Archivi categoria: Filosofia

Il giardino della Libertà:
il contrattualismo di John Locke tra Ragione e Giustizia

 

 

 

La filosofia politica di John Locke fiorisce come un giardino filosofico, dove la libertà e la ragione crescono fianco a fianco, alimentate dal principio inviolabile del diritto naturale. In questo spazio di riflessione e giustizia ogni individuo è detentore di una sovranità innata, inalienabile, che precede qualunque autorità statale. L’uomo nasce libero e uguale, con un diritto originario alla vita, alla libertà e alla proprietà. Tali diritti non sono concessi da un sovrano, ma emergono naturalmente dalla condizione umana stessa, come un fiume che scorre dalla sorgente della ragione.
Il contratto sociale, secondo Locke, non è un patto di sottomissione, ma un accordo razionale che gli individui stipulano per proteggere i propri diritti e assicurarsi una convivenza ordinata. È il consenso della comunità a dare vita al governo e non l’arbitrio del potere assoluto. Il governo esiste solo per servire il popolo e il suo potere è legittimato dalla fiducia e dal consenso dei governati. Quando questo contratto viene tradito – allorché il governo abusa della sua autorità o viola i diritti fondamentali – il popolo ha non solo il diritto, ma il dovere di revocare il potere, di ribellarsi e ricostruire un ordine che sia nuovamente fondato sulla giustizia.
Il contrattualismo di Locke risuona come una sinfonia di libertà, dove il ruolo dello Stato non è quello di dominare, ma di custodire e proteggere. L’autorità è sempre limitata e condizionata dalla legge naturale e il contratto che lega i cittadini allo Stato è una promessa reciproca di rispetto, diritti e dignità. In questa visione, lo Stato non è una forza opprimente, ma uno scudo, un custode che protegge i fiori della libertà e della proprietà dai venti sferzanti della tirannia.
Così, la filosofia politica di Locke diventa un’ode alla libertà, un inno all’autodeterminazione, e il contratto sociale si rivela non come catena che vincola, ma quale filo invisibile che unisce gli individui in una danza armoniosa di giustizia e partecipazione, sempre pronti a difendere, con la forza della ragione, quel giardino prezioso che è la propria libertà.

 

 

 

 

L’immutabile ordine del Cielo: Filmer e il diritto divino dei re

 

 

 

Nell’opera Patriarcha or the natural power of kings, Robert Filmer tesse una trama di idee che si stagliano contro il sorgere delle moderne concezioni di democrazia e sovranità popolare. Non si limita a contestare le teorie contrattualistiche di pensatori come Hobbes o Locke; rivendica un’autorità che trascende il volere umano, radicata non nel consenso, ma nel diritto divino e naturale, immutabile come il firmamento. Il suo argomentare è intriso di riferimenti sacri: il potere monarchico affonda le sue radici nel terreno biblico, germogliando dall’archetipo di Adamo, primo patriarca e sovrano per decreto divino. Così, ogni re non è solo un governante tra gli uomini, ma il legittimo erede di una linea sacra, un successore naturale del Primo Uomo, investito di un potere che non ammette contesa, perché sancito dall’Altissimo stesso. Filmer, così, si erge a implacabile difensore del diritto divino dei re, raffigurando la monarchia come una realtà non solo giusta, ma intangibile. Qualsiasi tentativo di resistenza diventa un atto di ribellione e, addirittura, un’offesa all’ordine divino, un’eresia contro il volere celeste. Patriarcha si trasforma in un manifesto contro il vento impetuoso del cambiamento, contro l’ideologia nascente del governo limitato (nel potere) e della separazione dei poteri. Filmer invoca un ritorno alle radici, fornendo una visione che lega la legittimità politica a un passato venerabile, dove il re non è soltanto un sovrano ma il custode dell’ordine divino sulla Terra, una figura che regge il destino dei popoli con mano ferma, sotto lo sguardo benevolo e inesorabile del cielo.

 

 

 

 

Il patto con il Leviatano: la politica di Hobbes
tra caos e ordine

 

 

 

Thomas Hobbes, ritenendo la politica non mera gestione degli affari pubblici, la reputa, invece, quale fondamentale risposta alla natura intrinsecamente violenta e caotica dell’essere umano. A differenza delle teorie politiche a lui precedenti, che sovente consideravano la società come un riflesso dell’ordine naturale o divino, rompe con questa tradizione, proponendo una visione radicalmente nuova: l’uomo, nello stato di natura, è in perenne conflitto, una “guerra di tutti contro tutti”. Per uscire da questo stato di anarchia, gli individui scelgono di stipulare un patto sociale, un accordo collettivo in cui rinunciano a parte della loro libertà in cambio di protezione e ordine. In tale contesto, pertanto, la politica diventa l’arte di costruire e mantenere uno Stato forte e centrale, un Leviatano, capace di esercitare un potere assoluto. Questo potere, concentrato nelle mani di un sovrano, è l’unico baluardo in grado di garantire ordine, stabilità e sicurezza, prevenendo il ritorno al caos primordiale e alla violenza.

