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Guglielmo di Moerbeke, traduttore filosofico

Mediazione culturale e riformulazione del sapere antico

 

 

 

 

Nel pieno del XIII secolo, mentre le università europee prendevano forma e le grandi sintesi teologiche cercavano un equilibrio tra fede e ragione, l’Europa occidentale si trovava davanti a un vuoto: la maggior parte delle opere fondamentali della filosofia greca classica, in particolare quelle di Aristotele e dei suoi commentatori, erano ancora scarsamente accessibili o conosciute solo attraverso traduzioni arabe, spesso imprecise o distorte. In questo contesto, Guglielmo di Moerbeke, frate domenicano nato intorno al 1215 nel Brabante, si affermò come figura centrale per la trasmissione del pensiero antico al mondo latino-cristiano. La sua opera di traduzione non fu semplicemente filologica ma profondamente strategica: servì a fondare un linguaggio filosofico condiviso e ad aprire le porte alla riflessione speculativa sistematica, che avrebbe caratterizzato la scolastica.
Fino al XIII secolo inoltrato, gran parte del sapere filosofico e scientifico greco era giunto in Occidente tramite la mediazione araba. Pensatori come Avicenna e Averroè avevano preservato e rielaborato Aristotele. Le loro versioni, però, pur essendo sofisticate e influenti, erano anche profondamente segnate da prospettive teologiche e filosofiche diverse da quelle cristiane. Le traduzioni latine realizzate a partire dai testi arabi – spesso prodotte a Toledo e in altre città spagnole – contenevano errori, semplificazioni e interpolazioni, rendendo difficile una comprensione accurata dell’originale greco. Inoltre, molte opere fondamentali mancavano del tutto o erano conosciute solo attraverso frammenti.
Questa situazione costituiva un ostacolo per lo sviluppo di una filosofia cristiana capace di confrontarsi con il pensiero antico sul piano della precisione concettuale. Il bisogno di versioni dirette dal greco diventava dunque urgente, specialmente per i domenicani e i maestri dell’Università di Parigi, che cercavano di armonizzare il pensiero di Aristotele con la dottrina cristiana. La posta in gioco non era soltanto filologica ma teoretica e sistematica: senza testi affidabili l’intero progetto scolastico rischiava di poggiare su fondamenta fragili.
Guglielmo di Moerbeke svolse una parte importante della sua attività tra la Grecia, l’Italia e l’Oriente bizantino. Approfittando delle opportunità aperte dal dominio latino su Costantinopoli tra il 1204 e il 1261, poté accedere a biblioteche greche e manoscritti antichi che in Occidente erano sconosciuti. Visse e lavorò per diversi anni in ambienti vicini alla corte imperiale latina d’Oriente, in località come Nicea, Tessalonica e probabilmente anche Costantinopoli. In queste città, immerse nella cultura bizantina, ebbe l’opportunità rara di lavorare con manoscritti originali, redatti in greco e spesso trasmessi direttamente dalla tarda antichità.
Dotato di un raro bilinguismo e spinto da un senso di missione intellettuale più che da semplice interesse erudito, Moerbeke cominciò a tradurre in latino le opere dei grandi filosofi greci, con particolare attenzione ad Aristotele e alla tradizione neoplatonica. La sua visione era chiara: fornire al mondo latino uno strumento rigoroso, preciso e completo per leggere il pensiero greco senza le mediazioni o le deformazioni che lo avevano fino ad allora accompagnato. La sua non fu un’impresa isolata: operava in stretto contatto con altri grandi intellettuali del suo tempo, primo fra tutti Tommaso d’Aquino, che utilizzò ampiamente le sue traduzioni per costruire la propria architettura teologica.


