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Le cicale

 

Racconto filosofico

 

Il racconto narra di una escursione dei due personaggi, Bashir e Antonio, al tempio di Minerva, situato sull’estrema punta della Penisola Sorrentina, di fronte Capri. La narrazione si immerge profondamente nelle tematiche filosofiche, attingendo a conversazioni che intrecciano riflessioni sulla natura dell’esistenza, la percezione della realtà e l’interpretazione delle idee platoniche. Attraverso il viaggio verso il tempio, simbolo di sapienza e di conoscenza antica, i protagonisti si confrontano con le nozioni di identità, diversità ed esistenza, dialogando sulle concezioni di Parmenide e Platone riguardo l’essere e il non essere.
Antonio, guidato dalla curiosità e dal desiderio di comprensione, pone a Bashir domande che sfociano in una riflessione sulle idee di luce e oscurità, esistenza materiale e concettuale, culminando nella discussione sull’Iperuranio platonico e sull’importanza delle Idee come fondamento della realtà. La contrapposizione tra il mondo sensibile (doxa) e il mondo delle idee (epistéme) serve da metafora per esplorare i limiti della conoscenza umana e il ruolo dell’immaginazione, dell’errore e della fantasia nella formazione della nostra comprensione del mondo.
Il racconto si arricchisce di momenti di profonda contemplazione della natura e dell’universo, attraverso i quali i personaggi riflettono sul significato della vita, sul ruolo del divino e sulla ricerca di armonia e bellezza. La vista del tempio di Minerva, benché ridotto a rovine, diventa occasione per meditare sul trascorrere del tempo e sull’eredità culturale e spirituale trasmessa dalle civiltà passate.
Il racconto offre una ricca tessitura di temi filosofici, incastonati in una narrativa che celebra il viaggio come metafora dell’esplorazione intellettuale e spirituale. La bellezza del paesaggio, la curiosità verso il passato e la riflessione sulle grandi domande dell’esistenza umana si intrecciano, offrendo al lettore un breve viaggio simbolico attraverso la storia, la filosofia e la ricerca di senso.

 

Da mesi, Bashir e Antonio avevano programmato, su insistenza del primo, una visita al tempio di Minerva sito sull’estrema punta della Penisola Sorrentina, di fronte a Capri, approntando sulle carte l’itinerario per giungervi. Del culto della dea della sapienza e della notte, in quel luogo ultimo della penisola, noto fin dall’antichità perché posto a protezione della navigazione, delle rotte e dell’accesso marittimo al Golfo di Napoli, Bashir aveva sentito parlare fin da bambino e, durante un soggiorno nell’isola sacra di Delos, aveva appreso, altresì, che il santuario della dea fosse stato fondato dallo stesso Odisseo. Antonio ne aveva approfondito, con l’aiuto di padre Torquato, stupito da tanta curiosità dell’allievo per la mitologia greco-romana, i riferimenti storici, consultando gli scrittori classici, come Stazio e Strabone, dai quali aveva era venuto a conoscenza di come a quel famoso santuario fossero addirittura preposti dei magistrati di Minerva. Questi erano deputati ad appaltare e collaudare gli approdi che portavano al santuario, nel quale si svolgevano riti propiziatori alla dea, anche da parte di delegazioni del Senato romano, provenienti, via mare, da Ostia. Queste informazioni avevano stimolato al massimo, nei due, il desiderio di compiere quell’escursione.
In un paniere molto capiente, sospeso alla sella di Bashir, erano state sistemate due torce, del pane, con formaggio e lardo, e due fiasche d’acqua. I due, usciti dalla porta verso Massa, si avviarono speditamente, attraverso sentieri conosciuti, in direzione del Capo di Santa Fortunata. Procedevano, in quel tardo pomeriggio estivo, tra uliveti e aranceti, in un silenzio rotto soltanto dal nitrito dei cavalli e da qualche domanda che, di tanto in tanto, il giovane rivolgeva a Bashir. Quando furono pervenuti nei pressi del casale di Marciano, il sole, calante tra le isole di Capri e di Ischia, indorava con abbaglianti riflessi la superficie marina.
“Il sole ha trasformato questo sentiero in un nastro dorato, che cinge il verde della collina”, esclamò Antonio, confortato dal sorriso compiaciuto di Bashir.