 

 

 

 

Machiavelli: Il fondatore della moderna scienza politica
e la rottura del legame tra Verità e Diritto

 

 

 

Niccolò Machiavelli, teorizzando la necessità per il principe di essere “golpe” oltre che “lione”, ovvero affermando l’indispensabilità (e, per questo, la legittimità) del ricorso alla menzogna e all’inganno finalizzati al superiore interesse della costruzione dello Stato, spezzò il legame etico-razionale della Verità con il Diritto e assestò alla “scientia juris” un colpo mortale. Ecco perché, al di là di tutte le implicazioni, anche morali, il fiorentino può e deve essere considerato il padre della moderna scienza politica.

 

 

 

 

De gli eroici furori di Giordano Bruno

La furia po(i)etica dell’amore

 

 

 

Nell’impetuosità delle pagine di De gli eroici furori di Giordano Bruno si avvertono echi del tempo passato e di idee eterne, risonanti ancora oggi nella vastità del pensiero umano. Quest’opera, redatta tra il 1583 e il 1585, durante il soggiorno in Inghilterra, rappresenta uno dei massimi vertici creativi del filosofo nolano. Bruno, “eretico” e rivoluzionario, sfidava il dogmatismo chiuso della sua epoca con una visione cosmologica audace, che poneva l’infinito al centro dell’universo tanto che le sue idee, espresse con ardore poetico in queste pagine, sfioravano l’eresia agli occhi della Chiesa. De gli eroici furori si configura, così, non solo come testo filosofico ma anche come atto di coraggio intellettuale, in un’epoca di grandi tensioni tra il potere temporale della religione e la nascente curiosità scientifica.
Attraverso il dialogo tra il protagonista, Tansillo, e il suo interlocutore, il Nolano, alter ego dello stesso Bruno, questi percorre la tensione tra l’intelletto e l’amore, tra la conoscenza umana e quella divina. Il furor eroico è quel fuoco interiore che spinge l’individuo a superare i limiti terreni e aspirare all’unione con l’Infinito, con l’Assoluto. Bruno, con un linguaggio che sfiora il divino, eleva l’amore da semplice passione a strumento di conoscenza suprema, tramite il quale l’anima può ascendere alle verità più alte.
Nell’opera, articolata in due libri, il dialogo fluisce giungendo fino alle profondità della filosofia e dell’esperienza umana.
Primo Libro: l’ascesa verso la conoscenza
Dialoghi I-II: il primo introduce il concetto di furor, ispirazione o estasi che trascende la razionalità ordinaria. Bruno discute la natura del furor divino, legandolo all’idea platonica dell’amore che eleva l’uomo oltre il materiale. Il secondo dialogo esamina i differenti tipi di furori: il profetico, il poetico, il divinatorio e l’eroico, con un focus particolare su quest’ultimo, considerato il più alto grado di estasi e di conoscenza.
Dialoghi III-V: sono dedicati all’amore e al suo ruolo nel condurre l’anima alla verità. L’amore è mostrato come una forza che muove l’intelletto e purifica l’anima, rendendola capace di ricevere e interpretare il furor eroico. Bruno adopera esempi mitologici e storici per illustrare come l’amore elevi la persona, permettendole di superare le limitazioni umane e raggiungere una comprensione più profonda dell’esistenza.

Secondo Libro: la natura dell’intelletto e l’amore eroico
Dialoghi I-II: nel secondo libro, Bruno approfondisce il rapporto tra l’intelletto e il furor eroico. L’intelletto, secondo il filosofo, ha il potere di vedere oltre le apparenze e di percepire la verità universale, ma solo quando è guidato dall’amore eroico. Il primo dialogo si concentra sulla potenzialità dell’intelletto umano, il secondo tratta come l’amore possa essere utilizzato per guidare quest’intelletto verso realizzazioni superiori.
Dialoghi III-V: l’ultima parte dell’opera approfondisce il processo attraverso il quale l’uomo può trasformarsi e ascendere a uno stato di conoscenza e comprensione superiore. Bruno descrive l’itinerarium animae, il suo distacco dalle cose terrene e il suo innalzamento verso l’infinito, mediato dall’amore eroico. L’ultimo dialogo culmina in una esaltazione della capacità dell’individuo di unirsi al divino, attraverso l’intelletto e l’amore, raggiungendo una forma di immortalità spirituale.
Il furioso in De gli eroici furori è colui il quale, posseduto da una passione trascendente che lo porta a superare i limiti della ragione umana ordinaria, tocca il divino. Questi è il vero filosofo, l’amante della sapienza nel senso più platonico del termine, che usa l’amore come veicolo per l’ascesa spirituale e intellettuale. Il furioso è altresì un eroe nel vero senso della parola, poiché lotta contro le convenzioni e le limitazioni del suo tempo e della società in cui vive per perseguire la verità ultima.
L’opera è intrisa di una poesia intensa e visionaria, un tessuto linguistico che avvolge il lettore e lo trasporta oltre i confini del razionale. Bruno utilizza il dialogo come forma espressiva che permette una polifonia di voci, di pensieri, di intuizioni, rendendo il testo un vivace crogiolo di idee filosofiche esposte con un vigoroso impasto lirico. La sua stessa struttura, con i suoi dialoghi e le sue poesie, riflette la complessità del cammino umano verso la conoscenza, un percorso denso di ostacoli ma anche di sublime bellezza.
De gli eroici furori è un canto dell’anima che si eleva audace oltre i limiti imposti, una celebrazione del potere dell’intelletto e dell’amore eroico. Bruno traccia una mappa del cosmo dell’anima umana e consegna una visione profetica di un universo in cui ogni stella e ogni pensiero brilla di luce propria. In queste pagine, il lettore è invitato a un viaggio che è insieme esplorazione del cosmo e introspezione, un viaggio che non conosce confini né tempo.

