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Ombre e radici

La “selva oscura” della Divina Commedia
e la Foresta di Fangorn de Il Signore degli Anelli

 

 

 

 

Due autori, due epoche, due universi letterari. Dante Alighieri e J.R.R. Tolkien appartengono a mondi molto diversi: il primo è il poeta teologo del Medioevo cristiano, il secondo il filologo inglese che, nel cuore del Novecento, crea una delle mitologie moderne più potenti e complesse. Eppure, nonostante le distanze storiche e culturali, entrambi attraversano – letteralmente e metaforicamente – una foresta. In Dante, la “selva oscura” è il punto di partenza del viaggio nell’aldilà, un luogo cupo e confuso, specchio del caos interiore del poeta e allegoria del peccato, della perdita della retta via. È una foresta che non ha contorni geografici ma psicologici e spirituali, dove dominano il disorientamento e la paura. In Tolkien, invece, la Foresta di Fangorn è un organismo antico e cosciente, abitato dagli Ent, creature arboree che incarnano la memoria del mondo primordiale. Non è un simbolo della perdizione ma un’entità che resiste al tempo e alla distruzione operata dagli uomini. Fangorn è misteriosa, sì, ma non malvagia: rappresenta una natura viva, dotata di volontà, capace di giudicare e persino punire. Laddove, quindi, la “selva oscura” è introversione e colpa, la foresta tolkieniana è presenza cosmica, memoria ecologica, forza che sfugge al controllo umano. Esaminare, seppure nella brevità di questo scritto, le differenze tra le due foreste sollecita a confrontarsi con due visioni del mondo radicalmente opposte. Per Dante, la natura è subordinata all’ordine divino e ha valore solo in quanto riflesso della giustizia ultraterrena; per Tolkien, essa ha dignità autonoma, è depositaria di un’antica sapienza e può essere più giusta degli uomini stessi. Anche il tempo segue logiche diverse: nel mondo medievale è orientato verso l’eternità; nella Terra di Mezzo, è ciclico, mitico, e la foresta diventa testimone di ere dimenticate. Infine, cambia anche il volto del male. Per Dante, il male è una deviazione morale e teologica, una scelta personale che conduce alla dannazione. In Tolkien, è la corruzione del potere, la violenza contro l’equilibrio naturale, la smania di dominio che distrugge ciò che non può comprendere. Due foreste, dunque, che aprono due passaggi narrativi diversi: uno verso la redenzione, l’altro verso la resistenza. E, in entrambi i casi, attraversarle non è mai solo un atto fisico: è un’esperienza trasformativa che interroga profondamente l’essere umano.

All’inizio della Divina Commedia, Dante si ritrova nella “selva oscura”, senza sapere come ci sia entrato. Questa incertezza non è un errore narrativo: è parte della sua condizione spirituale. La selva non è uno spazio geografico ma uno stato dell’anima. È il punto più basso dell’esistenza morale: un luogo dove la luce della verità è assente, dove l’orientamento interiore è perduto. L’oscurità non è quella della notte o delle fronde fitte ma quella del peccato, della colpa, della distanza da Dio. Dante non descrive la foresta nei termini di un naturalista: non ci sono alberi identificabili, non c’è paesaggio. Ciò che conta è l’effetto psichico e teologico. La “selva” è lo spazio simbolico della crisi, la prova iniziale, il fondale del principio di una redenzione. Il fatto che la “diritta via era smarrita” è più importante di dove si trovi il viaggiatore: l’anomalia è interiore. La selva è, dunque, una topografia dell’anima, un paesaggio mentale in cui la confusione, la paura e l’inerzia diventano ostacoli reali e la salvezza richiede una guida esterna e trascendente.
La Foresta di Fangorn, al contrario, è un luogo reale all’interno di un mondo fantastico, Arda. Non rappresenta un simbolo dell’interiorità ma una forza autonoma, con una storia, una volontà e una forma di coscienza propria. Qui non c’è un uomo smarrito: c’è una foresta antica che osserva, giudica e, talvolta, reagisce. La sua età sfida il concetto umano di tempo: gli Ent, custodi viventi della foresta, parlano lentamente, si muovono con prudenza, ricordano ciò che gli uomini hanno dimenticato. Barbalbero, uno degli Ent, non è una guida spirituale ma una presenza cosmica. Non conduce l’uomo alla verità, gli ricorda che esistono verità più antiche di lui. Fangorn è densa di materia, di suoni, di nomi. Tolkien non allude, descrive. Non allegorizza, crea. Ogni foglia, ogni radice, ogni ruscello è parte di una realtà tangibile, coerente. Ma questa realtà è anche animata, viva, partecipe. La foresta non è uno scenario ma un personaggio: agisce, parla, si oppone, decide. Non è simbolo della perdizione ma della durata. Non è specchio dell’anima ma forza del mondo. In Dante, la foresta è un errore da correggere. In Tolkien, è una memoria da rispettare. L’una rappresenta la crisi dell’uomo e la necessità di un ordine superiore; l’altra, la resistenza del mondo non umano alla hybris dell’uomo moderno.

Il tempo della “selva oscura” è scandito con precisione assoluta: “Nel mezzo del cammin di nostra vita”. Non è un tempo qualsiasi: è un punto esatto nell’arco dell’esistenza umana, quando si è chiamati a scegliere tra il bene e il male, tra la salvezza e la perdizione. È un tempo che ha un’origine e una destinazione, perché inscritto nella visione cristiana del mondo, in cui la storia è la trama della salvezza e ogni istante può avere peso eterno. La selva si presenta come uno spartiacque: luogo d’ombra ma anche soglia. È il momento dell’esame interiore, della crisi e, poi, anche l’inizio di un cammino guidato dalla grazia. Questo tempo è lineare, orientato, teologicamente carico. Ogni evento è collocato in una catena di significati che conduce verso un fine ultimo: la redenzione e la visione di Dio. La selva non è solo uno spazio, è una condizione spirituale che precede la rinascita. Chi vi si trova non può restare fermo: deve uscirne, prendere posizione, rimettere ordine. Non c’è spazio per l’attesa o l’indifferenza. Il tempo dantesco è un tempo urgente, perché ogni esitazione rischia di fissare per sempre il destino dell’anima.
Nella Foresta di Fangorn il tempo non incalza, scorre. Non c’è fretta, non c’è direzione obbligata. Gli Ent non misurano con le ore ma con i ritmi della terra. Contano gli anni in primavere e inverni, parlano lentamente, come se ogni parola avesse bisogno di sedimentarsi nei secoli. Vivono in un tempo arcaico, non finalizzato, che resiste alla modernità e all’efficienza. È un tempo circolare, mitico, in cui il passato non muore, si stratifica nella memoria della natura. Fangorn non impone un giudizio, non chiama alla scelta morale immediata: invita al silenzio, alla sospensione, alla contemplazione. È un luogo dove l’uomo non è al centro ma è un ospite che può ascoltare, se sa fermarsi abbastanza a lungo. Il tempo è quello dell’oblio e della resistenza: la foresta non chiede redenzione ma rispetto. Non è la soglia tra inferno e paradiso, piuttosto tra il mondo come fu e il mondo come sarà. Una soglia malinconica, dove si sente l’eco di un passato che non tornerà più. In Tolkien non c’è l’urgenza del giudizio ma la consapevolezza della perdita. La Foresta di Fangorn custodisce un tempo che svanisce e, con esso, una sapienza che il mondo moderno ha dimenticato. Non c’è escatologia ma memoria. Non redenzione ma fedeltà a un ordine più antico e naturale, ormai in declino.

