Archivio mensile:Giugno 2025

Diogene il Cinico

Uomo, filosofo, provocatore

 

 

 

Diogene di Sinope, meglio conosciuto come il Cinico, è certamente una delle figure più eccentriche e iconoclastiche della filosofia antica. Nato intorno al 412 a.C. a Sinope, città greca sul Mar Nero, fu discepolo di Antistene, il fondatore della scuola cinica. La filosofia cinica, che Diogene incarnò con estrema dedizione, si fonda su una critica radicale della società e dei suoi valori, favorendo, invece, la semplicità, l’autosufficienza e la virtù come unica vera ricchezza.
Diogene è famoso per la sua vita austera e per i molti aneddoti che lo vedono protagonista, spesso con intenti provocatori. Si dice che vivesse in una botte, rifiutando qualsiasi tipo di comodità materiale. Una delle storie più celebri narra dell’incontro con Alessandro Magno. Quando il re macedone, incuriosito dalla fama del filosofo, gli chiese se potesse fare qualcosa per lui, Diogene rispose semplicemente: “Sì, scansati, perché mi stai togliendo il sole”. Questa risposta incarna perfettamente l’atteggiamento cinico di Diogene verso il potere e la ricchezza, considerati irrilevanti rispetto alla libertà e alla felicità derivanti dall’autosufficienza.


La filosofia di Diogene si basa su pochi principi cardine, che mettono in discussione i valori convenzionali della società.
Credeva che la vera felicità fosse raggiungibile solo attraverso l’autosufficienza. Rifiutava il superfluo e viveva con il minimo indispensabile, dimostrando che la felicità non dipende dalle ricchezze materiali. Sfidava apertamente le norme e le convenzioni sociali. Per lui, le leggi e i costumi erano spesso artifici inutili che distoglievano gli individui dalla ricerca della vera virtù.
Seguendo la lezione di Socrate, considerava la virtù come l’unica vera ricchezza. Per lui, vivere secondo natura e in armonia con essa era l’obiettivo principale dell’esistenza.
Diogene praticava e promuoveva la parresia, la franchezza radicale nel dire la verità. Questo atteggiamento lo portava spesso a scontrarsi con le autorità e con i benpensanti del suo tempo.
Diogene è ricordato non solo per la sua vita ascetica e i suoi comportamenti provocatori, ma anche per l’impatto duraturo delle sue idee. La sua critica della società e delle sue ipocrisie ha influenzato molte correnti filosofiche successive, tra cui lo stoicismo. Inoltre, la sua figura continua a essere un simbolo di ribellione contro l’ingiustizia e l’irrazionalità, ispirando artisti, pensatori e ribelli di ogni epoca.
Diogene, quindi, non è solo un personaggio storico, ma un emblema della ricerca della verità e della virtù contro le convenzioni e le illusioni del mondo. La sua vita e la sua filosofia invitano a riflettere su ciò che veramente conta e su come si possa vivere in maniera più autentica e significativa.

 

 

 

L’era dei tiranni

La forza che rimodellò le poleis greche

 

 

 

 

Nel mondo delle poleis greche, tra l’VIII e il VI secolo a.C., emerse una figura politica tanto affascinante quanto controversa: il tiranno. Contrariamente all’accezione negativa moderna del termine, nella Grecia antica il tiranno non era necessariamente un sovrano crudele o ingiusto, ma piuttosto un individuo che riusciva a prendere il potere attraverso mezzi non convenzionali, come il supporto popolare o i colpi di stato, rompendo gli equilibri tradizionali delle aristocrazie.
L’ascesa dei tiranni nelle poleis greche è strettamente legata ai cambiamenti socio-politici che caratterizzarono il periodo arcaico. Le città-stato erano governate da élite aristocratiche che monopolizzavano il potere economico e politico, provocando malcontento tra le classi meno abbienti. La crescente importanza delle nuove forze sociali, come i mercanti e gli artigiani, innescò una pressione per una distribuzione più equa del potere. In questo contesto, i tiranni emersero spesso come “uomini forti”, capaci di sfruttare le tensioni sociali a loro favore. Offrivano promesse di riforme economiche, riduzione delle disuguaglianze e protezione contro gli abusi dei nobili. Il progresso tecnologico, come la diffusione della falange oplitica, favorì inoltre l’ascesa di capi militari che, grazie al sostegno degli opliti (soldati-cittadini), riuscivano a imporsi come tiranni. A differenza delle monarchie ereditarie, i tiranni spesso provenivano da famiglie non aristocratiche, ma erano abili nel costruire consenso popolare e nel garantire l’ordine.


Una volta al potere, questi adottavano politiche che spesso erano innovative per il loro tempo. Molti di loro erano riformatori che cercavano di migliorare le condizioni di vita della popolazione. Pisistrato ad Atene, per esempio, fu noto per le sue riforme agrarie, la promozione di opere pubbliche e il sostegno alle arti, che contribuirono a consolidare il suo potere. Sotto i tiranni, le città spesso prosperavano economicamente e vedevano una crescita culturale significativa.
In molte poleis, la tirannide non solo favoriva la coesione sociale, ma anche lo sviluppo economico e infrastrutturale. Il tiranno era in grado di far costruire templi, strade e porti, creando posti di lavoro e migliorando la qualità della vita urbana. Città come Corinto e Sicione, sotto la guida di tiranni come Periandro e Clistene, divennero potenti centri commerciali e culturali.
D’altro canto, la tirannide aveva anche lati negativi. Sebbene molti tiranni cercassero di mantenere il consenso attraverso riforme, il loro governo era spesso visto come illegittimo dagli aristocratici, che percepivano la perdita del loro potere tradizionale. Per preservare il potere, alcuni tiranni dovettero ricorrere a pratiche autoritarie, come l’uso di guardie mercenarie e la repressione degli oppositori politici. Questo creò un clima di instabilità a lungo termine.
Uno dei casi più celebri di tirannia nella Grecia antica è quello di Pisistrato ad Atene. Pisistrato, che governò la città in tre diverse fasi tra il 561 e il 527 a.C., rappresenta un esempio di come un tiranno potesse consolidare il proprio potere attraverso una combinazione di abilità politica, riforme sociali e sostegno popolare. Pisistrato riuscì a prendere il potere in un contesto di profonde divisioni politiche tra le varie fazioni aristocratiche ateniesi. Dopo un primo colpo di stato, fu brevemente esiliato, ma riuscì a tornare più volte al potere grazie all’appoggio popolare e alla sua astuzia. Durante il suo governo, implementò una serie di riforme, che miravano a migliorare la vita dei cittadini più poveri. Redistribuì terre, ridusse le tasse e promosse opere pubbliche, come la costruzione di acquedotti e templi. Favorì anche la cultura e la religione, sostenendo i culti locali e le celebrazioni religiose come le Panatenee, una sorta di festival che celebrava l’identità ateniese. Sotto il suo governo, Atene iniziò a emergere come un importante centro culturale, ponendo le basi per il successivo splendore dell’epoca classica. Alla morte di Pisistrato, il potere passò ai suoi figli, Ippia e Ipparco. Tuttavia, il regime dei due fratelli non riuscì a mantenere lo stesso equilibrio politico e, nel 514 a.C., Ipparco fu assassinato. Il governo tirannico di Ippia divenne sempre più repressivo, e nel 510 a.C., con l’aiuto degli spartani, il regime tirannico fu definitivamente abbattuto. La caduta dei Pisistratidi aprì la strada alle riforme democratiche di Clistene, che riorganizzarono il sistema politico ateniese per evitare il ritorno di un governo autocratico. L’esperienza tirannica, seppur breve, lasciò un’impronta indelebile sulla storia ateniese, poiché dimostrò i pericoli ma anche le potenzialità di un governo che andava oltre i confini tradizionali dell’aristocrazia.
Nel corso del VI secolo a.C., il fenomeno della tirannide iniziò a declinare in molte poleis greche. Le ragioni di questo declino furono varie. Innanzitutto, la crescente opposizione delle aristocrazie depotenziate e la nascita di nuove forme di partecipazione politica, come la democrazia ad Atene, ridussero l’appoggio popolare ai tiranni. Le riforme di Clistene, che posero le basi per la democrazia ateniese, furono direttamente volte a prevenire il ritorno della tirannide. In altre poleis, i tiranni vennero rovesciati da coalizioni di forze aristocratiche o da interventi esterni. Un esempio celebre è la caduta dei tiranni di Siracusa e Corinto, dove il potere fu nuovamente concentrato nelle mani delle oligarchie. Tuttavia, in molti casi, la fine della tirannide non segnò un ritorno stabile al potere aristocratico, ma piuttosto favorì una più ampia partecipazione politica dei cittadini.
Il fenomeno della tirannide nelle poleis greche è dunque un esempio della complessità delle dinamiche politiche nell’antica Grecia. Se da un lato i tiranni rappresentarono una rottura rispetto al tradizionale governo aristocratico, dall’altro furono protagonisti di importanti riforme sociali e culturali che influenzarono profondamente lo sviluppo delle città-stato. Atene, con il suo esempio di Pisistrato, mostra come la tirannia potesse anche stimolare la crescita economica e culturale, pur finendo per spianare la strada alla nascita della democrazia, una delle eredità politiche più durature del mondo antico.

