Archivi tag: Coscienza

“Sul far del crepuscolo”

La nottola di Minerva nella filosofia di Hegel

 

 

 

 

Nel concludere la Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto (1821), Georg Wilhelm Friedrich Hegel introduce una delle immagini più potenti del pensiero moderno: “La nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo.
In apparenza un semplice aforisma, questa frase è, in realtà, una chiave di volta del sistema hegeliano. Dietro la metafora della nottola si cela una concezione profonda del rapporto tra pensiero e realtà, tra filosofia e storia, tra teoria e prassi. Capire questa immagine significa entrare nel cuore del pensiero hegeliano, nel suo modo di intendere la razionalità storica, la funzione della filosofia e la struttura temporale della comprensione umana.
La nottola (o civetta) è l’animale associato alla dea Minerva, divinità romana della saggezza, della strategia e della riflessione, derivata dalla greca Atena. La civetta ha due tratti simbolici fondamentali: vede nel buio – è capace di orientarsi e cogliere ciò che altri non vedono; vola al crepuscolo – comincia il suo volo quando il giorno è finito, quando ciò che doveva accadere è già accaduto. Per Hegel, questa è la natura del pensiero filosofico: esso non opera “in tempo reale”, non precede l’azione, non prescrive ma riflette e comprende ciò che è già stato. La filosofia, come la nottola, non anticipa il sorgere della realtà ma ne coglie il senso solo quando questa si è già manifestata pienamente.


Tale visione si lega alla definizione che Hegel dà della filosofia: essa è il momento in cui lo Spirito prende coscienza di sé attraverso la riflessione sul mondo che ha prodotto. Ciò implica una temporalità specifica: la filosofia arriva sempre in ritardo ma non per questo è meno essenziale. Anzi, è nel “dopo” che si apre lo spazio della verità.
Scrive Hegel, ancora nella Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto: “Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina come dev’essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell’e fatta. Questo, che il concetto insegna, la storia mostra, appunto, necessario: che, cioè, prima l’ideale appare di contro al reale nella maturità della realtà, e poi esso costruisse questo mondo medesimo, còlto nella sostanza di esso, in forma di regno intellettuale”. La filosofia, dunque, non costruisce mondi futuri né detta norme astratte: analizza il presente nel momento in cui esso comincia a declinare. È un sapere concettuale, sistematico, razionale, che coglie la struttura interna del mondo solo alla fine del processo storico.
Un’altra immagine chiave nella stessa pagina dei Lineamenti è quella del “chiaroscuro”. Hegel scrive: “Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere”. Il “chiaroscuro” allude alla maturità della realtà storica, al momento in cui essa ha perso il suo vigore immediato e può essere oggetto di riflessione critica. La filosofia non è l’entusiasmo rivoluzionario né il gesto eroico: è la consapevolezza che giunge dopo, quando le istituzioni, le forme sociali, le culture cominciano a mostrare le loro contraddizioni e il pensiero è costretto a interrogarle.
Nel sistema hegeliano, storia e filosofia sono inseparabili. Hegel concepisce la storia come il processo attraverso cui la Ragione si sviluppa e si realizza nel tempo, passando attraverso fasi dialettiche: tesi, antitesi, sintesi. Ogni epoca storica ha una sua razionalità immanente, che solo la filosofia è in grado di cogliere a posteriori. La filosofia politica, ad esempio, non può dire “come dovrebbe essere” lo Stato in astratto ma deve comprendere perché lo Stato moderno si è costituito in quel modo, quali contraddizioni ha risolto e quali ne ha prodotte. Solo così il pensiero diventa storia che si pensa e coscienza del reale.


