Archivio mensile:Giugno 2025

La dichiarazione dell’ὁμοούσιος
al Concilio di Nicea del 325 d.C.

 

 

 

 

Nel IV secolo, il cristianesimo uscì dalla clandestinità. Dopo tre secoli di persecuzioni, l’Editto di Milano del 313 d.C., promulgato dall’imperatore Costantino, garantì la libertà religiosa a tutti i culti, compreso quello cristiano. La pace esterna, però, fece emergere divisioni interne. Una delle più critiche riguardava la natura di Cristo: chi è esattamente Gesù di Nazareth? Come può essere insieme vero Dio e vero uomo?
In un contesto di pluralismo teologico, la dottrina cristiana era ancora in fase di definizione. Non esisteva un “catechismo” unificato. Le Scritture erano lette in modi diversi. I concetti filosofici greci, soprattutto quelli neoplatonici, si intrecciavano con la rivelazione giudaico-cristiana. Il rischio di eresie, confusioni dottrinali e scismi era concreto.
Il presbitero Ario, attivo ad Alessandria d’Egitto, pose la questione con logica razionale e inflessibile: se Dio è assolutamente uno, immutabile e ingenerato, non può avere un Figlio consustanziale. Il Figlio dev’essere stato creato in un momento preciso. Per Ario, il Figlio è una creatura suprema, attraverso la quale Dio ha creato il mondo, ma non Dio in sé. Il suo pensiero era teologicamente coerente anche se incompatibile con l’esperienza liturgica e salvifica della Chiesa, che adorava Cristo come Signore e Salvatore.
L’avversario più deciso di Ario fu Atanasio di Alessandria, che al tempo del Concilio aveva solo una trentina d’anni ma già una chiarezza dottrinale impressionante. Per Atanasio, negare la piena divinità del Figlio significava distruggere la salvezza cristiana. Solo Dio può salvare. Se il Figlio non è Dio, non può deificare l’uomo. Se è creatura è egli stesso bisognoso di salvezza. La sua posizione era che il Figlio non fosse una creatura, ma eterno come il Padre, generato da Lui, ma della stessa sostanza. Il Figlio non è un secondo Dio, è Dio stesso nella distinzione delle Persone.
Nel 325 d.C., Costantino convocò il Concilio a Nicea, non solo per motivi religiosi ma anche per preservare l’unità dell’Impero. Circa 300 vescovi, provenienti da tutto il mondo romano, si riunirono per affrontare anche questa questione.

Dopo intensi dibattiti, emerse la necessità di una formulazione inequivocabile. Il termine scelto fu ὁμοούσιος (homoousios), ovvero “della stessa sostanza”, per dire che il Figlio non è “simile” (ὁμοιούσιος) al Padre, né subordinato, ma identico nella sua essenza divina. Questa affermazione non venne senza resistenze. Alcuni vescovi orientali temevano che il termine potesse suggerire una confusione delle persone nella Trinità o che fosse troppo vicino al modalismo. Tuttavia, l’urgenza di rispondere chiaramente all’arianesimo prevalse.
Il “Simbolo niceno” fu redatto con una precisione senza precedenti. La sezione su Cristo recita: “Crediamo in un solo Signore Gesù Cristo, il Figlio di Dio, generato dal Padre, unigenito, cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, consustanziale al Padre (ὁμοούσιον τῷ Πατρί)…”.
Questa formula ha tre punti centrali: il Figlio è Dio vero, non un essere intermedio; è generato, non creato, la sua origine è eterna e non temporale; è ὁμοούσιος, della stessa sostanza del Padre, quindi, coeterno, consustanziale, coeguale.
La decisione del Concilio, tuttavia, non chiuse la questione. Anzi, l’arianesimo conobbe una lunga stagione di successi politici, appoggiato da imperatori successivi a Costantino. Lo stesso Atanasio fu esiliato più volte. Per oltre 50 anni, l’Oriente cristiano oscillò tra posizioni semi-ariane e formule di compromesso, come l’“homoiousios” (simile nella sostanza), ma sempre evitando il termine niceno. Solo nel Concilio di Costantinopoli (381 d.C.), la dottrina nicena fu definitivamente riaffermata. Il “Credo” niceno-costantinopolitano, ancora oggi in uso nelle Chiese cattolica, ortodossa e in molte protestanti, è l’evoluzione di quella formula.
Il termine ὁμοούσιος possiede, dunque, un rilievo centrale nel pensiero cristiano, toccando vari ambiti fondamentali della teologia. Dal punto di vista soteriologico, affermare che Cristo è della stessa sostanza del Padre significa riconoscere che solo un Dio pienamente Dio può salvare pienamente l’uomo. Se Cristo fosse una creatura, per quanto eccelsa, non potrebbe comunicare la vita divina; solo l’unità ontologica con il Padre garantisce la piena efficacia della salvezza.
Sul piano trinitario, l’ὁμοούσιος fonda l’uguaglianza tra le Persone divine: Dio è uno nell’essenza, ma trino nelle persone. Questo concetto si è imposto come fondamento dogmatico della dottrina trinitaria, marcando in modo netto la differenza tra la fede cristiana e ogni forma di subordinazionismo o politeismo.
Da un punto di vista ontologico e metafisico, l’uso di ὁμοούσιος segna l’ingresso della teologia cristiana in una riflessione profonda sull’essere, la sostanza e le relazioni eterne. La Chiesa fece propria la terminologia filosofica greca – concetti come sostanza, essenza e generazione – per esprimere il mistero della rivelazione, mostrando che la fede potesse confrontarsi con il pensiero razionale senza tradire il suo contenuto.
L’inserimento del termine ὁμοούσιος nel “Credo” niceno non fu una scelta accidentale o puramente filosofica. Fu un atto di coraggio teologico e pastorale, capace di dire con forza: in Cristo, Dio stesso è venuto a salvare l’uomo. Quella parola, scelta per la sua chiarezza e potenza, ha tracciato il confine tra ortodossia ed eresia, tra verità e confusione, tra un Dio lontano e un Dio che si fa carne.