Il metodo adottato da Guglielmo si distingue radicalmente rispetto a quello dei traduttori precedenti. Contrariamente all’approccio parafrastico, che cercava di adattare il testo originale alle strutture linguistiche e culturali latine, Moerbeke scelse una via di rigore estremo: la traduzione letterale. Cercava di mantenere la sintassi greca anche quando questa risultava ostica al lettore latino, conservando l’ordine delle proposizioni e riproducendo fedelmente le articolazioni logiche del testo. Questo rendeva le sue traduzioni a volte dure, difficili da leggere, eppure apprezzate per la loro precisione. Gli scolastici, abituati a lavorare sui testi in modo analitico, preferivano un latino fedele ma scomodo a uno elegante ma infedele.
Un altro aspetto essenziale del suo metodo era la precisione terminologica. Moerbeke contribuì in modo decisivo alla fissazione della terminologia tecnica latina che sarebbe diventata standard nella filosofia scolastica. Termini come “atto”, “potenza”, “sostanza”, “accidente” o “ente” trovarono nella sua traduzione un uso coerente e sistematico, rispecchiando con fedeltà i termini greci corrispondenti come energeia, dynamis, ousia, symbebēkos e on.
Infine, a differenza di molti traduttori medievali, Moerbeke evitava di modificare i testi per adattarli a esigenze teologiche o ideologiche. Non cercava di armonizzare Aristotele o Proclo con la dottrina cristiana: si limitava a trasmettere fedelmente il testo, lasciando il compito dell’interpretazione ai filosofi e ai teologi. Questa posizione, coraggiosa per l’epoca, gli guadagnò il rispetto degli studiosi più autorevoli e contribuì a rendere le sue traduzioni strumenti insostituibili per l’indagine speculativa.
L’opera di Moerbeke è immensa e tocca quasi ogni settore del pensiero greco. Il suo contributo più famoso riguarda il corpus aristotelico, che egli tradusse quasi interamente, spesso partendo da manoscritti migliori rispetto a quelli precedentemente utilizzati. La Politica, per esempio, venne resa per la prima volta in latino direttamente dal greco, così come l’Etica Nicomachea, la Metafisica, la Fisica, il De anima, il De caelo, i Meteorologica e gli Analitici. Queste versioni furono usate da Tommaso d’Aquino e da tutti i grandi pensatori scolastici dei secoli successivi.
Oltre ad Aristotele, Moerbeke tradusse numerosi commentatori antichi, come Simplicio, Ammonio e Filopono, i quali proponevano interpretazioni neoplatoniche delle opere aristoteliche. Questi testi erano fondamentali per comprendere il modo in cui il pensiero greco tardo-antico aveva integrato e trasformato la filosofia del maestro di Stagira. In particolare, la Fisica aristotelica, accompagnata dal commento di Simplicio, divenne una delle fonti principali della cosmologia scolastica.
Di importanza capitale fu anche la sua traduzione della Elementatio Theologica di Proclo, un’opera sistematica che influenzò profondamente il pensiero teologico e mistico dell’Occidente latino. L’opera di Proclo, attraverso Moerbeke, raggiunse pensatori come Tommaso d’Aquino, Bonaventura e più tardi anche Marsilio Ficino e Nicola Cusano, contribuendo alla formazione di una corrente neoplatonica cristiana.
In ambito scientifico, tradusse testi di medicina e matematica, tra cui opere di Galeno e probabilmente anche di Archimede. Questi testi, sebbene meno noti al grande pubblico, furono fondamentali per la trasmissione del sapere tecnico e naturalistico greco al mondo latino.
Le traduzioni di Moerbeke diventarono la base per i commenti scolastici, per le dispute universitarie, per la formazione dei chierici e dei filosofi. La chiarezza e la fedeltà delle sue versioni permisero a Tommaso d’Aquino di costruire la sua sintesi tra fede e ragione su un testo aristotelico finalmente stabile e affidabile. Tuttavia, l’influenza di Moerbeke andò ben oltre Tommaso: anche autori come Sigieri di Brabante, Enrico di Gand, Giovanni Duns Scoto e persino Guglielmo d’Ockham si confrontarono con il corpus aristotelico nella forma trasmessa da lui.
L’importanza delle sue traduzioni non si esaurì nel Medioevo. Ancora nel Rinascimento, prima della riscoperta massiccia del greco, i testi di Moerbeke rimasero punti di riferimento per studiosi e umanisti. E in epoca moderna, la filologia classica ha riconosciuto in lui un anello decisivo nella catena della trasmissione del sapere antico.

