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Amore e Follia

Platone e la dialettica tra ragione e caos nel Simposio

 

 

 

 

Il Simposio di Platone è, senza dubbio, uno dei dialoghi più complessi e affascinanti del filosofo ateniese, poiché affronta il tema dell’amore (Eros) in una prospettiva che mette in discussione la rigidità del pensiero razionale e accoglie l’irruzione dell’irrazionale, della follia, come elemento essenziale per comprendere la natura dell’essere umano e della conoscenza. Platone, attraverso il dialogo tra i vari personaggi, in particolare Socrate, indaga l’idea che la ragione non sia autosufficiente, ma debba confrontarsi con l’abisso del caos e dell’ineffabile, incarnato nella follia, che egli definisce: “più bella della saggezza d’origine umana”. Questo concetto segna uno dei punti più vertiginosi del pensiero platonico, poiché allude a una dimensione del sapere che eccede i confini della logica e dell’ordine razionale.
Platone è riconosciuto come uno dei padri del pensiero razionale occidentale. Il suo contributo all’elaborazione di un sistema filosofico che pone al centro la ragione e l’ordine logico è indiscutibile, tuttavia, nei suoi dialoghi, egli non dimentica mai il substrato da cui la ragione emerge. La razionalità, secondo Platone, non è un punto di partenza, ma un risultato di un processo di ordinamento, che si innalza da un caos originario. Questo caos è rappresentato dalle passioni, dalle pulsioni e dalle tensioni, che la tragedia greca ha espresso con forza. Platone non ignora l’apertura minacciosa verso ciò che egli chiama “la fonte opaca e buia di ogni valore sociale”, un abisso che mette in discussione la stabilità stessa della polis, la città-stato. La polis, infatti, trova il proprio ordine grazie alla ragione, ma questo equilibrio non è stabile, essendo continuamente minacciato dalle forze caotiche e imprevedibili che si agitano al suo interno.
Per garantire la stabilità della città, Platone riconosce la necessità di espellere il katharma, che rappresenta tutto ciò che non può essere integrato nell’ordine razionale. Tuttavia, egli non nega che sia necessario sacrificare agli dèi, ovvero riconoscere che esiste una dimensione irrazionale e misteriosa da cui la stessa ragione trae origine. Le parole della ragione, per quanto ordinate e non oracolari, devono la loro esistenza a quella fonte divina e caotica che rimane fuori dal dominio della comprensione umana. Questa tensione tra ordine e caos, tra razionale e irrazionale, attraversa tutto il pensiero platonico e il Simposio ne è una delle espressioni più emblematiche.
Platone riconosce la follia come un’esperienza fondamentale dell’anima, non una malattia da cui guarire, ma un dono divino. Egli afferma che “i beni più grandi ci vengono dalla follia naturalmente data per dono divino”. Questa frase esprime la consapevolezza che la follia non è solo una rottura dell’ordine razionale, ma anche una via d’accesso a verità più profonde, che sfuggono alla comprensione ordinaria. Per Platone, la follia non è semplicemente il caos, ma una forma di conoscenza che va oltre la saggezza umana e razionale.
L’anima, infatti, non è completamente contenibile entro i limiti del pensiero razionale. Le esperienze dell’anima sono sfuggenti e non possono essere completamente ordinate o fissate in una sequenza logica. Questo perché, al di là dell’ordine razionale, l’anima sente che la totalità della realtà è sempre in qualche modo elusiva. Il non-senso contamina il senso, il possibile supera il reale, e ogni tentativo di comprensione totale emerge sempre da uno sfondo abissale che è caos, apertura, possibilità infinita.

