Dal sopralluogo alla perizia per quanti autogrill siete passati, caselli, poi viadotti. Interminabili. Prima che i tentacoli della notte oltrepassassero lo zenit. Dal fiato corto al collasso. Per quanti squallidi androni. Le tue calze smagliate. Il sudore di cui s’impregnò la sua canottiera sbrillentata. Briciole, atomi. Quanto nulla, In quegli amori. Fu la devastazione senza casa. Fu di voi l’assassinio svelto. Quando i mattoni smisero d’ipotizzare il giorno.
Senza di te tornavo, come ebbro, non più capace d’esser solo, a sera quando le stanche nuvole dileguano nel buio incerto. Mille volte son stato così solo dacché son vivo, e mille uguali sere m’hanno oscurato agli occhi l’erba, i monti le campagne, le nuvole. Solo nel giorno, e poi dentro il silenzio della fatale sera. Ed ora, ebbro, torno senza di te, e al mio fianco c’è solo l’ombra. E mi sarai lontano mille volte, e poi, per sempre. Io non so frenare quest’angoscia che monta dentro al seno; essere solo.
(Pier Paolo Pasolini, “Senza di te tornavo“, da “Tutte le poesie”, Volume 2, “I Meridiani” Mondadori, 2003)
Edward Hopper (1882-1967), Opere (video da www.restaurars.altervista.org)
Ascoltate una donna quando vi guarda, non quando vi parla. Nei suoi occhi vedrete voi stessi e la vostra storia, velata dalla struggente malinconia del ricordo e della sua trasfigurazione in ideale. Ma, soprattutto, ravviserete la delicatezza della redenzione. Gli occhi di una donna sono il solo luogo in cui l’abisso conduce alla purificazione, all’empatia universale.
Non pagherà rovistare il bosco che incupa se crolliamo bocconi ai rimorsi del tronco, inabili per le radure più cave, recisi alla base come risultato d’una selezione efferata. Noi salutati dalla vecchiaia che orba incede su zampe di porco, ha stivali di sterco, vesti di rovina. Per familiarità congenita a quel che di più modesto ci riservò a suo tempo l’attimo fragile che zampettammo nel latte. Presi a sassate – stralci di rimproveri semiseri e puerili. O dietro porte sbattute, il fracasso. Che ci fece l’amore prima del sangue. Come i tuoi amanti sbandati. E luridi. Come i tuoi padri. Che prima ti furono figli. Non ci varrà uno sputo nel fango. Calpestare il domicilio straniero. Lo sforzo inumano d’una foresteria nel tinello. Ribattezzare la fatica del tarlo a pensione nei tuoi cassetti, l’asprezza dei terrazzi esposti al buio del Nord, il buco dell’alba che impaglia l’Orsa Maggiore. Non griderà questa pupilla grondante di nebbia, il ginocchio che dalla rabbia storce e poi piega, ribollire il fragore dell’angelo affiorato dal viola dei pruni. Se brandiremo la falce. Per ferirci a ogni ora. Abbatterci l’uno con l’altro, sazi, nauseati, controvoglia. Nel sonno dei principii che adombra il rossore ondivago del bimbo. Siamo cani tramortiti dalle carezze superflue, i guinzagli perduti. Questa è la morte. Che adagia sul prato le risa e spegne le torce e gli abbai finiti.
La terribile ombra d’un invisibile Potere fluttua in mezzo a noi, benché non vista – e visita questo svariato mondo con incostante ala, come le brezze dell’estate che strisciano di fiore in fiore. Come raggi di luna che dietro una montagna fitta di pini scrosciano, visita con sguardo incostante il cuore e il volto di ogni uomo; come colori e armonie la sera, come nuvole disperse nel chiarore delle stelle, come il ricordo d’una musica fuggita, come qualcosa che per sua grazia possa essere cara, e tuttavia più cara per il suo mistero.