Una delle implicazioni più forti della metafora della nottola è il rifiuto della filosofia normativa intesa come “maestra della realtà”. Hegel lo ha detto esplicitamente: “A dire anche una parola sulla dottrina come dev’essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi”. Questo è un chiaro distacco da ogni forma di utopismo, di idealismo astratto o di filosofia morale che pretende di giudicare la realtà dall’esterno. Per Hegel, il mondo non è da migliorare sulla base di un dover essere ma da comprendere nella sua razionalità interna. Questo ha portato molti a fraintendere Hegel come un pensatore conservatore, quasi fatalista, che giustifica ogni forma di potere in nome della razionalità del reale. Questa, però, è una distorsione superficiale. Hegel non sostiene che tutto ciò che esiste è giusto; afferma che tutto ciò che esiste ha una razionalità che deve essere compresa per poter essere superata. Il superamento (Aufhebung) è il motore della dialettica, non l’accettazione passiva.
L’idea del “volo al crepuscolo” sottintende una concezione profonda del tempo del pensiero. Mentre l’agire pratico è immerso nell’urgenza del presente, la filosofia si colloca in un tempo riflessivo, più lento, che si apre quando la realtà ha esaurito la sua carica immediata. È in questo tempo che l’Idea si coglie nella sua verità. Questo non significa che la filosofia sia sterile o inattuale ma che il suo compito è quello di fornire il senso del tutto, di fare il bilancio razionale di un’epoca e, quindi, di preparare le condizioni per un nuovo inizio. La filosofia chiude un ciclo e, proprio per questo, apre la possibilità del successivo.
La nottola di Minerva, quindi, non è un’icona malinconica di una filosofia impotente ma un emblema di lucidità e maturità. Essa rappresenta la filosofia come pensiero del tramonto e, allo stesso tempo, come condizione dell’alba futura. Hegel dimostra che il compito del pensiero non è anticipare il mondo ma comprenderlo nel momento in cui si sta concludendo. Solo così la filosofia diventa storia pensata, verità consapevole, libertà che si riconosce. Nel volo silenzioso della nottola c’è tutta la potenza riflessiva della ragione: non l’entusiasmo cieco dell’azione ma la forza tranquilla del sapere che ha visto, compreso e ora può illuminare ciò che viene.

 

 

 

 

 

 

L’horror vacui in filosofia

Genealogia di un concetto tra ontologia, scienza ed esistenza

 

 

 

 

 