 

 

 

 

Fenomenologia di Lorenzo Tosa

 

 

 

 

Nell’attuale panorama dei sistemi di comunicazione, l’informazione si ibrida progressivamente con l’emozione. I confini tra cronaca, intrattenimento e partecipazione emotiva si fanno sempre più sfumati, trasformando il consumo dei contenuti in esperienza affettiva. I social network non sono più soltanto strumenti di condivisione quanto veri e propri ambienti narrativi immersivi, tanto che i creator digitali spesso agiscono come mediatori affettivi tra il fatto e il pubblico: non si limitano a riportare eventi, li reinterpretano attraverso la lente della propria identità e sensibilità, costruendo narrazioni che mirano non tanto a informare piuttosto a coinvolgere, a scuotere La loro comunicazione bypassa i canali tradizionali del giornalismo, scavalcando la logica della verifica e dell’obiettività, per attivare un circuito più rapido e potente: quello dell’empatia, dove il fatto perde centralità come oggetto neutro di racconto e si trasforma in catalizzatore di emozioni. Il contenuto non è più fine a se stesso ma viene modellato in funzione di un impatto emotivo. Così, ogni post, video o storia assume una valenza rituale: non trasmette soltanto un messaggio, cerca di generare una risposta viscerale, una presa di posizione netta, una reazione intensa, che sia di consenso o di rigetto. Il like, il commento indignato o violento, la condivisione virale non sono effetti collaterali: sono il vero obiettivo. In questo ecosistema narrativo-emotivo, il valore dell’informazione viene ridefinito secondo parametri relazionali e la verità, quando può essere sacrificata sull’altare dell’engagement, diventa sovente negoziabile.

Uno dei casi più emblematici in Italia è rappresentato da Lorenzo Tosa. Per questo, come fatto da Umberto Eco, nel 1961, con Mike Bongiorno, si fissano qui i tratti della “Fenomenologia di Lorenzo Tosa”.

 

 

Lorenzo Tosa è una figura a metà strada tra il cronista e il predicatore laico. Non scrive per raccontare i fatti: scrive per trasmettere un senso: il suo. I suoi post non sono aggiornamenti ma sermoni. Si presentano con l’umiltà del “vi racconto una cosa successa oggi” e si concludono con la solennità di un invito morale dall’esito già direzionato. Ogni contenuto social è costruito come un piccolo rito collettivo, in cui si entra lettori e si esce con la certezza di essere persone migliori, le persone migliori. A differenza del giornalista classico, che rincorre la notizia, Tosa rincorre il (suo) senso di umanità nella notizia. Il fatto in sé non basta: dev’essere trasfigurato in simbolo e in testimonianza. L’importante non è che la storia sia esattamente vera, quanto che sembri vera a chi già la sente tale e collimata con la propria morale, tanto che la verosimiglianza diviene forma superiore di verità, perché si radica nelle emozioni condivise e non nei documenti.
Le storie di Tosa sono a canovaccio fisso: in alcune (poche) ci sono eroi della quotidianità (spesso immigrati, disabili, insegnanti, rider, donne col pancione su un treno regionale, sportivi che compiono un’impresa) o gesti piccoli ma potentissimi (un sorriso, un aiuto, una frase detta col cuore). Nella maggior parte di esse, invece, c’è il nemico esplicito (il governo Meloni, Salvini, i partiti che li sostengono, l’amministrazione Trump, quella Netanyahu e, più in generale, qualunque cosa sulla Terra non sia totalmente dem, liberal, too, matters, woke, peace, eccetera) e si concludono ciascuna nel medesimo modo, ovvero, con la lezione morale: sono tutti brutti, sporchi e cattivi, loro! Non importa se la storia regga o meno a un fact-checking: regge all’incitamento ideologico. Che basta così ed è meglio.
Lo stile di Lorenzo Tosa è emotivo, musicale, ritmico. Le sue frasi non si leggono: si ascoltano nella mente come una voce dolce e partecipe. Ogni post è costruito con una struttura precisa, pensata per far salire la tensione emotiva fino alla catarsi finale. Si comincia con una constatazione semplice, quasi dimessa: “Lo so, ci sono giorni in cui è difficile credere nell’umanità… Poi arriva la svolta: “Ma poi succede qualcosa…”. Infine, la rivelazione: “E allora ho capito che il vero privilegio è non essere come loro”.
Questa forma di scrittura lirico-morale è studiata per generare immedesimazione. Le pause sono strategiche. Gli spazi sono inviti al respiro, al raccoglimento, all’attesa di una verità che, sebbene ritenuta già posseduta da chi l’aspetta, inevitabilmente arriverà e sarà solo quella. Le parole chiave non cambiano mai: “dignità”, “umanità”, “diritto”, “verità”, “vergogna”, “incapacità”. Non sono concetti ma segnali. Servono a dire al lettore: “Sei nel posto giusto. L’unico posto giusto!”.
Chi segue Lorenzo Tosa non cerca informazioni, cerca conferme emotive. Il suo pubblico è composto da militanti-credenti. Non combattono battaglie, coltivano le proprie certezze. Il follower tipo ha il profilo con la bandiera della Palestina o quella arcobaleno, oppure entrambe. Condivide i suoi post con un’introduzione tipo “Leggete. E riflettete.” Oppure semplicemente: “❤”.
La comunità che lo sostiene è affettuosa, quasi liturgica. Ogni post riceve processioni di commenti in cui lo si ringrazia, ci si indigna, si amplifica l’offesa e l’odio verso chi non è ideologicamente allineato. Il rapporto tra autore e follower è simile a quello tra predicatore e fedeli: chi scrive indica la via, chi legge si sente parte di una comunità di eletti in un mondo al contrario.
Lorenzo Tosa non vuole convincere e non ne ha invero bisogno, perché convinti già lo sono tutti quanti lo seguono. È il balsamo di chi ha il cuore a sinistra ma non ha il coraggio di ammettere a se stesso che questa sinistra deve essere ripensata e ricostruita. È la coperta emotiva di chi non ha smesso di credere nella rivoluzione, eppure non la farà mai perché non è più di moda.
Tosa non fa notizia. Fa sentire. E oggi, nel mercato social, questa è l’unica merce che non va mai in saldo!