 

 

 

 

Tommaso d’Aquino e Dante Alighieri

Convergenze dottrinali e trasfigurazione poetica

 

 

 

 

Tommaso d’Aquino non è, per Dante, una semplice fonte tra le tante: è la colonna portante della sua visione del mondo, il sistema attraverso cui l’universo acquista senso, ordine e finalità. La teologia e la filosofia dell’Aquinate offrono al poeta non soltanto un lessico concettuale, quanto una struttura ontologica completa – un’impalcatura che regge la Divina Commedia su più piani: cosmologico, antropologico, morale, epistemologico e politico. Quando Dante guarda al cielo, all’anima umana, alla giustizia divina o alla distribuzione dei poteri terreni, dietro ogni scelta poetica si intravede un quadro teorico rigoroso, spesso riconducibile all’elaborazione tomista della dottrina cristiana. Eppure, sarebbe un errore ridurre il poeta a un mero esecutore di un pensiero altrui. Dante non è uno scolaro che ripete la lezione: è un autore che rilegge, interpreta, piega e, talvolta, sfida l’autorità stessa che lo ispira. Se Tommaso offre la mappa, è Dante che traccia il percorso. Nella Divina Commedia, l’eredità tomista non è mai trasferita in modo meccanico: è rifusa in una forma poetica che ne amplifica il potere immaginativo e ne rivela al contempo i punti di tensione. È all’interno della dimensione visionaria – tra il viaggio oltremondano e la rappresentazione simbolica del reale – che il pensiero tomista si trasforma. Le gerarchie celesti diventano moti d’amore, la legge morale si fa dramma interiore, la razionalità filosofica si intreccia con la grazia, la fede, la profezia. In questo, Dante compie un’operazione radicale: umanizza il pensiero scolastico senza impoverirlo, lo trasfigura senza tradirlo. Accanto al filosofo sistematico, egli pone il poeta profeta; accanto al teologo che ordina il sapere, l’autore che narra la salvezza come cammino personale e collettivo. Il risultato è un’opera che accoglie l’eredità dell’Aquinate, rilanciandola, vivificandola e mettendola in dialogo con l’immaginazione e con le contraddizioni dell’esperienza umana.

Tommaso nel Cielo del Sole: un’autorità dottrinale e spirituale

Nei canti X e XI del Paradiso, Tommaso compare tra i savi che ruotano intorno a Dante e Beatrice. Non è solo un sapiente, è il” sapiente che apre il discorso. Lo fa con misura, chiarezza e reverenza, tratti tipici del suo stile. Dante assegna a Tommaso la funzione di interprete della storia sacra della sapienza. È significativo che sia proprio il domenicano a lodare la vita di san Francesco: una scelta che esprime un desiderio di conciliazione tra gli ordini mendicanti, spesso in contrasto nel Trecento. Ma è anche un riconoscimento della carità intellettuale di Tommaso, in linea con quanto egli stesso scrive nella Summa Theologiae: “Nec benevolentia sufficit ad rationem amicitiae, sed requiritur quaedam mutua amatio, quia amicus est amico amicus. Talis autem mutua benevolentia fundatur super aliqua communicatione. Cum igitur sit aliqua communicatio hominis ad Deum secundum quod nobis suam beatitudinem communicat, super hac communicatione oportet aliquam amicitiam fundari. De qua quidem communicatione dicitur I ad Cor. I, fidelis Deus, per quem vocati estis in societatem filii eius. Amor autem super hac communicatione fundatus est caritas. Unde manifestum est quod caritas amicitia quaedam est hominis ad Deum” (Per l’amicizia non basta neppure la benevolenza, ma si richiede l’amore scambievole: poiché un amico è amico per l’amico. E tale mutua benevolenza è fondata su qualche comunanza. Ora, essendoci una certa comunanza dell’uomo con Dio, in quanto questi ci rende partecipi della sua beatitudine, è necessario che su questo scambio si fondi un’amicizia. E di questa compartecipazione così parla S. Paolo: “Fedele è Dio, per opera del quale siete stati chiamati alla comunione del Figlio suo”. Ma l’amore che si fonda su questa comunicazione è la carità. Dunque, è evidente che la carità è un’amicizia dell’uomo con Dio. STh, II-II, q. 23, a. 1). La carità quale fondamento dell’amicizia tra l’uomo e Dio è anche il principio di unità tra scienza e fede in Paradiso, dove la luce dell’intelletto è inseparabile dalla luce dell’amore.

