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Diogene il Cinico

Uomo, filosofo, provocatore

 

 

 

Diogene di Sinope, meglio conosciuto come il Cinico, è certamente una delle figure più eccentriche e iconoclastiche della filosofia antica. Nato intorno al 412 a.C. a Sinope, città greca sul Mar Nero, fu discepolo di Antistene, il fondatore della scuola cinica. La filosofia cinica, che Diogene incarnò con estrema dedizione, si fonda su una critica radicale della società e dei suoi valori, favorendo, invece, la semplicità, l’autosufficienza e la virtù come unica vera ricchezza.
Diogene è famoso per la sua vita austera e per i molti aneddoti che lo vedono protagonista, spesso con intenti provocatori. Si dice che vivesse in una botte, rifiutando qualsiasi tipo di comodità materiale. Una delle storie più celebri narra dell’incontro con Alessandro Magno. Quando il re macedone, incuriosito dalla fama del filosofo, gli chiese se potesse fare qualcosa per lui, Diogene rispose semplicemente: “Sì, scansati, perché mi stai togliendo il sole”. Questa risposta incarna perfettamente l’atteggiamento cinico di Diogene verso il potere e la ricchezza, considerati irrilevanti rispetto alla libertà e alla felicità derivanti dall’autosufficienza.


La filosofia di Diogene si basa su pochi principi cardine, che mettono in discussione i valori convenzionali della società.
Credeva che la vera felicità fosse raggiungibile solo attraverso l’autosufficienza. Rifiutava il superfluo e viveva con il minimo indispensabile, dimostrando che la felicità non dipende dalle ricchezze materiali. Sfidava apertamente le norme e le convenzioni sociali. Per lui, le leggi e i costumi erano spesso artifici inutili che distoglievano gli individui dalla ricerca della vera virtù.
Seguendo la lezione di Socrate, considerava la virtù come l’unica vera ricchezza. Per lui, vivere secondo natura e in armonia con essa era l’obiettivo principale dell’esistenza.
Diogene praticava e promuoveva la parresia, la franchezza radicale nel dire la verità. Questo atteggiamento lo portava spesso a scontrarsi con le autorità e con i benpensanti del suo tempo.
Diogene è ricordato non solo per la sua vita ascetica e i suoi comportamenti provocatori, ma anche per l’impatto duraturo delle sue idee. La sua critica della società e delle sue ipocrisie ha influenzato molte correnti filosofiche successive, tra cui lo stoicismo. Inoltre, la sua figura continua a essere un simbolo di ribellione contro l’ingiustizia e l’irrazionalità, ispirando artisti, pensatori e ribelli di ogni epoca.
Diogene, quindi, non è solo un personaggio storico, ma un emblema della ricerca della verità e della virtù contro le convenzioni e le illusioni del mondo. La sua vita e la sua filosofia invitano a riflettere su ciò che veramente conta e su come si possa vivere in maniera più autentica e significativa.

 

 

 

Gottfried Wilhelm Leibniz nell’anniversario della nascita

(1 luglio 1646)

 

 

 

In un angolo dorato del secolo d’oro della filosofia risplende la figura di Gottfried Wilhelm Leibniz, un faro di mente e di spirito, che si erge come un’alba eterna sulle rive del pensiero umano. Uomo di radiosa intelligenza, danzava tra i campi del sapere come le dita di un virtuoso su un clavicembalo celestiale, intonando melodie matematiche, logiche e metafisiche, tessendo un arazzo che univa l’infinito con il finito, il divino con il terreno.
La sua filosofia, come una marea infinita, abbracciava ogni particella dell’universo, ogni monade vibrante di vita e di possibilità. Le monadi, i suoi atomi spirituali, specchiavano l’intero cosmo in un gioco di riflessi perenni, ciascuna un microcosmo, un universo in miniatura, dotate di percezioni e volontà proprie. In questo gioco di specchi, Leibniz vedeva l’armonia prestabilita, una sinfonia divina orchestrata da un compositore trascendentale, in cui ogni nota, ogni evento, trovava il suo posto in un disegno perfetto e preordinato.


Il suo ottimismo metafisico, il celebre “migliore dei mondi possibili”, era un inno alla speranza, una fede incrollabile nella bontà e nella sapienza dell’Architetto Supremo. In un universo popolato da monadi, ogni sofferenza, ogni gioia, trovava la sua ragione d’essere in un equilibrio cosmico, in un ordine che la mente umana poteva solo intuire, come un sussurro tra le pieghe del silenzio.
Il suo spirito enciclopedico era un ponte tra passato e futuro, tra scienza e filosofia, unendo Aristotele e Newton, Platone e Cartesio in un dialogo senza tempo. La sua visione era come un raggio di luce capace di penetrare le ombre dell’ignoranza, illuminando sentieri nuovi e inesplorati. Egli vedeva l’universo come un vasto libro, scritto nel linguaggio matematico, dove ogni formula, ogni equazione, era una poesia in cifre, una testimonianza del divino ordine nascosto sotto la superficie caotica del mondo.
Nel giardino del pensiero umano Leibniz era giardiniere saggio, coltivando idee con delicatezza e cura, nutrendo la conoscenza come pianta rara e preziosa. Le sue lettere, i suoi manoscritti, erano semi sparsi nel vento del tempo, germogliando in nuove menti, in nuovi cuori, portando avanti il suo lascito di saggezza e meraviglia.
E, così, Gottfried Wilhelm Leibniz continua a vivere, una stella nella costellazione del pensiero, un canto perpetuo che risuona nell’eternità, un’eco di verità e bellezza che mai svanirà.