La “selva oscura” è la prima immagine della Commedia e non è casuale: è simbolo di smarrimento, peccato, confusione morale. Non è una foresta reale ma un paesaggio dell’anima. Le tre fiere che la abitano – la lonza, il leone e la lupa – non sono semplici ostacoli fisici, quanto allegorie dei vizi che tormentano l’uomo: la lussuria, la superbia, l’avarizia. In questo spazio, l’individuo è solo contro se stesso. La ragione umana, da sola, non basta a ritrovare la strada: il peccato ha spezzato l’orientamento morale e ha reso l’uomo incapace di salvarsi con le proprie forze. Da qui nasce la necessità di una guida. Virgilio appare non come un esploratore ma come un mediatore tra l’umano e il divino, tra il pensiero classico e la verità cristiana. Senza guida, non c’è uscita dalla selva. Il male, in Dante, non è solo minaccia esterna, è frattura interna: l’uomo che ha perso Dio è anche un uomo che ha perso se stesso. La selva è una trappola esistenziale, un labirinto spirituale, dove la tentazione si maschera da via d’uscita e l’unica vera via è quella che passa per la rivelazione, il pentimento e il cammino guidato.
La Foresta di Fangorn rappresenta un modello opposto. Non è luogo di perdizione o prova morale ma spazio autonomo, vivente, con un’intelligenza diversa da quella umana. Non è la foresta a essere pericolosa ma l’uomo che non la rispetta. Gli alberi sono ostili solo in risposta a un’aggressione. Non agiscono per male ma per sopravvivenza. Barbalbero stesso non è buono nel senso morale cristiano: è antico, lento, diffidente. Non si schiera facilmente, non perché sia ambiguo ma perché il mondo degli Ent segue logiche che vanno al di là dell’etica umana. La moralità, a Fangorn, non è astratta né codificata: è inscritta nella natura stessa. Quando gli alberi si risvegliano e gli Ent marciano su Isengard, non lo fanno per giustizia metafisica ma per vendetta ecologica. È una risposta organica alla distruzione sistematica operata da Saruman: alle forge, alle macchine, alla logica industriale che disbosca e devasta. Il male, qui, è esterno alla foresta. Non viene da tentazioni interne ma da interventi umani che violano gli equilibri. Fangorn, quindi, non è un simbolo della caduta ma della resistenza. Non richiede una guida ma un ascolto. Non è un luogo dove ci si perde ma dove ci si confronta con ciò che è più antico e meno corrotto. È una forma di coscienza non morale ma ecologica: una consapevolezza del mondo che non passa per la colpa ma per l’equilibrio.

La scrittura di Dante è una macchina simbolica. Ogni verso è carico di senso, ogni parola è scelta con precisione assoluta per contenere molteplici livelli di lettura: letterale, allegorico, morale, anagogico. La “selva oscura” non è mai solo una foresta: è un’esperienza reale e, al contempo, un’immagine dell’anima in crisi, un simbolo del peccato originale e, infine, un passaggio iniziatico verso la visione divina. Nulla è lasciato al caso. Tutto è codificato, gerarchico, orientato verso l’alto. Lo stile di Dante è conciso, compatto, potente. Usa versi brevi per costruire un ritmo serrato, incalzante. Le immagini sono nette, scolpite nel contrasto: luce e tenebra, discesa e ascesa, colpa e redenzione. Il poema è verticale per natura e per struttura: parte dal fondo dell’Inferno, attraversa il Purgatorio e culmina nella luce del Paradiso. Ogni passo è un’ascesa, non solo fisica ma spirituale e intellettuale. L’allegoria è lo strumento per parlare dell’assoluto, per trasformare il viaggio interiore in geografia ultraterrena. È una scrittura teologica che non descrive: svela.
Tolkien, invece, non lavora con l’allegoria esplicita. La sua è una mitopoiesi: una costruzione narrativa che simula una storia autentica, credibile, posata nel tempo. La Foresta di Fangorn non è una metafora di altro: è sé stessa, con la sua consistenza fisica, sonora, vegetale. È narrata con la minuzia di un naturalista e il rispetto di un filologo che conosce il potere originario delle parole. I nomi, i suoni, le radici linguistiche non sono semplici decorazioni ma parti integranti di un mondo che si vuole verosimile, non simbolico. Il suo stile è ampio, disteso, descrittivo. Tolkien non incalza, accompagna. Lascia spazio alla meraviglia, al dettaglio, al silenzio. La scrittura procede in orizzontale, lungo le distese del tempo mitico, tra tracce di lingue perdute e civiltà scomparse. Non c’è ascensione: c’è esplorazione. Fangorn non è un punto di partenza verso l’alto ma un nodo della memoria del mondo, un residuo vivente di un’epoca in cui natura e coscienza erano un’unica cosa. Se Dante scrive per condurre l’uomo a Dio, Tolkien scrive per ricordare all’uomo ciò che ha dimenticato. La lingua di Dante tende all’eterno; quella di Tolkien all’arcaico. Una guarda verso il cielo, l’altra verso il passato. Una è apocalittica, l’altra elegiaca. Due forme di verità, due concezioni del racconto: il poema come rivelazione, il mito come resistenza.

Nel sistema simbolico e teologico di Dante, l’uomo occupa una posizione centrale e privilegiata. La Commedia è scritta per lui, su di lui, intorno a lui. L’intero universo – Inferno, Purgatorio e Paradiso – è costruito come un immenso spazio morale in cui ogni creatura, evento o paesaggio ha senso in funzione della salvezza umana. Anche la “selva oscura”, pur essendo ostile, è “necessaria” al cammino dell’uomo: un passaggio obbligato che lo conduce alla consapevolezza del proprio peccato e, quindi, alla possibilità di redenzione. Gli animali incontrati nella selva non sono esseri autonomi ma strumenti simbolici. La lonza, il leone, la lupa non vivono una vita propria: esistono per rappresentare vizi e ostacoli che l’uomo deve affrontare. La natura, in Dante, è una scena teologale, uno specchio del disordine morale o un’anticipazione dell’ordine divino. È funzionale, orientata, teleologica. Non c’è nulla che non abbia un significato riferito all’uomo. Persino il viaggio ultraterreno di Dante è unico, irripetibile: perché è l’uomo, con la sua ragione ferita ma redimibile, il centro dell’intera narrazione.
Tolkien sovverte questa visione antropocentrica. La sua Terra di Mezzo è un mondo complesso, stratificato, popolato da creature antiche, autonome, che non esistono in funzione dell’uomo. La Foresta di Fangorn è uno dei luoghi dove questa visione emerge con più forza: gli Ent non sono al servizio di nessuno. Vivono secondo le loro leggi, parlano la loro lingua, seguono i ritmi della natura e osservano l’umanità con sospetto. La loro memoria è più lunga della storia degli uomini e la loro saggezza più profonda. La natura, in Tolkien, non è uno sfondo simbolico: è soggetto. Ha una propria agency. Non è né per l’uomo, né contro di lui: è indipendente. Quando la foresta reagisce, lo fa non per punire o insegnare ma per difendersi. Non c’è una morale divina da rivelare all’uomo, quanto una verità biologica, ciclica, che l’uomo ha dimenticato. In Fangorn, l’uomo non è protagonista ma presenza occasionale. Deve imparare a stare al margine, ad ascoltare, a non imporsi. La sua centralità non è riconosciuta: è da conquistare, con umiltà e rispetto. L’epica di Tolkien sposta il punto di vista. Mette in crisi l’idea che il mondo esista per essere capito, dominato o salvato dall’uomo. Fangorn non chiede interpretazione ma attenzione. È un’epica decentralizzata, in cui la grandezza dell’uomo si misura dalla sua capacità di riconoscere che non tutto ruota attorno a lui.

