristiana può tornare a essere ciò che era stata all’inizio: una fraternità fondata sulla carità e sulla giustizia.