II
Spirito di bellezza, che consacri coi tuoi colori ogni pensiero e ogni forma umana su cui splendi – dove te ne sei andato? perché trascorri e lasci il nostro stato, questa oscura e vasta valle di lacrime, deserta e desolata? Chiedi perché per sempre il sole non tessa arcobaleni sul torrente, perché quello che appare, scolori e si dissolva, – perché paura e sogno e morte e nascita sulla giornata della terra gettino un’ombra tale, – e all’uomo venga dato tanto d’amore e d’odio, e di sconforto e di speranza?
III
Da mondi più sublimi nessuna voce ha mai dato ai poeti o ai saggi la risposta – perciò i nomi di Dio, dei demoni e del Cielo, non sono che tracce del loro vano sforzo, incanti fragili, che recitati non aiutano a staccare da tutto quello che sentiamo e vediamo il dubbio, il caso e la mutevolezza. Soltanto la tua luce – come una nebbia sopra i monti, o musica che il vento della notte manda attraverso uno strumento immoto, o il chiaro della luna sulle acque, dà grazia e verità al sogno inquieto della vita.
IV
Speranza, Amore, e Orgoglio, passano come nuvole e ritornano, per qualche incerto attimo concessi. L’uomo sarebbe immortale, e onnipotente, se tu, ignota e terribile, fissassi col tuo glorioso seguito dimora nel suo cuore. Tu messaggero degli affetti che crescono e declinano negli occhi degli amanti – tu – che alimenti il pensiero umano, come l’oscurità una fiamma morente! non ti partire come la tua ombra venne, non ti partire – o la tomba sarà come la vita e la paura, un’oscura realtà.
V
Fanciullo ancora, andavo in cerca di spettri e attraversavo fugace stanze vigili, rovine e anfratti, e boschi al chiarore delle stelle, con timorosi passi perseguendo speranze d’alto conversar coi morti. E invocavo i nomi velenosi che nutrono la nostra giovinezza; non fui ascoltato – non li vidi – quando, mentre ero assorto sul destino del vivere, nel dolce tempo in cui i venti corteggiano tutte le cose vive che si destano per recare nuove gemme e fiori, – all’improvviso, la tua ombra cadde sopra di me; io detti un grido, e giunsi le mani in rapimento!
VI
Allora feci il voto di consacrare le mie forze a te e a ciò che t’appartiene – non l’ho mantenuto? Con cuore palpitante e occhi in lacrime, adesso dai loro taciti sepolcri invoco i fantasmi di mille ore, che in pergolati chiari di visioni, d’ardente studio o dilettoso amore, hanno vegliato con me l’invida notte – e sanno che mai gioia illuminò questa mia fronte non giunta alla speranza che tu avresti liberato il mondo dalla sua oscura schiavitù che tu – terribile splendore, avresti dato ciò che la parola non può esprimere.
VII
Il giorno diventa più solenne e più sereno, trascorso il meriggio – c’è un’armonia in autunno, e una luce nel suo cielo, che nell’estate non si sente e non si vede, come se non potesse esserci, come se non ci fosse stata! Così il tuo potere, che come la verità della natura sulla mia inerte giovinezza discese, alla mia vita d’ora innanzi doni la sua calma – a uno che ti adora, e venera le forme in cui sei infuso, e che i tuoi incanti, spirito bello, spinsero a temere se stesso, e amare tutti gli uomini.
(Percy Bysshe Shelley, Inno alla bellezza intellettuale, 1816)
Sandro Botticelli, “La nascita di Venere” (1482-1485) tempera su tela di lino (172×278 cm), Firenze, Galleria degli Uffizi (video da www.restaurars.altervista.org)
Se incapaci saremo di ricondurre alla notte la via, o indomabilmente affrancati in prossimità del rovo, (fratello di colpe spino severo), dalla polvere stancamente sospinta in fondo al tappeto salveremo forse il filaccio, il refe ritorto, la treccia che mise insieme i pensieri. E faremo quest’ultimo musicare di dischi, il danzare lugubre delle camere spente, un abbuiare di neve. Invogliati a salpare verso gli anni che ci lamparono incontro. Là dove l’alba ci parve. Ridente. Glaciale.