 

 

 

L’etica protestante e lo spirito del capitalismo
di Max Weber

Il benessere materiale voluto da Dio

 

 

 

 

L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber, pubblicata nel 1905, è un’opera fondamentale che sonda l’influenza della religione sullo sviluppo economico e culturale dell’Occidente. Attraverso un’analisi meticolosa e interdisciplinare, l’Autore intreccia filosofia, storia, letteratura e religione, per rivelare come l’etica protestante abbia contribuito a modellare il moderno capitalismo.
Il filosofo-sociologo principia con un’indagine filosofica sul senso del lavoro nella società capitalista, postulando che la “professione” o “vocazione” (Beruf, che nel suo significato di “compito assegnato da Dio” trae origine della traduzione luterana della Bibbia) sia diventata un elemento cardinale per comprendere l’individualismo occidentale. Esamina il concetto di predestinazione calvinista e la sua influenza sullo sviluppo di un’etica del lavoro, argomentando come il successo materiale venisse spesso visto quale segno dell’elezione divina. Questa fusione tra il dovere religioso e l’attività economica offre una lente filosofica unica per vagliare la natura del capitalismo, dove il lavoro non è solo una necessità economica ma anche un imperativo morale.
Storicamente, Weber collega lo sviluppo del capitalismo moderno a specifici periodi e regioni, in cui il protestantesimo era prevalente, in particolare il nord Europa e le parti degli Stati Uniti colonizzate dai puritani, mostrando come queste aree abbiano adottato il capitalismo come sistema economico ed ethos culturale, influenzandone profondamente le strutture politiche e sociali. Weber utilizza una vasta gamma di dati storici per tracciare le correlazioni tra pratiche religiose e sviluppi economici, provando che il protestantesimo abbia fornito lo “spirito” necessario per la nascita del capitalismo.
Dal punto di vista letterario, l’opera è un capolavoro di narrazione analitica. Con un linguaggio chiaro e accurato, Weber trasforma argomenti complessi in un racconto affascinante, che si legge quasi come un romanzo storico. L’uso di fonti primarie, sermoni e diari arricchisce il testo, presentando uno sguardo autentico sulle convinzioni e sulle pratiche dei protestanti dell’epoca. La sua capacità di tessere insieme aneddoti e analisi è un esempio eccellente di come la scrittura accademica possa essere rigorosa ma anche coinvolgente.
L’aspetto religioso è il più centrale nel lavoro di Weber. Egli dettaglia minuziosamente le dottrine del calvinismo, del luteranesimo e di altre sètte protestanti, sottolineando come queste abbiano prediletto la disciplina, l’ascetismo e l’etica del lavoro. Non solo descrive le pratiche, ma le interpreta in relazione allo sviluppo economico, proponendo una tesi provocatoria: la religione ha plasmato le sfere personali della vita, avendo anche avuto un impatto profondo e diretto sul corso economico e sociale del mondo occidentale.
L’analisi si concentra significativamente sulle divergenze tra le visioni luterano-calviniste e quelle cattoliche, in particolare riguardo al lavoro e al profitto. Queste differenze teologiche ed etiche non solo hanno influenzato la vita dei fedeli ma hanno anche avuto un impatto profondo sullo sviluppo economico nei vari contesti geografici e storici.