Il ruolo di Eros, l’amore, in questo contesto è cruciale. Nel Simposio, l’amore è descritto come un intermediario tra il mondo della ragione e quello della follia. L’amore non è semplicemente un sentimento che unisce due individui, ma un’esperienza che permette all’anima di dislocarsi dal recinto della razionalità e di entrare in contatto con l’ineffabile. Per accedere a questa dimensione dell’anima, Platone afferma che è necessaria una sorta di a-topia, uno “spostamento” o una “dislocazione”, che porta l’individuo fuori dai confini dell’io razionale.
Questo movimento è pericoloso, poiché rischia di condurre l’anima nella follia incontrollata, ma è anche essenziale per accedere a una comprensione più profonda della realtà. Per non perdersi in questo processo, è necessario che l’anima sia accompagnata dall’amato. L’amato, infatti, riflette in qualche modo la nostra stessa follia, il nostro desiderio di andare oltre i limiti dell’ordine razionale. L’amore, dunque, è un evento che mette in comunicazione non solo due persone, ma due dimensioni dell’essere umano: l’ordine razionale e l’abisso della follia.
In Platone, la relazione tra amore e sapere non è mai semplice. L’amore è sì desiderio di bellezza e verità, ma è anche consapevolezza della propria mancanza e incompletezza. L’amore ci spinge a cercare ciò che ci manca, ma allo stesso tempo ci espone al rischio del fallimento e della perdita. Questa dinamica rende l’amore una forza dialettica, che mette continuamente in tensione il nostro desiderio di ordine e il nostro confronto con il caos.
In questa prospettiva, il Simposio non è solo una riflessione sull’amore, ma anche una meditazione sulla natura stessa del sapere. Il sapere, per Platone, non è mai una conquista definitiva, ma un processo che si sviluppa tra la luce della ragione e l’ombra della follia. Eros, l’amore, è il motore di questo processo, poiché ci spinge a cercare oltre i confini del conosciuto, ad accettare la nostra vulnerabilità e a riconoscere che ogni ordine razionale è sempre accompagnato da un residuo di irrazionalità e mistero.
Il Simposio di Platone, quindi, ci invita a riflettere su una delle più profonde verità del pensiero filosofico: la razionalità, che, pur essendo fondamentale per la vita umana, non può mai esaurire la totalità dell’esperienza. Il caos, la follia e l’irrazionale sono componenti essenziali dell’esistenza e ignorarli significherebbe rinunciare a una parte fondamentale della nostra umanità. Platone ci insegna che solo riconoscendo la follia come una parte integrante della nostra anima possiamo accedere a una conoscenza più profonda e autentica. L’amore, in questo contesto, diventa la via attraverso cui possiamo attraversare l’abisso del caos e, al contempo, non smarrirci, poiché è nell’amato che troviamo il riflesso della nostra stessa follia, della nostra stessa sete di infinito.

 

 

 

 

La poetica della luna: Giacomo Leopardi e Lucio Dalla

 

 

 

Giacomo Leopardi e Lucio Dalla. Un poeta-filosofo e un cantautore. Cosa possono avere mai in comune? Lo scoprirete presto! Voglio, però, condurvici pian piano, cominciando da un elemento naturale, visibile, di notte, da qualche parte nel cielo: la luna. La luna ha eccitato la fantasia dei poeti sin dalla notte dei tempi. Gli antichi greci la deificarono, arrivando a conferirle una triplice personificazione: Proserpina, moglie di Ade e regina degli Inferi (simbolo della luna calante); Artemide, dea della caccia (simbolo della luna crescente), e Selene, la luna propriamente detta (la luna piena). Anche Dante Alighieri cedette al fascino di questa triplice personificazione e, nel canto X dell’Inferno, ai versi 79-81, mise in bocca a Farinata degli Uberti, fiero capo ghibellino, una profezia post eventum, scritta, cioè, quando gli eventi predetti erano già accaduti: “Ma non cinquanta volte fia raccesa/ la faccia de la donna che qui regge/ che tu saprai quanto quell’arte pesa”. Dante si riferiva proprio alla luna (Proserpina, la donna che qui regge, in una commistione tra mitologia classica, dottrina cristiana e astronomia medievale), e le cinquanta volte in cui si sarebbe “riaccesa” rappresentavano i cinquanta mesi mancanti alla sua condanna all’esilio. Più vicino a noi, come non citare i tenerissimi versi di uno dei miei migliori conterranei: il principe De Curtis, Totò, il quale, nella poesia “A cunsegna”, esplora il topos poetico della luna quale benevola protettrice degli innamorati: “’A sera quanno ‘o sole se nne trase/ e dà ‘a cunzegna a luna p’ ‘a nuttata/ lle dice dinto ‘a recchia: I’ vaco ‘a casa:/ t’arraccumanno tutt’ ‘e nnammurate”. La luna, quindi, è il trait d’union tra i due protagonisti di questo mio breve scritto.

 