La “selva oscura” di Dante e la Foresta di Fangorn di Tolkien, quindi, non sono semplicemente ambientazioni narrative, né tantomeno meri sfondi naturali. Sono due mondi concettuali, simbolici, radicati in visioni del mondo profondamente diverse ma sorprendentemente complementari. La selva dantesca è il luogo della discesa nell’abisso dell’anima, uno spazio interiore dove si manifesta lo smarrimento esistenziale dell’uomo davanti alla perdita di senso, alla colpa e alla lontananza da Dio. È una soglia spirituale, oscura perché priva della luce divina ma necessaria perché solo attraverso quel buio può iniziare il cammino verso la salvezza. È la prova da superare per ritrovare la via. La Foresta di Fangorn, al contrario, è antica, vivente, quasi insondabile. È una realtà altra, primordiale, che resiste al tempo e alla distruzione. Non rappresenta tanto un conflitto interiore quanto una memoria profonda del mondo, un luogo che precede l’uomo e lo giudica, silenziosamente. È un residuo sacro di un’epoca in cui la natura parlava con voce propria, non ancora ridotta a risorsa o sfondo. Tolkien non costruisce Fangorn come allegoria diretta, eppure il suo significato è chiaro: ci sono forze più grandi dell’uomo, più vecchie della sua storia, che meritano ascolto, rispetto, e timore reverenziale. In entrambi i casi, la foresta non si attraversa a cuor leggero. Richiede occhi aperti, spirito attento, capacità di ascolto. Richiede rispetto, perché ciò che ci circonda non è inerte ma carico di senso. E forse, sopra ogni cosa, richiede silenzio: perché solo nel silenzio si può comprendere davvero ciò che la foresta ha da dire: che sia la voce della coscienza o quella degli alberi.

 

 

 

 

 

Tommaso d’Aquino e Dante Alighieri

Convergenze dottrinali e trasfigurazione poetica

 

 

 

 

Tommaso d’Aquino non è, per Dante, una semplice fonte tra le tante: è la colonna portante della sua visione del mondo, il sistema attraverso cui l’universo acquista senso, ordine e finalità. La teologia e la filosofia dell’Aquinate offrono al poeta non soltanto un lessico concettuale, quanto una struttura ontologica completa – un’impalcatura che regge la Divina Commedia su più piani: cosmologico, antropologico, morale, epistemologico e politico. Quando Dante guarda al cielo, all’anima umana, alla giustizia divina o alla distribuzione dei poteri terreni, dietro ogni scelta poetica si intravede un quadro teorico rigoroso, spesso riconducibile all’elaborazione tomista della dottrina cristiana. Eppure, sarebbe un errore ridurre il poeta a un mero esecutore di un pensiero altrui. Dante non è uno scolaro che ripete la lezione: è un autore che rilegge, interpreta, piega e, talvolta, sfida l’autorità stessa che lo ispira. Se Tommaso offre la mappa, è Dante che traccia il percorso. Nella Divina Commedia, l’eredità tomista non è mai trasferita in modo meccanico: è rifusa in una forma poetica che ne amplifica il potere immaginativo e ne rivela al contempo i punti di tensione. È all’interno della dimensione visionaria – tra il viaggio oltremondano e la rappresentazione simbolica del reale – che il pensiero tomista si trasforma. Le gerarchie celesti diventano moti d’amore, la legge morale si fa dramma interiore, la razionalità filosofica si intreccia con la grazia, la fede, la profezia. In questo, Dante compie un’operazione radicale: umanizza il pensiero scolastico senza impoverirlo, lo trasfigura senza tradirlo. Accanto al filosofo sistematico, egli pone il poeta profeta; accanto al teologo che ordina il sapere, l’autore che narra la salvezza come cammino personale e collettivo. Il risultato è un’opera che accoglie l’eredità dell’Aquinate, rilanciandola, vivificandola e mettendola in dialogo con l’immaginazione e con le contraddizioni dell’esperienza umana.

Tommaso nel Cielo del Sole: un’autorità dottrinale e spirituale

Nei canti X e XI del Paradiso, Tommaso compare tra i savi che ruotano intorno a Dante e Beatrice. Non è solo un sapiente, è il” sapiente che apre il discorso. Lo fa con misura, chiarezza e reverenza, tratti tipici del suo stile. Dante assegna a Tommaso la funzione di interprete della storia sacra della sapienza. È significativo che sia proprio il domenicano a lodare la vita di san Francesco: una scelta che esprime un desiderio di conciliazione tra gli ordini mendicanti, spesso in contrasto nel Trecento. Ma è anche un riconoscimento della carità intellettuale di Tommaso, in linea con quanto egli stesso scrive nella Summa Theologiae: “Nec benevolentia sufficit ad rationem amicitiae, sed requiritur quaedam mutua amatio, quia amicus est amico amicus. Talis autem mutua benevolentia fundatur super aliqua communicatione. Cum igitur sit aliqua communicatio hominis ad Deum secundum quod nobis suam beatitudinem communicat, super hac communicatione oportet aliquam amicitiam fundari. De qua quidem communicatione dicitur I ad Cor. I, fidelis Deus, per quem vocati estis in societatem filii eius. Amor autem super hac communicatione fundatus est caritas. Unde manifestum est quod caritas amicitia quaedam est hominis ad Deum” (Per l’amicizia non basta neppure la benevolenza, ma si richiede l’amore scambievole: poiché un amico è amico per l’amico. E tale mutua benevolenza è fondata su qualche comunanza. Ora, essendoci una certa comunanza dell’uomo con Dio, in quanto questi ci rende partecipi della sua beatitudine, è necessario che su questo scambio si fondi un’amicizia. E di questa compartecipazione così parla S. Paolo: “Fedele è Dio, per opera del quale siete stati chiamati alla comunione del Figlio suo”. Ma l’amore che si fonda su questa comunicazione è la carità. Dunque, è evidente che la carità è un’amicizia dell’uomo con Dio. STh, II-II, q. 23, a. 1). La carità quale fondamento dell’amicizia tra l’uomo e Dio è anche il principio di unità tra scienza e fede in Paradiso, dove la luce dell’intelletto è inseparabile dalla luce dell’amore.

Ordine cosmico e metafisica dell’Essere

Il cosmo dantesco è un ordine gerarchico e finalizzato, retto da leggi razionali che hanno origine nell’Actus Purus tomista, ossia Dio. In Dante, questa struttura si manifesta nella mirabile armonia delle sfere celesti e nella simbologia della rosa celeste. Tommaso definisce Dio come ipsum esse subsistens: “Substantia enim est ens per se subsistens. Hoc autem maxime convenit Deo. Ergo Deus est in genere substantiae” (La sostanza è di per sé sussistente. Ora, sussistere così conviene soprattutto a Dio. Dunque, Dio è nel genere sostanza. STh, I, q. 3, a. 5). Per Tommaso, ogni ente partecipa all’essere in misura differente, secondo una gerarchia che rispecchia la sua distanza dalla perfezione divina. “Praeterea, quanto aliquod agens est virtuosius, tanto ad magis distans eius actio procedit. Sed Deus est virtuosissimum agens. Ergo eius actio pertingere potest ad ea etiam quae ab ipso distant, nec oportet quod sit in omnibus” (Quanto più potente è un agente, a tanto maggior distanza arriva la sua azione. Ora, Dio è un agente onnipotente. Dunque, la sua azione può giungere anche alle cose che distano da lui; e non è necessario che sia in tutte le cose. STh, I, q. 8, a. 1). Questa idea è trasposta poeticamente nella Commedia, dove i beati appaiono in diverse sfere, non per diversa beatitudine, ma per diversa manifestazione della gloria. Il concetto tomista di ordo universi, cioè che l’universo è più perfetto nella varietà delle creature che non nella uniformità, trova eco nei versi:

… “Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante.