 

 

 

Ombre e radici

La “selva oscura” della Divina Commedia
e la Foresta di Fangorn de Il Signore degli Anelli

 

 

 

 

Due autori, due epoche, due universi letterari. Dante Alighieri e J.R.R. Tolkien appartengono a mondi molto diversi: il primo è il poeta teologo del Medioevo cristiano, il secondo il filologo inglese che, nel cuore del Novecento, crea una delle mitologie moderne più potenti e complesse. Eppure, nonostante le distanze storiche e culturali, entrambi attraversano – letteralmente e metaforicamente – una foresta. In Dante, la “selva oscura” è il punto di partenza del viaggio nell’aldilà, un luogo cupo e confuso, specchio del caos interiore del poeta e allegoria del peccato, della perdita della retta via. È una foresta che non ha contorni geografici ma psicologici e spirituali, dove dominano il disorientamento e la paura. In Tolkien, invece, la Foresta di Fangorn è un organismo antico e cosciente, abitato dagli Ent, creature arboree che incarnano la memoria del mondo primordiale. Non è un simbolo della perdizione ma un’entità che resiste al tempo e alla distruzione operata dagli uomini. Fangorn è misteriosa, sì, ma non malvagia: rappresenta una natura viva, dotata di volontà, capace di giudicare e persino punire. Laddove, quindi, la “selva oscura” è introversione e colpa, la foresta tolkieniana è presenza cosmica, memoria ecologica, forza che sfugge al controllo umano. Esaminare, seppure nella brevità di questo scritto, le differenze tra le due foreste sollecita a confrontarsi con due visioni del mondo radicalmente opposte. Per Dante, la natura è subordinata all’ordine divino e ha valore solo in quanto riflesso della giustizia ultraterrena; per Tolkien, essa ha dignità autonoma, è depositaria di un’antica sapienza e può essere più giusta degli uomini stessi. Anche il tempo segue logiche diverse: nel mondo medievale è orientato verso l’eternità; nella Terra di Mezzo, è ciclico, mitico, e la foresta diventa testimone di ere dimenticate. Infine, cambia anche il volto del male. Per Dante, il male è una deviazione morale e teologica, una scelta personale che conduce alla dannazione. In Tolkien, è la corruzione del potere, la violenza contro l’equilibrio naturale, la smania di dominio che distrugge ciò che non può comprendere. Due foreste, dunque, che aprono due passaggi narrativi diversi: uno verso la redenzione, l’altro verso la resistenza. E, in entrambi i casi, attraversarle non è mai solo un atto fisico: è un’esperienza trasformativa che interroga profondamente l’essere umano.