Il cuore dello studio di Weber è nel modo in cui il calvinismo ha interpretato la predestinazione e il lavoro. Secondo la dottrina calvinista, il destino eterno dell’uomo è predestinato da Dio e non può essere cambiato; tuttavia, segni di una vita favorita da Dio possono manifestarsi attraverso il successo e la prosperità nel mondo terreno. Il lavoro, quindi, assume una dimensione quasi sacra – non solo è un dovere verso Dio ma diventa anche un segno del favore divino. Questa interpretazione è meno accentuata nel luteranesimo, per cui comunque il lavoro è ritenuto una vocazione divina, un mezzo attraverso cui il fedele serve Dio nella vita quotidiana. La prosperità risultante dal lavoro diligente ed etico non è però considerata come un fine in sé ma come una conferma che si sta vivendo una vita in linea con i comandamenti divini. In questo modo, il profitto e il successo economico sono accettabili e addirittura potenzialmente indicativi di salvezza.
Al contrario, la dottrina cattolica tradizionale non pone un’enfasi simile sulla predestinazione o sul successo economico come segno di salvezza. Il cattolicesimo, con la sua struttura ecclesiastica più centralizzata e la dottrina della libera volontà, permette ai fedeli di influenzare il proprio destino spirituale attraverso le opere, inclusi i sacramenti e la carità. Il lavoro ha sì un valore etico e spirituale, ma è disgiunto dalla nozione di predestinazione. Di conseguenza, il profitto e il successo materiale sono visti in una luce più neutra o persino problematica, se perseguiti a scapito di valori più elevati.
Weber ritiene che la visione calvinista del profitto come segno di grazia divina abbia giocato un ruolo chiave nella formazione dell’etica del capitalismo. L’accumulo di ricchezza, purché ottenuto attraverso il duro lavoro e l’adempimento etico, era percepito come moralmente accettabile e anche desiderabile, un’indicazione della propria elezione. Ciò contrasta nettamente con la visione più scettica o critica del profitto che si può trovare in molte interpretazioni cattoliche, dove l’accumulo eccessivo di ricchezza è considerato un ostacolo alla vera pietà e un rischio di corruzione spirituale.
La visione protestante, pertanto, con la sua interpretazione del lavoro e del profitto, ha favorito un ambiente in cui il capitalismo non solo è nato ma è anche fiorito, mentre la tradizione cattolica ha promosso un approccio più cauto ed equilibrato verso il successo materiale.
L’etica protestante e lo spirito del capitalismo è un’opera straordinariamente ricca e complessa, che spinge i lettori a considerare il ruolo della religione e dell’etica nell’economia moderna. Weber fornisce la base per ulteriori studi interdisciplinari e invita altresì a una riflessione critica su come i valori culturali e religiosi continuino a influenzare le pratiche economiche contemporanee.

 

 

 

 

L’Oratio de hominis dignitate
di Giovanni Pico della Mirandola

L’uomo nuovo, centro dell’Universo

 

 

 

Nel cuore del Rinascimento italiano pulsano le parole di Giovanni Pico della Mirandola, incarnando l’essenza dell’Umanesimo nella Oratio de hominis dignitate. L’orazione fu concepita da Pico come preparazione a una disputa internazionale, ove riunire i più eminenti intellettuali del tempo, a Roma, nel 1487, per discutere di “pax philosophica”. Per l’appuntamento, Pico compilò 900 tesi, pubblicate per la prima volta nel dicembre del 1486. Tuttavia, l’evento fu immediatamente annullato per decisione di papa Innocenzo VIII, che volle formare un comitato di esperti incaricati di valutare l’ortodossia delle tesi. Tre di queste furono dichiarate eretiche dalla commissione, mettendo in cattiva luce l’intera iniziativa e causando la sospensione del progetto. Pico fu addirittura costretto a rifugiarsi in Francia, dove fu comunque arrestato e detenuto nella fortezza di Vincennes, a Parigi, su richiesta del pontefice.
L’orazione, che non fu mai pronunciata ma che trovò vita nelle menti e nei cuori di molti, è un canto all’infinito potenziale umano, un inno alla libertà dell’essere di ascendere alla divinità o di cadere nella bestialità, a seconda della propria scelta.
Alla fine del Quattrocento, l’Europa si trovava in un crocevia di cambiamenti. L’invenzione della stampa, la caduta di Costantinopoli, le scoperte geografiche di nuovi mondi e le riforme in ambito religioso e artistico ponevano le basi per una riflessione profonda sulla posizione dell’uomo nell’Universo. È in questo contesto che Pico, giovane e ardito letterato, propose una visione dell’uomo come creatore del proprio destino, dotato di una libertà quasi divina.
Centrale, nell’orazione, è l’idea del libero arbitrio. L’uomo, secondo Pico, è un essere unico, privo di una forma fissa e predefinita, capace di modellarsi a immagine delle realtà celesti o terrene, secondo la propria volontà. Questa concezione lo pone al di sopra di tutte le altre creature, dotato com’è della capacità di auto-trascendenza. L’opera di Pico si colloca, così, come un ponte tra la teologia cristiana e il pensiero classico, un dialogo tra filosofi di diverse epoche, che culmina nella possibilità di una sintesi universale del sapere umano, offrendo, altresì, una riflessione profonda e innovativa sull’origine e la posizione dell’uomo nella gerarchia dell’Essere, distaccandosi dai canoni tradizionali medievali e abbracciando la visione rinascimentale carica di possibilità umane. Tradizionalmente, la gerarchia dell’Essere era vista come una scala rigidamente strutturata, un ordine cosmico stabilito da Dio, in cui ogni creatura aveva un posto definito e immutabile. Angeli, demoni, uomini, animali, piante e minerali erano disposti in un ordine decrescente di santità e perfezione, ciascuno con un ruolo preciso e senza possibilità di cambiamento. Pico rompe questo schema, introducendo una concezione rivoluzionaria dell’uomo come “miracolo” dell’Universo. Secondo la sua visione, l’uomo è stato creato da Dio senza una forma specifica e definita, il che lo pone al centro della creazione come un essere unico, collocato, nella visione pichiana, in una posizione ontologicamente centrale. Non essendo vincolato a una natura specifica, l’uomo ha la libertà e la capacità di modellare se stesso rispecchiando la divinità oppure di degradarsi al livello delle bestie o, perfino, inferiormente. Tale posizione dell’uomo implica una grande responsabilità: quella di scegliere attivamente il proprio cammino. Egli, così, diventa l’artefice del proprio destino. Questa capacità di auto-determinazione lo distingue radicalmente da tutte le altre creature confinate nei limiti delle proprie nature predefinite.