(Par., I, vv. 103-105)

L’anima razionale e l’intelletto

La concezione dell’anima in Dante deriva direttamente dalla dottrina tomista dell’anima come forma del corpo e dell’intelletto come sua facoltà più alta. Nella Summa Theologiae si legge: “Anima igitur intellectiva est forma absoluta, non autem aliquid compositum ex materia et forma. Si enim anima intellectiva esset composita ex materia et forma, formae rerum reciperentur in ea ut individuales, et sic non cognosceret nisi singulare, sicut accidit in potentiis sensitivis, quae recipiunt formas rerum in organo corporali, materia enim est principium individuationis formarum. Relinquitur ergo quod anima intellectiva, et omnis intellectualis substantia cognoscens formas absolute, caret compositione formae et materiae” (Perciò, l’anima intellettiva è una forma assoluta, non già un composto di materia e di forma. Infatti, se l’anima intellettiva fosse composta di materia e di forma, le forme delle cose sarebbero ricevute in essa nella loro individualità; e così essa conoscerebbe le cose soltanto nella loro singolarità, come avviene nelle potenze sensitive, che ricevono le forme delle cose in un organo corporeo: la materia infatti è il principio di individuazione delle forme. Rimane dunque che l’anima intellettiva e ogni sostanza intellettuale, che conosca le forme nella loro assolutezza, non è composta di materia e di forma. STh, I, q. 75, a. 5). Nel canto XXV del Purgatorio, Dante riprende la dottrina della generazione dell’anima e del ruolo dell’intelletto possibile e agente in modo estremamente fedele:

Sangue perfetto, che poi non si beve
da l’assetate vene, e si rimane
quasi alimento che di mensa leve,

prende nel core a tutte membra umane
virtute informativa, come quello
ch’a farsi quelle per le vene vane.

(Purg., XXV, vv. 37-42)

Tommaso, infatti, distingue fra intelletto possibile (recettivo, passivo) e intelletto agente (attivo, astrattivo), una ripartizione fondamentale nella gnoseologia medievale: “Sicut et in aliis rebus naturalibus perfectis, praeter universales causas agentes, sunt propriae virtutes inditae singulis rebus perfectis, ab universalibus agentibus derivatae, non enim solus sol generat hominem, sed est in homine virtus generativa hominis; et similiter in aliis animalibus perfectis. Nihil autem est perfectius in inferioribus rebus anima humana. Unde oportet dicere quod in ipsa sit aliqua virtus derivata a superiori intellectu, per quam possit phantasmata illustrare” (Anche nel mondo degli esseri fisici più perfetti vediamo che, oltre alle cause efficienti più universali, esistono nei singoli esseri perfetti le loro proprie capacità derivate dalle cause universali: infatti non è soltanto il sole che genera l’uomo, ma nell’uomo stesso vi è la virtù di generare altri uomini; così si dica per gli altri animali perfetti. Ora nella sfera degli esseri inferiori non vi è niente di più perfetto dell’anima umana. Perciò bisogna concludere che esiste in essa una facoltà derivata da un intelletto superiore, mediante la quale possa illuminare i fantasmi. STh, I, q. 79, a. 4). Dante assume tale distinzione per spiegare l’ascensione conoscitiva dell’uomo, culminante nella visione beatifica.

Etica, virtù e beatitudine

Secondo Tommaso, la beatitudine suprema dell’uomo è la visione dell’essenza divina (visio Dei). Questo è il punto d’arrivo sia della teologia sia del cammino dantesco. Nella Summa, Tommaso scrive: “Praeterea, beatitudo est ultimus finis, in quem naturaliter humana voluntas tendit. Sed in nullum aliud voluntas tanquam in finem tendere debet nisi in Deum; quo solo fruendum est, ut Augustinus dicit. Ergo beatitudo est idem quod Deus” (La beatitudine è l’ultimo fine, al quale tende per natura la volontà umana. Ma la volontà non deve avere come fine un oggetto diverso da Dio; poiché di lui soltanto dobbiamo fruire, secondo l’espressione di S. Agostino. Dunque, la beatitudine è Dio stesso. STh, I-II, q. 3, a. 8). Dante realizza questa dottrina nel momento culminante della Commedia:

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle.

(Par., XXXIII, vv. 142-145)

Qui si conclude il cammino di razionalizzazione tomista della fede. L’amore è l’ultima forma del sapere, non irrazionale, ma illuminato dalla grazia e perfetto nella visione.

Il pensiero politico: armonia e conflitto con Tommaso

Nel De Monarchia, Dante costruisce una visione della monarchia universale che ha molti tratti comuni con il pensiero tomista, ma anche divergenze importanti. Tommaso ammette una subordinazione dell’Impero al Papa (con eco dell’auctoritas spiritualis superiore al potestas temporalis): “Potestas spiritualis distinguitur a temporali. Sed quandoque praelati habentes spiritualem potestatem intromittunt se de his quae pertinent ad potestatem saecularem. Ergo usurpatum iudicium non est illicitum” (Il potere spirituale è distante da quello temporale. Ma talora i prelati che sono investiti di un potere spirituale s’immischiano in affari che riguardano il potere temporale. Quindi il giudizio usurpato non è illecito. STh, II-II, q. 60, a. 6). Dante, invece, scrive: “Per questo l’uomo ha avuto bisogno di una duplice guida in vista di una duplice meta: il sommo Pontefice che guidasse il genere umano alla vita eterna per la via segnata dalla rivelazione, e l’Imperatore, che sugli insegnamenti filosofici dirigesse il genere umano verso la felicità temporale” (De Monarchia, III, 15, 10). Dunque, per Dante, Papato e Impero devono essere autonomi ma armonici, entrambi ordinati a Dio, ma non subordinati l’uno all’altro.

Fede e ragione

Infine, il vero asse portante comune è la sinergia tra fede e ragione. Secondo Tommaso: “Per gratiam perfectior cognitio de Deo habetur a nobis, quam per rationem naturalem. Quod sic patet. Cognitio enim quam per naturalem rationem habemus, duo requirit, scilicet, phantasmata ex sensibilibus accepta, et lumen naturale intelligibile, cuius virtute intelligibiles conceptiones ab eis abstrahimus. Et quantum ad utrumque, iuvatur humana cognitio per revelationem gratiae. Nam et lumen naturale intellectus confortatur per infusionem luminis gratuiti. Et interdum etiam phantasmata in imaginatione hominis formantur divinitus, magis exprimentia res divinas, quam ea quae naturaliter a sensibilibus accipimus; sicut apparet in visionibus prophetalibus” (Noi mediante la grazia possediamo una conoscenza di Dio più perfetta che per ragione naturale. Eccone la prova. La conoscenza che abbiamo per ragione naturale richiede due cose: cioè dei fantasmi, o immagini, che ci vengono dalle cose sensibili, e il lume naturale dell’intelligenza, in forza del quale astraiamo dai fantasmi concezioni intelligibili. Ora, quanto all’una e all’altra cosa, la nostra conoscenza umana è aiutata dalla rivelazione della grazia. Infatti: il lume naturale dell’intelletto viene rinvigorito dall’infusione del lume di grazia. E talora si formano per virtù divina nell’immaginazione dell’uomo anche immagini sensibili, assai più espressive delle cose divine, di quel che non siano quelle che ricaviamo naturalmente dalle cose esterne; come appare chiaro nelle visioni profetiche. STh, I, q. 12, a. 13). E Dante, nel Convivio, riecheggia questo principio: “Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di propria natura impinta è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti” (Convivio, I, 1). L’intero cammino della Commedia è l’attualizzazione di questa potenzialità: dall’ignoranza iniziale dell’Inferno fino alla pienezza luminosa del Paradiso, l’intelletto umano, guidato dalla ragione e dalla grazia, ascende alla contemplazione divina.