All’inizio della Divina Commedia, Dante si ritrova nella “selva oscura”, senza sapere come ci sia entrato. Questa incertezza non è un errore narrativo: è parte della sua condizione spirituale. La selva non è uno spazio geografico ma uno stato dell’anima. È il punto più basso dell’esistenza morale: un luogo dove la luce della verità è assente, dove l’orientamento interiore è perduto. L’oscurità non è quella della notte o delle fronde fitte ma quella del peccato, della colpa, della distanza da Dio. Dante non descrive la foresta nei termini di un naturalista: non ci sono alberi identificabili, non c’è paesaggio. Ciò che conta è l’effetto psichico e teologico. La “selva” è lo spazio simbolico della crisi, la prova iniziale, il fondale del principio di una redenzione. Il fatto che la “diritta via era smarrita” è più importante di dove si trovi il viaggiatore: l’anomalia è interiore. La selva è, dunque, una topografia dell’anima, un paesaggio mentale in cui la confusione, la paura e l’inerzia diventano ostacoli reali e la salvezza richiede una guida esterna e trascendente.
La Foresta di Fangorn, al contrario, è un luogo reale all’interno di un mondo fantastico, Arda. Non rappresenta un simbolo dell’interiorità ma una forza autonoma, con una storia, una volontà e una forma di coscienza propria. Qui non c’è un uomo smarrito: c’è una foresta antica che osserva, giudica e, talvolta, reagisce. La sua età sfida il concetto umano di tempo: gli Ent, custodi viventi della foresta, parlano lentamente, si muovono con prudenza, ricordano ciò che gli uomini hanno dimenticato. Barbalbero, uno degli Ent, non è una guida spirituale ma una presenza cosmica. Non conduce l’uomo alla verità, gli ricorda che esistono verità più antiche di lui. Fangorn è densa di materia, di suoni, di nomi. Tolkien non allude, descrive. Non allegorizza, crea. Ogni foglia, ogni radice, ogni ruscello è parte di una realtà tangibile, coerente. Ma questa realtà è anche animata, viva, partecipe. La foresta non è uno scenario ma un personaggio: agisce, parla, si oppone, decide. Non è simbolo della perdizione ma della durata. Non è specchio dell’anima ma forza del mondo. In Dante, la foresta è un errore da correggere. In Tolkien, è una memoria da rispettare. L’una rappresenta la crisi dell’uomo e la necessità di un ordine superiore; l’altra, la resistenza del mondo non umano alla hybris dell’uomo moderno.

Il tempo della “selva oscura” è scandito con precisione assoluta: “Nel mezzo del cammin di nostra vita”. Non è un tempo qualsiasi: è un punto esatto nell’arco dell’esistenza umana, quando si è chiamati a scegliere tra il bene e il male, tra la salvezza e la perdizione. È un tempo che ha un’origine e una destinazione, perché inscritto nella visione cristiana del mondo, in cui la storia è la trama della salvezza e ogni istante può avere peso eterno. La selva si presenta come uno spartiacque: luogo d’ombra ma anche soglia. È il momento dell’esame interiore, della crisi e, poi, anche l’inizio di un cammino guidato dalla grazia. Questo tempo è lineare, orientato, teologicamente carico. Ogni evento è collocato in una catena di significati che conduce verso un fine ultimo: la redenzione e la visione di Dio. La selva non è solo uno spazio, è una condizione spirituale che precede la rinascita. Chi vi si trova non può restare fermo: deve uscirne, prendere posizione, rimettere ordine. Non c’è spazio per l’attesa o l’indifferenza. Il tempo dantesco è un tempo urgente, perché ogni esitazione rischia di fissare per sempre il destino dell’anima.
Nella Foresta di Fangorn il tempo non incalza, scorre. Non c’è fretta, non c’è direzione obbligata. Gli Ent non misurano con le ore ma con i ritmi della terra. Contano gli anni in primavere e inverni, parlano lentamente, come se ogni parola avesse bisogno di sedimentarsi nei secoli. Vivono in un tempo arcaico, non finalizzato, che resiste alla modernità e all’efficienza. È un tempo circolare, mitico, in cui il passato non muore, si stratifica nella memoria della natura. Fangorn non impone un giudizio, non chiama alla scelta morale immediata: invita al silenzio, alla sospensione, alla contemplazione. È un luogo dove l’uomo non è al centro ma è un ospite che può ascoltare, se sa fermarsi abbastanza a lungo. Il tempo è quello dell’oblio e della resistenza: la foresta non chiede redenzione ma rispetto. Non è la soglia tra inferno e paradiso, piuttosto tra il mondo come fu e il mondo come sarà. Una soglia malinconica, dove si sente l’eco di un passato che non tornerà più. In Tolkien non c’è l’urgenza del giudizio ma la consapevolezza della perdita. La Foresta di Fangorn custodisce un tempo che svanisce e, con esso, una sapienza che il mondo moderno ha dimenticato. Non c’è escatologia ma memoria. Non redenzione ma fedeltà a un ordine più antico e naturale, ormai in declino.