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Nonostante tutto ciò, mi si potrebbe obiettare: “Cosa c’entra uno dei più grandi, se non il più grande poeta italiano con Lucio Dalla, un cantante, seppure famoso? Cosa possono avere in comune un uomo che, a 10 anni, aveva una cultura vasta quanto quella di un paio di centenari messi insieme con un personaggio che ha giusto terminato le scuole medie? Cosa c’entra, dunque, Giacomo Leopardi con Lucio Dalla? Posso assicurarvi che hanno molti punti in comune e cercherò, qui, di esporveli nel modo più breve ma più esauriente possibile. Il materialismo del pensiero marxista, dal punto di vista filosofico-letterario (ciò, in Italia, è avvenuto soprattutto grazie all’opera di Antonio Gramsci), ha avuto il merito di permettere ai critici di concentrarsi su problematiche, relative agli autori, non soltanto di poetica ma anche, e soprattutto, di vita reale, materiale. Ecco perché, allora, gli elementi biografici di un autore assumono una importanza fondamentale nel tentativo di imagesricostruire e motivare l’arte dello stesso. Detto questo, andiamo ad analizzare cosa successe nelle vite di questi due personaggi, Leopardi e Dalla, in quella fase delle loro vite dove, per usare una felice espressione, andò in scena, per entrambi, il “preludio del genio”. Giacomo Leopardi, il conte Giacomo Taldegardo Leopardi (immagine a destra), nacque a Recanati, il 28 giugno 1798. Era figlio di genitori molto particolari. Il padre Monaldo, nobile, intellettuale, era il responsabile del dissesto economico familiare. Un uomo che viveva con la testa tra le nuvole, o, meglio, tra i libri, e incapace ad amministrare i beni di famiglia, terreni, fattorie, campi. Fu scrittore anch’egli, eclissato, ovviamente, dalla fama del figlio. Fu lui ad istillare nel piccolo Giacomo l’amore per le lettere. Aveva una biblioteca prodigiosa, visitabile, ancora oggi, a Recanati. Era un brav’uomo, a modo suo affettuoso con i dieci figli, ma, ripeto, totalmente incapace nella gestione degli affari di famiglia. La madre, Adelaide dei marchesi Antici, fu l’amministratrice economica della casa, riuscendo anche ad assestare il patrimonio, a prezzo di grandi sacrifici. Una donna dura, che non mostrava affetto, arida, molto religiosa, ai limiti della superstizione. Una figura, quindi, tutt’altro che materna. Il rapporto di Leopardi con la madre è, ancora oggi, oggetto di studio. Vi è un solo luogo nella sua opera, nelle Operette morali, in cui il poeta identifica la cattiva Natura con la madre, ma è comunque troppo poco per ritenere che sia l’interpretazione preponderante del suo rapporto con donna Adelaide. Lucio Dalla nacque a Bologna, il 4 marzo 1943. Il padre, Giuseppe, era un commesso viaggiatore, poco impegnato nel suo lavoro, quanto piuttosto nelle sue passioni, la caccia e la pesca. Un bell’uomo, alto e prestante. Morì di tumore quando Lucio aveva solo 6 anni. Il dolore di quella perdita avrebbe accompagnato il cantante per tutta la vita, influenzandone anche la poetica. La madre, Iole, era una sarta, una donna energica e risoluta, che dovette farsi carico dell’educazione del figlio e della sua crescita, in una Italia che usciva devastata dalla guerra. Una figura fondamentale nella vita di Lucio. La balena bianca, come è stata spesso chiamata. Giacomo Leopardi trascorse l’infanzia e la prima giovinezza nel palazzo di famiglia a Recanati, più propriamente, nella biblioteca del palazzo, in lunghissime ore di studio. A quindici anni già conosceva il latino, il greco, l’ebraico, l’inglese e il francese. Componeva trattati di astronomia e di chimica. Era già un vero e proprio erudito. Aveva mostrato, quindi, a quell’età, le caratteristiche del genio letterario che lo avrebbero consacrato alla fama immortale. Lucio Dalla (immagine a sinistra) ebbe, in sua madre, il vero incentivo della sua carriera d’artista. La donna lo faceva esibire prima delle sfilate di moda che teneva d’estate, a Manfredonia, dove si recava per vendere i capi delle sue collezioni. A dieci anni, Lucio era un animale da palcoscenico. Ci sono delle bellissime fotografie nel libro di Angelo Riccardi, “Ti racconto Lucio Dalla” (2014), che lo ritraggono con gli abiti di scena. Fa tenerezza. Era davvero un bel bimbo, disinvolto, sicuro di sé. Gli insuccessi scolastici, l’abbandono della scuola al quinto ginnasio e l’amore per la musica, per quel clarinetto, che gli era stato regalato da un amico di famiglia, il forsennato studio dello strumento, da autodidatta, e l’arrivo a Roma, lo proiettarono nel mondo della musica, grazie anche alla protezione di Gino Paoli. Questi, infatti, gli aveva consigliato di affrancarsi da I Flippers e di intraprendere la carriera solista. Appare