La Divina Commedia è il poema della visione: non solo della visione beatifica, ma della visione razionale del mondo, secondo un ordine divino che Tommaso ha tracciato con la chiarezza del teologo e Dante ha cantato con la potenza del poeta. Dove Tommaso costruisce la cattedrale della ragione teologica, Dante la riempie di luce, suono, volto e voce. In questo senso, leggere Dante significa anche ascoltare l’eco del pensiero tomista, trasfigurato in poesia. L’ordine dell’universo, la gerarchia degli esseri, il fine ultimo dell’uomo: tutto ciò che nella Summa appare come architettura concettuale, nella Commedia prende vita, si anima, si fa esperienza sensibile e spirituale. Dante non si limita a recepire il modello di Tommaso; lo reinterpreta, lo rende carne e sangue, visione e cammino. È così che la teologia scolastica diventa teatro dell’anima e il pensiero si fa canto. Questa trasformazione non è semplice ornamento poetico ma un’operazione intellettuale profonda. Dante assume la struttura tomista non per rinchiudervisi ma per mostrarne la forza generativa: la sua poesia non è un commento, è un’estensione, una dimostrazione incarnata del pensiero teologico. Ogni figura che si incontra nel poema, ogni dialogo, ogni paesaggio ultraterreno, riflette una logica interna, un disegno preciso che affonda le radici nella filosofia per giungere alla visione escatologica. La Commedia si presenta, così, come l’altro volto della Summa Theologiae: dove quest’ultima si esprime per argomenti e definizioni, la prima risponde con immagini e movimenti dell’anima. In definitiva, il legame tra Tommaso e Dante non è quello tra un maestro e un discepolo ma tra due costruttori dello stesso edificio: l’uno con gli strumenti della ragione sistematica, l’altro con quelli della fantasia ordinata. E se il fine è lo stesso – mostrare la via che conduce a Dio – allora si può affermare che la Divina Commedia sia il completamento poetico della teologia tomista, il suo specchio narrativo, la sua forma visibile e percorribile. È in questo intreccio vertiginoso di dottrina e arte, di pensiero e visione, che si gioca la grandezza di Dante e l’inesauribile potenza del suo poema.

 

 

 

 

Dalla Città di Dio alla selva oscura

Gli influssi agostiniani nelle opere di Dante Alighieri

 

 

 

 

Il pensiero di Sant’Agostino ha avuto un impatto profondo, pervasivo e durevole sull’opera di Dante Alighieri. Non si tratta di una semplice influenza dottrinale o di un ricorso sporadico a fonti patristiche: l’agostinismo si insinua nei nuclei vitali del pensiero dantesco, modellandone la visione dell’uomo, di Dio e del cosmo. La lezione del vescovo di Ippona risuona, in forme diverse, in tutta la produzione di Dante: dalla tensione spirituale della Vita Nova alla costruzione filosofico-politica del Convivio e del De Monarchia, fino all’impianto monumentale e teologico della Divina Commedia.
Sant’Agostino rappresenta per Dante un interlocutore privilegiato, non solo per l’autorevolezza teologica riconosciuta nel Medioevo, quanto per l’eccezionale profondità con cui aveva saputo indagare l’interiorità umana, il mistero del tempo, la natura del desiderio e il rapporto tra ragione e fede. La sua opera, in particolare le Confessioni e La Città di Dio, fornisce a Dante strumenti concettuali e spirituali per articolare una poetica che non è mera espressione estetica ma mezzo di elevazione morale e salvezza.
Nella Divina Commedia, l’influenza agostiniana si manifesta a più livelli. A livello antropologico, Dante eredita da Agostino l’idea dell’uomo come essere in cammino, segnato dal peccato ma orientato verso il bene, capace di elevarsi attraverso la grazia. La struttura stessa del poema, che racconta un itinerario dall’errore alla verità, ricalca l’arco esistenziale delle Confessioni: un pellegrinaggio interiore che parte dalla dispersione dell’io e culmina nella visione unificante di Dio. A livello teologico, la centralità dell’amore ordinato – che Agostino definisce come ordo amoris, ossia la giusta gerarchia dell’amore – trova un riflesso diretto nella concezione dantesca del peccato e della beatitudine. L’Inferno e il Paradiso non sono che rappresentazioni simboliche della distorsione o del giusto orientamento dell’amore umano.
Ciò che, tuttavia, rende davvero profonda l’assimilazione agostiniana da parte di Dante è il modo in cui il poeta riesce a tradurre in forma poetica e narrativa concetti altamente speculativi. La memoria, l’introspezione, la tensione verso l’eterno, l’instabilità della volontà umana: tutte dimensioni centrali nell’agostinismo cristiano vengono incarnate in personaggi, episodi e paesaggi. Dante non si limita a citare Agostino: lo trasfigura, lo fa parlare attraverso Beatrice, Virgilio, san Bernardo; ne distilla la sostanza e la inserisce in un disegno simbolico e letterario senza precedenti.
Analizzare questo legame significa pertanto entrare nel cuore della poetica dantesca. L’agostinismo non è per Dante un sistema da adottare ma una matrice viva, un orientamento spirituale e intellettuale con cui misurarsi. Comprendere come questa influenza agisca, quali elementi vengano accolti e quali rielaborati, consente non solo di leggere Dante con maggiore profondità, ma anche di cogliere l’originalità con cui egli risponde, da poeta e pensatore, alle grandi domande dell’uomo medievale: chi sono, da dove vengo, dove vado.

Interiorità e viaggio dell’anima

Uno dei concetti chiave del pensiero agostiniano è l’introspezione. Per Agostino, la verità si cerca dentro di sé, poiché è “più interiore della mia intimità e più elevato della mia sommità” (Confessioni, III, 6, 11). Dante recepisce questa idea nella costruzione del suo percorso poetico e spirituale: la Commedia è un viaggio dell’anima attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, ma è anche un itinerario interiore. La selva oscura iniziale rappresenta proprio la perdita del senso interiore, dell’orientamento dell’anima. Il viaggio diventa, così, un ritorno all’ordine spirituale, simile alla conversione agostiniana descritta nelle Confessioni: “Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo” (X, 27, 38). Questa tensione tra la dispersione esterna e il ritorno all’interiorità è centrale anche nella Commedia. La “selva oscura” in cui Dante si smarrisce è simbolo della perdita del centro interiore e della verità: “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita” (Inf., I, 1-3). Come Agostino, anche Dante concepisce il viaggio spirituale come un ritorno alla verità divina che è già impressa nell’anima, ma che il peccato e l’orgoglio hanno oscurato. Il cammino ultraterreno rappresenta un’esperienza di purificazione e di riappropriazione della propria interiorità.

Amore ordinato e disordinato

Ne La città di Dio (14, 28), Agostino definisce il peccato come amor sui usque ad contemptum Dei (amore di sé fino al disprezzo di Dio) e la virtù come amor Dei usque ad contemptum sui (amore di Dio fino al disprezzo di sé). In Dante troviamo questa distinzione riflessa nei motivi ricorrenti del disordine e dell’ordine dell’amore: l’Inferno è il regno degli amori disordinati, il Purgatorio è il luogo dove l’amore viene purificato e ordinato e il Paradiso è il trionfo dell’amore perfettamente ordinato verso Dio. La Commedia è, in questo senso, un poema sull’amore giusto e ingiusto, molto vicino alla teologia agostiniana. Inoltre, nelle Confessioni (XIII, 9, 10), Agostino presenta il peccato come un disordine dell’amore, dove l’uomo ama le creature più del Creatore. Scrive: “Pondus meum amor meus, eo feror quocumque feror” (Il mio peso è il mio amore; esso mi porta dovunque mi porto). Dante recepisce pienamente questa visione. Nell’Inferno sono puniti coloro che hanno amato in modo disordinato (lussuriosi, avari, superbi, ecc.). L’esempio dei lussuriosi Paolo e Francesca (Inf., V) mostra come l’amore umano, se non ordinato a Dio, conduce alla perdizione: “Amor condusse noi ad una morte” (v. 106). Nel Purgatorio, l’amore viene educato e riportato all’ordine, come mostra il discorso di Virgilio sul libero arbitrio e sull’amore naturale e razionale: “‘Né creator né creatura mai’, / cominciò el, ‘figliuol, fu sanza amore, / o naturale o d’animo; e tu ‘l sai’” (Purg., XVII, 91-93). Il Paradiso, infine, è la dimensione dell’amore perfettamente ordinato, dove tutto tende armonicamente a Dio: “L’amor che move il sole e l’altre stelle” (Par., XXXIII, 145). Questa sintesi dantesca riflette l’idea agostiniana che solo l’amore rivolto a Dio può fondare la vera beatitudine.