 

 

 

 

 

L’estetica del male

La rivoluzione poetica di Charles Baudelaire

 

 

 

 

Charles Baudelaire è stato uno spartiacque determinante nella storia della poesia. Con Les fleurs du mal (1857) ha rivoluzionato la lirica francese, ridefinendo, altresì, il ruolo stesso del poeta, spingendolo ai margini della società borghese e trasformandolo in testimone e vittima delle contraddizioni della modernità. Baudelaire non è soltanto il cantore dell’estetismo decadente o il padre del simbolismo: è il primo poeta che assume come oggetto la dissonanza, la frattura, l’impossibilità dell’armonia. La sua poetica è il tentativo estremo di salvare la bellezza in un mondo in rovina, di trovare l’assoluto nel fango, di cantare l’orrore senza negarlo.
Baudelaire scrive in un periodo di radicale trasformazione. La Parigi del Secondo Impero, modernizzata da Georges Eugène Haussmann, si espande, si industrializza, si velocizza. Il poeta si trova di fronte a una società in cui il progresso tecnico e scientifico produce nuove forme di alienazione e omologazione. La sua risposta non è nostalgia ma consapevolezza tragica. La modernità non è una stagione felice ma un processo di disgregazione inarrestabile. Come ha affermato Walter Benjamin, Baudelaire è il primo a trasformare l’esperienza dello shock urbano in materiale poetico. Non più la natura ma la folla, il rumore, la velocità, il mutamento incessante diventano oggetti della poesia. Nel suo Salon de 1846, Baudelaire scrive che la modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente – ma aggiunge che il compito dell’artista è proprio quello di cogliere l’eterno nel transitorio. La poesia, quindi, non può più rifugiarsi nell’idillio o nell’astratto: deve confrontarsi con l’instabile, con l’informe, con il presente.
Il titolo della sua raccolta più celebre, Les fleurs du mal, contiene già la sintesi di tutta la poetica baudeleriana: il male può dare origine a fiori, la bruttezza può essere trasfigurata, il dolore può diventare arte. Ma non c’è sublimazione: il male non viene negato, solo osservato, sezionato, trasfigurato. In poesie come Une charogne (Et le ciel regardait la carcasse superbe comme une fleur s’épanouir), la decomposizione del corpo femminile viene descritta con crudezza anatomica, ma anche con uno sguardo estetico che ne coglie la tragica bellezza. È qui che la poetica di Baudelaire tocca una delle sue vette: la bellezza è inseparabile dall’orrore. Questa tensione è la chiave della sua concezione dell’arte: il bello non è ciò che consola ma ciò che inquieta, che mette a nudo il dolore esistenziale. Il poeta è un esploratore dell’abisso, non un sacerdote dell’armonia.
La dialettica tra “Spleen” e “Ideale” è la struttura portante dell’intera opera. Lo Spleen rappresenta la noia, la paralisi, il tedio metafisico che assale l’uomo moderno. Non è semplice malinconia ma nausea dell’esistenza. In poesie come Spleen (Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle…), il cielo è come un coperchio che opprime l’anima, lo spazio si deforma, il tempo si blocca. È la descrizione di una condizione claustrofobica, in cui il soggetto è divorato dall’inutilità del vivere. All’opposto, L’idéal (Ce ne seront jamais ces beautés de vignettes… qui sauront satisfaire un cœur comme le mien), canta l’aspirazione alla bellezza, alla purezza, all’assoluto. Ma l’ideale è continuamente negato dalla realtà. Il poeta è, quindi, una figura tragica, condannata a desiderare ciò che non può raggiungere. Questa frattura interna, questa scissione dell’io, rende la poesia di Baudelaire profondamente moderna: l’unità è persa per sempre.

Parigi non è solo sfondo ma protagonista. Nei Tableaux Parisiens, una delle sezioni de Les fleurs du mal, la città viene rappresentata come un luogo di spettacolo e degrado, di solitudine e metamorfosi. Il poeta-flâneur vaga tra i boulevard, osserva mendicanti, prostitute, ubriachi, passanti anonimi. La città è una macchina che produce identità instabili e relazioni fugaci. Non c’è più comunità ma solo individui isolati che si incrociano senza toccarsi davvero. In À une passante (Fugitive beauté dont le regard m’a fait soudainement renaître), la figura femminile è colta nell’attimo, in un lampo di bellezza che svanisce subito: la fugace bellezza il cui sguardo mi ha fatto rinascere. È una visione che contiene tutta la modernità: frammento, velocità, perdita.
Con la poesia Correspondances (La Nature est un temple où de vivants piliers laissent parfois sortir de confuses paroles), Baudelaire consegna una delle intuizioni più fertili della poesia moderna: il mondo è un insieme di simboli, di corrispondenze segrete tra le cose. I sensi non sono compartimenti separati ma comunicano tra loro: suoni, profumi, colori si mescolano in una sinestesia percettiva. Questo porta a un’idea del linguaggio poetico come evocazione, non descrizione. Il poeta è colui che sa leggere dietro le apparenze, che coglie l’invisibile nel visibile. È qui che nasce il simbolismo, che avrebbe permeato tutta la poesia europea del XX secolo. Eppure in Baudelaire c’è ancora il senso del limite: il simbolo non è mai pienamente afferrabile, l’unità del mondo è solo intuito, non conquistato.
Baudelaire rifiuta l’idea borghese del poeta come figura “utile” o decorativa. Il poeta è un emarginato, un escluso, un essere in eccesso. In L’Albatros (Le Poète est semblable au prince des nuées qui hante la tempête et se rit de l’archer) il poeta è paragonato al grande uccello marino, maestoso in volo e ridicolo a terra, zimbello della ciurma. Questa è la condizione del poeta nella società moderna: inadatto, fuori luogo, deriso. Ma è proprio questa esclusione che fa del poeta una figura visionaria. Non potendo integrarsi è costretto a guardare più in profondità, a diventare un veggente. Rimbaud, nella sua Lettre du Voyant, dichiarerà apertamente di voler portare avanti il programma baudeleriano.
Baudelaire è stato letto come precursore del simbolismo, del decadentismo, del modernismo. Ma la sua eredità va oltre le correnti letterarie. È il primo a porre al centro della poesia la crisi dell’identità, la frammentazione del soggetto, l’angoscia del tempo. La sua è una poesia della perdita, non della celebrazione. Il suo lascito non è uno stile ma un problema: come continuare a scrivere poesia in un mondo desacralizzato? Autori come T.S. Eliot, Paul Valéry, Fernando Pessoa, Pier Paolo Pasolini e perfino cantautori come Fabrizio De André devono qualcosa a Baudelaire. Non solo nella forma ma nell’atteggiamento: la poesia come esercizio di verità, come lotta contro l’anestesia dell’anima.
La poetica di Baudelaire non offre consolazioni ma strumenti per guardare in faccia l’oscurità. È una poesia fatta di fratture, di tensioni insanabili, di luci accecanti e abissi profondi. In un tempo come il nostro, segnato da nuove forme di disorientamento, la sua voce resta più che mai necessaria. Non per indicarci una via d’uscita ma per insegnarci a stare nel conflitto, nella bellezza feroce delle cose che finiscono.

