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Su “La Tempesta” di William Shakespeare

 

 

 

Nel profondo vortice di un mare furioso, dove l’ira di Nettuno si scaglia con rabbia sulle indifese navi, nasce l’incanto di “La Tempesta”, sublime creazione shakespeariana, che gioca tra i fili dell’arte magica e della profonda umanità. Quest’opera, ultima gemma nata dalla penna del Bardo, è, in realtà, un viaggio che trasporta l’anima oltre i confini del reale, in un’isola dove ogni sasso e ogni granello di sabbia consegnano mistero.
Il dramma si apre con una tempesta evocata dal mago Prospero, il quale, con il suo potente libro di incantesimi, scatena i venti e le onde per far naufragare una nave vicino alla sua isola. Questo naufragio non è solo un caso di cieca vendetta, ma una mossa calcolata per riportare nella sua vita coloro che lo avevano tradito, compreso suo fratello Antonio, che gli aveva usurpato il ducato di Milano.
Sull’isola, Prospero vive con sua figlia Miranda, cresciuta lontana dalla civiltà e ignara delle vicende che hanno portato all’esilio suo e del padre. Insieme a loro, vi è Calibano, un essere deforme e brutale, figlio della strega Sycorax, precedentemente signora dell’isola. Calibano serve Prospero, sebbene con rancore e malcontento, sognando di liberarsi dal suo controllo. Prospero usa il suo spirito servo, Ariel, per controllare gli eventi sulla nave naufragata e guidare i sopravvissuti sull’isola. Tra questi vi sono Ferdinando, il figlio del re di Napoli, e altri nobili come Gonzalo, il gentile consigliere che aveva aiutato Prospero e Miranda a fuggire anni prima. Mentre Ferdinando si separa dagli altri superstiti, incontra Miranda e i due si innamorano rapidamente, un’unione che Prospero desidera segretamente, ma che mette alla prova con ostacoli e impacci.
Nel frattempo, Calibano si allea con Stefano, il servo del re, e Trinculo, il buffone, in un comico ma fallimentare tentativo di rovesciare Prospero. Questi complotti secondari si intrecciano con la magia e le illusioni create da Prospero per redimere i suoi nemici, il quale, però, dopo aver orchestrato una serie di rivelazioni e pentimenti, decide di perdonare i suoi avversari, rivelando l’umanità e la saggezza acquisita durante gli anni di esilio. Restituisce Ferdinando a suo padre e rinuncia alla sua magia, manifestando il suo desiderio di lasciarsi alle spalle le manipolazioni e i trucchi per tornare alla vita normale a Milano.

“La Tempesta”, William Hamilton (1790 c.a.)