Memoria, tempo, eternità

Agostino fu uno dei primi pensatori a riflettere sul tempo in modo esistenziale e soggettivo. Nelle Confessioni (XI, 20, 26), distingue tra tre dimensioni temporali presenti nell’anima: memoria (passato), attenzione (presente), aspettativa (futuro) (“il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa”) Dante riprende questa visione nel modo in cui concepisce l’esperienza del viaggio, la reminiscenza del peccato e l’attesa della salvezza. Il tempo nella Commedia è linfa spirituale: nell’Inferno il tempo è cristallizzato, senza possibilità di mutamento. Nel Purgatorio, luogo agostinianamente “temporale”, l’anima può ancora redimersi. Il Paradiso è l’eternità, in cui il tempo è annullato nella visione di Dio. Un esempio chiaro dell’uso poetico del tempo interiore è la scena dell’apparizione di Beatrice: “Conosco i segni de l’antica fiamma” (Purg., XXX, 48). Dante collega la visione presente a una memoria passata, in un tempo interiore agostiniano che unisce passato e presente nella salvezza dell’anima.

L’allegoria come metodo interpretativo

In opere come De Doctrina Christiana, Agostino propone una lettura allegorica e spirituale della Scrittura, articolata in più sensi: letterale e allegorico. Dante riprende questo metodo nella costruzione della Commedia, opera che egli stesso, nella XIII Epistola a Cangrande della Scala, invita a leggere su quattro livelli: letterale, allegorico, morale e anagogico: “Per chiarire quello che si dirà bisogna premettere che il significato di codesta opera non è uno solo, anzi può definirsi un significato polisemos, cioè di più significati. Infatti il primo significato è quello che si ha dalla lettera del testo, l’altro è quello che si ha da quel che si volle significare con la lettera del testo. Il primo si dice letterale, il secondo invece significato allegorico o morale o anagogico” (20, 7). Per esempio, il personaggio di Beatrice non è solo una donna reale, ma anche figura della Grazia, della Teologia e della Sapienza divina. L’intero viaggio dantesco, quindi, può essere letto in senso storico (viaggio reale nell’aldilà), morale (cammino di perfezionamento), allegorico (viaggio dell’umanità verso Dio) e anagogico (prefigurazione della visione beatifica).

La Grazia come salvezza non meritata

Agostino sostiene che l’uomo non può salvarsi da solo, ma solo attraverso l’intervento gratuito della Grazia divina. Questo principio è fortemente presente nel cammino di Dante: l’intervento di Beatrice, voluto da santa Lucia e dalla Vergine Maria per soccorrere la sua anima smarrita è un esempio lampante di Grazia preveniente: “Donna è gentil nel ciel che si compiange / di questo ‘mpedimento ov’io ti mando, / sì che duro giudicio là sù frange” (Inf., II, 94-96). L’iniziativa è divina, non umana. Dante è salvato non perché meritevole, ma perché amato. Anche questo rispecchia pienamente l’antropologia agostiniana.

La Città di Dio e la visione politica

Ne La città di Dio, Agostino distingue tra la civitas Dei e la civitas terrena, fondate rispettivamente sull’amore di Dio e sull’amore del mondo. Dante recepisce questa distinzione e la sviluppa nella sua concezione dell’Impero e della Chiesa. Nel Paradiso, l’ordine perfetto è rappresentato dalla Gerusalemme Celeste, dove l’amore verso Dio regola ogni cosa. La corruzione della Chiesa e dell’Impero nel tempo presente è vista da Dante come tradimento della civitas Dei: Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di provincie, ma bordello! (Purg., VI, 76-78). L’invettiva politica di Dante si basa su una concezione agostiniana della storia: solo chi ama Dio più del potere terreno può costruire una vera civiltà.

Dante, pertanto, non si limita a prendere Agostino come autore di riferimento: ne fa una chiave di lettura dell’intera realtà. L’influenza agostiniana è spirituale, intellettuale e poetica. La Divina Commedia è, in fondo, una “seconda Confessione”, dove il poeta racconta il suo ritorno a Dio, passando attraverso il peccato, la consapevolezza, la purificazione e la beatitudine. L’uomo, per entrambi, è un essere ferito che solo nell’amore ordinato e nella Grazia trova la via della salvezza.

 

 

 

 

 

Lectura Dantis: INFERNO

 

 

 

Sin dai decenni immediatamente successivi alla morte di Dante cominciarono a tenersi pubbliche letture dei suoi versi, sovente accompagnate da interventi analitici di commentatori. Tra i primi, Giovanni Boccaccio, nel 1373, a Firenze. La grandezza e l’immutato fascino dell’opera di Dante si aprono, oggi, alla tecnologia, pur nella secolare tradizione della lectura espressiva e della lectura esegetica. Questo è lo spirito che anima la  realizzazione di Riccardo Piroddi. Immagini, musiche, effetti sonori e gli stessi versi danteschi, magistralmente interpretati dalla potente voce recitante di Giulio Iaccarino, danno vita ad alcuni tra i più celebri personaggi dell’Inferno, prima cantica del Divino Poema (Paolo e FrancescaFarinata degli Uberti, Pier delle VigneUgolino della Gherardesca e altri).

 

Lectura Dantis: INFERNO. I Personaggi”

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Papa Adriano V e l’avarizia: due malintesi letterari

 

 

 

Non di rado capita che, nella storia della letteratura, possano essere generati malintesi che eternano immagini e caratteristiche di personaggi storici non sempre rispondenti al vero. È il caso di papa Adriano V, al secolo Ottobono Fieschi, genovese, asceso al soglio di Pietro, settantenne, l’11 luglio del 1276 e morto dopo soltanto 39 giorni di pontificato. Molto poco, data l’estrema brevità del suo regno, ebbe occasione di compiere, riuscendo appena a convocare un concistoro segreto, nel quale sospese la costituzione apostolica Ubi periculum, contemplante le norme per l’elezione papale, riservandosi di riformarla successivamente, cosa che, però, non ebbe il tempo di fare. Nonostante non vi siano affatto conferme della sua presunta avarizia, Adriano V è stato vittima di due singolari equivoci letterari. È stato, infatti, collocato da Dante nella quinta cornice del Purgatorio, tra gli avari e i prodighi: “Spirto in cui pianger matura/ quel sanza ‘l quale a Dio tornar non pòssi,/ sosta un poco per me tua maggior cura./ Chi fosti e perché vòlti avete i dossi/ al sù, mi dì, e se vuo’ ch’io t’impetri/ cosa di là ond’io vivendo mossi”./ Ed elli a me: “Perché i nostri diretri/ rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima/ scias quod ego fui successor Petri./ Intra Sïestri e Chiaveri s’adima/ una fiumana bella, e del suo nome/ lo titol del mio sangue fa sua cima./ Un mese e poco più prova’ io come/ pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,/ che piuma sembran tutte l’altre some./ La mia conversïone, omè!, fu tarda; /ma, come fatto fui roman pastore,/ così scopersi la vita bugiarda./ Vidi che lì non s’acquetava il core,/ né più salir potiesi in quella vita;/ per che di questa in me s’accese amore./ Fino a quel punto misera e partita/ da Dio anima fui, del tutto avara;/ or, come vedi, qui ne son punita./ Quel ch’avarizia fa, qui si dichiara/ in purgazion de l’anime converse;/ e nulla pena il monte ha più amara./ Sì come l’occhio nostro non s’aderse/ in alto, fisso a le cose terrene,/ così giustizia qui a terra il merse./ Come avarizia spense a ciascun bene/ lo nostro amore, onde operar perdési,/ così giustizia qui stretti ne tene,/ ne’ piedi e ne le man legati e presi;/ e quanto fia piacer del giusto Sire, /tanto staremo immobili e distesi” (Pur. XIX, 91-126). In modo simile, Francesco Petrarca, nel suo Rerum Memorandum Libri (III, 95), asseconda il peccato del pontefice, salvo, poi, nella raccolta epistolare Rerum Familiarium Libri (IX, 25-28), rettificare il suo sbaglio. L’errore, in entrambe le “Corone fiorentine”, potrebbe aver avuto origine dalla lettura della Historia Pontificalis di Giovanni di Salisbury, scrittore inglese, vescovo di Chartres nella seconda metà del XII secolo, il quale attribuì a papa Adriano IV, il connazionale Nicholas Breakspear, grande avarizia, unita ad una smisurata sete di potere, vizi che, poi, sarebbero scomparsi proprio in seguito all’elezione papale, come risulta anche nei citati versi di Dante. Il duplice malinteso, quindi, sarebbe stato generato dalla sostanziale omonimia tra i due vicari di Cristo in terra.