 

 

 

 

Rimpalli

 

 

Recensione di Riccardo Piroddi

 

 

 

La felicità è una fortuna, donata da una divinità misteriosa, che accade all’improvviso. La fortuna, per essere felicità, bisogna averla sognata. La felicità non si può trattenere, svanisce in fretta e ritorna nel mistero dal quale proviene”.
Così si conclude il primo, fulminante capitolo di Rimpalli, di Teodoro Lorenzo, Voglino Editrice, 2024. Subito è già chiaro: questo non è solo un libro di ricordi d’infanzia, né un’autobiografia sportiva e nemmeno una raccolta di aneddoti nostalgici. È un romanzo-saggio, una narrazione a più livelli dove l’autore, con voce limpida e strutturalmente meditata, affronta grandi temi – felicità, identità, appartenenza, memoria – attraverso una lente originale: quella del pallone.
Il narratore è dichiaratamente l’autore ma il suo “io” narrativo si muove su più piani: è il bambino che corre in Piazzetta, l’adolescente che si forma tra Supersantos e rigori, il giovane che riflette sulla propria città e sul proprio Paese ed è, infine, l’uomo maturo, che guarda indietro e cerca, in ciò che è stato, un significato duraturo.
La struttura è lineare solo in apparenza. La divisione in capitoli non segue una progressione cronologica rigida ma è scandita da snodi tematici forti: la felicità, il trasferimento da via Bogino a Mirafiori, l’ingresso nella Piazzetta, la figura di Anastasi, il giudizio sulla città di Torino. Ogni sezione è un tassello che costruisce un’identità, più che una trama.
L’analisi della felicità nel primo capitolo è una sorta di saggio filosofico in forma narrativa. L’autore parte da un’ora precisa – le 17:28 del 4 maggio 1986 – per costruire un percorso etimologico, storico e mitologico che prende avvio dal latino felix, passa per l’inglese happiness e torna all’Iliade e a Sofocle. È un’apertura che impone al lettore uno standard alto: Rimpalli non sarà un tuffo infantile nel passato ma un’indagine esistenziale in cui ogni dettaglio biografico sarà caricato di senso. La corsa di Tardelli, nella finale dell’82, diventa l’incarnazione esemplare di questa definizione: evento inatteso, sognato, totalizzante, solitario, fugace. Ed è proprio in questo paradigma che il narratore riconosce la propria esperienza personale, in quel gol segnato ad Alessandria nel 1986, dove anche lui corre, urla, si perde, senza che i compagni lo raggiungano. Il cuore del libro è costituito dai capitoli ambientati nella Piazzetta di Mirafiori. È un’epopea minuta, narrata con precisione antropologica ma anche con tenerezza asciutta. Non c’è nostalgia patetica né estetizzazione del degrado: la Torino degli anni ’70 è descritta per quella che era, una città operaia, ruvida, povera ma vitale. Il cortile prima e la Piazzetta poi diventano l’universo formativo: scuola, campo, arena sociale e palcoscenico. I dettagli sono puntuali e parlano una lingua viva. Le partite con il gesso a disegnare le aree, le infinite discussioni sui gol “alti” o “a mezza altezza”, la minaccia dell’ispettore Fumarola, le pistole ad acqua che si sformano dopo il primo spruzzo, la prima bicicletta – una Graziella da donna – pagata in giornalini. E proprio i giornalini, come le figurine, diventano moneta, misura di status e desiderio. La Piazzetta è un’economia parallela e una società con regole proprie, capace di autogestione e persino di redistribuzione. La narrazione è disseminata di personaggi che sembrano usciti da una novella neorealista: Facciolà, con i suoi oggetti sempre nuovi; Alfredo, che sposta di nascosto i pali per stringere la porta; Franco e Claudia, che svaniscono nella memoria come apparizioni infantili.
Uno dei passaggi più potenti è la riflessione sulla natura rivelatoria del gioco del calcio. A differenza della vita, dove si può mentire, recitare, dissimulare, sul campo non si può fingere. “Si gioca come si è”: questa frase è la chiave di lettura dell’intero libro. Il calcio è verità, messa a nudo. I tratti del carattere – generosità, egoismo, aggressività, riflessività – emergono nitidi in ogni azione. È qui che si inserisce la figura di Pietro Anastasi, eroe personale dell’autore. Lorenzo lo descrive con lucidità tecnica (lo stop difettoso, la rapidità di recupero) ma anche con commozione esistenziale. In lui riconosce se stesso e una generazione di figli del Sud trapiantati al Nord. Il gol del ‘68 diventa un simbolo, così come la sua morte scelta e dignitosa. “E con la solita sveltezza si è impossessato del pallone e ha segnato il suo ultimo gol. Beffando anche la morte”, scrive Lorenzo, e non è retorica: è una sintesi perfetta dell’etica che attraversa tutto il libro.

Nella parte finale, Lorenzo sposta lo sguardo dalla Piazzetta al contesto più ampio: Torino. Qui il registro diventa civile e storico, quasi pamphlettistico. L’autore descrive la sua città come prigioniera di una cultura elitaria, gerarchica, che non premia il merito ma l’appartenenza. I Savoia, il Risorgimento, l’estetica militare, i monumenti nel centro: tutto è visto con rispetto ma anche con disincanto. La critica alla Juventus – che scarica Anastasi quando non serve più – è, in realtà, un atto d’accusa verso una Torino che consuma e abbandona, che non perdona l’origine proletaria, che fa crescere i suoi figli solo fino a una certa soglia.
Lorenzo scrive con chiarezza, senza vezzi, senza manierismi. Ogni pagina ha ritmo, senso, misura. I riferimenti colti (Sofocle, Omero, etimologie) non appesantiscono mai il discorso: si integrano con naturalezza. Le pagine dedicate alla Piazzetta sono tra le migliori sul tema dell’infanzia urbana. Il tono cambia quando necessario: ironico con Facciolà, struggente con Anastasi, lucido con i Savoia, poetico con Claudia e Franco. Ma è sempre coerente e controllato. È il tono di chi scrive perché ha qualcosa di vero da dire, non per stupire o dimostrare.
Rimpalli è un libro unico. Chi ama il calcio vi troverà la bellezza di un gesto tecnico che si fa esistenziale. Chi ama la letteratura vi troverà una lingua autentica e precisa. Chi cerca una testimonianza sulla Torino operaia del dopoguerra vi troverà un documento sociale. Ma, soprattutto, chi ha vissuto (o sognato) un’infanzia fatta di piazzette, palloni bucati e amici con nomi in codice, vi troverà se stesso. È, infine, un libro sull’identità: personale, generazionale, cittadina. Un libro sulla felicità come scatto improvviso, sul dolore della perdita, sulla bellezza delle cose che non tornano più.