La “selva oscura” è la prima immagine della Commedia e non è casuale: è simbolo di smarrimento, peccato, confusione morale. Non è una foresta reale ma un paesaggio dell’anima. Le tre fiere che la abitano – la lonza, il leone e la lupa – non sono semplici ostacoli fisici, quanto allegorie dei vizi che tormentano l’uomo: la lussuria, la superbia, l’avarizia. In questo spazio, l’individuo è solo contro se stesso. La ragione umana, da sola, non basta a ritrovare la strada: il peccato ha spezzato l’orientamento morale e ha reso l’uomo incapace di salvarsi con le proprie forze. Da qui nasce la necessità di una guida. Virgilio appare non come un esploratore ma come un mediatore tra l’umano e il divino, tra il pensiero classico e la verità cristiana. Senza guida, non c’è uscita dalla selva. Il male, in Dante, non è solo minaccia esterna, è frattura interna: l’uomo che ha perso Dio è anche un uomo che ha perso se stesso. La selva è una trappola esistenziale, un labirinto spirituale, dove la tentazione si maschera da via d’uscita e l’unica vera via è quella che passa per la rivelazione, il pentimento e il cammino guidato.
La Foresta di Fangorn rappresenta un modello opposto. Non è luogo di perdizione o prova morale ma spazio autonomo, vivente, con un’intelligenza diversa da quella umana. Non è la foresta a essere pericolosa ma l’uomo che non la rispetta. Gli alberi sono ostili solo in risposta a un’aggressione. Non agiscono per male ma per sopravvivenza. Barbalbero stesso non è buono nel senso morale cristiano: è antico, lento, diffidente. Non si schiera facilmente, non perché sia ambiguo ma perché il mondo degli Ent segue logiche che vanno al di là dell’etica umana. La moralità, a Fangorn, non è astratta né codificata: è inscritta nella natura stessa. Quando gli alberi si risvegliano e gli Ent marciano su Isengard, non lo fanno per giustizia metafisica ma per vendetta ecologica. È una risposta organica alla distruzione sistematica operata da Saruman: alle forge, alle macchine, alla logica industriale che disbosca e devasta. Il male, qui, è esterno alla foresta. Non viene da tentazioni interne ma da interventi umani che violano gli equilibri. Fangorn, quindi, non è un simbolo della caduta ma della resistenza. Non richiede una guida ma un ascolto. Non è un luogo dove ci si perde ma dove ci si confronta con ciò che è più antico e meno corrotto. È una forma di coscienza non morale ma ecologica: una consapevolezza del mondo che non passa per la colpa ma per l’equilibrio.

La scrittura di Dante è una macchina simbolica. Ogni verso è carico di senso, ogni parola è scelta con precisione assoluta per contenere molteplici livelli di lettura: letterale, allegorico, morale, anagogico. La “selva oscura” non è mai solo una foresta: è un’esperienza reale e, al contempo, un’immagine dell’anima in crisi, un simbolo del peccato originale e, infine, un passaggio iniziatico verso la visione divina. Nulla è lasciato al caso. Tutto è codificato, gerarchico, orientato verso l’alto. Lo stile di Dante è conciso, compatto, potente. Usa versi brevi per costruire un ritmo serrato, incalzante. Le immagini sono nette, scolpite nel contrasto: luce e tenebra, discesa e ascesa, colpa e redenzione. Il poema è verticale per natura e per struttura: parte dal fondo dell’Inferno, attraversa il Purgatorio e culmina nella luce del Paradiso. Ogni passo è un’ascesa, non solo fisica ma spirituale e intellettuale. L’allegoria è lo strumento per parlare dell’assoluto, per trasformare il viaggio interiore in geografia ultraterrena. È una scrittura teologica che non descrive: svela.
Tolkien, invece, non lavora con l’allegoria esplicita. La sua è una mitopoiesi: una costruzione narrativa che simula una storia autentica, credibile, posata nel tempo. La Foresta di Fangorn non è una metafora di altro: è sé stessa, con la sua consistenza fisica, sonora, vegetale. È narrata con la minuzia di un naturalista e il rispetto di un filologo che conosce il potere originario delle parole. I nomi, i suoni, le radici linguistiche non sono semplici decorazioni ma parti integranti di un mondo che si vuole verosimile, non simbolico. Il suo stile è ampio, disteso, descrittivo. Tolkien non incalza, accompagna. Lascia spazio alla meraviglia, al dettaglio, al silenzio. La scrittura procede in orizzontale, lungo le distese del tempo mitico, tra tracce di lingue perdute e civiltà scomparse. Non c’è ascensione: c’è esplorazione. Fangorn non è un punto di partenza verso l’alto ma un nodo della memoria del mondo, un residuo vivente di un’epoca in cui natura e coscienza erano un’unica cosa. Se Dante scrive per condurre l’uomo a Dio, Tolkien scrive per ricordare all’uomo ciò che ha dimenticato. La lingua di Dante tende all’eterno; quella di Tolkien all’arcaico. Una guarda verso il cielo, l’altra verso il passato. Una è apocalittica, l’altra elegiaca. Due forme di verità, due concezioni del racconto: il poema come rivelazione, il mito come resistenza.