Ordine cosmico e metafisica dell’Essere

Il cosmo dantesco è un ordine gerarchico e finalizzato, retto da leggi razionali che hanno origine nell’Actus Purus tomista, ossia Dio. In Dante, questa struttura si manifesta nella mirabile armonia delle sfere celesti e nella simbologia della rosa celeste. Tommaso definisce Dio come ipsum esse subsistens: “Substantia enim est ens per se subsistens. Hoc autem maxime convenit Deo. Ergo Deus est in genere substantiae” (La sostanza è di per sé sussistente. Ora, sussistere così conviene soprattutto a Dio. Dunque, Dio è nel genere sostanza. STh, I, q. 3, a. 5). Per Tommaso, ogni ente partecipa all’essere in misura differente, secondo una gerarchia che rispecchia la sua distanza dalla perfezione divina. “Praeterea, quanto aliquod agens est virtuosius, tanto ad magis distans eius actio procedit. Sed Deus est virtuosissimum agens. Ergo eius actio pertingere potest ad ea etiam quae ab ipso distant, nec oportet quod sit in omnibus” (Quanto più potente è un agente, a tanto maggior distanza arriva la sua azione. Ora, Dio è un agente onnipotente. Dunque, la sua azione può giungere anche alle cose che distano da lui; e non è necessario che sia in tutte le cose. STh, I, q. 8, a. 1). Questa idea è trasposta poeticamente nella Commedia, dove i beati appaiono in diverse sfere, non per diversa beatitudine, ma per diversa manifestazione della gloria. Il concetto tomista di ordo universi, cioè che l’universo è più perfetto nella varietà delle creature che non nella uniformità, trova eco nei versi:

… “Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante.

(Par., I, vv. 103-105)

L’anima razionale e l’intelletto

La concezione dell’anima in Dante deriva direttamente dalla dottrina tomista dell’anima come forma del corpo e dell’intelletto come sua facoltà più alta. Nella Summa Theologiae si legge: “Anima igitur intellectiva est forma absoluta, non autem aliquid compositum ex materia et forma. Si enim anima intellectiva esset composita ex materia et forma, formae rerum reciperentur in ea ut individuales, et sic non cognosceret nisi singulare, sicut accidit in potentiis sensitivis, quae recipiunt formas rerum in organo corporali, materia enim est principium individuationis formarum. Relinquitur ergo quod anima intellectiva, et omnis intellectualis substantia cognoscens formas absolute, caret compositione formae et materiae” (Perciò, l’anima intellettiva è una forma assoluta, non già un composto di materia e di forma. Infatti, se l’anima intellettiva fosse composta di materia e di forma, le forme delle cose sarebbero ricevute in essa nella loro individualità; e così essa conoscerebbe le cose soltanto nella loro singolarità, come avviene nelle potenze sensitive, che ricevono le forme delle cose in un organo corporeo: la materia infatti è il principio di individuazione delle forme. Rimane dunque che l’anima intellettiva e ogni sostanza intellettuale, che conosca le forme nella loro assolutezza, non è composta di materia e di forma. STh, I, q. 75, a. 5). Nel canto XXV del Purgatorio, Dante riprende la dottrina della generazione dell’anima e del ruolo dell’intelletto possibile e agente in modo estremamente fedele:

Sangue perfetto, che poi non si beve
da l’assetate vene, e si rimane
quasi alimento che di mensa leve,

prende nel core a tutte membra umane
virtute informativa, come quello
ch’a farsi quelle per le vene vane.