 

 

 

 

Le Rime Petrose

Metafisica del desiderio e del linguaggio nel giovane Dante

 

 

 

 

In questo mio ultimo saggio, appena pubblicato da HARbif Editore, analizzo le Rime Petrose di Dante Alighieri (quattro componimenti) quale momento cruciale di rottura rispetto allo stilnovismo e anticipazione della Divina Commedia. Dante, con un linguaggio aspro e sperimentale, affronta un amore crudele e non corrisposto, che si traduce in una poetica della frattura e della pietrificazione. La figura femminile diventa simbolo di inaccessibilità e gelo cosmico, mentre il linguaggio poetico riflette il fallimento del desiderio e della comunicazione. Le Petrose costituiscono, così, un laboratorio linguistico e concettuale, chiave per comprendere l’evoluzione dell’opera dantesca fino alla Commedia.

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La fine del «mondo vero»

Nietzsche e la genealogia della verità

 

 

Per il dott. Francesco Musolino

 

 

 

 

Nel cuore della tradizione filosofica occidentale, sin dall’epoca di Platone, pulsa una distinzione radicale e solenne: la contrapposizione tra il mondo dell’apparenza – transiente, imperfetto, legato ai sensi – e il mondo della verità – eterno, perfetto, conoscibile solo tramite la pura attività intellettuale. Questa cesura ontologica, elevata a cardine della metafisica, ha proiettato la propria ombra sull’intero corso della speculazione teologica, morale e scientifica occidentale. Contro tale architettura bimillenaria si è levato Friedrich Nietzsche, con la veemenza di un pensiero assoluto e la potenza dissolvitrice di una critica implacabile, spingendo alle estreme conseguenze il rifiuto di ogni dualismo e reclamando, con voce tragica, il riscatto del divenire sul mito dell’eterno.
In Il crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello (1889), nel celebre capitolo V, intitolato Come il «mondo vero» diventò infine favola, il filosofo mette in scena il crollo di un concetto e, di più, la dissoluzione di un intero orizzonte culturale. Nietzsche, infatti, non si limita a confutare la metafisica dal punto di vista teorico: ne consegna una diagnosi storica e psicologica, una genealogia. Il “mondo vero”, lungi dall’essere una scoperta filosofica o una verità rivelata, si palesa essere una costruzione simbolica nata dal rifiuto della vita. L’intero edificio metafisico occidentale viene così smontato pezzo per pezzo, svelando le sue fondamenta morali, la sua origine reattiva e il suo uso ideologico.
Per comprendere la radicalità del pensiero di Nietzsche è necessario abbandonare la lettura puramente speculativa della filosofia e adottare quella genealogica. Con questa chiave interpretativa, Nietzsche scava nelle motivazioni nascoste che hanno portato l’uomo a costruire l’idea di un “mondo vero”. La sua ipotesi è spiazzante: il “mondo vero” non nasce dalla volontà di conoscere ma dalla paura e dal risentimento nei confronti della realtà.
Platone, con la sua teoria delle Idee, è l’archetipo di questa reazione. La svalutazione del mondo sensibile in favore del mondo delle forme eterne è sintomo della volontà di fuga, della negazione del divenire e della sofferenza. Con il cristianesimo, questa struttura si trasforma in una dottrina salvifica: il mondo vero è il Regno dei Cieli, promesso a chi si sottomette alla legge divina. Nietzsche chiama questo atteggiamento “nihilismo ascetico”: una volontà di annullare il mondo reale per sottometterlo a un ordine superiore immaginario. La metafisica, fino a Kant, non è altro che la prosecuzione di questa fuga in forme sempre più sofisticate. Anche l’idealismo tedesco, pur ribaltando alcune categorie classiche, conserva la struttura dualistica tra mondo fenomenico e assoluto. Nietzsche, invece, taglia il nodo alla radice: non c’è nessun mondo oltre il mondo. La realtà è il divenire. Ecco le sue parole*:

Storia di un errore

  1. Il mondo vero, attingibile dal saggio, dal pio, dal virtuoso, – egli vive in esso, lui stesso è questo mondo.

(La forma più antica dell’idea, relativamente intelligente, semplice, persuasiva. Trascrizione della tesi “Io, Platone, sono la verità”).

  1. Il mondo vero, per il momento inattingibile, ma promesso al saggio, al pio, al virtuoso (“al peccatore che fa penitenza”).

(Progresso dell’idea: essa diventa più sottile, più capziosa, più inafferrabile – diventa donna, si cristianizza…).

  1. Il mondo vero, inattingibile, indimostrabile, impromettibile, ma già in quanto pensato una consolazione, un obbligo, un imperativo.

(In fondo l’antico sole, ma attraverso nebbia e scetticismo; la idea sublimata, pallida, nordica, königsbergica).

  1. Il mondo vero – inattingibile. Comunque non raggiunto. E in quanto non raggiunto, anche sconosciuto. Di conseguenza neppure consolante, salvifico, vincolante: a che ci potrebbe vincolare qualcosa di sconosciuto?…

(Grigio mattino. Primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo del positivismo).

  1. Il “mondo vero” – un’idea, che non serve più a niente, nemmeno più vincolante – un’idea divenuta inutile e superflua, quindi un’idea confutata: eliminiamola!

(Giorno chiaro; prima colazione; ritorno del ‘bon sens‘ e della serenità; Platone rosso di vergogna; baccano indiavolato di tutti gli spiriti liberi).

  1. Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? forse quello apparente?… Ma no! col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!

(Mezzogiorno; momento dell’ombra più corta, fine del lunghissimo errore; apogeo dell’umanità: INCIPIT ZARATHUSTRA).

* Il crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello, a cura di G. Turco Liveri, Armando Editore, 1997, pp. 107-108.

Ogni passaggio corrisponde tanto a una fase storica del pensiero occidentale quanto a una trasformazione del modo in cui l’umanità ha inteso il rapporto tra realtà e verità.

  • Il mondo vero accessibile ai saggi – La verità come premio di un percorso morale e razionale: la posizione di Platone e dei grandi sistemi antichi.
  • Il mondo vero promesso ai pii – Spostamento della verità nell’aldilà, come consolazione per il dolore terreno: il cristianesimo.
  • Il mondo vero inconoscibile – Il criticismo kantiano sancisce il limite della ragione: il noumeno esiste ma non è conoscibile.
  • Il mondo vero inutile – L’idealismo e il positivismo cominciano a emanciparsi dal bisogno di un assoluto trascendente.
  • Il mondo vero abolito – Nietzsche porta a termine la decostruzione: la verità assoluta è una costruzione culturale, non una realtà.
  • Con esso scompare anche il mondo apparente – Crolla la struttura stessa della dicotomia: non essendoci un mondo vero non ha senso nemmeno parlare di apparenza. Rimane solo il mondo nella sua ambiguità.