Nel sistema simbolico e teologico di Dante, l’uomo occupa una posizione centrale e privilegiata. La Commedia è scritta per lui, su di lui, intorno a lui. L’intero universo – Inferno, Purgatorio e Paradiso – è costruito come un immenso spazio morale in cui ogni creatura, evento o paesaggio ha senso in funzione della salvezza umana. Anche la “selva oscura”, pur essendo ostile, è “necessaria” al cammino dell’uomo: un passaggio obbligato che lo conduce alla consapevolezza del proprio peccato e, quindi, alla possibilità di redenzione. Gli animali incontrati nella selva non sono esseri autonomi ma strumenti simbolici. La lonza, il leone, la lupa non vivono una vita propria: esistono per rappresentare vizi e ostacoli che l’uomo deve affrontare. La natura, in Dante, è una scena teologale, uno specchio del disordine morale o un’anticipazione dell’ordine divino. È funzionale, orientata, teleologica. Non c’è nulla che non abbia un significato riferito all’uomo. Persino il viaggio ultraterreno di Dante è unico, irripetibile: perché è l’uomo, con la sua ragione ferita ma redimibile, il centro dell’intera narrazione.
Tolkien sovverte questa visione antropocentrica. La sua Terra di Mezzo è un mondo complesso, stratificato, popolato da creature antiche, autonome, che non esistono in funzione dell’uomo. La Foresta di Fangorn è uno dei luoghi dove questa visione emerge con più forza: gli Ent non sono al servizio di nessuno. Vivono secondo le loro leggi, parlano la loro lingua, seguono i ritmi della natura e osservano l’umanità con sospetto. La loro memoria è più lunga della storia degli uomini e la loro saggezza più profonda. La natura, in Tolkien, non è uno sfondo simbolico: è soggetto. Ha una propria agency. Non è né per l’uomo, né contro di lui: è indipendente. Quando la foresta reagisce, lo fa non per punire o insegnare ma per difendersi. Non c’è una morale divina da rivelare all’uomo, quanto una verità biologica, ciclica, che l’uomo ha dimenticato. In Fangorn, l’uomo non è protagonista ma presenza occasionale. Deve imparare a stare al margine, ad ascoltare, a non imporsi. La sua centralità non è riconosciuta: è da conquistare, con umiltà e rispetto. L’epica di Tolkien sposta il punto di vista. Mette in crisi l’idea che il mondo esista per essere capito, dominato o salvato dall’uomo. Fangorn non chiede interpretazione ma attenzione. È un’epica decentralizzata, in cui la grandezza dell’uomo si misura dalla sua capacità di riconoscere che non tutto ruota attorno a lui.

La “selva oscura” di Dante e la Foresta di Fangorn di Tolkien, quindi, non sono semplicemente ambientazioni narrative, né tantomeno meri sfondi naturali. Sono due mondi concettuali, simbolici, radicati in visioni del mondo profondamente diverse ma sorprendentemente complementari. La selva dantesca è il luogo della discesa nell’abisso dell’anima, uno spazio interiore dove si manifesta lo smarrimento esistenziale dell’uomo davanti alla perdita di senso, alla colpa e alla lontananza da Dio. È una soglia spirituale, oscura perché priva della luce divina ma necessaria perché solo attraverso quel buio può iniziare il cammino verso la salvezza. È la prova da superare per ritrovare la via. La Foresta di Fangorn, al contrario, è antica, vivente, quasi insondabile. È una realtà altra, primordiale, che resiste al tempo e alla distruzione. Non rappresenta tanto un conflitto interiore quanto una memoria profonda del mondo, un luogo che precede l’uomo e lo giudica, silenziosamente. È un residuo sacro di un’epoca in cui la natura parlava con voce propria, non ancora ridotta a risorsa o sfondo. Tolkien non costruisce Fangorn come allegoria diretta, eppure il suo significato è chiaro: ci sono forze più grandi dell’uomo, più vecchie della sua storia, che meritano ascolto, rispetto, e timore reverenziale. In entrambi i casi, la foresta non si attraversa a cuor leggero. Richiede occhi aperti, spirito attento, capacità di ascolto. Richiede rispetto, perché ciò che ci circonda non è inerte ma carico di senso. E forse, sopra ogni cosa, richiede silenzio: perché solo nel silenzio si può comprendere davvero ciò che la foresta ha da dire: che sia la voce della coscienza o quella degli alberi.