chiaro, quindi, come entrambi, sin dall’infanzia, manifestassero quelle qualità che, poi, avrebbero sublimato nelle proprie creazioni artistiche. Vi ho già detto della luna. La poetica di Leopardi e di Dalla è una poetica naturalistica, in cui con gli elementi della natura è costante. Sono riuscito a contare almeno cinquanta occasioni in cui, nelle canzoni di Dalla, compaia la luna. Di meno nelle poesie e prose di Leopardi. Questo dialogo dei due, però, si compie in modi differenti. Dalla vi dialoga come un innamorato che si rivolge al garante del suo amore per la natura. Nella poetica dalliana la luce della luna illumina l’esistenza notturna degli uomini, nella notte della vita, quando le cose non appaiono ben chiare e definite nei loro contorni. La luna di Dalla ha anche una funzione salvifica e apotropaica. Pensate ai versi di Caruso: “Ma quando vide la luna uscire da una nuvola/ gli sembrò più dolce anche la morte”. In Leopardi, invece, le invocazioni alla luna sono disperate richieste di aiuto contro una Natura che il poeta giudica essenzialmente maligna e dannosa per gli uomini. Sono grida infelici di una grande mente che si sforza di ricercare qualche positività in un sistema di elementi che lui giudica pernicioso per l’uomo. Questa concezione viene fuori, principalmente, nel Canto notturno di un pastore errante per l’Asia e in Alla luna, opere al cui dialogo con l’astro l’autore affida lo svelamento delle proprie concezioni filosoficheScreen-shot-2011-10-22-at-1.26.05-AM-425x450 sulla natura, sulla vita e sulla condizione degli uomini. Un altro elemento che accomuna i due autori, è un concetto di derivazione classica: il binomio Eros-Thanatos, Amore e Morte. Esso sottintende al capolavoro di Dalla, Caruso, perché ha attraversato anche la sua vita. Lucio si è portato dietro, per sempre, il ricordo della tragica fine del padre e, altre volte nella vita, ha perso persone a lui care. Questi sentimenti sono presenti nella sua canzone più celebre. Il grande tenore Enrico Caruso, nell’ora della morte, è innamorato della fanciulla sorrentina, alla quale sta dando lezioni di canto. L’amore, Eros, nell’ora della Morte, Thanatos, la rende più dolce, in un binomio indissolubile. “Amore e morte”, invece, è il titolo di un canto di Leopardi, scritto all’epoca dello sfortunato amore per Fanny Targioni Tozzetti, per cui, certamente risente della delusione per la mancata corrispondenza amorosa. Anche per Leopardi, Amore e Morte rappresentano un binomio indissolubile: “Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte/ ingenerò la sorte”, recita il citato canto. Nella concezione leopardiana, tipicamente estremista, la morte non è soltanto un male a cui bisogna rassegnarsi, ma, vista in contrapposizione con il dolore, la malattia e le pene dell’esistenza, assume connotazioni positive, come una sorta di miglioramento rispetto allo stato abituale dell’uomo, una liberazione dai laceranti dolori dell’animo. La morte è un punto di arrivo, una soluzione finale, una meta verso cui tendere, un traguardo indolore e quieto, che rappresenta la fine di ogni tormento. Un ultimo, importante legame, che accomuna questi due personaggi straordinari: l’amore per Napoli. Quello di Lucio Dalla per Napoli, per Sorrento e per il Sud Italia, come è ormai noto, grazie anche alle recenti pubblicazioni di Raffaele Lauro (“Caruso The Song – Lucio Dalla e Sorrento”, 2015, “Lucio Dalla e San Martino Valle Caudina – Negli occhi e nel cuore”, 2016, e “Lucio Dalla e Sorrento Tour – Le tappe, le immagini e le testimonianze”, 2016), è stato un amore fatto di rapporti sinceri con le persone, di lunghe frequentazioni, Veduta-di-Napoli-e-del-Vesuvio-420di curiosità per gli aspetti della vita delle genti del Sud. Lucio era interessato alla vita del Sud. Aveva dei taccuini neri sui quali annotava sempre tutto. Era un curioso come il don Ferrante de I promessi sposi. Anche Leopardi amò Napoli, seppure di un amore bisbetico e insofferente, per un ambiente, soprattutto intellettuale, che considerava alquanto arruffato. Leopardi morì a Napoli, a 39 anni, più precisamente, a Villa delle Ginestre, a Torre del Greco, ospite del fidato amico Antonio Ranieri. A Napoli è, ancora oggi, la sua tomba. In quella villa aveva composto il suo testamento spirituale, quella La ginestra, che nel 2014, è stata protagonista della scena di chiusura del film di Mario Martone, Il giovane favoloso, dedicato proprio alla breve esistenza del poeta di Recanati. L’attore Elio Germano, che interpreta Leopardi, ne recita alcuni versi, mentre il Vesuvio, lo “sterminator Vesevo”, erutta. Pochi giorni prima di morire, a Torre, Leopardi aveva composto Il tramonto della Luna. Ancora una volta, la luna.