Il concetto di horror vacui, che significa letteralmente “paura del vuoto”, accompagna la storia del pensiero umano in modo sotterraneo e costante. È un’idea che si è trasformata nel tempo, assumendo valenze fisiche, metafisiche, teologiche ed esistenziali. Postulare l’horror vacui significa, infatti, confrontarsi con il problema del nulla, di ciò che appare come assenza e mancanza e che, tuttavia, esercita una forza tanto concettuale quanto emotiva. Dalla filosofia antica fino alle riflessioni contemporanee, passando per il Medioevo e la rivoluzione scientifica, il vuoto si presenta come una sfida alla ragione e al linguaggio: qualcosa che sembra impossibile da pensare ma che continuamente ritorna come esigenza ineludibile.
Già nel mondo greco la questione del vuoto aveva diviso radicalmente i filosofi. Parmenide, nella sua celebre dottrina dell’essere, sosteneva l’impossibilità di pensare il non-essere. L’essere, diceva, è uno, eterno e immobile: non c’è spazio per il nulla, poiché il nulla non è e non può essere nemmeno pensato. In questa prospettiva, parlare di vuoto equivale a cadere in contraddizione. In opposizione a tale posizione si sviluppò l’atomismo di Leucippo e Democrito, che teorizzarono l’esistenza del vuoto come condizione necessaria del movimento. Secondo loro, il mondo era costituito da atomi indivisibili che si muovono in uno spazio vuoto: senza il vuoto gli atomi rimarrebbero fermi, incastrati in un continuum impenetrabile. Il vuoto, per gli atomisti, non era dunque un puro nulla quanto una realtà positiva e indispensabile. Questo primo grande scontro tra l’ontologia eleatica e l’atomismo segnò l’inizio di un dibattito destinato a ripresentarsi in forme diverse lungo tutta la storia della filosofia.
Con Aristotele la questione ricevette una sistematizzazione che avrebbe segnato i secoli successivi. Nei suoi scritti, in particolare nella Fisica e nel De caelo, affermò che la natura “ha orrore del vuoto”. Ciò non va inteso come un semplice dato fisico, bensì quale principio cosmologico: lo spazio non è un contenitore indipendente ma la somma delle relazioni tra i corpi. Parlare di vuoto significherebbe introdurre il non-essere all’interno dell’essere, cosa per lui logicamente impossibile. La natura, per Aristotele, non lascia mai spazi vuoti ma tende a colmarli immediatamente. Il movimento non avviene nel vuoto ma attraverso lo scorrere dei corpi gli uni sugli altri, in un continuum privo di interruzioni. L’horror vacui aristotelico divenne così una legge universale, fisica e metafisica insieme, destinata a dominare il pensiero occidentale per quasi due millenni.
Nel Medioevo, la questione del vuoto si intrecciò con la teologia cristiana. La dottrina della creazione ex nihilo poneva, infatti, interrogativi radicali: che cosa significava quel “nulla” da cui Dio avrebbe creato il mondo? Era un vero vuoto, una realtà in sé o, piuttosto, un’assenza di forma e di sostanza? Tommaso d’Aquino, fedele al modello aristotelico, negò che potesse esistere un vuoto reale. Dio non creò un contenitore vuoto da riempire ma fece esistere direttamente la sostanza e la forma. Altri pensatori medievali, più vicini al nominalismo, erano invece disposti ad ammettere che, in virtù della sua onnipotenza, Dio avrebbe potuto creare anche spazi privi di materia. Il dibattito non era puramente teorico: metteva in gioco l’immagine stessa di Dio e il rapporto tra la sua libertà e la razionalità del creato. Negare il vuoto significava difendere un ordine armonico e necessario; ammetterlo voleva dire sottolineare l’assoluta libertà divina, capace di oltrepassare qualsiasi vincolo naturale o logico.
Con la rivoluzione scientifica dell’età moderna l’autorità aristotelica sull’horror vacui cominciò a vacillare. Galileo avviò la demolizione delle vecchie concezioni del moto, aprendo la strada a una spiegazione matematica dei fenomeni. Evangelista Torricelli, nel 1643, con il celebre esperimento del barometro a mercurio, dimostrò che era possibile produrre artificialmente uno spazio privo d’aria, confutando l’idea che la natura non tollerasse il vuoto. Blaise Pascal, proseguendo le sue ricerche, mostrò che la pressione atmosferica spiegava i fenomeni che Aristotele attribuiva a un presunto orrore naturale. Il principio dell’horror vacui si rivelava, dunque, come un residuo metafisico non come una legge di natura. Tuttavia, la filosofia moderna rimase divisa: Cartesio respinse l’esistenza del vuoto, proponendo un universo interamente riempito di materia che si muoveva in vortici; Newton, invece, concepì lo spazio assoluto come un grande vuoto omogeneo e immobile, all’interno del quale i corpi si muovono obbedendo a leggi matematiche.