Gli alberi squamano obliqui ai bordi dell’inverno, come noi ottusi e torti, digiuni nel grande spreco di dicembre,
sgraziati a un fervore sbandato di semafori, miseri capricci di foglie avanzate dai giorni dello scalpore, quelli in cui io ti spogliai di me, tu di te.
Cosa ti piaceva prima? Le situazioni calme. Non subire le scosse. Non avere sorprese. Così infatti sistemavi. Una stanza in totale disordine poteva occuparti l’intera domenica. Tuo padre si portava tuo fratello a Villa Ada, tua madre di là, e tu rassettavi. Facendo sparire. Levando cose. Una di quelle domeniche per caso ti uscì fuori una bestemmia. Ti attraversò il cervello come un ferro da calza. Dopo non te ne liberavi. Anzi, più tentavi di distrarti, più il ferro ti affondava nelle meningi. E allora hai pensato che presto Dio sarebbe sceso dall’alto dei cieli per ridurti in un mucchietto di cenere. Non avevi il cane ma un paio di minuscole tartarughe d’acqua che arrivato l’inverno si addormentarono. Siccome non sapevi granché del letargo, credendole morte le hai infilate in una scatola di pastiglie Valda e le hai buttate nel cestino della spazzatura. Le hai ammazzate. Con la tua buona fede. Poi un giorno eri in villeggiatura. E c’era la contadina. Nera, con gli incisivi piombati. Prese il coniglio dalla gabbia. Per le orecchie. E lo sgozzò col coltello da cucina. Eri lì, pietrificato davanti a tutto quel sangue che fiottava, la tua bocca senza saliva. Il coniglio stramazzava e la contadina nera con le capsule nere rideva. E tu certe volte sei ancora lì, in piedi, le gambe come il granito, la sera che scivola sul mondo come una cappa asfissiante, senza colori.
Presumibilmente, nemmeno Francesco Petrarca amò se stesso così tanto, quanto quest’uomo. Se il poeta aretino avesse potuto conoscerlo, certamente avrebbe trovato, come desiderò per tutta la vita, un giustissimo estimatore del suo talento e della sua opera. Pietro Bembo nacque a Venezia il 20 maggio del 1470, figlio di Bernardo, patrizio e senatore della Serenissima, ed Elena Morosini. Trascorse l’infanzia seguendo un po’ dovunque il padre, soggiornando a Firenze, dove si innamorò del fiorentino e di quel modo strano di mangiarsi o non pronunciare alcune consonanti (fenomeno fonetico detto “gorgia”) e a Messina, in cui ebbe modo di imparare il greco da un maestro d’eccezione, Costantino Lascaris. Il genitore avrebbe voluto avviarlo alla carriera politica, ma Pietro preferì quella ecclesiastica, che lo portò fino alla berretta cardinalizia. Sebbene ad un uomo di chiesa dovrebbe essere precluso finanche il concetto di amore, se non rivolto a Dio, il futuro porporato non si fece mancare nulla. Pare, addirittura, che durante un lungo soggiorno a Ferrara, avesse avuto una storia al pepe con Lucrezia Borgia, sorella di Cesare e figlia di papa Alessandro VI, all’epoca sposa di Alfonso d’Este. Certo, invece, fu l’amore per Ambrogina Faustina Della Torre, detta la Morosina, dalla quale ebbe tre figli e con la quale visse sfacciatamente, in barba alla condizione di religioso. Si è sempre detto che il buongiorno si veda dal mattino e, infatti, la prima opera letteraria del Bembo fu proprio un dialogo d’amore, intitolato Gli Asolani, tre libri in prosa con qualche canzone. L’operetta è ambientata ad Asolo, cittadina in provincia di Treviso dove, nella villa della regina di Cipro, tre giovani veneziani ragionano d’amore in occasione delle nozze di una damigella della padrona di casa. Apre il tema Perottino: “L’amore è una parola. L’amore non esiste. E’ soltanto un sogno, causa di tutti i malesseri e di tutti i dolori”. Seguita il tema Gismondo: “Non è vero! L’amore è la cosa più bella che possa dare la felicità, la gioia e il piacere”. Conclude Enrico Maria Papes – no, scusate, quelli erano I Giganti (dalla canzone “Tema”, I Giganti, 1966) – conclude Lavinello: “Cari amici, voi non avete capito proprio un bel niente! L’amore è il desiderio della vera bellezza e più si è bello, tanto più si è degni d’amore”. Io aggiungerei: “Allora chi è brutto va a fare l’eremita!” Bembo certamente non lo fece, nonostante, a vedere un suo ritratto, non è che fosse proprio un adone, anzi.