Questa parabola non è solo filosofica ma esistenziale: il “mondo vero è morto” e con lui ogni pretesa di fondamento ultimo. Nietzsche chiama questo punto il crepuscolo degli idoli, cioè la fine di tutte le certezze ingannevoli che hanno guidato l’uomo.
Eliminato il “mondo vero”, la filosofia nietzschiana si ri-fonda su due pilastri: il prospettivismo e la volontà di potenza. Il primo afferma che non esiste una verità oggettiva e assoluta ma solo interpretazioni. Ogni sapere è situato, ogni conoscenza è un’espressione di un punto di vista. Il secondo concetto, la volontà di potenza, esprime la natura fondamentale della realtà: non materia o spirito ma energia in continua trasformazione, spinta all’auto-superamento. Anche la conoscenza è una forma di volontà di potenza: conoscere significa organizzare il caos, costruire senso, affermare una forma. La verità, pertanto, non è una corrispondenza tra il pensiero e l’essere ma un processo attivo, una creazione. In questo senso, Nietzsche è un precursore di una filosofia attiva, performativa, non rappresentativa.
L’abolizione del “mondo vero” implica altresì una trasformazione radicale dell’etica. Se non esiste un ordine superiore, eterno, giusto in sé, allora ogni sistema morale fondato su un principio assoluto (come la legge divina o la ragione universale) crolla. Nietzsche definisce morale da schiavi quella che nasce dal risentimento verso la vita e che eleva a valore il sacrificio, l’umiltà, l’obbedienza. La sua alternativa è la morale dei signori: un’etica dell’affermazione, della creazione di nuovi valori, della potenza vitale. Questa prospettiva non è un semplice edonismo, quanto una concezione tragica della vita: accettare la sofferenza, la contraddizione, la morte, senza cercare rifugi consolatori.
Con la morte del mondo vero nasce la possibilità dell’Oltreuomo: colui che non ha bisogno di verità assolute, che vive come artista della propria esistenza, che trasforma il caos in forma.
La filosofia di Nietzsche, quindi, non è un nichilismo distruttivo ma un tentativo di oltrepassare il nichilismo emotivo generato dalla metafisica. La fine del “mondo vero” è una liberazione: restituisce al mondo reale, concreto, mutevole. Chiede di abitare la terra senza nostalgia per il cielo, di trovare senso nella vita stessa, non in un aldilà. Nietzsche non propone un nuovo dogma ma un nuovo sguardo: uno sguardo forte abbastanza da sostenere l’assenza di garanzie e abbastanza creativo da costruire senso dove prima c’era solo consolazione. Ecco perché la sua è una filosofia del futuro: prepara a vivere dopo la verità, nel tempo dell’interpretazione, del conflitto, della potenza.

 

 

 

 

 

L’amore in Spinoza

La forza che unisce individuo, natura e divino

 

 

 

 

L’amore, secondo Spinoza, è un affetto che si radica profondamente nella nostra capacità di comprendere e interagire con il mondo. Nel suo capolavoro, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico (1677), lo definisce come «gioia concomitante con l’idea di una causa esterna». Spinoza, quindi, colloca l’amore tra gli affetti, quelle modificazioni della mente che aumentano la nostra potenza di agire. L’amore non è un semplice sentimento individuale, ma un’esperienza relazionale che ci rende più vivi, più attivi e più immersi nella realtà. Esso si manifesta come un movimento verso l’alterità, guidato dal desiderio, che il filosofo concepisce come una tensione naturale verso ciò che ci completa e ci arricchisce.
Nell’Etica, Spinoza attribuisce all’amore una dimensione virtuosa, fondata sulla comprensione profonda degli altri e della realtà divina. Egli distingue tra vari tipi di amore, a seconda del livello di comprensione coinvolto. Alla base dell’amore vi è la volontà, intesa non come arbitrio individuale, ma come una forza creativa che esprime la nostra essenza. Nella Parte III dell’Etica, Spinoza spiega che il nostro conatus, lo sforzo intrinseco di ogni essere di perseverare nel proprio essere, genera gli affetti, tra cui l’amore. La volontà, quindi, non è un’entità separata, ma il principio dinamico che ci spinge a costruire relazioni autentiche con gli altri e con il mondo.
La comprensione degli altri è centrale nell’amore spinoziano. Gli esseri umani, essendo parte di un unico ordine naturale, possono comprendere e amare gli altri riconoscendoli come espressioni della stessa sostanza divina. Questo amore, quindi, non è solo un atto di connessione individuale, ma un riconoscimento della nostra interconnessione universale.

Un aspetto fondamentale del pensiero di Spinoza è il legame tra amore e socialità. Nella Parte IV dell’Etica, il filosofo afferma che il bene supremo degli esseri umani risiede nella capacità di vivere in armonia con gli altri. L’amore diventa, quindi, il principio sostanziale per la costruzione di relazioni sociali positive. Spinoza scrive che «il bene supremo degli uomini consiste nel fatto che essi possano vivere in concordia e che uniti formino, per così dire, un’unica mente e un unico corpo».
L’amore, quindi, non è un sentimento egoistico o possessivo, ma una forza che promuove il bene comune, rafforzando i legami tra gli individui. Le relazioni sociali si sviluppano in base agli affetti e l’amore rappresenta l’apice di questa dinamica. È un principio che consente agli esseri umani di esercitare la loro socialità in modo armonico e virtuoso, costruendo una società basata sulla comprensione e sulla collaborazione.
Per Spinoza, non esiste una gerarchia tra le diverse forme di amore. Questo principio si basa sulla sua concezione monistica, secondo cui tutto ciò che esiste è espressione di una sostanza unica, Dio. Ogni forma di amore è una manifestazione di questa sostanza e non può essere valutata in termini di superiorità o inferiorità.
L’amore per un individuo, l’amore per la natura e l’amore per Dio sono tutte espressioni di una stessa forza vitale che permea l’universo. Questa prospettiva elimina la separazione tra amore terreno e amore spirituale, riconoscendo l’unità fondamentale di tutte le cose. Come afferma nella Parte V dell’Etica, la vera beatitudine consiste nella conoscenza e nell’amore di questa unità, che ci libera dalle passioni e ci permette di vivere in armonia con l’ordine eterno della natura.
L’amore, pertanto, non è un ideale astratto o un fine da raggiungere, ma una virtù inalienabile che si realizza nella relazione con gli altri e con il mondo. È una forza che ci spinge a comprendere gli altri, a costruire legami autentici e a riconoscere la nostra appartenenza a una realtà infinita. La forma più alta è l’amor Dei intellectualis (amore intellettuale di Dio), che rappresenta la massima espressione di amore. Questo amore non è una passione mutevole, ma una conoscenza adeguata della sostanza unica, Dio, che Spinoza identifica con la Natura (Deus sive Natura). Amare Dio, quindi, significa riconoscere l’ordine eterno e necessario della realtà e vivere in accordo con esso. Tale amore intellettuale non è un’esperienza mistica o trascendente, ma una forma di comprensione razionale e profonda che ci lega alla natura e agli altri esseri umani. In questa prospettiva, amare Dio equivale a comprendere la perfezione e l’unità della natura, accettando la nostra partecipazione a un ordine universale.
Amare, per Spinoza, significa vivere pienamente la nostra natura, riconoscendo l’unità di tutto ciò che esiste. L’amore è al tempo stesso una forza sociale e un principio conoscitivo, che ci guida verso una libertà autentica, fondata sulla comprensione razionale e sull’armonia con il tutto. Nell’amore si riflette l’essenza stessa dell’etica spinoziana: la ricerca della libertà attraverso la comprensione e l’unità con il mondo.