Anche l’idea di auto-trascendenza è fondamentale nella filosofia di Pico. L’uomo può elevarsi al di sopra della sua condizione mortale attraverso l’educazione, la riflessione filosofica e l’adesione ai principi etici e spirituali. Questo processo di elevazione non è soltanto un miglioramento personale, ma una vera e propria imitazione delle caratteristiche divine, come la conoscenza e la bontà. Attraverso la pratica delle virtù e lo studio delle arti e delle scienze, l’uomo può ascendere nella gerarchia dell’Essere, avvicinandosi all’angelico e al divino. In questo senso, Pico vede la filosofia e la teologia non solo come discipline accademiche, ma come vie di perfezionamento dell’anima e di realizzazione del proprio potenziale.
Il filosofo, pertanto, ridefinisce la posizione dell’uomo nella cosmologia ed eleva l’umanità a protagonista della propria storia spirituale e intellettuale. La sua visione anticipa i concetti moderni di auto-determinazione e di potenziale umano, auspicando una nuova era di pensiero, in cui l’essere umano sia visto come co-creatore del proprio mondo e del proprio destino. Questa visione ottimistica dell’umanità è una delle eredità più durature di Pico e del Rinascimento e continua a influenzare il pensiero filosofico e culturale contemporaneo.
L’Oratio de hominis dignitate, in definitiva, risuona come un poema epico sulla natura umana. Le parole di Pico, cariche di elevata retorica e di sublime ottimismo, riflettono la quintessenza dell’ideale umanistico: l’uomo come misura di tutte le cose, capace di elevare sé stesso attraverso il culto della bellezza, della verità e della bontà. La sua visione celebra l’armonia possibile tra ragione e fede, tra cielo e terra. L’orazione non rappresenta soltanto un documento storico, ma un manifesto eterno della potenzialità umana. Pico della Mirandola invita i lettori di ogni epoca a vedere in se stessi non una creazione finita, ma un’opera aperta, un progetto in continuo divenire, sfidandoli a raggiungere la grandezza che è in loro potere conseguire. Così, attraverso i secoli, le sue parole continuano ad accompagnare tutti coloro i quali cercano di comprendere la vastità e la profondità della “dignità” umana.

 

 

 

 

Guido Cavalcanti

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

 

Guido Guinizzelli è stato il teorico del Dolce Stil Novo, l’altro Guido, come lo chiamò Dante (Purg. XI, v. 97) ne ha rappresentato il maggiore esponente. Fiorentino, nacque più o meno nel 1260, dalla nobile famiglia Cavalcanti, mercanti molto ricchi. Notissime erano, a Firenze, quasi fossero un punto cardinale, le terre e le case dei Cavalcanti, situate non lontane dalla Chiesa di Santa Maria in Campidoglio, nei pressi del Mercato Vecchio. Da giovane, era stato mandato dal padre a studiare la filosofia da Brunetto Latini e proprio lì aveva conosciuto il futuro sommo poeta, divenendone amico fraterno. imageGuelfo bianco convinto, per dare il buon esempio, cercando, in tal modo, di calmare un po’ le tormentatissime acque in città, aveva sposato Bice degli Uberti, figlia del famoso Farinata, il segretario comunale del PGF, Partito Ghibellino Fiorentino. Tutto questo, comunque, era servito a poco o niente. La tensione, a Firenze, era sempre altissima, tanto che quando non si riuscivano ad eliminare gli avversati in casa, si mandavano i sicari a raggiungerli in trasferta. Durante un pellegrinaggio al santuario di Santiago di Compostela, infatti, nei pressi di Tolosa, Guido prese una coltellata alla schiena, inflittagli da un assassino mandato da Corso Donati, il capo dei guelfi neri. Si salvò per miracolo! Incurante dei numerosi pericoli e della sua incolumità fisica, si fece eleggere al Consiglio Generale. Solo pochi anni dopo, però, ne fu escluso, quando Giano della Bella, un aristocratico passato a sinistra, fece approvare la riforma degli “Ordinamenti di Giustizia”, vietando, ai nobili non iscritti ai sindacati, l’accesso alle cariche pubbliche. Il 24 giugno del 1300, dopo aver preso parte ad una mega rissa in cui guelfi bianchi e neri se le erano suonate di santissima ragione, fino a quando non erano rimaste in piedi che due-tre persone, essendo lui un capo fazione, fu punito con l’esilio a Sarzana, oggi ridente centro in provincia di La Spezia, ma, nel XIII secolo, zona paludosa e insalubre. Fu proprio l’amico Dante, divenuto, nel frattempo, Priore, a firmare, con le lacrime agli occhi, la sua condanna. In poche settimane, a causa dei miasmi mortiferi esalati dagli acquitrini sarzanesi, Guido contrasse la malaria. Tornò a Firenze giusto in tempo per morire, nelle case dei Cavalcanti, il 29 agosto. Fiero nel carattere e altero nell’aspetto, è il più “tragico” dei poeti stilnovisti. L’amore, spesso, gli provocava sbigottimento, lasciandolo dubbioso, destrutto e desfatto:

L’anima mia vilment’è sbigotita
de la battaglia ch’ell’ave dal core
che s’ella sente pur un poco Amore:
più presso a lui che non sòle, ella more.

(L’anima mia vilment’è sbigotita, vv. 1-4)

Forte e nova mia disaventura
m’ha desfatto nel core
ogni dolce penser, ch’i’ avea, d’amore.

(Forte e nova mia disavventura, vv. 1-3)

Allo steso modo, la sua donna pare non essere così celeste e luminosa come quelle esaltate dagli altri poeti, tanto che il suo valore è difficilmente conoscibile dall’uomo. Se Guido fosse stato un trovatore avrebbe accompagnato le sue canzoni con una musica malinconica e angosciosa:

Se Mercé fosse amica a’ miei desiri,
e l’movimento suo fosse dal core
di questa bella donna e’l su’ valore
mostrasse la vertute a’ mie’ martiri.

(Se Mercé fosse amica a’ miei disiri, vv. 1-4)

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La canzone Donna me prega, per ch’eo voglio dire, i cui versi sono di difficile comprensione perché volutamente astrusi, è lo specimen della sua poesia. In essa, filosofia, metafisica, psicologia, tristezza, guai, lamenti e spiriti,  introdotti nella sua lirica per spiegare il funzionamento dei sensi e dei sentimenti dell’uomo, mostrano la donna non come una guida che renda l’anima perfetta, quanto come creatura la cui bellezza costringa a meditare, ad almanaccare, a scervellarsi, ad elucubrare e a rimuginarvi. Però, rimuginandovi troppo a lungo, il povero Guido correva il rischio di andare fuori di testa.

Donna me prega, – per ch’eo voglio dire
d’un accidente – che sovente – è fero
ed è sì altero – ch’è chiamato amore:
sì chi lo nega – possa ’l ver sentire!
Ed a presente – conoscente – chero,
perch’io no spero – ch’om di basso core
a tal ragione porti canoscenza:
ché senza – natural dimostramento
non ho talento – di voler provare
là dove posa, e chi lo fa creare,
e qual sia sua vertute e sua potenza,
l’essenza – poi e ciascun suo movimento,
e ’l piacimento – che ’l fa dire amare,
e s’omo per veder lo pò mostrare.

(Donna me prega, – per ch’eo voglio dire, vv. 1-14)

Tra le sue composizioni più famose, infine, è la ballata Perch’i’non spero di tornar giammai. Il poeta, fuori dalla Toscana, chiese a questa sua ballatetta di raggiungere l’amata per dirle, tra pianti, sospiri e accidenti:

Questa vostra servente
viene per star con vui,
partita da colui
che fu servo d’Amore.

(Perch’i’ non spero di tornar giammai, vv. 33-36)

 

 

Il mondo come volontà e rappresentazione
di Arthur Schopenhauer

Percezione, dolore, redenzione

 

 

 

 