Pubblicato l’1 agosto 2017 su La Lumaca

 

 

 

 

Dante Alighieri: il fabbro fiorentino della lingua italiana

 

 

 

Il sommo Dante è stato, senza dubbio alcuno, avanti Francesco Petrarca, Pietro Bembo e Alessandro  Manzoni,  il  primo e più abile  fabbro della  nostra  lingua.  Proprio  a  lui, infatti, si  deve la forgiatura dei caratteri della parlata italiana. Voglio fornirvi degli incredibili dati numerici, tratti dalla mitica enciclopedia multimediale Treccani.it: è stato calcolato che il 90% 1del lessico fondamentale dell’italiano oggi in uso (cioè, il 90% delle 2000 parole più frequenti, che a loro volta costituiscono il 90% di tutto ciò che diciamo, leggiamo o scriviamo ogni giorno), sia già nella Divina Commedia. La sua opera principale è invero a tal punto vasta, da potersi considerare un’epitome dell’intero sapere antico e medievale. E’ così piena di parole, anche specialistiche, che Dante ha temprato, non solo la nostra parlata comune, ma anche quelle tecniche. Lungo le tre cantiche del divino poema, infatti, sono molte le micro lingue presenti, come si definiscono, in linguistica, i lessici propri di una specifica disciplina, che, ad elencarli tutti, riempirei qualche pagina. Anche parolacce e bestemmie non mancano, appunto per non lasciar fuori nulla. Eccovi qualche esempio: Inferno, canto XVIII, vv. 133: “Taide è, la puttana che rispuose”; Inferno, canto XXI, v. 139: “Ed elli avea del cul fatto trombetta”; Inferno, canto XXV, vv. 1-3: “Al fine de le sue parole il ladro/ le mani alzò con amendue le fiche,/ gridando: “Togli, Dio, ch’a te le squadro!”). Prima di Dante, il vocabolario italiano era alquanto povero ma dopo di lui, è diventato tra i più ricchi al mondo. Prima, si poteva parlare soltanto di poche cose. Dopo, di quasi tutto. Anzi, di tutto! 2Pose le basi, inoltre, affinché il latino, presto o tardi, fosse messo in soffitta, soprattutto come registro scritto per la trasmissione della cultura, tanto buono era stato, nella sua opera, il lavoro compiuto sul linguaggio. Grazie al sommo poeta  (immagine a sinistra)  e alla lingua della Divina Commedia, noi tutti, ancora oggi, possiamo affermare: “Il fiorentino è il dialetto che di più si avvicina all’italiano perfetto!”. Ciò è accaduto perché la vastissima diffusione del sublime poema, già immediatamente dopo la morte del suo Autore, veicolò anche la lingua con il quale era stato composto. Quest’ultima, infatti, funse da modello linguistico per tutti coloro che lo lessero. La Divina Commedia ha insegnato agli italiani a leggere e a scrivere correttamente, permettendo loro, dalle Alpi alla Sicilia, di comprendersi reciprocamente. Potrei, dunque, proclamare che l’Italia sia stata unita da Dante più di cinquecento anni prima di Garibaldi, Cavour e i Savoia, ma questa, per chi come me è meridionale, è un’altra storia!

 
 
 

L’Ulisse dantesco oggi

 

 

 

Dante Alighieri ha fornito alla storia della letteratura mondiale il ritratto meglio raffigurato di Ulisse, collocato, insieme con Diomene, del girone infernale dei consiglieri fraudolenti, nell’immortale capolavoro Divina Commedia. L’Ulisse dantesco vive per sottoporre continuamente se stesso a fatiche d’ingegno, un volontario Ercole d’intelletto più che di forza fisica, in costante misura col proprio vigore spirituale, così tanto da rinunciare alle gioie del ritorno per amore di “virtute e canoscenza”. Ulisse decide di varcare le Colonne d’Ercole, poste dal semidio per segnare il confine tra la civiltà e l’ignoto, quest’ultimo metafora, sin dall’antichità, anche di non conoscenza e, quindi, di ignoranza. Io e’ compagni eravam vecchi e tardi / quando venimmo a quella foce stretta / dov’Ercule segnò li suoi riguardi / acciò che l’uom più oltre non si metta (Inf., XXVI, 106-109). Un’ultima impresa, dunque, principiata in tarda età, una sorta di testamento-azione.
Ed ecco che il celeberrimo eroe diviene emblema dell’anelito, tipico dell’uomo in quanto essere pensante, di varcare i propri limiti, di raggiungere, parafrasando Aristotele, la perfezione dell’anima, pervenendo alla conoscenza assoluta. Tale conoscenza, però, appartiene soltanto alla divinità e, quindi, non è perseguibile dall’uomo, il quale può soltanto avvicinarsi alla sapienza (divenir del mondo esperto, Inf. XXVI, 98).
Nel mondo contemporaneo, i limiti dell’uomo sono molto mutati rispetto ai tempi di Dante, a causa dell’evoluzione del pensiero verso orizzonti liberamente, totalmente laici, e per il progresso tecnologico spintosi a tal punto avanti, osando la messa in discussione di quelle che fino a qualche decennio fa apparivano granitiche certezze. La figura di Ulisse, quindi, e il suo varcare le colonne d’Ercole, a livello simbolico, è adesso più pregnante che mai.
Se, dunque, l’Ulisse dantesco soccombe ai limiti imposti da Dio, con la tragica fine del suo ultimo viaggio, a quali pene e a quale destino deve prepararsi l’uomo che, oggi, intende percorrere il medesimo cammino? Riuscirà a varcare indenne le Colonne d’Ercole?