A partire da lì, il vuoto cominciò a trasformarsi in simbolo dell’angoscia esistenziale. Ancora Pascal, contemplando l’universo infinito rivelato dalla scienza, confessava che “il silenzio eterno di questi spazi infiniti” lo sgomentava. Non si trattava più soltanto di una questione fisica ma del sentimento di smarrimento dell’uomo di fronte a una realtà smisurata e indifferente. L’horror vacui assumeva, così, una valenza psicologica ed esistenziale: la paura non del vuoto fisico ma di un vuoto di senso.
Con Kant il problema del vuoto cambiò ancora prospettiva. Lo spazio e il tempo, nella sua filosofia, non sono realtà indipendenti né contenitori vuoti ma forme a priori della nostra sensibilità. Non esiste uno spazio vuoto “in sé”: lo spazio è piuttosto la condizione attraverso cui organizziamo le percezioni. Il vuoto come realtà oggettiva perde consistenza; ciò che resta è un orizzonte trascendentale che struttura la nostra esperienza.
Nel Novecento, il pensiero esistenzialista e fenomenologico riprese la questione del nulla in termini nuovi. Heidegger, in Che cos’è metafisica?, sostenne che il nulla non fosse semplice negazione ma apertura: è ciò che consente all’essere di apparire. Senza nulla non ci sarebbe esperienza dell’essere. Sartre, in La nausea e in L’essere e il nulla, definì il nulla come dimensione costitutiva della coscienza: la coscienza introduce il non-essere nella realtà, lo sperimenta ogni volta che percepisce un’assenza, una mancanza, un “non più” o un “non ancora”. In questo senso, l’horror vacui si rovescia: il nulla non è solo ciò che temiamo ma anche ciò che rende possibile la libertà, perché è attraverso il nulla che possiamo negare, immaginare, progettare.
La scienza contemporanea ha ulteriormente trasformato il concetto. La fisica quantistica descrive il vuoto non come uno spazio totalmente privo di realtà ma come un campo brulicante di fluttuazioni energetiche, un potenziale di particelle virtuali che appaiono e scompaiono. Il vuoto non è il nulla quanto una pienezza invisibile, una dimensione che contiene possibilità ancora non attuate. Paradossalmente, la fisica moderna sembra avvicinarsi a una forma di atomismo radicale, in cui il vuoto è condizione del movimento e della creazione, ma non è mai davvero assoluto.
Anche l’arte e la cultura hanno espresso un loro horror vacui. Nell’arte medievale e barocca la tendenza a riempire ogni spazio con decorazioni, motivi e simboli rispondeva a un impulso simile: il vuoto era percepito come una minaccia, un’assenza che andava colmata. L’ornamento diventava una forma di esorcismo, un modo per trasformare il vuoto in pienezza visiva.
Lungo tutta la storia, il vuoto ha dunque costretto l’uomo a misurarsi con i limiti del pensiero e della vita. Da problema ontologico a questione teologica, da nodo scientifico a simbolo esistenziale, si è mostrato come un enigma ineliminabile. L’horror vacui, in definitiva, non è soltanto paura del vuoto fisico ma paura del nulla che esso rappresenta: paura della mancanza, dell’assenza, del non-senso. Allo stesso tempo, esso ha spinto il pensiero umano a creare concetti, teorie, opere d’arte, mondi simbolici. Il vuoto, proprio in quanto minaccia, è anche stimolo: ciò che obbliga a cercare un senso, a riempire, a pensare. È forse in questo movimento che si rivela il suo significato più profondo: non tanto ciò che manca ma ciò che rende possibile l’esperienza stessa dell’essere.

 

 

 

 

 

La mercificazione dell’umano

Una lettura filosofica di Marx

 

 

 

 

Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtù, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. – tutto divenne commercio. È il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore”.

(Karl Marx, Miseria della filosofia, 1847, par. 1)

 

 

Uno dei nuclei teorici più rilevanti della filosofia di Karl Marx è la riflessione sul processo di mercificazione universale che caratterizza il modo di produzione capitalistico. Nel celebre passo riportato, in cui afferma che “virtù, amore, opinione, scienza, coscienza” divengono oggetto di traffico e possono essere alienati, Marx porta alle estreme conseguenze la sua analisi della forma-merce: ciò che appare come semplice logica economica diventa, in realtà, principio ordinatore dell’intera vita sociale.
In Il Capitale, Marx definisce la merce come l’elemento cellulare della società borghese. Essa non è soltanto un bene materiale ma una forma sociale che struttura i rapporti tra gli individui. Nel passo citato in apertura, il movimento di estensione della forma-merce appare in tutta la sua radicalità: non solo i prodotti del lavoro ma le qualità più propriamente umane vengono sussunte nel meccanismo dello scambio. L’oggettivazione del lavoro, già descritta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, si traduce qui in una generalizzazione della logica mercantile. L’alienazione non è più confinata alla sfera della produzione, bensì investe le relazioni affettive, le espressioni intellettuali, le dimensioni etiche. La “corruzione generale” e la “venalità universale” a cui Marx fa riferimento non devono dunque essere intese in senso morale, bensì strutturale. Esse descrivono il funzionamento intrinseco di un sistema che trasforma l’incommensurabile in misurabile, l’invalutabile in prezzo, dissolvendo progressivamente i legami comunitari e le forme di riconoscimento simbolico non mediati dal denaro.
La dinamica qui delineata si lega strettamente alla categoria di alienazione. Se nei testi giovanili era intesa soprattutto come estraneazione dell’operaio rispetto al prodotto del proprio lavoro, in seguito Marx ne amplia il raggio, evidenziando come il dominio del capitale si traduca in una vera e propria reificazione dell’esistenza. L’uomo non si rapporta più a sé stesso e agli altri in modo immediato ma attraverso la mediazione del valore di scambio. La coscienza, l’amore o la virtù, nel momento in cui diventano alienabili, cessano di essere espressioni autentiche dell’essere sociale e si trasformano in oggetti estranei, valutati secondo criteri estrinseci. Il richiamo ironico al “giusto valore” mostra con chiarezza la violenza epistemica del capitalismo: esso non si limita a sfruttare ma ridefinisce le categorie stesse della valutazione, sostituendo al giudizio etico la quantificazione monetaria. Il “giusto” non è più l’equo o il vero, bensì il prezzo determinato dal mercato.