Il mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer è un’opera filosofica monumentale, che ha avuto e continua ad avere un profondo impatto sulla filosofia occidentale, essendovi teorizzati elementi che hanno ispirato anche la letteratura, la psicologia e le arti.
La prima pubblicazione dell’opera, nel 1819 (altre due edizioni ampliate sono edite nel 1844 e nel 1859), è contestuale alla particolare situazione europea del XIX secolo: un crogiolo di cambiamenti politici, sociali e tecnologici. In quel periodo, la filosofia stava subendo una trasformazione significativa, spostandosi gradualmente dall’idealismo trascendentale di Immanuel Kant verso correnti di pensiero più variegate, che includevano i primi accenni al nichilismo, al materialismo e all’esistenzialismo.
Il concetto più rivoluzionario introdotto da Schopenhauer è quello di “volontà”, forza cieca e irrazionale, che è alla base di ogni esistenza. Tutto ciò contraddice l’immagine kantiana di un mondo regolato dalla ragione e pone le basi per una visione pessimista dell’esistenza. La nozione di “rappresentazione”, invece, si riferisce al modo in cui l’uomo percepisce il mondo. Pur ispirandosi dalle categorie di Kant, il filosofo sostiene che la comprensione umana sia plasmata dai suoi schemi percettivi, il che significa che la comprensione oggettiva del mondo sia, in ultima analisi, inafferrabile. Ciò porta all’idea che la vita, così come appare, sia piena di sofferenza e conflitto, generati da un desiderio infinito e inappagabile.
Uno degli aspetti più influenti dell’opera è costituito della sua teoria estetica. Schopenhauer intende l’arte come forma di accesso alla conoscenza, trascendente la mera rappresentazione fenomenica. L’arte permette agli individui di elevarsi al di sopra della volontà e di percepire un livello di realtà che concede una forma di redenzione dal dolore del mondo.
Il mondo come volontà e rappresentazione culmina con una soluzione al problema della sofferenza umana attraverso la negazione della volontà. Il filosofo suggerisce che solo rinunciando ai desideri e alle proprie aspirazioni l’uomo possa liberarsi dalla sofferenza perpetua che altrimenti lo affliggerebbe.
L’opera è articolata in una struttura complessa e metodica, divisa in quattro libri, dei quali ciascuno approfondisce specifici elementi del pensiero schopenhaueriano, costruendo progressivamente un quadro filosofico completo.

Libro I: Il mondo come rappresentazione
Il primo libro si rifà molto ai postulati filosofici di Kant, in particolare alla distinzione tra fenomeni (le cose come appaiono attraverso i sensi) e noumeni (le cose in sé, che si possono percepire direttamente). Schopenhauer introduce qui la sua famosa affermazione secondo cui “il mondo è la mia rappresentazione”, sottolineando che tutto ciò che si conosce del mondo esterno sia mediato dai sensi e dalla mente. Questo libro pone le fondamenta della sua epistemologia, discutendo la struttura della percezione e il ruolo del soggetto percipiente.

Libro II: Il mondo come volontà
Nel secondo libro, Schopenhauer sviluppa la sua teoria più rivoluzionaria: la concezione della realtà come volontà. La volontà, secondo il filosofo, è la forza onnipresente e irrazionale dietro ogni manifestazione naturale e umana. Questo libro si distacca dalla pura percezione del primo libro per indagare l’essenza interna di ogni cosa, che l’Autore identifica proprio con questa volontà non razionale e cieca. È qui che il suo pensiero diverge totalmente dall’idealismo di Kant, insinuando un elemento di irrazionalità e pulsione primordiale che domina tutta l’esistenza.

Libro III: L’arte come via di salvezza
Il terzo libro è dedicato all’estetica. Il filosofo analizza come l’arte possa offrire un’esperienza di realtà che trascende il dolore e la sofferenza causati dalla volontà. La bellezza artistica, in particolare nella musica, permette la contemplazione della conoscenza, intesa in senso puro e disinteressato, degli aspetti universali e immutabili della realtà. L’arte fornisce così una fuga temporanea dalla schiavitù della volontà, donando un assaggio di liberazione e quiete spirituale.

Libro IV: Etica, ascetismo e negazione della volontà
L’ultimo libro tratta delle implicazioni etiche della filosofia schopenhaueriana precedentemente espressa. L’Autore collega la negazione della volontà alla liberazione dal ciclo del desiderio e della sofferenza. La negazione della volontà, che il filosofo delinea attraverso l’ascetismo e la rinuncia ai desideri mondani, conduce a una forma di salvezza e pace interiore. Questa sezione incorpora anche riflessioni sulla morte, sulla volontà di vivere e sulla compassione verso gli altri esseri viventi, manifestazione di una profonda identificazione con la sofferenza altrui.
Il mondo come volontà e rappresentazione consegna, quindi, una disamina approfondita e sistematica della condizione umana. L’opera critica radicalmente l’ottimismo illuminista e il razionalismo, mostrando, però, una via alternativa per comprendere la natura profonda dell’esistenza, proponendo, altresì, mezzi per ottenere una qualche forma di redenzione personale e universale. La visione schopenhaueriana profondamente pessimistica della realtà e della vita umana e l’enfasi sulla volontà irrazionale come forza dominante nella vita umana continuano a essere di grande rilevanza, influenzando molti pensatori e artisti. Schopenhauer, pertanto, non ha solo dato il suo significativo contributo alla filosofia, ma ha anche aperto a nuove modalità di pensiero critico riguardo la condizione umana e il significato dell’esistenza.