 

 

 

 

 

Nietzsche: profeta della decadenza
e oracolo dell’occidente moderno

 

 

 

 

Friedrich Nietzsche è un pensatore imprescindibile per comprendere non solo la filosofia moderna, ma l’intero corso del pensiero occidentale contemporaneo. La sua capacità di diagnosticare i problemi della civiltà occidentale, la sua critica feroce alle istituzioni religiose e morali e la sua visione radicale di un’umanità da rifondare lo rendono una figura straordinaria e, per certi versi, ancora insuperata. Nietzsche non si limita a criticare la civiltà occidentale, ma ne offre una lettura profonda, smascherando le ipocrisie nascoste nei suoi fondamenti culturali e morali. E lo fa in un momento storico in cui il suo pensiero appare come una voce solitaria, spesso incompresa, ma che getta le basi per le crisi intellettuali, sociali e politiche del Novecento e oltre.
Al centro del pensiero di Nietzsche c’è una constatazione fondamentale: la civiltà occidentale è in declino. Questo declino non è semplicemente economico o politico, ma spirituale e culturale. Nietzsche vede nelle istituzioni morali e religiose della sua epoca – e, in particolare, nel cristianesimo – i principali colpevoli di questa decadenza. Accusa il cristianesimo di aver indebolito l’umanità, di aver soffocato il suo istinto vitale attraverso una morale del sacrificio e della sottomissione. Nella sua opera L’Anticristo, denuncia il cristianesimo come una “religione dei deboli”, che ha invertito i valori naturali, glorificando la sofferenza, la pietà e la rinuncia al mondo. Secondo lui, questa religione ha promosso una mentalità di sconfitta, sostituendo la vitalità e l’orgoglio con il senso di colpa e la repressione dei propri desideri.
La critica di Nietzsche, però, non si ferma al cristianesimo. La sua visione si estende a tutto l’impianto morale e filosofico della modernità occidentale. In particolare, attacca i concetti di verità oggettiva, di bene e male assoluti e di morale universale. Per lui, tali concetti sono costruzioni artificiali create dalle istituzioni religiose e politiche per mantenere il controllo sulle masse. Il pensiero di Nietzsche è rivoluzionario perché propone una nuova etica basata sulla “volontà di potenza” e sull’affermazione della propria individualità, in netto contrasto con le morali collettiviste e cristiane.

Uno degli aspetti più noti e fraintesi del pensiero di Nietzsche è la sua teoria dell’Oltreuomo (Übermensch). L’Oltreuomo non è, come spesso interpretato, un tiranno o una figura autoritaria, ma un individuo che è in grado di andare oltre i valori tradizionali e di creare nuovi orizzonti di significato. Per il filosofo, l’uomo comune è legato a norme convenzioni e morali, che non ha scelto ma che ha semplicemente ereditato dalla società. L’Oltreuomo, invece, è colui che è in grado di creare i propri valori, affermando se stesso e la propria volontà. Questo concetto è strettamente legato alla famosa affermazione della “morte di Dio”. Quando Nietzsche proclama che “Dio è morto” non intende annunciare la fine della religione tout court, quanto piuttosto il crollo di tutti i valori assoluti che per secoli hanno dato senso all’esistenza umana. La morte di Dio rappresenta, dunque, una crisi esistenziale per l’uomo moderno, che si trova improvvisamente senza punti di riferimento e costretto a inventare nuove forme di significato.
L’Oltreuomo è la risposta di Nietzsche a questa crisi: è colui che, in un mondo privo di valori trascendenti, ha la forza di creare la propria morale e di vivere in modo autentico, abbracciando la vita in tutte le sue contraddizioni e difficoltà. Tuttavia, questo concetto è stato spesso drammaticamente frainteso e utilizzato in modi perversi, in particolare dal nazismo, che vide nell’Oltreuomo l’ideale della razza superiore. In realtà, l’idea di Nietzsche era molto più complessa e non aveva nulla a che fare con l’eugenetica o il razzismo.
La vita di Nietzsche è stata altrettanto complessa quanto il suo pensiero. Nato in una famiglia protestante, con un padre pastore, si allontanò ben presto dalle convinzioni religiose familiari. All’età di ventiquattro anni, diventò professore di Filologia classica all’Università di Basilea, posizione prestigiosa per un giovane così promettente. Tuttavia, abbandonò presto la carriera accademica a causa dei suoi problemi di salute e della sua insoddisfazione nei confronti del mondo universitario, che considerava limitante e soffocante. La sua vita fu segnata da una salute fragile: soffriva di emicranie, disturbi gastrointestinali, insonnia e problemi alla vista, che lo accompagnarono per tutta la vita e che lo ridussero a una solitudine forzata.
Costretto a ritirarsi dall’ambiente accademico, trascorse gran parte della sua vita vagando per l’Europa, vivendo in pensioni e piccoli appartamenti, sempre alla ricerca di climi che potessero alleviare i suoi dolori fisici. Questa solitudine fu anche una condizione necessaria per il suo lavoro filosofico: Nietzsche era un pensatore profondamente introspettivo e la sua solitudine gli permise di esplorare le profondità della propria mente e del pensiero umano.
La sua vita fu anche segnata da relazioni personali difficili. Nonostante l’amicizia e la grande ammirazione per Richard Wagner, si allontanò progressivamente dal compositore, criticandone il legame con l’ideologia tedesca del tempo. La sua vita sentimentale fu altrettanto travagliata: non si sposò mai e le sue relazioni con le donne furono complesse e spesso dolorose.
Gli ultimi undici anni della sua vita furono tragici: cadde in uno stato di follia, probabilmente a causa di una forma avanzata di sifilide o di un crollo nervoso, e trascorse il resto dei suoi giorni sotto la cura della madre e della sorella. Ma anche nella follia, la sua opera continuava a esercitare una potente influenza sugli intellettuali dell’epoca che sarebbe seguitata persino su quelli del futuro.