 

 

 

Le Enneadi di Plotino

L’Uno, il divino, l’anima

 

 

 

 

Come una stella vespertina che sorge al crepuscolo, nel cielo dell’antichità si levarono le Enneadi di Plotino, filosofo vissuto nel III secolo d.C., un testamento della ricerca incessante dell’anima per il divino. L’opera è composta da 54 trattati, sistemati da Porfirio, discepolo di Plotino, il quale modificò la suddivisione dei testi originali, combinandoli per formare i gruppi necessari a comporre le Enneadi, strutturate in sei insiemi di nove (“ennea”, in greco) trattati ciascuno. Dispose questi scritti seguendo un ordine che va dalle esistenze più basse dal punto di vista ontologico – le realtà terrene e la vita umana – ascendendo attraverso livelli metafisici come la provvidenza, gli enti demoniaci, l’anima e le capacità psichiche, fino al grado puramente intellettuale, culminando nell’ultimo trattato, con l’approdo alla suprema realtà divina, l’Uno, principio e fine di tutto ciò che è. Questa strutturazione mirava a delineare per il lettore un itinerario vòlto a trascendere il mondo terreno e a ottenere una piena comprensione della filosofia plotiniana.
Le radici delle Enneadi affondano nel fertile terreno del platonismo. Plotino, seguace del pensiero di Platone, eleva la teoria delle Forme archetipiche a nuove vette celestiali. Così come Platone descrive la realtà delle Idee, immutabili e perfette, Plotino introduce l’Uno, la causa primordiale da cui scaturisce ogni esistenza. L’Uno, inaccessibile e trascendente, risuona con l’Iperuranio platonico, ma lo trascende in una forma di unità assoluta che non ammette dualità o alterità.
L’originalità di Plotino brilla nella sua concezione di una gerarchia ontologica che parte dall’Uno, si dispiega nell’Intelletto e si espande poi nell’Anima del mondo. L’Uno, principio supremo e fonte di tutta la realtà, è al di là di ogni essere e pensiero. Da questa ineffabile unità emanano l’Intelletto, che contiene le idee, e l’Anima, che vivifica il mondo. Questa struttura tripartita non solo spiega la natura dell’esistenza ma offre anche un sentiero di ritorno verso l’Uno, attraverso la contemplazione e l’ascesi, invitando l’anima umana a riscoprire la sua origine divina.
Le Enneadi non si limitano a una mera indagine filosofica, ma si ergono anche come guida spirituale per l’anima. Plotino trasforma la filosofia in un percorso religioso, dove il fine ultimo è l’unione mistica con l’Uno. Questa aspirazione all’unione divina riflette un desiderio profondo di purificazione e di ritorno all’origine, che si manifesta in pratiche ascetiche e nella meditazione. La sua visione offre un ponte tra il terreno e l’ultraterreno, tra il finito e l’infinito.
Prima Enneade: etica e pratica
La prima Enneade tratta temi etici e pratici, fondamentali per chi inizia il cammino filosofico. Plotino esamina la condizione umana, discutendo la virtù, il destino e il ruolo della provvidenza e del fato. Approfondisce la questione del male, considerandolo come una mancanza di bene piuttosto che una presenza attiva. Questa Enneade pone le basi per l’ascesa dell’anima, stabilendo che la purificazione etica sia il primo passo necessario.
Seconda Enneade: il mondo naturale
Si focalizza sul mondo naturale e sulla cosmologia. Il filosofo espone la struttura dell’universo, l’eternità del mondo e la questione di come le emanazioni dell’Uno diano vita all’Intelletto e, poi, all’Anima del mondo. Qui, l’attenzione si sposta dalle questioni etiche alla natura dell’esistenza fisica e alla sua origine, tracciando un movimento dall’individuo al cosmico.
Terza Enneade: epistemologia e ontologia
Approfondisce la conoscenza e l’essere. Plotino indaga la natura dell’intelletto umano e la sua relazione con l’Intelletto divino. Tratta le idee di percezione, memoria e tempo e si interroga sulla natura e l’acquisizione della conoscenza vera, che avviene tramite l’unione mistica con l’Intelletto.