(Purg., XXV, vv. 37-42)

Tommaso, infatti, distingue fra intelletto possibile (recettivo, passivo) e intelletto agente (attivo, astrattivo), una ripartizione fondamentale nella gnoseologia medievale: “Sicut et in aliis rebus naturalibus perfectis, praeter universales causas agentes, sunt propriae virtutes inditae singulis rebus perfectis, ab universalibus agentibus derivatae, non enim solus sol generat hominem, sed est in homine virtus generativa hominis; et similiter in aliis animalibus perfectis. Nihil autem est perfectius in inferioribus rebus anima humana. Unde oportet dicere quod in ipsa sit aliqua virtus derivata a superiori intellectu, per quam possit phantasmata illustrare” (Anche nel mondo degli esseri fisici più perfetti vediamo che, oltre alle cause efficienti più universali, esistono nei singoli esseri perfetti le loro proprie capacità derivate dalle cause universali: infatti non è soltanto il sole che genera l’uomo, ma nell’uomo stesso vi è la virtù di generare altri uomini; così si dica per gli altri animali perfetti. Ora nella sfera degli esseri inferiori non vi è niente di più perfetto dell’anima umana. Perciò bisogna concludere che esiste in essa una facoltà derivata da un intelletto superiore, mediante la quale possa illuminare i fantasmi. STh, I, q. 79, a. 4). Dante assume tale distinzione per spiegare l’ascensione conoscitiva dell’uomo, culminante nella visione beatifica.

Etica, virtù e beatitudine

Secondo Tommaso, la beatitudine suprema dell’uomo è la visione dell’essenza divina (visio Dei). Questo è il punto d’arrivo sia della teologia sia del cammino dantesco. Nella Summa, Tommaso scrive: “Praeterea, beatitudo est ultimus finis, in quem naturaliter humana voluntas tendit. Sed in nullum aliud voluntas tanquam in finem tendere debet nisi in Deum; quo solo fruendum est, ut Augustinus dicit. Ergo beatitudo est idem quod Deus” (La beatitudine è l’ultimo fine, al quale tende per natura la volontà umana. Ma la volontà non deve avere come fine un oggetto diverso da Dio; poiché di lui soltanto dobbiamo fruire, secondo l’espressione di S. Agostino. Dunque, la beatitudine è Dio stesso. STh, I-II, q. 3, a. 8). Dante realizza questa dottrina nel momento culminante della Commedia:

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle.

(Par., XXXIII, vv. 142-145)

Qui si conclude il cammino di razionalizzazione tomista della fede. L’amore è l’ultima forma del sapere, non irrazionale, ma illuminato dalla grazia e perfetto nella visione.

Il pensiero politico: armonia e conflitto con Tommaso

Nel De Monarchia, Dante costruisce una visione della monarchia universale che ha molti tratti comuni con il pensiero tomista, ma anche divergenze importanti. Tommaso ammette una subordinazione dell’Impero al Papa (con eco dell’auctoritas spiritualis superiore al potestas temporalis): “Potestas spiritualis distinguitur a temporali. Sed quandoque praelati habentes spiritualem potestatem intromittunt se de his quae pertinent ad potestatem saecularem. Ergo usurpatum iudicium non est illicitum” (Il potere spirituale è distante da quello temporale. Ma talora i prelati che sono investiti di un potere spirituale s’immischiano in affari che riguardano il potere temporale. Quindi il giudizio usurpato non è illecito. STh, II-II, q. 60, a. 6). Dante, invece, scrive: “Per questo l’uomo ha avuto bisogno di una duplice guida in vista di una duplice meta: il sommo Pontefice che guidasse il genere umano alla vita eterna per la via segnata dalla rivelazione, e l’Imperatore, che sugli insegnamenti filosofici dirigesse il genere umano verso la felicità temporale” (De Monarchia, III, 15, 10). Dunque, per Dante, Papato e Impero devono essere autonomi ma armonici, entrambi ordinati a Dio, ma non subordinati l’uno all’altro.