“Hai ragione, Antonio. La potenza del sole è come quella di Allah. Come Dio non finirà mai, così il sole non si esaurirà mai. Allah gli ha conferito il potere di allungare la sua vita all’infinito”.
“Ma il sole, allora, perché tramonta?”, lo interrogò.
“Il sole tramonta soltanto ai nostri occhi, ma poi ritorna, perché Allah è la luce dei cieli e della terra. La Sua luce è come quella nicchia in cui si trova una lampada. La lampada è posta in un cristallo. Il cristallo è come un astro brillante. Il suo combustibile viene da un albero benedetto, un olivo né orientale né occidentale, il cui olio sembra illuminare senza neppure essere toccato dal fuoco. Luce su Luce. Allah guida verso la Sua luce chi vuole Lui e propone agli uomini metafore. Allah è onnisciente”, gli rispose, recitando un versetto del Corano.
I due cavalieri, intanto, raggiunsero un agglomerato di capanne, circondato da un lussureggiante limoneto, da un’aia ancora affollata di animali da cortile e da un orto ben coltivato, i cui confini erano segnati da peracciole. Legarono i cavalli ad una staccionata e si avviarono, a piedi, al tempio di Minerva. Vi giunsero scendendo, con grande prudenza, lungo il sentiero scosceso. La prima impressione fu sconfortante: nulla dell’antico edificio era rimasto in piedi, se non un mucchio di pietre che ne delimitavano la pianta. In ginocchio, Bashir, deposto il cesto, esaminò pietra su pietra, finché non diede un grido di gioia. Aveva individuato l’uccello notturno sacro alla dea, la Athenae noctua, scolpito, a dimensione naturale, su un pezzo di marmo. Così, come per compensare, con quel rinvenimento, la delusione di non aver potuto vedere il tempio in piedi, ripose il prezioso cimelio nel cesto, dopo averlo svuotato del cibo. Bashir e Antonio, allora, ammutoliti e immersi nel tramonto incombente, si fermarono a godere della sublimità di quell’incantato scenario, che si manifestava lentamente nello sfolgorio dei riflessi solari: a destra il Golfo di Napoli, a sinistra lo specchio d’acqua antistante la Baia di Jeranto e, di fronte, come un’improvvisa magia, sorta dalle acque, l’isola di Capri. Lo stupore e l’estasi venivano ampliati da una lieve brezza, che scendeva, dall’alto, mescolata ai profumi dei cisti, dei mirti e dei rosmarini e dal frinire delle cicale sparse tra le fronde gli ulivi, che crescevano su quegli scoscesi pendii.
Quel tardo pomeriggio Bashir ebbe la conferma della suggestione, quasi da incantesimo, che l’occaso suscitava in Antonio, come dialogo dell’anima con il principio della Natura. Percepì le emozioni sognanti, molteplici e mutevoli, che dominavano l’animo del giovane e decise di non profferire parola.