Quarta Enneade: l’anima
Plotino vi analizza la natura dell’anima, le sue divisioni e le sue funzioni, oltre alla sua relazione con l’ordine inferiore (il mondo materiale) e con quello superiore (l’Intelletto). Esamina il concetto di anima individuale e universale, sottolineando le possibilità e i mezzi attraverso cui questa possa elevarsi al di sopra del mondo fenomenico.
Quinta Enneade: l’Intelletto
Qui il filosofo raggiunge l’apice della sua speculazione, con un’indagine approfondita sull’Intelletto e sulle idee. Questa parte è cruciale per comprendere la sua teoria delle Forme e la struttura dell’Intelletto, che contiene le idee perfette e immutabili, eterna manifestazione dell’Uno.
Sesta Enneade: l’Uno
La sesta e ultima Enneade rappresenta il culmine del sistema plotiniano ed è dedicata all’Uno, principio supremo e fonte di tutta la realtà. Plotino spiega la natura dell’Uno, che supera l’essere e la conoscenza. Scevera il processo di emanazione dall’Uno all’Intelletto all’Anima e offre una visione profondamente mistica di come l’anima possa unirsi all’Uno, superando ogni dualità e distinzione.
Le Enneadi, con la loro profondità filosofica e l’ardore religioso, si configurano come una danza celestiale di luci che invita ogni anima a sollevarsi oltre il mondo sensibile. Plotino, in questo magistrale incontro tra mente e spirito, tende la mano alla saggezza di Platone, trasfigurandola in una visione che abbraccia l’intero cosmo. Le Enneadi non sono solo un’opera di grande valore filosofico, ma costituiscono un inno alla possibilità di unione dell’anima con il divino, attraverso una comprensione profonda del mondo, dell’anima, e dell’Intelletto, riecheggiando e, allo stesso tempo, amplificando i temi cari a Platone, in una sinfonia di pensiero che trascende i secoli. Nel loro tessuto si intrecciano il rigore intellettuale e la fervida aspirazione religiosa, che non solo fondano il neoplatonismo ma influenzano profondamente la filosofia e la teologia soprattutto cristiana, ponendosi quale faro per quanti cercano la verità oltre le ombre del mondo fenomenico.

 

 

 

Giacomo delle stelle

1798 – 29 giugno – 2024

 

 

 

Giacomo Leopardi, il melanconico cantore delle stelle, nacque sotto un cielo che pareva già tingersi di tristitia infinita. Figlio di nobiltà decadente, trovò rifugio non nelle pur fastose sale del palazzo di famiglia, ma nelle scure biblioteche, dove i libri divennero i suoi veri compagni. Con il suo volto pallido e gli occhi colmi di antica sapienza, si aggirava tra le ombre del pensiero, cercando di svelare i segreti della vita e dell’universo.
La sua filosofia si è levata come un grido soffocato contro l’indifferenza dell’esistenza. Vedeva la natura non come una madre benevola, ma come una matrigna crudele, sorda ai dolori e alle gioie degli uomini. In questa sua visione disillusa, l’uomo era solo, abbandonato a sé stesso, destinato a scontrarsi con l’inevitabile sofferenza.


Eppure, in mezzo a questo buio sconforto, trovava una sorta di sublime bellezza. Nella consapevolezza della propria fragilità, Leopardi vedeva l’essenza stessa dell’essere umano: un eroe solitario, capace di affrontare l’infinito nulla con dignità stoica. La sua poesia è divenuta un inno alla caducità della vita, un lamento dolce e struggente per tutto ciò che è destinato a svanire.
Leopardi, con la sua penna intrisa di malinconia, tracciava versi che erano come stelle cadenti, brevi e brillanti, destinate a spegnersi nel vasto firmamento dell’eternità. Ma la sua voce risuona ancora oggi, un’eco lontana che ci ricorda la nostra vulnerabilità e, al contempo, la nostra straordinaria capacità di trovare bellezza nel dolore.
Così, Giacomo Leopardi rimane per sempre il poeta delle illusioni perdute, un filosofo dell’esistenza che ci invita a guardare dentro noi stessi, a riconoscere la nostra solitudine, ma anche a celebrare la nostra irriducibile umanità.

 

 

 

La Costituzione degli Ateniesi di Aristotele

Oltre la storia, oltre la democrazia

 

 

 

La Costituzione degli Ateniesi di Aristotele è un’opera fondamentale che offre uno spaccato dettagliato e critico della vita politica di Atene, risalente al IV secolo a.C. Nonostante la sua attribuzione ad Aristotele sia stata a lungo dibattuta, il testo resta un esempio pregevole di analisi politica e storica nell’antica Grecia.
L’opera, nella sua struttura attuale, si articola in due sezioni principali: la prima, di carattere storico-istituzionale, comprende i capitoli da I a XLI ed esamina le diverse fasi evolutive della costituzione ateniese, a partire dal processo contro gli Alcmeonidi fino al 403 a.C. La seconda sezione, di natura descrittiva, si focalizza sulle istituzioni della polis, esplorando temi quali i criteri per l’acquisizione della cittadinanza, le magistrature e i sistemi giudiziari. Il manoscritto inizia con una parte mancante e, basandosi su citazioni indirette, si presume che Aristotele abbia iniziato il discorso dal sinecismo di Teseo, anche se, nella versione giunta a noi, la narrazione inizia con il processo ai seguaci di Cilone, per poi trattare la costituzione pre-draconiana (cap. 3), i risultati delle riforme di Dracone (cap. 4-5), Solone, con estese citazioni dalle sue elegie, la tirannide di Pisistrato e dei suoi figli (cap. 6-19), Clistene (cap. 21) e le riforme fino alla restaurazione di Trasibulo, fornendo resoconti talvolta in contrasto con quelli di Senofonte e presentati in una chiave decisamente moderata.
Nel capitolo 41, dopo aver rilevato che i cambiamenti costituzionali dal tempo di Ione sono stati undici, si approfondisce l’analisi del regime ateniese. Qui, il termine politeia non si riferisce a una costituzione formale, ma, seguendo l’accezione platonica, denota l’organizzazione del governo, includendo un’ampia digressione sugli arconti. L’opera si conclude in modo abrupto al capitolo 69, con l’esposizione delle procedure dello scrutinio pubblico.