La modernità capitalistica, nella lettura marxiana, coincide con un processo di disincanto radicale. I rapporti personali e comunitari, fondati su vincoli simbolici e non economici, vengono progressivamente dissolti e ricondotti a rapporti di scambio. Questa capacità di erodere forme di vita preesistenti non produce tuttavia una liberazione, bensì una nuova forma di dominio: l’assoggettamento universale al mercato come criterio esclusivo di significazione sociale.
L’attualità di questa diagnosi risulta evidente se applicata al contesto contemporaneo. L’economia digitale rappresenta la prosecuzione e l’intensificazione della dinamica individuata da Marx. L’amore si riduce a interazioni algoritmiche nelle piattaforme di dating, la coscienza politica si misura in termini di visibilità e interazioni sui social network, la scienza è spesso vincolata a logiche brevettuali e di profitto. Perfino l’attenzione, le emozioni e l’identità personale sono oggetto di valorizzazione economica, costituendo il cuore del cosiddetto capitalismo delle piattaforme.
Ciò che Marx individuava come tendenza storica trova dunque, oggi, un compimento ulteriore: l’interiorità stessa viene esposta al mercato e trasformata in risorsa. La “venalità universale” diventa il tratto costitutivo della vita sociale tardo-moderna.
Il passo marxiano riportato all’inizio, pertanto, illumina un aspetto fondamentale della sua filosofia: il capitalismo non è semplicemente un sistema economico ma un dispositivo totalizzante che trasforma i valori morali, affettivi e intellettuali in valori di scambio. L’alienazione, lungi dall’essere una condizione limitata al lavoro industriale, si configura quale condizione esistenziale dell’uomo nel mondo capitalistico. La critica marxiana, perciò, non si esaurisce nella denuncia dello sfruttamento ma si estende alla messa in luce di una mutazione antropologica: la riduzione dell’umano a merce. È in questo senso che la categoria di “venalità universale” mantiene una forza interpretativa intatta, capace di decifrare anche le forme più recenti della contemporaneità capitalistica.

 

 

 

 

 

Oltre il mondo, dentro l’esperienza

L’ambizione radicale della fenomenologia husserliana

 

 

 

 