“Queste cicale sembrano tutte uguali e sembrano frinire allo stesso modo”, sussurrò, dopo un lungo intervallo, Antonio, quando riemerse dal rapimento del tramonto.
“Non sono uguali”, mormorò Bashir.
“Allora, se una non è uguale ad un’altra, non è affatto, non esiste. Eppure io le sento e, con un po’ di attenzione, posso anche vederle. Ricordo bene Parmenide di Elea, di cui abbiamo parlato qualche tempo fa: ciò che è, è, e non può non essere, ciò che non è, non è, e non può in alcun modo essere. È così, vero, Bashir?”.
“Certo”, gli ribatté.
“Se una cicala non è un’altra cicala, non è affatto neppure essa stessa, quindi, non esiste. Perché, dunque, io le vedo e le posso sentire?”, insistette Antonio.
“Devi ricordarti di Platone, il discepolo di Socrate, l’autore dei Dialoghi, il filosofo dell’Iper-uranio e delle Idee”.
“L’Iperuranio!”, sottolineò Antonio, quasi esaltato. “L’Iperuranio, dove Platone collocò le Idee, non potrebbe essere la nostra mente, unica misura delle cose, di quelle che sono, per ciò che sono, e di quelle che non sono, per ciò che non sono?”.
“Stai citando Protagora di Abdera, un altro fondamento della filosofia greca”, lo riprese Bashir con affetto. “Platone, sempre Platone, potrà dare la risposta al tuo interrogativo e lo farà attraverso un atto criminale, un assassinio, un parricidio. Ammazzerà il padre! Non ti spaventare. I filosofi greci, come tutti i filosofi, amano usare parole disinvolte. Platone, in effetti, non ammazzò mai nessuno. Impressionato dalla ingiusta morte di Socrate, che era stata sanzionata da pavidi politici, timorosi che gli insegnamenti del suo maestro spingessero i giovani a ragionare con la propria testa, si decise ad assassinare, dialetticamente, Parmenide. Nel dialogo sul Sofista, il nostro Platone riporta un dibattito tra i seguaci di Democrito, i materialisti, e gli idealisti, che appella simpaticamente gli amici delle Idee. I primi sostenevano l’esistenza solo delle cose materiali, quelle che sono davanti ai nostri occhi e che si possono vedere con gli occhi e ascoltare con le orecchie, come queste cicale; i secondi, al contrario, asserivano anche l’esistenza delle cose non materiali, cioè delle Idee, in quanto esse vengono pensate e, quindi, conosciute. Gli idealisti, pertanto, mettevano in crisi la concezione delle Idee, come di qualcosa di immobile, di eternamente fisso nell’Iperuranio. Esse, invece, esistono nella misura in cui subiscono l’azione di essere conosciute, che comporta il movimento! Ti risparmio l’esame su tre delle cinque Idee più importanti, ma non posso sottrarmi dal raccontarti delle ultime due, le più significative: l’Idea di Identico e l’Idea di Diverso. Ogni Idea è identica a sé stessa e diversa dalle altre, pur non identificandosi nell’Idea di Identico e di Diverso. L’Idea stessa dell’essere partecipa all’Idea del non essere, perché l’essere è se stesso e, al contempo, non è alcun’altra Idea. Da qui, il parricidio: il non essere, è; il non essere, esiste. Questa cicala non è, lo hai detto poc’anzi, quell’altra cicala oppure non è un cavallo, non è un fiore, non è il sole. Non hai voluto dire, dunque, che questa cicala non esiste, perché la vedi e la senti, ma hai voluto significare che quella cicala non è questo piuttosto che quell’altro, in quanto essa è diversa da questo o da quell’altro. Dire che la cicala non è un cavallo, vuol significare che la cicala è diversa da un cavallo, non che quella cicala non esista. Il non essere, come diversità dall’essere, non come non esistenza: ecco il risultato del parricidio di Parmenide”.
Antonio assentì e rimase in silenzio a riflettere sulla sorprendente disquisizione di Bashir. Poi, di nuovo rapito, ritornò a fissare il sole.
“Sempre bello, ma sempre diverso, al tramonto. Mi rapisce anche perché il suo calare è il preannunzio del buio e al buio le cose non sono colte nella loro pienezza, ma appaiono con contorni non definiti”.
“La notte che segue il crepuscolo è il regno della fantasia, dell’immaginazione e del sogno”, sentenziò Bashir. “Regno anche dell’errore, che soccorre, anch’esso, la conoscenza umana. Platone riteneva più perfetta e sicura la conoscenza intellegibile, l’epistéme, ma non negò valore a quella sensibile, la doxa. La doxa è proprio come la notte, dove le cose percepite non appaiono del tutto chiare nella loro luminosità, in quanto non sono rischiarate dal sole della perfetta conoscenza. Risultano soltanto ombre delle Idee”.
“Le ombre delle Idee!”, ripeté Antonio. “Chissà se le nostre esistenze siano realmente una proiezione imperfetta di qualcosa che dovrebbe essere, invece, perfetto. Chissà se non abbia ragione il mio precettore, padre Torquato, con tutti quei suoi discorsi su Dio e sull’anima. Io non lo so, ma nelle sue parole non avverto lo spirito, né la poesia, mentre l’universo mondo mi appare tutto poesia, Dio stesso è poesia e l’ha usata, con l’armonia, per creare il mondo. Se così non fosse, il mondo e la vita sarebbero uno stonato ritornello”.
“Dio non ha colpa se il mondo, che ha così mirabilmente costruito, è governato da uomini che hanno perduto l’idea della poesia e dell’armonia! Ma ora basta, Antonio, riprenderemo il nostro dialogo in futuro. Sta scendendo la notte, dobbiamo ritornare a casa. I tuoi genitori saranno in apprensione”.