La tempesta che dà il titolo all’opera è l’inizio di una catena di riconciliazioni, un tumulto delle onde che rispecchia il trambusto dei cuori, portando i naufraghi verso una riva di perdono e rinascita. Antonio, Alonso e i loro complici affrontano il naufragio dei loro piani e delle loro anime, ritrovandosi faccia a faccia con i propri demoni, in un confronto che scuote le fondamenta del loro essere. Calibano, mostro e vittima, è la voce dell’isola stessa, selvaggio e indomito, figlio di una strega e di un diavolo, evoca un’empatia torbida e profonda, un richiamo alla libertà che rifiuta catene, anche quando queste sono forgiate dalle stelle. Ariel, spirito etereo e fedele servitore di Prospero, danza tra l’aria e il fuoco, un soffio di vento che compie i desideri del suo padrone con una grazia che sfiora la tristezza, la malinconia di chi sogna una libertà ancora lontana.
Shakespeare tesse una trama dove magia e realtà si intrecciano inestricabilmente, lasciando che il soprannaturale e l’umano si influenzino a vicenda, in un balletto di cause ed effetti. “La Tempesta” è un’opera di straordinaria profondità psicologica, che esplora temi di potere, controllo, libertà e il difficile percorso verso il perdono. In questo testo, Shakespeare sembra quasi dialogare con se stesso, riflettendo sul potere dell’arte e del teatro di evocare tempeste e di placarle, di creare mondi e di dissolverli, proprio come Prospero con la sua bacchetta magica. Alla fine, quando il mago rinuncia ai suoi poteri, assistiamo forse al commiato del drammaturgo dall’arte che tanto ha amato e plasmato. “La Tempesta” è, quindi, più di una semplice rappresentazione teatrale; è un inno al potere salvifico della narrazione, un richiamo poetico che risuona attraverso i secoli, sussurrando che anche nei nostri giorni turbolenti, il teatro e la letteratura possiedono la magica capacità di trasformare la più oscura tempesta dell’anima in una calma, luminosa alba.
L’opera si conclude con una celebrazione del potere riconciliatore del perdono e dell’amore. Nell’ultima scena, la figura di Prospero emerge in tutta la sua complessità umana e magica. Egli si rivolge direttamente al pubblico, in un rompere della quarta parete che è tanto un atto di magia quanto uno di umiltà. Con un discorso che sovrappone speranza e malinconia, Prospero chiede di essere liberato dal peso dei suoi poteri magici e dall’isolamento dell’isola attraverso l’applauso del pubblico, un gesto che simboleggia il perdono e l’accettazione collettiva. “La Tempesta”, in questo epilogo, si rivela non solo come un’opera di intrattenimento ma anche come un profondo esame della natura umana e del suo potenziale di cambiamento e rinnovamento. Shakespeare, con maestria ineguagliabile, collega i temi del potere e della giustizia con quelli della redenzione e del riscatto personale. Il drammaturgo esplora come il potere possa essere usato sia per dominare che per liberare, e come alla fine, il più grande atto di potere possa essere il perdono. In quest’opera, il teatro stesso diventa uno strumento di magia e di guarigione. Shakespeare usa il palcoscenico per creare un luogo dove le tempeste dell’anima possono essere quietate e i legami spezzati possono essere rinnovati. L’arte del teatro è mostrata come un mezzo per esplorare e alla fine pacificare i conflitti interni e esterni, offrendo al pubblico non solo una fuga dalla realtà, ma anche una via per comprendere meglio se stessi e il mondo.
“La Tempesta” si conclude, quindi, con un inno alla possibilità di trasformazione e di rinnovamento che risiede in ognuno di noi. L’appello finale di Prospero per un applauso che lo liberi diventa un simbolo potente della capacità dell’arte di connettere, curare ed elevare lo spirito umano. In questo modo, l’opera di Shakespeare rimane un testamento luminoso della sua capacità di fondere temi profondi con un intrattenimento vivace e coinvolgente, unendo il pubblico in una riflessione comune su potere, giustizia e la redenzione umana attraverso l’immortale arte del teatro.

 

 

 

Violetta Elvin, étoile della danza di fama mondiale, firma l’autorizzazione alla pubblicazione di “Dance The Love – Una Stella a Vico Equense”, terzo e ultimo romanzo de “La Trilogia Sorrentina” di Raffaele Lauro

 

 

Violetta Elvin, nata Prokhorova e vedova di Fernando Savarese, ha firmato, a Vico Equense, Palazzo Savarese, insieme con il figlio Antonio Vasilij Savarese, nelle mani di Riccardo Piroddi, l’autorizzazione alla pubblicazione del romanzo “Dance The Love – Una stella a Vico Equense”, il terzo e ultimo romanzo de “La Trilogia Sorrentina” di Raffaele Lauro, edito dalla GoldenGate Edizioni. L’Autore, per questo lavoro, si è avvalso della consulenza di Antonio Vasilij Savarese, Salvatore Ferraro, Antonio Cioffi e Riccardo Piroddi. La nuova e attesissima opera dello scrittore sorrentino sarà presentata a Vico Equense, in anteprima nazionale, a fine luglio 2016, nell’ambito del Social World Film Festival 2016, la Mostra Internazionale del Cinema Sociale, diretta dal regista Giuseppe Alessio Nuzzo, con una serata di gala, in onore della grande danzatrice russa. Dopo Vico Equense, il libro sarà presentato a Meta, a Piano di Sorrento, a Sorrento, a Massa Lubrense, a Positano, a Capri e a Roma, nella storica location cinquecentesca del Casale di San Pio V, nuova e prestigiosa sede della Link Campus University di Roma, in attesa delle programmate tappe di Londra e di Mosca.