La riduzione fenomenologica è il gesto teorico fondamentale con cui Edmund Husserl inaugura la fenomenologia come scienza rigorosa dell’esperienza. Non è semplicemente una tecnica filosofica, ma un vero e proprio cambio di prospettiva, un mutamento radicale dell’atteggiamento conoscitivo. Mettendo tra parentesi il mondo così come lo conosciamo abitualmente, Husserl cerca di accedere a un livello più profondo e originario dell’esperienza: il modo in cui i fenomeni si danno alla coscienza.
Il primo passo della riduzione è l’epoché, un termine ripreso dagli scettici antichi, che indica la sospensione del giudizio. Ma Husserl ne fa un uso del tutto nuovo: non si tratta di dubitare del mondo, come facevano gli scettici, quanto di astenersi dal prenderlo per scontato.
Nella nostra vita quotidiana, adottiamo ciò che Husserl chiama l’atteggiamento naturale: agiamo, pensiamo, sentiamo, parlando e vivendo come se il mondo che ci circonda esistesse in modo indipendente e oggettivo. Per Husserl, però, questa convinzione va messa “tra parentesi” (fenomenologicamente: bracketing) per poter analizzare come l’esperienza del mondo si costituisce nella coscienza.
Attraverso la riduzione, si passa a quello che Husserl definisce atteggiamento fenomenologico. Qui l’interesse non è più rivolto al mondo in sé, ma al modo in cui il mondo appare alla coscienza. In questa prospettiva, ogni oggetto – un albero, un numero, una paura – viene studiato non come entità in sé, ma come fenomeno, ovvero come dato intenzionale: qualcosa che appare a un soggetto.
Uno dei risultati fondamentali della riduzione è la scoperta dell’intenzionalità. Ogni atto di coscienza (percepire, ricordare, immaginare, giudicare) è sempre diretto verso qualcosa. Non esiste una coscienza “vuota” o isolata: la coscienza è sempre relazione, apertura, orientamento verso un oggetto, anche quando questo oggetto non esiste nel mondo reale (come nel caso dell’immaginazione o del ricordo).
Questa caratteristica strutturale della coscienza permette di studiare la costituzione del significato: come le cose acquistano senso per noi, in quanto soggetti esperienti.

Dopo la riduzione, ciò che resta non è un soggetto chiuso su sé stesso, ma un campo di esperienza in cui ogni oggetto è correlato alla coscienza che lo vive. Il mondo fenomenologico non è cancellato, ma riportato alla sua dimensione originaria: quella dell’esperienza vissuta.
Questo è ciò che Husserl intende quando parla di mondo della vita (Lebenswelt), cioè il mondo così come lo viviamo prima di ogni astrazione scientifica o teorica. Il compito della fenomenologia è analizzare come questo mondo prende forma per noi, come si “costituisce” nell’esperienza soggettiva.
Husserl concepisce la fenomenologia come una “scienza rigorosa”, non nel senso delle scienze naturali, ma come un sapere fondativo. La riduzione serve a portare alla luce le strutture originarie su cui si basa ogni forma di conoscenza: tempo, spazio, oggetti, numeri, valori, ecc. Non si tratta di spiegare il mondo, ma di chiarire come si dà un mondo alla coscienza. In questo senso, la fenomenologia vuole essere una filosofia prima, un punto di partenza certo e indubitabile per ogni altra disciplina. Non a caso Husserl parla della riduzione trascendentale come di un ritorno all’“Io puro”, non come individuo psicologico, ma come soggetto trascendentale, cioè condizione di possibilità di ogni esperienza e conoscenza.
La riduzione fenomenologica è stata al centro di molte critiche e interpretazioni. Alcuni, come Heidegger, l’hanno riformulata radicalmente, sostenendo che la coscienza non può mai essere isolata dal mondo. Altri, come Merleau-Ponty, hanno cercato di superare la dicotomia tra soggetto e oggetto recuperando il corpo come punto d’incontro tra coscienza e mondo. Nonostante questo, la riduzione rimane uno degli strumenti più potenti per interrogare il senso dell’esperienza e mettere in discussione le nostre convinzioni più profonde su ciò che è “reale”.
La riduzione fenomenologica, pertanto, non è un esercizio teorico fine a sé stesso. È una strategia per smascherare ciò che diamo per scontato, per tornare alle radici del nostro rapporto con il mondo. È il tentativo di capire come si costruisce il significato, come il mondo prende forma per noi, prima ancora che lo pensiamo, lo misuriamo o lo giudichiamo.