 

 

 

 

La Venere Callipigia

 

 

 

La statua della Venere Callipigia è un’ode marmorea all’eterna bellezza femminile, scolpita con una grazia che trascende il tempo. Realizzata in marmo bianco, ritrae la dea ergersi in una posa delicata e insieme potente. Il suo corpo sinuoso, dalle forme morbide e armoniose, sembra animarsi sotto gli occhi di chi la osserva, raccontando storie di divinità, di femminilità e di miti antichi.
Il nome del suo scultore rimane avvolto nel mistero. Non esistono documenti certi che identifichino l’artista creatore di questa magnifica scultura. Tuttavia, si ritiene che la statua sia stata realizzata durante il periodo ellenistico, dal 323 a.C. al 31 a.C. L’epoca ellenistica fu evo di grande fioritura artistica e culturale, caratterizzato da un’estrema raffinatezza tecnica e da un’espressività marcata nelle opere d’arte. Gli scultori di quel periodo miravano a rappresentare non solo la bellezza fisica ideale, ma anche le emozioni e i movimenti naturali dei corpi. La Venere Callipigia, con la sua postura dinamica e i dettagli anatomici, riflette perfettamente queste caratteristiche.
Il nome Callipigia deriva dal greco antico Kallipygos, che significa “dalle belle natiche”. Tale appellativo mette in evidenza una particolarità specifica della statua: la raffigurazione idealizzata della parte posteriore del corpo femminile.
Secondo la leggenda, la statua fu ispirata da una gara di bellezza tra due sorelle di Siracusa, ciascuna delle quali vantava di avere le natiche più belle. Il giudizio portò poi all’edificazione di un tempio dedicato a Venere Callipigia, dove la statua fu collocata come simbolo di quella peculiare bellezza.

“Venere Callipigia”, IV-I sec. a.C., Napoli, Museo Archeologico Nazionale

La posa della statua vede la dea girarsi leggermente per guardare indietro. È come se Venere fosse còlta in un momento di intima riflessione, aggiungendo una dimensione di delicatezza e vulnerabilità alla sua figura divina. I suoi tratti, scolpiti con maestria, risplendono alla luce, creando giochi di ombre che esaltano ogni finitura. La postura, leggermente inclinata, suggerisce un movimento sospeso tra il passo e la stasi, un attimo di grazia catturato per l’eternità. Il volto, sereno ma impenetrabile, invita l’osservatore a immergersi in un mondo di bellezza e mistero, dove il divino e l’umano femminile si fondono in un amplesso senza tempo.
La Venere Callipigia celebra sì la bellezza esteriore, ma anche un ideale di perfezione interiore, una bellezza che risiede nell’equilibrio e nell’armonia. Guardarla (e incantarsi) è come ascoltare una quieta melodia, una poesia scolpita nella pietra, che sussurra segreti di un passato immortale. Ogni linea, ogni curva è un verso di questa poesia visiva, che incanta e affascina, rendendo omaggio alla magnificenza del corpo femminile e alla divina arte della scultura.