 

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L’Illuminismo a Milano: Il Caffè, Pietro Verri, Alessandro Verri e Cesare Beccaria

 

Il Caffè

Questa rivista, uscita in settantaquattro numeri, uno ogni dieci giorni, tra il giugno 1764 e il maggio 1766, raccolse intorno a sé i maggiori intellettuali dell’Illuminismo milanese. Fondata da Pietro Verri, ad essa facevano capo i membri dell’Accademia dei Pugni, società culturale tra i cui soci sarebbero stati annoverati anche Primo Carnera, Nino Benvenuti, Patrizio Oliva e caffe-201x300Agostino Cardamone (scherzo!), e così chiamata a causa dell’epilogo molto animato delle riunioni: scazzottate degne di Bud Spencer e Terence Hill. Gli articoli, tutti molto interessanti e riguardanti gli argomenti più vari e di interesse pubblico, ebbero le firme prestigiose di Pietro e Alessandro Verri, Cesare Beccaria, Pietro Secchi, Paolo Frisi, per citare i più autorevoli. Il comitato di redazione decise di rivolgersi ad un pubblico nuovo di lettori, non solo sapientoni e letterati, ma anche gente comune, piccoli professionisti, artigiani e donne. Questa fu una grande novità perché permise al sapere di uscire dalla torre d’avorio, dove, per secoli, era stato confinato, e di mettersi al servizio di tutti, secondo quel precetto tipicamente illuminista dell’uso intelligente della conoscenza per migliorare la società. Nei quattro fogli del Caffè, infatti, si poteva leggere tutto quello che era di interesse pubblico, dal commercio all’economia, dalla medicina all’agricoltura, dalla sanità alla politica.

Pietro Verri

Figlio del conte Gabriele e di Barbara Dati, nacque a Milano il 12 dicembre 1728. Il padre, col quale non ebbe mai un buon rapporto, fu molto severo, tanto da farlo studiare presso i collegi più terribili di Milano e provincia, esperienze che segnarono profondamente l’animo del giovane Pietro.Pietro_Verri Al ritorno in famiglia, i litigi col babbo ripresero più forti di prima, fino alla rottura definitiva, quando divenne l’amante di Maria Vittoria Ottoboni Boncompagni, moglie del duca Gabrio Serbelloni, gente molto in vista a Milano. Fu scandalo e il conte Gabriele, un alto funzionario del governo milanese, per lo scorno quasi non usciva più di casa. La relazione con la duchessa, donna molto colta e chic, instillò nel giovanotto la passione per il teatro e per la cultura francese, oltre che la voluttà nell’alcova. Il ménage con l’aristocratica amante, però, dopo qualche anno finì, lasciandolo così male da decidere di darsi alla vita militare, andando a combattere come ufficiale dell’esercito austriaco contro i prussiani. Al rientro a Milano fondò, col fratello Alessandro e i “pugili” della citata Accademia, Il Caffé e, allo stesso tempo, prese lavoro nell’amministrazione pubblica austriaca del capoluogo lombardo. A questi anni risale la composizione delle sue opere principali: le Meditazioni sull’economia politica, il Discorso sull’indole del piacere e del dolore, le Osservazioni sulla tortura, e i Ricordi a mia figlia, scritto per la figlioletta Teresa, nata proprio poche settimane prima. Posso dire con (quasi) certezza che, senza Pietro Verri e i suoi instancabili sforzi per la cultura e la sua diffusione, l’Illuminismo milanese sarebbe stato molto meno luminoso.