 

 

 

 

La libertà come atto creativo

Il pensiero di Henri Bergson tra autenticità
e superamento dei pregiudizi

 

 

 

 

Henri Bergson ha elaborato una concezione originale della libertà, strettamente legata alla sua visione del tempo e della coscienza. Nei suoi scritti, in particolare in Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), rifiuta le concezioni meccanicistiche della realtà e della volontà umana, opponendosi a ogni forma di determinismo che riduca l’individuo a un mero ingranaggio di leggi causali rigide. Per Bergson, la libertà non può essere concepita come una scelta tra alternative già predeterminate, ma deve essere intesa come l’espressione autentica della personalità interiore, che si sviluppa in modo creativo e imprevedibile nel tempo.
Secondo Bergson, l’anima è libera perché, in ogni istante della sua esistenza, si identifica completamente con i sentimenti che la attraversano. Quando proviamo amore, odio, gioia o dolore non ci limitiamo a subire passivamente queste emozioni, ma le viviamo in prima persona, integrandole nel nostro essere. Non si tratta di semplici reazioni a stimoli esterni, ma di manifestazioni profonde della nostra coscienza, che non possono essere ridotte a un mero determinismo psicologico.
Tuttavia, questa identificazione con le emozioni non è sufficiente a garantire la libertà. Essere liberi non significa semplicemente seguire i propri impulsi o desideri momentanei, ma implica un processo più complesso di auto-consapevolezza e auto-liberazione. Il rischio maggiore è quello di confondere la nostra vera essenza con i condizionamenti esterni che ci vengono imposti dall’educazione, dalla cultura e dalle convenzioni sociali.
Bergson sottolinea come molti individui credano di essere liberi quando in realtà agiscono sulla base di abitudini, credenze e schemi di pensiero ereditati da un’educazione male assimilata. Le influenze esterne – i dogmi religiosi, le norme morali, le convenzioni sociali – tendono a imporsi alla coscienza sotto forma di pregiudizi che, anziché favorire la libertà, rischiano di soffocarla. Se l’individuo accetta passivamente questi condizionamenti senza metterli in discussione, finisce per conformarsi a un modello di esistenza che non è autenticamente suo, ma che gli è stato imposto dall’esterno.

La vera libertà, quindi, non è un semplice atto di volontà arbitraria, ma un processo di liberazione da tutto ciò che ostacola l’espressione della nostra interiorità più autentica. Per essere veramente liberi dobbiamo risalire alle radici del nostro io, distinguendo tra ciò che siamo realmente e ciò che è stato sovrapposto alla nostra personalità da influenze esterne. Questo significa abbandonare le convinzioni imposte e accedere a un livello più profondo della coscienza, dove le nostre scelte non sono determinate da pressioni esterne, ma scaturiscono dalla nostra essenza più autentica.
Per Bergson, la libertà non è un’entità statica, ma un processo dinamico che si svolge nel tempo. Qui entra in gioco il concetto bergsoniano di durata reale (durée), ossia il tempo vissuto dall’interno, che si oppone al tempo spazializzato della scienza e della fisica classica. La nostra coscienza non si sviluppa come una successione di stati fissi e misurabili, ma come un flusso continuo in cui ogni istante si intreccia con il precedente, creando una storia unica e irripetibile.
Essere liberi, in questo senso, significa aderire a questa durata interiore, accogliere il flusso del nostro essere senza lasciarci ingabbiare da schemi rigidi. La libertà è creatività, è la capacità di inventare noi stessi momento per momento, senza essere prigionieri di un passato fossilizzato o di un futuro già scritto. Questo processo di auto-creazione è ciò che distingue l’uomo libero da colui che è vincolato dalle convenzioni e dalle aspettative altrui.
Il pensiero di Bergson sulla libertà invita dunque a una profonda riflessione sull’autenticità dell’esperienza umana. Ci mostra che la vera libertà non consiste nel semplice rifiuto delle costrizioni esterne, ma in un percorso interiore di consapevolezza e trasformazione. Liberarsi dai pregiudizi non significa semplicemente respingere le influenze sociali o culturali, ma integrare in modo critico e autentico ciò che ci è stato trasmesso, distinguendo ciò che appartiene realmente alla nostra natura da ciò che è solo un’imposizione esterna. In ultima analisi, la libertà bergsoniana non è un punto di arrivo, ma un movimento continuo, un atto di creazione incessante che accompagna l’intera esistenza dell’individuo. Per essere veramente liberi, non basta scegliere tra opzioni preconfezionate: dobbiamo invece inventare la nostra vita, dando forma alla nostra identità nel tempo, in un processo di costante evoluzione e riscoperta di noi stessi.