Il testo, unico sopravvissuto di una collezione più ampia che esaminava le costituzioni di 158 stati della polis greca, consegna un’analisi meticolosa delle leggi e delle istituzioni ateniesi. In particolare, Aristotele descrive la transizione di Atene da un governo monarchico a una democrazia complessa, attraverso varie fasi di oligarchia e tirannide. Ciò fornisce non solo un contesto storico ma anche una riflessione sulle dinamiche del potere e sulla lotta tra differenti classi sociali.
Aristotele esamina il funzionamento delle istituzioni democratiche, come l’Ecclesia (l’assemblea del popolo), il Consiglio dei Cinquecento e i vari tribunali popolari, sottolineando sia le loro virtù che le vulnerabilità. Attraverso questo esame, il filosofo critica alcuni aspetti della democrazia ateniese, come la tendenza alla demagogia e il rischio di corruzione, offrendo così una riflessione ancora attuale sulle fragilità delle strutture democratiche.
Dal punto di vista filosofico, l’opera si inserisce nel più ampio dibattito platonico-aristotelico riguardo la forma ideale di governo. Aristotele, a differenza di Platone, mostra una preferenza per le forme costituzionali miste, che equilibrano elementi di democrazia, oligarchia e monarchia, suggerendo che la stabilità politica si ottenga meglio attraverso un equilibrio tra le varie forze sociali. L’analisi dettagliata delle leggi e delle istituzioni permette ad Aristotele di elaborare una teoria della giustizia distributiva, fondamentale per la sua visione etica e politica. Egli argomenta che la legge deve servire a distribuire equamente sia i doveri che i benefici tra i cittadini, fondamento per una società equa e armoniosa.
La Costituzione degli Ateniesi, quindi, non è solo un testo di inestimabile valore storico, ma anche una riflessione profonda sui principi di giustizia, equità e potere. Aristotele, con la sua abilità di osservatore e critico delle realtà politiche, fornisce strumenti di analisi che superano i confini temporali e geografici, quasi interpellando lettori e studiosi interessati alla filosofia della legge e della politica. Quest’opera rimane, pertanto, un punto di riferimento essenziale per chiunque desideri comprendere non solo la storia politica di Atene, ma anche le dinamiche persistenti nelle strutture di potere e nelle società democratiche.

 

 

 

Il Tractatus Logico-Philosophicus
di Ludwig Wittgenstein

Linguaggio logico e realtà

 

 

 

 

Il Tractatus Logico-Philosophicus di Ludwig Wittgenstein, filosofo che ha segnato profondamente il pensiero del XX secolo, fu pubblicato nel 1921. Volume molto denso, intreccia logica, linguaggio e realtà e ha influenzato la filosofia coeva e il successivo sviluppo della linguistica e delle scienze cognitive.
Il Tractatus fu scritto durante gli anni della Prima guerra mondiale, quando Wittgenstein si arruolò nell’esercito austriaco, partecipando attivamente al conflitto. Gli eventi bellici condizionarono la sua visione del mondo, spingendolo a cercare una forma di espressione che potesse catturare l’essenza della realtà in modo chiaro e inequivocabile. Il lavoro risentì anche dei suoi studi con Bertrand Russell a Cambridge e delle teorie logiche di Gottlob Frege, pur distanziandosi significativamente dai loro approcci più tradizionali alla filosofia del linguaggio.
Il nucleo filosofico del Tractatus è costituito dalla relazione tra linguaggio e mondo. Wittgenstein propone una struttura logica del linguaggio che riflette quella della realtà. Il famoso principio “Il limite del mio linguaggio significa il limite del mio mondo” suggerisce che si possa parlare solo di ciò che si possa pensare; tutto quanto è al di fuori del linguaggio è ineffabile. Il filosofo introduce anche l’idea che la filosofia non debba generare teorie o dottrine, ma piuttosto chiarire i pensieri: il suo scopo è terapeutico e non teoretico.
Dal punto di vista logico, il Tractatus indaga i fondamenti della logica e del pensiero. Wittgenstein utilizza la notazione logica per costruire e dimostrare le sue proposizioni, argomentando che quelle del linguaggio abbiano valore solo in quanto rappresentazioni logiche di fatti del mondo. Questo punto di vista ha dato un contributo fondamentale alla filosofia analitica e alla logica matematica, ispirando, in seguito, movimenti quali il Positivismo Logico del Circolo di Vienna, che cercava di ridurre la filosofia all’analisi logica del linguaggio.
L’opera presenta una struttura rigorosamente organizzata, che riflette l’ambizione dell’Autore di catturare l’essenza della logica e della realtà attraverso il linguaggio. La sua composizione è tanto logica quanto filosofica, ordinata in una serie di proposizioni numerate che si sviluppano in modo gerarchico e deduttivo.
Il Tractatus è diviso in sette proposizioni principali, ciascuna delle quali è espansa da sottoproposizioni numerate in modo decimale. Questa impostazione permette a Wittgenstein di costruire argomenti complessi in modo progressivo e strutturato.
1. Il mondo è tutto ciò che accade
Questa proposizione contempla il concetto di mondo come totalità dei fatti, non delle cose, inteso dal filosofo quale insieme di tutti gli eventi o situazioni fattuali, non una collezione di oggetti.
2. Ciò che accade, i fatti, è il sussistere degli stati di cose
Qui Wittgenstein introduce l’idea degli “stati di cose” (Sachverhalt), combinazioni specifiche di oggetti (Sachen) che possono sussistere o meno. Un fatto è, quindi, una configurazione di oggetti connessi in un modo particolare che esiste nel mondo.
3. Il pensiero logico è l’immagine riflessiva del mondo
Il pensiero è rilevato quale rappresentazione (Bild) del mondo. Tali rappresentazioni hanno una configurazione logica che corrisponde a quella dei fatti che rappresentano. Il pensiero può essere vero o falso, a seconda che abbia o meno un corrispettivo nella realtà.


