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La professione di fede di Dante e la visione trinitaria
in dialogo con la dottrina di Gioacchino da Fiore

 

 

 

 

Nel canto XXIV del Paradiso, Dante professa un’autentica confessio fidei, nella quale riassume l’essenza della sua credenza cristiana. La dichiarazione comincia con un atto di fede nel Dio unico ed eterno, creatore e motore dell’universo:

E io rispondo: Io credo in uno Dio
solo ed etterno, che tutto ’l ciel move,
non moto, con amore e con disio;
(vv. 130-132)

Il “non moto” è una chiara allusione all’“immobile motore” aristotelico, reinterpretato cristianamente: Dio muove l’universo non per necessità ma per attrazione amorosa, principio che rimanda alla nozione agostiniana della carità come forza ordinatrice del cosmo.
Dante continua proclamando che la sua fede è radicata tanto nella ragione quanto nella rivelazione, riconoscendo quali fonti autentiche di verità i testi sacri dell’Antico e del Nuovo Testamento:

e a tal creder non ho io pur prove
fisice e metafisice, ma dalmi
anche la verità che quinci piove

per Moïsè, per profeti e per salmi,
per l’Evangelio e per voi che scriveste
poi che l’ardente Spirto vi fé almi;
(vv. 133-138)

Il culmine della sua professione di fede è la dichiarazione trinitaria:

e credo in tre persone etterne, e queste
credo una essenza sì una e sì trina,
che soffera congiunto ‘sono’ ed ‘este’.
(vv. 139-141)

La capacità di dire insieme sono (plurale) ed este (singolare) è segno della perfetta unità e distinzione tra le tre Persone della Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo.

L’immaginario trinitario di Dante trova una fonte ricca e suggestiva nella visione storico-profetica di Gioacchino da Fiore (1130-1202), figura dirompente nel pensiero religioso medievale, la cui influenza si è estesa ben oltre la sua epoca. Dante ne riconosce la statura carismatica, riservandogli un posto tra i beati nel Paradiso, accanto a San Bonaventura:

…e lucemi dallato,
il calavrese abate Gioacchino
di spirito profetico dotato.
(Par., canto XII, vv. 139-141)

Il riconoscimento non è casuale. Dante coglie in Gioacchino sia il carisma del profeta sia l’audacia teologica di un interprete che ha tentato di dare forma simbolica e dinamica al mistero centrale della fede cristiana: la Trinità. A differenza dei grandi scolastici suoi contemporanei, Gioacchino non costruì un sistema concettuale, ma una visione simbolica della storia, fondata su una lettura spirituale della Bibbia, delle genealogie, dei numeri e delle analogie tra eventi storici.
Al centro del pensiero gioachimita c’è l’idea che la Trinità non riguardi solo la natura di Dio: è la forma stessa della storia della salvezza. Questo principio si incarna nella sua concezione delle tre età o status temporum, ciascuna sotto il segno di una Persona divina. L’età del Padre è il tempo dell’Antico Testamento, segnato dalla Legge, dalla distanza tra Dio e l’uomo, dalla paura reverenziale; il Padre si rivela nella sua maestà, come legislatore e guida del popolo eletto. L’età del Figlio ha inizio con l’incarnazione del Verbo e prosegue nel tempo della Chiesa. È l’epoca della redenzione, della grazia e dell’imitazione di Cristo. Ma è anche, secondo Gioacchino, un tempo ancora “imperfetto”, perché caratterizzato da mediazioni esterne, strutture giuridiche e potere ecclesiastico. L’età dello Spirito Santo è la grande attesa profetica gioachimita: un’epoca futura e definitiva, in cui la legge scritta sarà superata da una legge interiore, spirituale. In questa terza fase non sarà più necessaria la mediazione della gerarchia ecclesiastica: l’uomo vivrà in libertà spirituale, in una comunità fraterna guidata dallo Spirito. È il tempo della consolatio, della sapienza diretta, della piena interiorizzazione del messaggio cristiano.
Questa struttura trinitaria è più di una cronologia: è una visione escatologica. Ogni età compie la precedente ma senza annullarla, in un movimento analogo alle relazioni interne alle Persone divine. Il Figlio manifesta pienamente il Padre, lo Spirito Santo compie l’opera del Figlio nella vita dell’anima e della comunità.
Nel Liber Figurarum, l’opera che raccoglie le visioni più significative di Gioacchino, la Trinità è rappresentata mediante tre cerchi congiunti, tre volti o alberi genealogici tripartiti. Queste immagini intendono rendere visibile la coappartenenza tra Dio e il tempo, tra struttura divina e destino umano. Le tavole, accompagnate da brevi commenti esegetici, sono strumenti meditativi e pedagogici, rivolti non a definire quanto a svelare attraverso il simbolo.
È probabilmente da queste rappresentazioni che Dante trasse ispirazione per la descrizione visionaria della Trinità nel XXXIII canto del Paradiso, dove tre cerchi colorati e concentrici rappresentano simbolicamente il mistero trinitario.

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;

e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.
(vv. 115-120)

I “tre giri” danteschi, distinti nei colori, ma identici nella sostanza, evocano direttamente l’immaginario figurativo gioachimita. Anche qui, la Trinità non è spiegata, è contemplata.

Pur riconoscendone il valore spirituale, Dante prende le distanze dall’escatologia più radicale di Gioacchino. L’idea di una futura “età dello Spirito” che possa superare la rivelazione evangelica e la struttura della Chiesa suscitò sospetti già nel XIII secolo e fu condannata, in parte, dal Concilio Lateranense IV (1215), che pur non citando Gioacchino per nome, ne mise in discussione le implicazioni teologiche.
Dante non abbracciò queste idee estreme. La sua Commedia non profetizza una terza rivelazione, ma culmina in una visione beatifica atemporale, in cui la verità della fede trova il suo compimento fuori dal tempo, nel punto eterno dell’Amore divino. L’età dello Spirito, per Dante, non è un’epoca storica futura: è una condizione spirituale già accessibile nell’esperienza mistica e nella comunione dei santi. La tensione profetica gioachimita viene così interiorizzata e armonizzata con la dottrina cristiana tradizionale.
Dante e Gioacchino da Fiore convergono su un punto fondamentale: la Trinità come forma dinamica e generativa della realtà. In Gioacchino, la Trinità diventa la struttura profonda del tempo e della storia; in Dante, è la chiave della visione finale, la sorgente dell’essere e della beatitudine.
Entrambi cercano, con mezzi diversi – il simbolo profetico e la poesia teologica – di esprimere l’inesprimibile: un Dio che è insieme Uno e Trino, distante e intimo, giudice e amante, inizio e fine.
Gioacchino aprì una nuova via nell’interpretazione della storia sacra, proponendo un’escatologia radicale della liberazione spirituale. Dante ne raccolse l’intuizione e la trasfigurò, facendo della Trinità non solo la fine del viaggio ultraterreno ma la forma ultima della conoscenza e dell’amore, quell’amor che move il sole e l’altre stelle.