Alessandro Verri

Fratello minore di Pietro, nacque nel 1741 e fu più furbo del maggiore perché, per non farsi ammorbare oltremodo dal padre, molto presto, fece i bagagli e, dopo aver collaborato al Caffè, se ne andò Alessandro_Verria Parigi e Londra e, poi, a Roma, dove visse fino alla morte, nel 1816. Appassionato di teatro e lui stesso attore per diletto, fu uno dei primi a tradurre le opere di Shakespeare in italiano. Scrisse anche due romanzi, le Avventure di Saffo poetessa di Mitilene e la Vita di Erostrato. Avendo vissuto così tanto tempo lontano da Milano, pian piano, abbandonò lo spirito illuminista che aveva caratterizzato la prima fase della sua vita e ripiegò su visioni un po’ più cupe dell’esistenza, che saranno, poi, determinanti nel Romanticismo. Ne è prova una sua opera, le Notti romane al sepolcro degli Scipioni, scritto che compose in occasione del ritrovamento archeologico delle sepolture di quest’importante famiglia della Roma antica, in cui figura, che dalle tombe escano le ombre di romani illustri per discutere della grandezza e della rovina dell’impero più potente della Terra.

Cesare Beccaria

Il marchese Beccaria nacque a Milano nel 1738. Come Pietro Verri ebbe grosse e dure litigate con i genitori, a causa di una donna che, però, non era  moglie di un nobile conosciutissimo, quanto una ragazza di famiglia povera, Teresa Blasco, che lui amò tantissimo e che, grazie Cesare_Beccaria_in_Dei_delitti_cropanche all’aiuto proprio del Verri, il quale mediò con i suoi parenti, riuscì a sposare. Oltre ai contributi giornalistici al Caffè, Beccaria fece due cose importanti nella vita: la prima, diede i natali alla figlia Giulia, la futura madre di Alessandro Manzoni, e la seconda, scrisse Dei delitti e delle pene, un saggio che ebbe un successo esagerato in tutta Europa, tanto da farlo diventare l’idolo di molti dei filosofi dell’Illuminismo francese, in particolare di Voltaire. In questo trattato, colmo di spirito illuminista, Beccaria sostiene l’abolizione della pena di morte perché, a suo avviso, questa non fa né diminuire i crimini, né è buona come deterrente. “È più utile prevenire i delitti mostrando la certezza della pena – scrive l’autore – perché, per un criminale, è meglio morire che passare la vita in galera. Ma quando un ergastolano scappa dal carcere e mette in pericolo la vita dei cittadini, allora può essere messo a morte.” Questo libro dovrebbe rappresentare un articolo fondamentale della Costituzione di molti paesi del mondo, i quali, ahimè, evidentemente, ancora non hanno ancora visto o sentito parlare di Illuminismo.

 

20 giugno 2015. Sorrento. Libreria Indipendente

 

Serata di teatro leggero. Quattro situazioni comiche e non solo, intervallate da letture di poesie, e portate in scena nel ristretto spazio che concede una libreria.
Quattro scene nelle quali, più che il corpo, contano il viso, lo sguardo, la voce e le parole. E la musica.
In apertura, “L’attore”, breve pièce scritta da Mimmo Bencivenga, interpretata da Marilena Altieri e Nino Casola. Due poesie di Totò, “Ludovico e Sarchiapone” e “’A livella”, lette da Pasquale Carrino. A seguire, “La separazione” di Ambrogio Coppola, divertente sketch interpretato da Nino Casola e dai bravissimi coniugi Teresa e Armando Simioli. Ancora letture di poesie, questa volta di Raffaele Viviani: “’O vico”, recitata da Pasquale Carrino; “’O muorto ‘e famme”, interpretata da Armando Simioli, e “’A caravana”, declamata da Benedetta De Nicola. In conclusione, un’altra breve pièce di Mimmo Bencivenga, speculare a quella di apertura, “L’attrice”, interpretata da Marilena Altieri e Nino Casola.
Introduzione al mondo del racconto recitato e intermezzi di Riccardo Piroddi. Organizzazione generale e commento musicale di Mimmo Bencivenga, proprietario della Libreria Indipendente.

 

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Le foto delle performances sono state scattate da Carlo Alfaro