4. Il pensiero deve occuparsi di ciò che è pensabile e ciò deve essere possibile
Il pensiero deve essere realizzabile nella realtà. La proposizione estende il concetto di logica del pensiero, sostenendo che il pensiero valido deve avere una possibile applicazione pratica o esistenziale.
5. La proposizione è una funzione di verità degli elementi
Le proposizioni sono espressioni del nostro linguaggio che possono essere vere o false. Wittgenstein postula il concetto di “funzione di verità”, suggerendo che il valore di verità di una proposizione dipenda dalle condizioni di verità degli elementi (proposizioni elementari) che la compongono.
6. La forma generale della funzione di verità è: [p, ξ, N(ξ)]
Questa proposizione complessa dettaglia l’idea che ogni proposizione possa essere vista come una funzione di verità e che esista una forma generale per queste funzioni. Il simbolismo utilizzato è tecnico, indicando una funzione che coinvolge proposizioni (p), variabili (ξ) e negazioni (N). Questa è una delle parti più tecniche del trattato, collegando direttamente la logica alla filosofia del linguaggio.
7. Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere
La celebre conclusione del Tractatus traccia un confine epistemologico ed etico. Wittgenstein delimita il territorio della filosofia a ciò che può essere chiaramente espresso attraverso il linguaggio logico. Tutto ciò che ne è al di fuori – valori etici, estetici, metafisici – dev’essere lasciato al silenzio, non perché sia meno importante, ma perché trascende i limiti del linguaggio.
Ogni proposizione principale ha sotto di sé una serie di proposizioni secondarie, che approfondiscono e chiariscono i contenuti delle prime. Questa struttura numerica non è solo un metodo di disposizione, ma anche un mezzo per mostrare come ciascun pensiero sia logicamente collegato al precedente e prepari il terreno al il successivo. Wittgenstein utilizza questa sistemazione proprio per esplorare e definire i limiti del linguaggio e del pensiero. Ogni proposizione, infatti, mira a delimitare cosa possa essere detto chiaramente – ciò che può essere espresso logicamente – e ciò che, invece, sfugge alla capacità descrittiva del linguaggio, come l’etica e l’estetica, che secondo il filosofo si collocano al di là dei confini del linguaggio.
Il Tractatus Logico-Philosophicus rimane un volume profondo anche se a tratti enigmatico. Sebbene Wittgenstein stesso, n alcune sue opere successive, principalmente in Ricerche Filosofiche, ne abbia criticato talune conclusioni, continua a essere un testo imprescindibile per chiunque sia interessato alla filosofia del linguaggio, alla logica e alla relazione tra linguaggio e realtà. Attraverso la sua concisa e talvolta criptica scrittura, Wittgenstein sfida a riflettere sulle limitazioni del linguaggio e sull’essenza della comunicazione umana.

 

 

 

 

La Città di Dio di Agostino d’Ippona

Cittadini nell’anima

 

 

 

 

