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La dichiarazione dell’ὁμοούσιος
al Concilio di Nicea del 325 d.C.

 

 

 

 

Nel IV secolo, il cristianesimo uscì dalla clandestinità. Dopo tre secoli di persecuzioni, l’Editto di Milano del 313 d.C., promulgato dall’imperatore Costantino, garantì la libertà religiosa a tutti i culti, compreso quello cristiano. La pace esterna, però, fece emergere divisioni interne. Una delle più critiche riguardava la natura di Cristo: chi è esattamente Gesù di Nazareth? Come può essere insieme vero Dio e vero uomo?
In un contesto di pluralismo teologico, la dottrina cristiana era ancora in fase di definizione. Non esisteva un “catechismo” unificato. Le Scritture erano lette in modi diversi. I concetti filosofici greci, soprattutto quelli neoplatonici, si intrecciavano con la rivelazione giudaico-cristiana. Il rischio di eresie, confusioni dottrinali e scismi era concreto.
Il presbitero Ario, attivo ad Alessandria d’Egitto, pose la questione con logica razionale e inflessibile: se Dio è assolutamente uno, immutabile e ingenerato, non può avere un Figlio consustanziale. Il Figlio dev’essere stato creato in un momento preciso. Per Ario, il Figlio è una creatura suprema, attraverso la quale Dio ha creato il mondo, ma non Dio in sé. Il suo pensiero era teologicamente coerente anche se incompatibile con l’esperienza liturgica e salvifica della Chiesa, che adorava Cristo come Signore e Salvatore.
L’avversario più deciso di Ario fu Atanasio di Alessandria, che al tempo del Concilio aveva solo una trentina d’anni ma già una chiarezza dottrinale impressionante. Per Atanasio, negare la piena divinità del Figlio significava distruggere la salvezza cristiana. Solo Dio può salvare. Se il Figlio non è Dio, non può deificare l’uomo. Se è creatura è egli stesso bisognoso di salvezza. La sua posizione era che il Figlio non fosse una creatura, ma eterno come il Padre, generato da Lui, ma della stessa sostanza. Il Figlio non è un secondo Dio, è Dio stesso nella distinzione delle Persone.
Nel 325 d.C., Costantino convocò il Concilio a Nicea, non solo per motivi religiosi ma anche per preservare l’unità dell’Impero. Circa 300 vescovi, provenienti da tutto il mondo romano, si riunirono per affrontare anche questa questione.

Dopo intensi dibattiti, emerse la necessità di una formulazione inequivocabile. Il termine scelto fu ὁμοούσιος (homoousios), ovvero “della stessa sostanza”, per dire che il Figlio non è “simile” (ὁμοιούσιος) al Padre, né subordinato, ma identico nella sua essenza divina. Questa affermazione non venne senza resistenze. Alcuni vescovi orientali temevano che il termine potesse suggerire una confusione delle persone nella Trinità o che fosse troppo vicino al modalismo. Tuttavia, l’urgenza di rispondere chiaramente all’arianesimo prevalse.
Il “Simbolo niceno” fu redatto con una precisione senza precedenti. La sezione su Cristo recita: “Crediamo in un solo Signore Gesù Cristo, il Figlio di Dio, generato dal Padre, unigenito, cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, consustanziale al Padre (ὁμοούσιον τῷ Πατρί)…”.
Questa formula ha tre punti centrali: il Figlio è Dio vero, non un essere intermedio; è generato, non creato, la sua origine è eterna e non temporale; è ὁμοούσιος, della stessa sostanza del Padre, quindi, coeterno, consustanziale, coeguale.
La decisione del Concilio, tuttavia, non chiuse la questione. Anzi, l’arianesimo conobbe una lunga stagione di successi politici, appoggiato da imperatori successivi a Costantino. Lo stesso Atanasio fu esiliato più volte. Per oltre 50 anni, l’Oriente cristiano oscillò tra posizioni semi-ariane e formule di compromesso, come l’“homoiousios” (simile nella sostanza), ma sempre evitando il termine niceno. Solo nel Concilio di Costantinopoli (381 d.C.), la dottrina nicena fu definitivamente riaffermata. Il “Credo” niceno-costantinopolitano, ancora oggi in uso nelle Chiese cattolica, ortodossa e in molte protestanti, è l’evoluzione di quella formula.
Il termine ὁμοούσιος possiede, dunque, un rilievo centrale nel pensiero cristiano, toccando vari ambiti fondamentali della teologia. Dal punto di vista soteriologico, affermare che Cristo è della stessa sostanza del Padre significa riconoscere che solo un Dio pienamente Dio può salvare pienamente l’uomo. Se Cristo fosse una creatura, per quanto eccelsa, non potrebbe comunicare la vita divina; solo l’unità ontologica con il Padre garantisce la piena efficacia della salvezza.
Sul piano trinitario, l’ὁμοούσιος fonda l’uguaglianza tra le Persone divine: Dio è uno nell’essenza, ma trino nelle persone. Questo concetto si è imposto come fondamento dogmatico della dottrina trinitaria, marcando in modo netto la differenza tra la fede cristiana e ogni forma di subordinazionismo o politeismo.
Da un punto di vista ontologico e metafisico, l’uso di ὁμοούσιος segna l’ingresso della teologia cristiana in una riflessione profonda sull’essere, la sostanza e le relazioni eterne. La Chiesa fece propria la terminologia filosofica greca – concetti come sostanza, essenza e generazione – per esprimere il mistero della rivelazione, mostrando che la fede potesse confrontarsi con il pensiero razionale senza tradire il suo contenuto.
L’inserimento del termine ὁμοούσιος nel “Credo” niceno non fu una scelta accidentale o puramente filosofica. Fu un atto di coraggio teologico e pastorale, capace di dire con forza: in Cristo, Dio stesso è venuto a salvare l’uomo. Quella parola, scelta per la sua chiarezza e potenza, ha tracciato il confine tra ortodossia ed eresia, tra verità e confusione, tra un Dio lontano e un Dio che si fa carne.