Le Prose della volgar lingua e le Rime
Prose di Messer Pietro Bembo nelle quali si ragiona della volgar lingua scritte al Cardinale de’ Medici che poi è stato creato a Sommo Pontefice et detto Papa Clemente Settimo divise in tre libri. Questo è il titolo completo del dialogo, che l’Autore immagina abbia avuto luogo a Venezia, nel salotto di suo fratello Carlo, tra lo stesso Carlo, Ercole Strozzi, Federico Fregoso e Giuliano de’ Medici. Gli schieramenti: a favore del volgare, Carlo Bembo, Giuliano de’ Medici e Federico Fregoso; per il latino, Ercole Strozzi. L’oggetto principale della dotta discussione verte sulle caratteristiche della lingua da usarsi quando si vuole scrivere in volgare. Bembo, il quale parla per bocca di suo fratello, sostiene che la lingua perfetta sia il fiorentino dei grandi scrittori del Trecento. Quindi, è da impiegarsi quello di Petrarca, quando si vogliono comporre poesie, e quello di Boccaccio, quando si vuole scrivere in prosa. Ma non si ferma qui, perché tenta anche di stabilirne una grammatica, con esempi e dimostrazioni. Le Prose della volgar lingua sono state un’opera fondamentale per lo sviluppo della lingua italiana. Conclusero, in parte, quel dibattito, che andava avanti da un secolo e mezzo, sul volgare, sul latino e sui loro usi. Furono parte della base teorica di quel movimento culturale cinquecentesco, detto Classicismo, che influenzò le esperienze letterarie di quel secolo.
L’allegro cardinale, inoltre, durante tutta la sua vita, compose sonetti e canzoni, ispirandosi interamente allo stile del Petrarca (immagine in alto). Esse rappresentano il compendio “pratico” alle Prose della volgar lingua. “Vi ho spiegato come si fa. A adesso ve ne do l’esempio”, è come se avesse voluto dire.
Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura, Ch’all’aura su la neve ondeggi e vole, Occhi soavi e più chiari che ‘l sole, Da far giorno seren la notte oscura.
(Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura, vv. 1 – 4)
Io ardo, dissi, e la risposta invano, Come ‘l gioco chiedea, lasso, cercai; Onde tutto quel giorno e l’altro andai Qual uom, ch’è fatto per gran doglia insano.
(Io ardo, dissi, e la risposta invano, vv. 1 – 4)
Amor, mia voglia e l’vostro altero sguardo, Ch’ancor non volse a me vista serena, mi danno, lasso, ognor sì grave pena, ch’io temo no l’soccorso giunga tardo.
(Amor, mia voglia e l’vostro altero sguardo, vv. 1 – 4)
Se delle mie ricchezze care e tante, E sì guardate, ond’io buon tempo vissi Di mia sorte contento, e meco dissi: – Nessun vive di me più lieto amante;