 

 

 

 

L’Improbatio di Francesco della Marca

La contestazione teologica del potere

 

 

 

 

Nel 1329, papa Giovanni XXII pubblicò la bolla Quia vir reprobus, un documento che segnò un punto di rottura nel dibattito sulla povertà apostolica, condannando le posizioni più radicali dei frati spirituali. La bolla affermava che la proprietà privata, lungi dall’essere una conseguenza del peccato, sarebbe stata concessa da Dio fin dall’inizio della creazione. La tesi sottesa era che anche Cristo e gli apostoli avessero esercitato un qualche tipo di dominio sui beni materiali, sia pur in forma temperata. Tale visione giustificava teologicamente la ricchezza della Chiesa e il suo potere temporale, legittimandone l’uso e la difesa.
Contro questa posizione, Francesco della Marca, frate minore e pensatore formatosi nell’ambiente filosofico-scotista, nel 1330, scrisse l’Improbatio. Rifugiatosi presso la corte dell’imperatore Ludovico il Bavaro, si fece portavoce di una teologia della povertà evangelica intransigente, concepita come pratica spirituale e criterio decisivo per la legittimità del potere ecclesiastico. La sua opera fu una risposta serrata, argomentata e profondamente meditata alle tesi papali, una critica tanto teologica quanto politica, che riportò l’ideale francescano alle sue radici evangeliche più austere.
Il fulcro concettuale dell’Improbatio è la distinzione tra uso e proprietà. Secondo Francesco, Cristo e gli Apostoli non possedettero nulla in senso stretto: non esercitarono alcuna forma di dominio sulle cose ma si limitarono a farne uso secondo necessità. L’uso non equivale al possesso legale, né implica una rivendicazione stabile: è un uso povero, sobrio, legato al bisogno immediato e privo di ogni pretesa di controllo giuridico sul bene utilizzato. Questa distinzione non è solo formale ma comporta implicazioni teologiche e antropologiche decisive. La proprietà, nella visione di Francesco, non è parte della legge naturale, bensì un’istituzione derivata, nata dalla corruzione dell’uomo in seguito alla caduta. Nel paradiso, l’umanità viveva in perfetta comunione dei beni, senza alcuna necessità di stabilire regole di possesso. Soltanto con l’irruzione del peccato nasce l’esigenza della proprietà privata, non come dono divino ma come misura cautelativa contro la discordia e l’avidità. Da ciò deriva la tesi, assolutamente centrale per Francesco, che la Chiesa, in quanto erede della missione evangelica di Cristo, non possa legittimamente possedere beni in forma stabile. Ogni accumulo di ricchezza e ogni pretesa di dominio economico risultano estranei al Vangelo e, addirittura, in contraddizione con esso. La povertà, quindi, non è un consiglio per i più perfetti, quanto una condizione essenziale dell’essere cristiano e dell’autenticità ecclesiale.

La concezione della povertà come fondamento della giustizia evangelica porta Francesco a una critica radicale della ricchezza ecclesiastica. Egli vede nell’accumulo di beni da parte della Chiesa una degenerazione, un tradimento dell’insegnamento e dell’esempio di Cristo. La Curia romana, nel suo splendore materiale e nella sua pretesa di esercitare un potere simile a quello dei re, è per Francesco un’aberrazione istituzionale, un’imitazione del potere mondano che ha completamente smarrito la via evangelica. La sua critica non si ferma alla sfera spirituale ma si estende all’ambito economico e sociale. In particolare, Francesco prende posizione contro l’usura, che interpreta quale manifestazione estrema di un dominio ingiustificato sul tempo e sulla produzione. L’usura è un’appropriazione indebita, una forma di proprietà che non corrisponde a lavoro né a rischio e che si fonda su un diritto fittizio: quello di far fruttare il denaro come se avesse vita propria. Anche in questo caso, la violazione della distinzione tra uso e proprietà genera ingiustizia, perché trasforma ciò che dovrebbe essere condiviso e funzionale al bene comune in strumento di dominio e oppressione.
La riflessione di Francesco si estende anche al tema del potere, che egli affronta in chiave cristologica. Quando Cristo afferma, davanti a Pilato, che il suo regno non è di questo mondo, non compie una semplice dichiarazione teologica ma stabilisce un principio di separazione tra potere spirituale e potere temporale. Francesco interpreta questo passo evangelico come prova del fatto che Cristo non esercitò alcuna forma di autorità politica e che il Papa, in quanto suo vicario, non può pretendere per sé alcun dominio terreno in forma assoluta. La legittimità del potere civile, secondo Francesco, risiede nella comunità dei laici, che possono conferire autorità a un governante. Il potere politico, quindi, nasce dalla natura sociale dell’uomo, non da un’investitura sacrale. Il Papa può eventualmente esercitare un’influenza indiretta su questioni temporali, ma soltanto come guida spirituale, non come signore feudale. La sua funzione primaria è l’annuncio del Vangelo, non la gestione dei beni o la conduzione della guerra. In questa prospettiva, la plenitudo potestatis rivendicata dalla Chiesa romana appare come una distorsione: un’espansione indebita dell’autorità ecclesiastica in ambiti che non le competono e che, anzi, compromettono la sua missione spirituale. L’Improbatio diventa così anche una riflessione politica, che anticipa una concezione più laica del potere, pur mantenendosi saldamente radicata nella fede cristiana.
Sul piano giuridico, Francesco elabora una concezione dinamica del diritto: esso non nasce come assoluto ma come risposta storica alla corruzione. Il diritto alla proprietà è, pertanto, una costruzione tardiva, una forma di disciplina necessaria ma contingente, che serve a mantenere l’ordine dove la carità non basta più. Questa visione implica una lettura della storia umana come decadenza dall’originaria giustizia, ma anche come possibilità di recupero, attraverso l’imitazione della vita di Cristo e degli Apostoli. La Chiesa, dunque, dovrebbe essere il luogo in cui questa memoria evangelica viene custodita e praticata. Se, però, essa assume i modelli del mondo, si trasforma in potere secolare e si comporta come un qualsiasi attore politico, perdendo la propria funzione salvifica. Solo attraverso la rinuncia radicale alla proprietà e al dominio, la comunità cristiana può tornare a essere ciò che era stata all’inizio: una fraternità fondata sulla carità e sulla giustizia.
L’Improbatio ebbe una vasta risonanza, soprattutto tra coloro che si opponevano al potere papale e cercavano una riforma della Chiesa. Il gruppo degli spirituali francescani la accolse con entusiasmo, ma fu soprattutto Guglielmo di Ockham a trarne ispirazione, inserendola nella sua vasta costruzione teorico-politica vòlta a dimostrare che il Papa può cadere in errore e che la Chiesa non è riducibile alla sua gerarchia. L’influenza dell’opera di Francesco si avverte anche in Marsilio da Padova, che, seppur su basi più laiche e aristoteliche, condivise l’idea di un potere ecclesiastico subordinato all’ordine civile. Più in generale, l’Improbatio rappresentò uno dei momenti più alti della riflessione medievale sulla legittimità, perché riuscì a coniugare radicalità evangelica e rigore concettuale. Non è un testo settario o mistico, ma una meditazione lucida e appassionata sulla giustizia, la libertà e la verità.
La filosofia di Francesco della Marca, condensata nell’Improbatio, è, quindi, un esempio raro di coerenza teologica e profondità speculativa. In un’epoca in cui la Chiesa tendeva ad assimilare la propria autorità a quella degli imperi, Francesco affermò con forza che la vera autorità spirituale nasce dalla rinuncia al potere e dalla fedeltà al Vangelo. La sua voce, sebbene marginalizzata dalle istituzioni del tempo, ha lasciato un’eco profonda nel pensiero occidentale, anticipando molte delle istanze che sarebbero venute fuori con la modernità: la distinzione tra Chiesa e Stato, la funzione sociale del diritto, la critica dell’economia come strumento di dominio. In definitiva, Francesco della Marca presentò una visione del cristianesimo come forza liberatrice, capace di trasformare la società non attraverso il potere ma attraverso la testimonianza.