 

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Panorama sull’isola di Capri da Punta della Campanella, a Massa Lubrense (NA)

 

 

Brevi ragguagli sul concetto di “coscienza” nella storia della filosofia Occidentale

 

PARTE I

 

LA COSCIENZA COME ANIMA 

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Secondo Platone (immagine a sinistra) la coscienza umana ha una funzione essenzialmente conoscitiva, collegata alla dottrina delle Idee, cardine della sua filosofia. Le Idee, infatti, oltre ad essere realtà ontologiche a sé stanti, immutabili ed eterne, che fungono da modello al Demiurgo per plasmare il mondo, ovvero forme con le quali è strutturata la realtà empirica, sono altresì presenti nella coscienza umana, come forme intellettuali, mediante le quali l’uomo comprende la dimensione sensibile dell’esistenza. La coscienza, quindi, nella dottrina platonica, corrisponde, sotto l’aspetto del mito, all’anima, la quale, avendo vissuto nell’Iperuranio, conserva in sé il ricordo delle Idee. Da ciò, scaturisce la concezione platonica della conoscenza innata, proprio perché già presente nell’anima e, quindi, nella coscienza di ogni essere umano (Fedone, Critone, Repubblica). Anche Aristotele identifica la coscienza con l’anima ma, a differenza di Platone, non strettamente nell’ambito della conoscenza, quanto piuttosto riguardo al concetto di tempo. Il filosofo di Stagira indaga sul rapporto tra il tempo e il movimento per far assumere ai due concetti una connotazione concreta. Il movimento è nel tempo e il tempo non può esistere senza movimento. Per Aristotele, infatti, il tempo è “il numero del movimento secondo il prima e il poi”, intendendo per numero la funzione del contare, che non è possibile senza avere coscienza della successione numerica. Dato che l’esistenza del tempo è empiricamente ovvia e chiaramente riscontrabile, la sua percezione è un fatto di coscienza. Per coscienza, dunque, Aristotele intende l’anima, unico ente in grado di determinare un prima e un poi in relazione alla vita del singolo individuo (Fisica, De Anima).

LA COSCIENZA COME INTERIORITA’/RIFLESSIONE SU DI SE’, PER GIUNGERE A DIO

Il filosofo Plotino sviluppa il concetto di coscienza non come consapevolezza di qualsivoglia proprio stato interno, ma come campo privilegiato in cui si manifestano, nella loro evidenza, le verità più alte cui l’uomo può giungere, e la fonte, o il principio stesso, di tali verità: Dio. Indicando la coscienza come introspezione o ascolto interiore, egli adopera espressioni quali “ritorno a sé stesso”, “ritorno alla interiorità”, “riflessione su di sé”, contrapponendo costantemente questo atteggiamento proprio del saggio a quanti, invece, per la condotta della propria vita, si basano unicamente sulla conoscenza delle cose esterne (Enneadi).

LA COSCIENZA COME MORALE 

Simone_Martini_003Con il Cristianesimo, a cominciare da San Paolo e dai Padri della Chiesa, il concetto di coscienza viene ricondotto a quello di morale. Ne è esempio l’espressione di uso comune “voce della coscienza” la quale dovrebbe suggerire come comportarsi e quali siano i principi certi che, in ogni uomo, lo guiderebbero sulla retta via, dalla quale esso devia a causa della debolezza umana. E inoltre, non a caso, la precettistica cristiana prescrive l’esame di coscienza come pratica per rintracciare i propri errori morali. Per Sant’Agostino  (immagine a destra) la coscienza è il luogo interiore dove l’uomo cerca e trova Dio, la Mens superior inhaerens Deo (mente superiore insita in Dio). Dio è per l’uomo Essere e Verità, Trascendenza e Rivelazione, Padre e Logos. In quanto Verità, Dio rivela all’uomo ciò che è, in contrasto al falso che fa apparire o credere ciò che non è. Dio-Verità è l’essere che si rivela, che illumina la coscienza umana della sua luce e le fornisce la norma di ogni giudizio, la misura di ogni valutazione. Dio si rivela come trascendenza all’uomo che incessantemente e amorevolmente lo cerca nella profondità del suo io, la coscienza (Confessioni, De vera religione). San Tommaso d’Aquino intende la coscienza sempre ed esclusivamente come coscienza morale. La sua stessa definizione (scienza con l’altro), secondo l’Aquinate, rivela l’ambito di una ricerca volta a definire la coscienza morale come un’applicazione della scienza morale al comportamento umano, al fine di valutarlo e direzionarlo. La coscienza è un atto della persona, che investe sia la sfera intelligibile che quella razionale. Essa applica ai casi concreti della vita l’oggettività e l’universalità della legge a cui si riferisce, la sinderesi, intesa come abito che contiene i precetti della legge naturale, i quali sono i primi principi delle azioni umane. La coscienza, pertanto, nella filosofia del Doctor Angelicus, non è un’altra facoltà (le facoltà sono due: intelletto e volontà), ma è l’uso della ragione per valutare cosa bisogna fare nella situazione concreta hic et nunc (qui e ora). Attraverso la ragione l’uomo applica le norme morali (Somma Teologica, De Veritate) .