La città di Dio di Agostino, vescovo di Ippona, è un testo fondamentale nella storia del pensiero cristiano occidentale, una difesa del cristianesimo contro le accuse di aver causato il declino di Roma e una profonda riflessione sul destino dell’uomo e sulla storia universale.
Agostino iniziò a scrivere La città di Dio nel 413 d.C., tre anni dopo il sacco di Roma da parte dei Visigoti guidati da Alarico. Questo evento fu traumatico per l’Impero Romano e molti pagani attribuirono la catastrofe al rifiuto degli dèi tradizionali in favore del cristianesimo. In risposta, il filosofo elaborò l’idea secondo cui la storia umana fosse un campo di battaglia tra due “città”: la Città di Dio e la città terrena (o città del diavolo), che si contendono le anime degli uomini.
Agostino propone un modello della storia profondamente radicato nella teologia cristiana, che si discosta dalle interpretazioni classiche e pagane del suo tempo. Ritiene, infatti, che la storia non sia un ciclo di ascese e cadute senza significato o un semplice sfondo per le gesta umane, ma un palcoscenico su cui si svolge un dramma divino. Questa visione lineare e teleologica è guidata dalla volontà del Signore e orientata verso una conclusione definita: la realizzazione del regno di Dio. Secondo Agostino, ogni evento storico, comprese le calamità e le tragedie, dev’essere visto come parte del disegno provvidenziale divino. Tale approccio rassicura i credenti, suggerendo che, nonostante le apparenze, tutto contribuisce al bene ultimo dell’umanità sotto la sovranità di Dio. Ciò infonde un senso di speranza e scopo, in quanto la storia non è caotica o arbitraria, ma ha una direzione e un significato imposti da Dio.
L’opera di Agostino è celebre soprattutto per la sua distinzione tra due città metaforiche: la Città di Dio e la città terrena. Queste non sono località geografiche, ma rappresentazioni di due modi di esistenza, due ordini d’amore e due destini eterni.
La Città di Dio è caratterizzata dall’amore di Dio fino al disprezzo di sé. Gli abitanti di questa città amano Dio sopra ogni cosa e il loro amore è disinteressato e puro. Seguono le leggi divine e cercano la pace eterna, che viene solo da Dio. La Città di Dio non è limitata al cielo o alla vita dopo la morte; inizia nel cuore dei credenti qui sulla terra e si estende all’eternità. È una comunità fondata sulla fede, la speranza e la carità.
La città terrena, invece, è dominata dall’amore di sé fino al disprezzo di Dio. Gli abitanti di questa città pongono se stessi e i loro desideri al di sopra di tutto, cercando potere, ricchezza e successo mondani. Questa città simboleggia la corruzione, l’avidità e l’orgoglio umano e sarà inevitabilmente destinata alla distruzione. Agostino chiarisce che le due città si intrecciano nella storia umana; i loro abitanti vivono fianco a fianco, spesso indistinguibili l’uno dall’altro, ma i loro destini sono opposti.
La distinzione tra le due città permette ad Agostino di interpretare la storia umana come una lotta morale e spirituale, piuttosto che solo politica o militare. Ogni individuo, ogni comunità e ogni evento possono essere valutati in base a questa dualità, offrendo una chiave interpretativa che va oltre il visibile e il temporaneo.


L’opera è divisa in due parti, distinte ma interconnesse. Nei primi dieci libri, il teologo critica la religione pagana e la storia romana, demolendo l’idea che la grandezza di Roma fosse legata al favore degli dèi pagani. Qui Agostino utilizza la sua vasta erudizione e argomentazioni filosofiche per dimostrare la superiorità morale e teologica del cristianesimo. I libri 1-5 costituiscono una risposta alle accuse che i pagani rivolgevano ai cristiani, attribuendo loro la colpa delle sfortune di Roma, inclusi il sacco del 410 e altri disastri. Agostino ripercorre la storia di Roma, evidenziando come catastrofi simili si fossero verificate anche in epoche di devozione agli dèi pagani. Inoltre, riflette sulla natura della vera giustizia e sulla caducità dei beni terreni. Nei libri 6-10 continua la sua critica della religione romana, discutendo la natura degli dèi gentili e la loro inadeguatezza a fornire una guida morale o a garantire il benessere della comunità. Confronta poi le virtù praticate dai cristiani con quelle dei romani, sostenendo che le cristiane siano superiori perché radicate nell’amore per Dio piuttosto che nella ricerca della gloria terrena. Nei successivi dodici libri espone la sua visione teologica della storia quale dramma cosmico tra bene e male, introducendo concetti che saranno poi fondamentali per la teologia cristiana, come la predestinazione e la grazia divina. I libri 11-14 trattano delle origini delle due città, la città di Dio e la città terrena. Agostino esamina la storia biblica, da Adamo fino al diluvio e all’Alleanza di Dio con Abramo, interpretando questi eventi come manifestazioni del conflitto tra l’amore per Dio (che definisce la Città di Dio) e l’amore per sé (che definisce la città terrena). Nei libri 15-18 l’analisi si sposta sulla storia di Israele e sulle sue figure chiave, come Davide e i profeti, che Agostino intende quali prefigurazioni di Cristo e della Chiesa. Questa parte illustra come la Città di Dio si sia sviluppata e mantenuta attraverso la storia ebraica, nonostante la corruzione e le cadute periodiche. Nei libri 19-20 vaglia il fine ultimo delle due città. Il libro 19 è famoso per la sua trattazione della natura della pace, che definisce come “la pace dei cieli”, superiore e diversa da qualsiasi pace terrena. Il libro 20 tratta della resurrezione dei morti e del Giudizio Finale, momenti in cui le sorti delle due città saranno eternamente decise. Infine, gli ultimi due libri, 21 e 22, mostrano le pene eterne che attendono gli abitanti della città terrena e le beatitudini eternamente godute dagli abitanti della Città di Dio, descrizioni adottate per esortare i lettori a cercare la città celeste e a vivere una vita in conformità con i valori cristiani.
L’influenza di La città di Dio si estende ben oltre il contesto religioso, ispirando anche la filosofia politica e la teoria del diritto. L’opera ha contribuito alla formazione della concezione medievale del regno di Dio sulla terra e ha edificato una base per la teologia della storia, che vede gli eventi umani sotto la guida della provvidenza divina. La città di Dio non è solo un’apologia del cristianesimo in un’epoca di crisi ma anche un profondo esame del significato della storia e del destino umano. La dualità tra la città celeste e quella terrena costituisce una potente metafora della lotta eterna tra bene e male, riflettendo le ansie e le speranze di un’epoca in trasformazione. Attraverso questo testo, Agostino difende la sua fede ma traccia anche una mappa per la comprensione cristiana del mondo che resisterà per secoli.