 

 

 

Giovanni Pico della Mirandola e la sua memoria prodigiosa

 

Giovanni Pico nacque a Mirandola, in provincia di Modena, il 24 febbraio 1463, dal conte Giovan Francesco I e da Giulia Boiardo, zia di Matteo Maria Boiardo, insigne letterato e poeta quattrocentesco. Pico fu un vero prodigio della natura: passò la sua breve vita, morì a soli 31 anni, a studiare e raccogliere libri di ogni specie. Parlava latino, greco, ebraico e arabo. Conosceva la filosofia platonica e aristotelica a menadito, forse meglio degli stessi Platone e Aristotele. Fu studioso rigoroso della cabala ebraica che, grazie a lui, fu introdotta in Europa. Aveva una memoria portentosa, si diceva che conoscesse a memoria tutta la “Divina Commedia” di Dante (circa 4000 versi) e che, una volta terminata, riuscisse a recitarla al contrario, dall’ultima parola alla prima, utilizzando degli stratagemmi e delle tecniche, rivelati in alcuni suoi scritti. Già durante la sua esistenza, quindi, fu considerato un personaggio mitico. Per quanto riguarda il pensiero, Pico, come Marsilio Ficino, tentò avvicinare tutte le filosofie del mondo, attraverso alcune verità generali, in modo che i dotti si potessero mettere d’accordo all’insegna della pace e del sapere universale (servirebbe oggi un uomo del genere!) Per questo, cercò di organizzare, a Roma, una sorta di congresso, al quale avrebbero dovuto partecipare autorità, luminari, professori e scienziati del mondo allora conosciuto, per discutere novecento tesi che lui aveva elaborato, “proposizioni dialettiche, morali, fisiche matematiche, teologiche, magiche, cabalistiche, sia proprie che dei sapienti caldei, arabi, ebrei, greci, egizi e latini”. Allo scopo, scrisse, nel 1486, l’“Oratio hominis dignitate” (Orazione sulla dignità dell’uomo), un’introduzione all’incontro. Papa Innocenzo VIII, però, non solo si oppose alla cosa, ma lo costrinse a fuggire in Francia, dove fu arrestato e rilasciato dopo un mese, grazie all’intervento di Lorenzo de’ Medici. Rientrato a Firenze, se la prese con gli umanisti della sua compagnia, perché questi gli ripetevano che la filosofia, da lui tanto amata, fosse linguisticamente barbara. Rispondeva: “Ragazzi, il linguaggio è come la gonna di una donna, serve soltanto a vestire i concetti. L’importante è quello che c’è sotto!” (Questo esempio, ovviamente, è mio. Il sommo letterato si espresse in tutt’altro modo!”). Il 17 febbraio 1494, dopo due settimane di febbre strana, Pico morì. Si pensò ad un avvelenamento, da parte del suo segretario, ma niente fu mai provato. Sulla lapide della tomba fu inciso l’epitaffio degno di un re: “Joannes iacet hic Mirandola. Cetera norunt et Tagus et Ganges forsan et Antipodes”, ovvero, “Qui giace Giovanni di Mirandola. Il resto lo sanno sia il fiume Tago, sia il Gange e forse anche gli Antipodi!”. Un personaggio davvero unico e ancora troppo poco conosciuto!

 

Pubblicato l’1 febbraio 2017 su La Lumaca

 

Dante Alighieri, Francesco Petrarca, la superbia e la fama: il Canto XI del Purgatorio e i Trionfi

 

 

Nell’XI Canto del Purgatorio, Dante incontra le anime penitenti dei superbi, le quali avanzano lentamente trasportando pesanti massi sulle spalle. Il contrappasso è evidente: come in vita ebbero lo sguardo diritto e altezzoso della superbia, così, ora, sono costretti a guardare tutto dal basso, piegati dal peso del carico che trasportano. Il tema del canto è manifesto nel dialogo di Dante con Oderisi da Gubbio, celebre miniatore, nato nel 1240 e morto nel 1299. L’incontro si apre con il riconoscimento di Oderisi da parte del sommo poeta, “l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte ch’alluminar chiamata è in Parisi”. L’anima mostra subito il suo pentimento, rifiutando con umiltà le lodi del poeta, poiché, sostiene, in Terra c’è chi lo ha già superato: il miniatore Franco Bolognese. L’alluminatore, quindi, dà a Dante una lezione di umiltà. Non si limita, però, a raccontare la sua esperienza personale di peccatore, accecato dall’orgoglio per la propria arte. Amplia la sua analisi alla vanità della gloria terrena. Ai versi 91-93 Dante esprime la materia principale del canto: “Oh vana gloria de l’umane posse! Com’ poco verde in su la cima dura, se non è giunta de l’etati grosse!”. La metafora delle foglie verdi che durano poco sulla cima degli alberi dimostra la caducità della gloria terrena, a meno che non sopraggiungano età di decadenza, in cui le glorie passate rimangono insuperabili. Oderisi esemplifica questa dura sentenza ricorrendo ad esempi molto noti già all’epoca in cui Dante compone il poema: a Cimabue è subentrato il suo discepolo Giotto; Guido Guinizzelli è stato superato da Guido Cavalcanti e, addirittura è “forse nato chi l’uno e l’altro caccerà dal nido”. È evidente come in questi versi Oderisi alluda al poeta stesso. Dopo aver sentenziato la fugacità della gloria terrena, quindi, Dante commette un vero e proprio atto di superbia? La contraddizione è forte, perché il poeta è certamente molto affascinato da quella stessa fama che pochi versi prima aveva condannato. Da un altro punto di vista, invece, questi ultimi versi possono rappresentare la conferma delle precedenti parole di Oderisi: Dante è consapevole della propria grandezza artistica ma anche del fatto che qualcun’altro potrebbe superare lui. Il miniatore, infine, considera la fama in rapporto all’eternità, per mostrarne l’assoluta inconsistenza. Dante si rende conto che quella gloria su cui basava la sua esistenza è del tutto priva di valore. La sua fede, però, lo conforta, poiché l’anima sarà nobilitata dal giudizio e dal perdono di Dio. Una particolare interpretazione allegorica dei meccanismi della superbia e della fama la fornisce, circa quarant’anni dopo Dante, Francesco Petrarca, nei Trionfi, un’opera in versi, composta tra il 1351 e il 1374. Il poeta ha una visione: il dio Amore su un carro, seguito da coppie di celeberrimi amanti dell’antichità e del suo tempo. D’improvviso, appare Laura, la sua amata, bellissima. Le corre dietro, arrivando fino a Cipro, dove Amore celebra il suo trionfo e rende tutti prigionieri, amanti e amate. Laura riesce a non farsi rinchiudere e, con l’aiuto di eroine famose per il loro pudore, libera tutti, conducendo, poi, Amore nel tempio di Venere, a Roma. Da lì, torna nei pressi di Avignone, dove trova la Morte ad attenderla. Questa la prende con sé. La Fama, però, sconfigge la Morte, tra due schiere di condottieri e filosofi. Il Tempo, invidioso della Fama, accelera il corso del sole nel cielo, in modo che sulla Terra si ci dimenticasse presto di Laura. Ma la Terra gioca in favore del poeta, scomparendo e lasciando il posto al mondo senza Tempo, il mondo dell’Eternità, che trionfa su tutto: “E quei che Fama meritaron chiara,/ che ’l Tempo spense, e i be’ visi leggiadri/ che ’mpallidir fe’ ’l Tempo e Morte amara,/ l’obblivïon, gli aspetti oscuri et adri,/ più che mai bei tornando, lasceranno/ a Morte impetuosa, a’ giorni ladri;/ ne l’età più fiorita e verde avranno/ con immortal bellezza eterna fama”.

 

Pubblicato l’1 ottobre 2017 su La Lumaca

 

 

 

Il multiforme Ulisse: il ritratto dantesco

 

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Fra gli eroi della mitologia antica, quello che gode di maggior notorietà e fortuna culturale è senza dubbio Ulisse, figlio di Laerte e Anticlea e re della piccola isola di Itaca, nonché protagonista di uno dei due poemi tramandati sotto il nome di Omero. Il personaggio letterario è divenuto simbolo dell’ingegno e del valore umano, un modello di un homo novus capace di contrapporre alla vis bellica l’uso della ragione, dell’arguzia e anche dell’inganno…

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Virgilio e Dante incontrano Ulisse e Diomede (Inf., Canto XXVI)