LA COSCIENZA COME RAGIONE

Frans_Hals_-_Portret_van_René_DescartesCon l’età moderna, il concetto di coscienza si svincola da qualsiasi implicazione morale e religiosa e diviene il fulcro di tutte le dottrine cognitive e di tutti i processi di conoscenza. Il primo filosofo che muove la sua indagine in questo senso è Cartesio (immagine a sinistra). Egli ritiene che ogni operazione della mente sia accompagnata dalla coscienza di sentire o di ragionare, cioè dalla consapevolezza di possedere nella mente i propri contenuti mentali. La coscienza, per Cartesio, è la consapevolezza soggettiva di sentire e ragionare, perché il pensare implica il sapere di stare pensando. Le idee esistono nella mente, che ne ha coscienza, ma possono non corrispondere alla realtà esterna. Tra queste, ce n’è una privilegiata: l’idea del soggetto come mente, la quale è l’unica ad imporsi come certa vera e indubitabile (cogito ergo sum). Il cogito non è più l’atto pensante originario, da cui nasce il filosofare, ma diventa un pensato. L’evidenza o coscienza del cogito offre un metodo sicuro e infallibile di indagine razionale, tramite il quale poter distinguere il vero dal falso. Il cogito, inoltre, pone l’io esistente come  assolutamente indipendente dal corpo, non potendosi imporre come idea chiara se la mente pensante non fosse completamente separata dalla materia. La coscienza, nella filosofia cartesiana, è, dunque, equiparabile all’anima, intesa come res cogitans, distinta dal corpo, la res extensa (Principi di filosofia). Anche per il filosofo Gottfried Leibnitz il concetto di coscienza è strettamente legato ai processi della conoscenza. Questi, infatti, affida alla coscienza quella caratteristica che determina la capacità di percepire. Nell’uomo questa capacità è più elevata, rispetto agli altri esseri viventi, e le percezioni sono chiare e distinte. La loro consapevolezza o coscienza è l’appercezione, termine con il quale Leibnitz indica l’atto riflessivo attraverso cui l’uomo acquista consapevolezza, o coscienza, delle proprie percezioni, le quali, di per loro, potrebbero anche rimanere inavvertite. L’appercezione  è il fondamento ultimo della coscienza e dell’io (Monadologia).

LA COSCIENZA EMPIRICA 

John-Locke-painting-664x1024La concezione cartesiana di coscienza ispirò anche i filosofi dell’empirismo inglese. John Locke (immagine a destra) intese, infatti, la coscienza come la percezione di ciò che passa nella mente di un uomo, o meglio, le sue idee. Inoltre, egli, da empirista, rinviò alla coscienza ogni possibile esperienza delle cose esterne poiché, proprio da quelle, l’uomo forma dentro di sé le idee. La coscienza, quindi, è l’io che possiede e sviluppa tutte le attività mentali (Saggio sull’intelletto umano). George Berkeley  fu ancora più radicale di Locke, sostenendo che l’esistenza delle cose è in quanto queste sono percepite come esistenti (esse est percipi), ovvero quando si ha coscienza della loro esistenza, nonostante le sostanze materiali, le res extensae di Cartesio, siano soltanto proiezioni della mente cui dover rinunciare per attenersi unicamente alle pure sensazioni (Commentari filosofici).