 

 

 

L’impertinenza del nulla

L’angoscia e la visione esistenziale di Heidegger

 

 

 

L’angoscia, come delineata da Martin Heidegger in Essere e Tempo, costituisce un concetto decisivo per comprendere la condizione umana nella sua forma più autentica e radicale. Il filosofo la descrive come “l’impertinenza del nulla”, un’espressione che, se analizzata a fondo, rivela una prospettiva affascinante e complessa sull’esistenza. L’angoscia non è un semplice sentimento passeggero, ma una modalità fondamentale attraverso cui l’essere umano sperimenta il mondo e il proprio essere nel mondo.
Quando Heidegger si riferisce al nulla come “impertinente”, lo fa per sottolineare la natura invasiva e non richiesta di questo confronto. L’angoscia emerge improvvisamente, senza preavviso, destabilizzando l’illusoria stabilità delle nostre certezze quotidiane. Questo incontro con il nulla è radicalmente diverso dalla paura, che si riferisce sempre a un oggetto definito, a una minaccia tangibile e concreta. L’angoscia, invece, si configura come una condizione senza oggetto: non ha un punto di fuga, non ha un volto contro cui possiamo lottare o da cui possiamo fuggire. È, infatti, una rivelazione del vuoto che permea l’esistenza, un’assenza che infrange la normalità e ci obbliga a confrontarci con la possibilità che tutto ciò che diamo per scontato possa svanire o non avere significato intrinseco.
Heidegger introduce, poi, il concetto di gettatezza (Geworfenheit), per indicare la condizione in cui l’essere umano si trova inevitabilmente immerso: una realtà che non ha scelto, ma in cui è gettato e con cui deve fare i conti. Di fronte all’angoscia, tutte le convenzioni sociali, le abitudini e i ruoli che di solito ci rassicurano e ci danno un senso di orientamento si dissolvono, lasciandoci nudi di fronte al nulla. È in questo momento che la vera natura della libertà umana emerge in tutta la sua ambivalenza. Da un lato, questa libertà è eccitante e piena di potenzialità: siamo liberi di creare il nostro significato, di plasmare il nostro destino. Dall’altro lato, però, essa si accompagna a un senso di precarietà insopportabile, perché non vi è alcun fondamento stabile a cui aggrapparsi.


L’angoscia è, quindi, una rottura della familiarità del mondo, un’esperienza che ci estrania dalle cose di tutti i giorni e ci riporta a una percezione più essenziale del nostro essere. Questo stato di estraneazione ci obbliga a guardare la vita in modo nuovo, privo delle lenti del senso comune e delle convenzioni sociali. È una condizione che ci invita a riflettere sulla natura del nostro esistere, ponendo domande come: “Perché sono qui?”. “Qual è il significato della mia vita?”. Queste domande non trovano risposte facili, ma proprio nella loro apertura risiede la possibilità dell’autenticità.
Un aspetto centrale dell’angoscia, per Heidegger, è il suo potere di svelare l’essere-per-il-nulla dell’essere umano. Non si tratta di una visione nichilista, bensì di una comprensione esistenziale: riconoscere che l’essere umano è costantemente proiettato verso il nulla significa comprendere che la vita non ha un senso precostituito. Questo non implica che la vita sia priva di significato, ma che siamo noi a dover continuamente crearlo. L’angoscia, in questo senso, è una forza creativa, una spinta a riflettere e a reinventare il nostro rapporto con il mondo e con gli altri.
L’esperienza dell’angoscia porta con sé un paradosso: ci mostra una libertà assoluta ma al contempo ci espone alla vertigine di questa stessa libertà. Essere consapevoli del nulla che ci circonda significa riconoscere che non esiste un destino scritto, un copione da seguire. L’uomo è libero di agire, ma questa libertà è intrinsecamente connessa a una responsabilità e a una vulnerabilità che pochi riescono ad affrontare senza timore. La precarietà esistenziale non è un semplice stato di mancanza, ma una condizione intrinseca dell’essere umano che, attraverso l’angoscia, si manifesta con tutta la sua intensità.
L’angoscia, dunque, non è solo un’esperienza negativa, ma una porta d’accesso a una comprensione più profonda di sé. È una sorta di “risveglio” che ci conduce a una vita più autentica, lontana dalle illusioni rassicuranti ma false della quotidianità. Ci ricorda che, nonostante la presenza del nulla e la consapevolezza della nostra gettatezza, abbiamo il potere e la responsabilità di creare il nostro significato. La vera sfida dell’esistenza è accettare questa condizione, trasformando l’angoscia da semplice perturbazione a forza motrice per un’esistenza piena e consapevole.