 

 

 

 

Julius Evola cinquant’anni dopo la morte
(11 giugno 1974)

 

 

 

Julius Evola (1898-1974) è stato uno dei filosofi italiani più controversi del XX secolo, noto per le sue posizioni radicali e la sua visione del mondo che abbraccia il tradizionalismo e il misticismo. Pensatore poliedrico, le sue opere spaziano dalla filosofia alla metafisica, dalla critica culturale alla storia delle religioni. La sua eredità intellettuale continua a suscitare dibattiti sia in ambito accademico che politico.
Giulio Cesare Andrea Evola, conosciuto come Julius, nacque a Roma, il 19 maggio 1898. Dopo aver frequentato il liceo classico, si iscrisse alla facoltà di Ingegneria, che abbandonò per dedicarsi alla pittura e alla letteratura. Durante la sua giovinezza, fu influenzato dai movimenti avanguardistici e dal dadaismo, prima di rivolgersi definitivamente alla filosofia e alla spiritualità.
Il pensiero di Evola è caratterizzato da una forte critica della modernità e da un ritorno ai valori tradizionali e aristocratici. Si opponeva al materialismo, al razionalismo e al progressismo, che considerava responsabili della decadenza dell’Occidente. La sua filosofia si fonda su principi chiave, quali la tradizione, vista come antidoto alla disgregazione moderna e considerata un insieme di principi eterni e universali, trasmessi attraverso le civiltà antiche e le grandi religioni; il superamento dell’Io, influenzato dalle filosofie orientali e dall’esoterismo, sosteneva la necessità di superare l’ego individuale per raggiungere una dimensione spirituale superiore; gerarchia e ordine, una società ideale deve essere gerarchica e ordinata, guidata da un’élite spirituale e aristocratica, vedendo nell’epoca medievale un esempio di tale struttura contrapposta al livellamento democratico moderno; simbolismo e misticismo, cui attribuiva grande importanza come vie per comprendere la realtà trascendente.


Tra le sue opere principali, Rivolta contro il mondo moderno (1934), in cui delinea una critica radicale della civiltà moderna e propone un ritorno ai valori tradizionali; Metafisica del sesso (1958), dove esplora la dimensione spirituale della sessualità vista come un mezzo per raggiungere stati superiori di coscienza; Il cammino del cinabro (1963), un’autobiografia intellettuale in cui riflette sulla sua vita e sulle sue opere, offrendo una visione d’insieme del suo percorso filosofico; Cavalcare la tigre (1961), un manuale di sopravvivenza spirituale per l’individuo moderno, in cui consiglia come affrontare la crisi dei tempi a lui presenti senza compromessi con il decadimento.
L’influenza di Evola si estende ben oltre il suo tempo, avendo avuto un impatto significativo su vari movimenti tradizionalisti, spirituali e politici. Tuttavia, la sua vicinanza a ideologie estremiste e il suo coinvolgimento con il fascismo hanno sollevato numerose controversie e critiche. Rimane comunque una figura polarizzante, il cui pensiero continua a essere studiato e reinterpretato. La sua critica alla modernità e il richiamo a valori trascendenti trovano ancora risonanza in certi ambienti intellettuali e spirituali, dimostrando la perenne attualità delle sue riflessioni.

 

 

 

Monadologia di Gottfried Wilhelm Leibniz

Monade, uno e tutto

 

 

 

 