 

 

 

 

L’Apologeticus di Abbone di Fleury

Le origini della teologia politica medievale

 

 

 

 

L’Apologeticus di Abbone di Fleury, scritto tra il 985 e il 988, durante una controversia tra l’abbazia di Fleury e il vescovo Arnolfo di Orléans, costituisce una delle testimonianze più chiare dell’emergere di una cultura giuridico-razionale nell’ambito ecclesiastico medievale. Non è soltanto una difesa del monastero di Fleury contro l’ingerenza episcopale, quanto un testo di grande rilievo teorico e filosofico, che anticipa molti temi destinati a diventare centrali nella scolastica del secolo successivo. In un’epoca in cui il pensiero era ancora dominato da una logica autoritativa, basata sulla tradizione e sulla gerarchia, Abbone osò proporre un metodo fondato sull’argomentazione razionale, sulla coerenza del diritto e sulla giustizia come criterio della legittimità del potere. Era una posizione che rifletteva la maturazione dell’intellettualità monastica e il consolidarsi di una visione più complessa del rapporto tra fede e ragione.
Il contesto in cui nacque l’Apologeticus era quello delle riforme monastiche del X secolo, che miravano a liberare i monasteri dalla commistione tra potere spirituale e interessi secolari. In particolare, l’abbazia di Fleury (una delle più prestigiose della Francia altomedievale) difendeva la propria immunità giuridica e spirituale contro le pretese del vescovo di Orléans.
L’elemento interessante è che Abbone, invece di affidarsi a una semplice rivendicazione d’autorità o a un intervento regale, scelse di fondare la sua difesa su una rigorosa analisi razionale dei testi canonici, delle Sacre Scritture e della pratica giuridica. In tal modo, trasformò una disputa amministrativa in una riflessione teorica sul fondamento stesso dell’autorità ecclesiastica.
Tratto distintivo della filosofia abboniana è l’uso della ragione come strumento legittimo di discernimento teologico e giuridico. Lungi dal contrapporre fede e ragione, Abbone le vede come complementari. La ragione, pur subordinata alla rivelazione, ha un suo spazio autonomo nella riflessione ecclesiastica e può essere utilizzata per distinguere tra autorità legittima e abuso di potere. Nel testo, Abbone utilizza argomentazioni deduttive, analisi dei concetti, confronto tra fonti e distinzioni concettuali – tutti elementi che sarebbero diventati il cuore del metodo scolastico nel XII secolo. In questo senso, fu un precursore della scolastica, pur rimanendo radicato nell’ambiente monastico.

Al centro dell’Apologeticus c’è una nozione morale e razionale di giustizia. Per Abbone, l’autorità – sia laica che ecclesiastica – non è di per sé giusta: è legittima solo se conforme al diritto naturale e divino. Ciò capovolge la logica feudale, secondo cui la forza o la tradizione bastano a fondare il potere. Al contrario, il potere va giustificato razionalmente. La giustizia non è una qualità soggettiva ma un ordine oggettivo inscritto nel creato e riconoscibile tramite la ragione. Questo approccio ricorda, pur con differenze, la concezione agostiniana della “città di Dio”, ma si arricchisce di un forte accento giuridico e argomentativo.
Uno degli obiettivi principali dell’Apologeticus è la difesa dell’autonomia monastica rispetto all’autorità episcopale. Abbone sostiene che i monasteri, in quanto comunità religiose consacrate alla preghiera, allo studio e alla disciplina regolare, abbiano una vocazione specifica, che non può essere subordinata a interessi locali o gerarchici. La sua visione è organica: la Chiesa è un corpo con membra diverse, ognuna delle quali ha una funzione distinta. Il ruolo dei vescovi è diverso da quello dei monaci e uno non può assorbire l’altro. Questa idea, di stampo quasi “costituzionale”, mostra come Abbone concepisca la Chiesa quale sistema di equilibri, non una piramide autoritaria.
L’Apologeticus è anche un esempio di alta retorica ecclesiastica. L’autore mostra padronanza delle Scritture, dei Padri della Chiesa (Agostino, Gregorio Magno, Isidoro di Siviglia), del diritto canonico e dei decreti conciliari. Tuttavia, non si limita a citarli: li interpreta, li confronta, li piega al ragionamento. La sua argomentazione è costellata da una strategia dialettica che contempla definizioni chiare dei concetti chiave (autorità, giustizia, diritto), contrapposizione di tesi e antitesi e il ricorso a esempi storici per rafforzare la posizione monastica. Questa abilità fa dell’Apologeticus un modello di disputa dottrinale e giuridica, utile non solo per i monaci ma anche per chierici, i giudici ecclesiastici e gli studiosi.
Abbone si colloca in una tradizione che parte da Boezio e passa per Isidoro di Siviglia e anticipa, in modo sorprendente, i dibattiti che avrebbero visto protagonisti Anselmo d’Aosta, Graziano e Tommaso d’Aquino. Anselmo condividerà l’idea che la fede cerchi la comprensione razionale (fides quaerens intellectum); Gratiano accoglierà l’idea che il diritto canonico possa essere ordinato secondo principi razionali e sistematici; Tommaso aderirà alla concezione della legge naturale come base del diritto giusto. Tuttavia, la prospettiva di Abbone è ancora monastica, non scolastica in senso stretto: manca una teoria sistematica, nonostante vi sia comunque una forte tensione intellettuale verso l’ordine, la coerenza e la giustificazione razionale.
L’Apologeticus, pertanto, è una testimonianza della nascita di una nuova forma di razionalità nel cuore della cultura cristiana medievale. In un mondo ancora dominato dalla consuetudine e dalla gerarchia, Abbone afferma che la verità può e deve essere cercata attraverso la ragione, che il potere deve rispondere alla giustizia e che le istituzioni religiose devono essere libere per compiere il loro fine spirituale. La sua opera prefigura un Medioevo diverso da quello stereotipato: un Medioevo inquieto, critico, intellettualmente audace. In questo senso, Abbone può essere considerato uno dei padri fondatori del pensiero politico e giuridico europeo.