 

 

 

 

De Cive di Thomas Hobbes

Stato di natura, stato civile, contratto sociale, “Leviatano”

 

 

 

De Cive (Il Cittadino), pubblicato originariamente in latino, nel 1642 e, successivamente, in inglese, nel 1651, si colloca cronologicamente tra le due grandi opere di Thomas Hobbes, Leviatano (1651) e De Corpore (Il Corpo, 1655). Il contesto storico di De Cive è cruciale per comprenderne le tematiche. Hobbes scrive durante un periodo di instabilità in Inghilterra, caratterizzato dalla guerra civile (1642-1651). Il conflitto tra la monarchia di Carlo I e il Parlamento costituisce un retroscena di caos e incertezza, che influenza profondamente il pensiero di Hobbes. La sua speculazione filosofica è una risposta diretta al disordine e alla paura di anarchia che percepisce attorno a sé, cercando di trovare soluzioni teoriche per la pace e la stabilità sociale.
L’Autore sviluppa in quest’opera una visione del mondo radicalmente nuova e meccanicistica. L’uomo è visto come un corpo in movimento, guidato da appetiti e avversioni, le cui interazioni determinano la struttura della società. Nel trattare gli aspetti antropologici, Hobbes dipinge un ritratto dell’uomo mosso primariamente dall’istinto di autoconservazione. Questa concezione pessimistica dell’essere umano, essenzialmente egoista e trasportato dal desiderio di potere, è fondamentale per comprendere il suo appello a un’autorità assoluta.
Il filosofo introduce il concetto di stato di natura, in cui gli uomini sono liberi e uguali. Tale libertà, però, conduce inevitabilmente al conflitto. Da qui, l’esigenza di un potere sovrano che imponga l’ordine e garantisca la pace, attraverso il contratto sociale: gli individui cedono i loro diritti al sovrano in cambio di protezione, un’idea che avrebbe influenzato profondamente il pensiero politico successivo.
Hobbes approfondisce in modo significativo la distinzione tra lo stato di natura e lo stato civile, concetti fondamentali per la comprensione del suo pensiero politico e filosofico. Questi servono a fondare la sua rappresentazione del contratto sociale e a delineare la transizione necessaria dalla natura alla società, per garantire sicurezza e ordine civile.
Secondo Hobbes, lo stato di natura è una condizione ipotetica, in cui gli esseri umani vivono senza una struttura politico-legale superiore che regoli le loro interazioni. In De Cive, così come nel più celebre Leviatano, il filosofo descrive lo stato di natura con la famosa frase homo homini lupus (l’uomo è lupo per l’uomo). Non vi esistono leggi oltre ai desideri e alle paure individuali; è un ambiente in cui vigono il sospetto perpetuo e la paura della morte violenta. Tutti gli uomini sono uguali, nel senso che chiunque può uccidere chiunque altro, sia per proteggersi sia per prevenire potenziali danni. Di conseguenza, lo stato di natura è caratterizzato da una guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes), la vita è “solitaria, povera, brutale, brutta e breve”, come scriverà poi in Leviatano.


La transizione dallo stato di natura allo stato civile avviene mediante il contratto sociale, un’idea che Hobbes sviluppa per spiegare come gli individui possano uscire dallo stato di natura. Sostiene, infatti, che questi, mossi dalla razionale paura della morte violenta e dal desiderio di una vita più sicura e produttiva, decidano di istituire un’autorità sovrana a cui cedere il proprio diritto naturale di governarsi autonomamente. Questo sovrano, o “Leviatano”, è autorizzato a detenere il potere assoluto per imporre l’ordine; non è parte del contratto sociale e, quindi, non è soggetto alle leggi che impone. La sua autorità deriva dalla consapevolezza collettiva che senza un tale potere la società regredirebbe allo stato di natura. Gli individui accettano di vivere sotto un’autorità assoluta per evitare il caos e la violenza che altrimenti prevarrebbero.
La contrapposizione tra stato di natura e stato civile ha profonde implicazioni filosofiche e politiche. Hobbes sfida le nozioni precedenti di società governata dalla morale o dal diritto naturale, sostituendo questo modello con la necessità di un potere sovrano e indiscutibile per mantenere l’ordine. La visione hobbesiana del contratto sociale ha influenzato profondamente la teoria politica moderna, anticipando questioni di consenso, diritti individuali e natura del potere politico. La sua analisi rimane pertinente per le discussioni contemporanee sui fondamenti della legittimità del governo e sui diritti degli individui rispetto al potere statale. La dicotomia tra stato di natura e stato civile, in definitiva, costituisce anche una riflessione profonda sulla condizione umana e sulla società.
In De Cive, Hobbes articola una visione del mondo e una filosofia politica che riflettono le sue profonde preoccupazioni riguardo alla natura umana e alla necessità di ordine. In un’epoca di grandi turbamenti propone una soluzione radicale al problema della coesistenza umana, ponendo le basi per la moderna teoria politica. L’opera, quindi, non solo riflette il tumulto del suo tempo, ma offre anche spunti di riflessione ancora attuali sulla natura del potere e sulla condizione umana.