Fede e ragione

Infine, il vero asse portante comune è la sinergia tra fede e ragione. Secondo Tommaso: “Per gratiam perfectior cognitio de Deo habetur a nobis, quam per rationem naturalem. Quod sic patet. Cognitio enim quam per naturalem rationem habemus, duo requirit, scilicet, phantasmata ex sensibilibus accepta, et lumen naturale intelligibile, cuius virtute intelligibiles conceptiones ab eis abstrahimus. Et quantum ad utrumque, iuvatur humana cognitio per revelationem gratiae. Nam et lumen naturale intellectus confortatur per infusionem luminis gratuiti. Et interdum etiam phantasmata in imaginatione hominis formantur divinitus, magis exprimentia res divinas, quam ea quae naturaliter a sensibilibus accipimus; sicut apparet in visionibus prophetalibus” (Noi mediante la grazia possediamo una conoscenza di Dio più perfetta che per ragione naturale. Eccone la prova. La conoscenza che abbiamo per ragione naturale richiede due cose: cioè dei fantasmi, o immagini, che ci vengono dalle cose sensibili, e il lume naturale dell’intelligenza, in forza del quale astraiamo dai fantasmi concezioni intelligibili. Ora, quanto all’una e all’altra cosa, la nostra conoscenza umana è aiutata dalla rivelazione della grazia. Infatti: il lume naturale dell’intelletto viene rinvigorito dall’infusione del lume di grazia. E talora si formano per virtù divina nell’immaginazione dell’uomo anche immagini sensibili, assai più espressive delle cose divine, di quel che non siano quelle che ricaviamo naturalmente dalle cose esterne; come appare chiaro nelle visioni profetiche. STh, I, q. 12, a. 13). E Dante, nel Convivio, riecheggia questo principio: “Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di propria natura impinta è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti” (Convivio, I, 1). L’intero cammino della Commedia è l’attualizzazione di questa potenzialità: dall’ignoranza iniziale dell’Inferno fino alla pienezza luminosa del Paradiso, l’intelletto umano, guidato dalla ragione e dalla grazia, ascende alla contemplazione divina.

La Divina Commedia è il poema della visione: non solo della visione beatifica, ma della visione razionale del mondo, secondo un ordine divino che Tommaso ha tracciato con la chiarezza del teologo e Dante ha cantato con la potenza del poeta. Dove Tommaso costruisce la cattedrale della ragione teologica, Dante la riempie di luce, suono, volto e voce. In questo senso, leggere Dante significa anche ascoltare l’eco del pensiero tomista, trasfigurato in poesia. L’ordine dell’universo, la gerarchia degli esseri, il fine ultimo dell’uomo: tutto ciò che nella Summa appare come architettura concettuale, nella Commedia prende vita, si anima, si fa esperienza sensibile e spirituale. Dante non si limita a recepire il modello di Tommaso; lo reinterpreta, lo rende carne e sangue, visione e cammino. È così che la teologia scolastica diventa teatro dell’anima e il pensiero si fa canto. Questa trasformazione non è semplice ornamento poetico ma un’operazione intellettuale profonda. Dante assume la struttura tomista non per rinchiudervisi ma per mostrarne la forza generativa: la sua poesia non è un commento, è un’estensione, una dimostrazione incarnata del pensiero teologico. Ogni figura che si incontra nel poema, ogni dialogo, ogni paesaggio ultraterreno, riflette una logica interna, un disegno preciso che affonda le radici nella filosofia per giungere alla visione escatologica. La Commedia si presenta, così, come l’altro volto della Summa Theologiae: dove quest’ultima si esprime per argomenti e definizioni, la prima risponde con immagini e movimenti dell’anima. In definitiva, il legame tra Tommaso e Dante non è quello tra un maestro e un discepolo ma tra due costruttori dello stesso edificio: l’uno con gli strumenti della ragione sistematica, l’altro con quelli della fantasia ordinata. E se il fine è lo stesso – mostrare la via che conduce a Dio – allora si può affermare che la Divina Commedia sia il completamento poetico della teologia tomista, il suo specchio narrativo, la sua forma visibile e percorribile. È in questo intreccio vertiginoso di dottrina e arte, di pensiero e visione, che si gioca la grandezza di Dante e l’inesauribile potenza del suo poema.