Pagina manoscritta di Leibniz

Monadologia, scritta nel 1714 e pubblicata postuma nel 1720, è certamente l’opera filosofica più influente di Gottfried Wilhelm Leibniz, filosofo, matematico e scienziato tedesco. Si colloca nel contesto del razionalismo del XVII secolo, un periodo in cui la filosofia e la scienza tentavano di spiegare l’universo anche attraverso il principio di ragion sufficiente e l’uso della logica e della matematica.
Monadologia presenta una metafisica molto originale, con l’introduzione del concetto di monade, entità semplice e indivisibile, che costituisce tutto l’esistente. Ogni monade è una sostanza semplice, senza parti, che esiste indipendentemente da altre monadi. Nonostante, quindi, l’indipendenza e isolamento metafisico, ciascuna monade riflette l’intero universo, in un modo unico alla propria prospettiva particolare. Ciò implica che le monadi non possano influenzarsi fisicamente l’una con l’altra, poiché sono sincronizzate in una maniera non causale, attraverso l’armonia prestabilita da Dio.
Leibniz distingue diversi tipi di monadi, classificandole in base alle loro capacità percettive e cognitive. Questa differenziazione è fondamentale per comprendere come il filosofo concepisca l’organizzazione gerarchica del cosmo, dalla materia inanimata alle anime umane e agli angeli. Le monadi entelechiali o semplici sono quelle più basiche e rudimentali. Caratterizzate da percezioni molto confuse, che non permettono una consapevolezza distinta o riflessiva, sono associate alle entità inanimate, come le pietre e i minerali, e sono poste al livello più basso della scala ontologica, la pura esistenza potenziale o “entelechia” in forma basilare. Le monadi animate o anime possiedono percezioni più chiare e distinte rispetto a quelle entelechiali. Non solo percepiscono, ma sono anche capaci di memoria, il che permette loro una forma minima di consapevolezza temporale. Le monadi animate corrispondono agli animali e differiscono dalle semplici monadi entelechiali per la loro capacità di rispondere in modo più complesso agli stimoli esterni. Le monadi razionali o spiriti, invece, si collocano al livello più elevato nella gerarchia e sono associate agli esseri umani e agli spiriti puri, come gli angeli. Queste monadi non solo hanno percezioni chiare e distinte, ma possiedono anche la ragione, la capacità di riflettere su se stesse e di riconoscere le verità etiche e universali. Queste facoltà permettono alle monadi razionali di essere consapevoli delle leggi immutabili dell’universo e di comprendere il proprio posto nel grande ordine delle cose. La monade suprema, Dio, possiede una infinita capacità di percezione e il potere di prevedere tutti gli eventi dell’universo. Dio differisce da tutte le altre monadi in quanto è l’origine dell’armonia prestabilita, coordinando le relazioni tra tutte le monadi senza alcuna interazione causale diretta tra loro. La monade divina è causa ultima e spiegazione di tutto ciò che esiste, mantenendo il cosmo in un ordine perfetto e razionale.
Ciascuna monade è poi caratterizzata da due qualità principali: percezione e appetizione. La percezione è la rappresentazione interna dello stato dell’universo che ogni monade contiene; l’appetizione è la forza che spinge ogni monade a passare da una percezione all’altra, guidando il suo sviluppo e la sua evoluzione. Le monadi cambiano i loro stati interni non a causa di interazioni esterne, ma a causa dei principi interni che guidano la loro evoluzione.

Questa gerarchizzazione delle monadi consente a Leibniz di spiegare sia la varietà dell’esistenza che l’unità dell’universo. Attraverso questa struttura, egli propone un modello organico dove ogni livello di esistenza contribuisce all’intero, in un modo che riflette la perfezione e la saggezza divine. Le diverse capacità delle monadi, dalla semplice percezione alla piena razionalità, mostrano come l’universo di Leibniz sia profondamente interconnesso e finalizzato, con ogni monade che gioca il suo ruolo specifico all’interno dell’armonia generale.
Uno degli aspetti centrali della filosofia di Leibniz è il principio di ragione sufficiente, secondo cui nulla accade senza una causa o una spiegazione. Tale principio è strettamente legato al cosiddetto ottimismo leibniziano, espresso nella famosa affermazione, “viviamo nel migliore dei mondi possibili”. Il filosofo, infatti, sostiene che, data la sapienza e la bontà di Dio, il mondo esistente sia il migliore che potesse creare, nonostante la presenza del male e del dolore.
Monadologia si può dividere in tre sezioni principali: Principi metafisici generali; Natura e qualità delle monadi; Dio e l’ordine dell’universo, strutturate in una serie di brevi paragrafi, ciascuno dei quali sviluppa un aspetto del sistema filosofico leibniziano. Il filosofo comincia delineando i postulati fondamentali della sua filosofia, l’esistenza delle monadi e il principio di ragione sufficiente. La seconda sezione dettaglia la natura interna delle monadi, il loro funzionamento e come queste riproducano l’universo. La terza esplica il ruolo di Dio quale monade suprema, che contiene le ragioni ultime di tutte le cose e ha creato e organizzato l’universo. Nella parte finale, approfondisce come la sua teoria delle monadi influenzi la comprensione dell’etica, del destino dell’anima umana e la giustizia divina.
La struttura di Monadologia riflette l’intento dell’Autore di offrire una visione coerente e compatta del cosmo. Il suo sistema filosofico risponde alle domande metafisiche sulla natura della realtà, offrendo anche una base per affrontare questioni di etica e teologia in modo razionale e ottimista. La visione di un universo ordinato e determinato da una divinità benevola fornisce una giustificazione filosofica per l’accettazione del destino e per l’impegno nel perseguire il bene, in accordo con l’ordine divino.
Monadologia ha avuto un impatto significativo sulla filosofia e su altre discipline quali la teologia, la scienza e la matematica. Quest’opera di Leibniz rimane una delle più profonde e complesse del periodo moderno. La capacità di sintetizzare questioni di metafisica, teologia ed etica sotto un unico sistema coesivo dimostra la genialità del filosofo e il suo duraturo impatto sullo sviluppo del pensiero occidentale. Attraverso la sua lettura, ci si trova di fronte a una visione del mondo che sfida la comprensione della realtà e del posto dell’uomo in essa, rendendola lezione essenziale per chiunque sia interessato alla filosofia e alla sua storia.