L’irrazionale come condizione della vita umana in Dostoevskij

 

 

 

 

 

Tra le frasi più emblematiche di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, questa – “Se ogni cosa sulla terra fosse razionale, non accadrebbe nulla” – colpisce per la sua forza contraddittoria. In un mondo in cui il progresso viene spesso associato all’ordine, alla logica, all’efficienza e alla chiarezza scientifica, Dostoevskij si pone come voce fuori dal coro. Non si limita, infatti, a denunciare i limiti della razionalità: li rovescia. Sostiene, con una radicalità che ancora oggi sorprende, che senza l’irrazionale la vita si spegnerebbe, si ridurrebbe a un automatismo sterile, a una paralisi dell’azione.
Per comprendere il senso profondo di questa affermazione, bisogna entrare nel cuore del pensiero dostoevskijano, là dove la filosofia, la psicologia e la letteratura si fondono in una visione tragica, ma umanissima, dell’esistenza.
Nel XIX secolo, l’Europa visse un’accelerazione scientifica, tecnologica e culturale senza precedenti. Il positivismo, con Comte, Spencer e gli scienziati darwiniani, sosteneva che ogni fenomeno – naturale e umano – fosse spiegabile con leggi razionali. Nacque l’utopia di un mondo perfettamente ordinato: una società in cui la scienza guidasse la politica, l’economia e perfino l’etica. In Russia, queste idee furono adottate da intellettuali progressisti, i cosiddetti “razionalisti occidentali” o “nichilisti”, che vedevano nella ragione uno strumento per abbattere superstizioni, religione e ingiustizie sociali. Dostoevskij li osservava con crescente preoccupazione. Aveva vissuto sulla propria pelle l’esperienza del fanatismo ideologico: arrestato per attività cospirativa e condannato a morte, fu graziato all’ultimo momento e spedito in Siberia per alcuni anni di lavori forzati. Lì, a contatto con criminali e uomini umili, scoprì una verità più profonda: l’essere umano non è una funzione della logica, quanto un enigma vivente, una creatura contraddittoria, animata da forze che sfuggono al calcolo.
L’opera che meglio incarna questa critica è Memorie dal sottosuolo (1864), un testo breve ma potentissimo, in cui l’autore anticipò molti dei temi che poi avrebbe sviluppato nei suoi grandi romanzi. Il protagonista è un uomo solitario, malinconico, che vive “sotto terra”, cioè ai margini della società e del pensiero dominante. La sua voce – rancorosa, disperata, spesso ridicola – contesta frontalmente l’idea che l’uomo agisca sempre per il proprio “bene razionale”. “Chi ha detto che l’uomo desidera sempre ciò che è vantaggioso per lui?” – domanda con ironia feroce. E aggiunge: “L’uomo ha bisogno, qualche volta, anche di ciò che è dannoso”.


Qui si tocca il cuore del pensiero dostoevskijano: l’essere umano non è riducibile a un algoritmo di piaceri e vantaggi. Possiede una volontà imprevedibile, talvolta autodistruttiva, che si afferma anche contro la logica. La razionalità, dunque, non può spiegare né contenere la totalità dell’esperienza umana. Dostoevskij si fa, così, precursore di Nietzsche e della psicoanalisi: intuisce che sotto la superficie della coscienza agiscono forze oscure, passioni, desideri non riconciliabili.
Un altro esempio fondamentale si trova ne I fratelli Karamazov (1879), precisamente nella celebre leggenda del “Grande Inquisitore”, raccontata da Ivan al fratello Alëša. In questa parabola teologica, Cristo ritorna sulla terra durante l’Inquisizione spagnola ma viene arrestato dal Grande Inquisitore, che lo accusa di aver dato agli uomini troppa libertà. Secondo l’Inquisitore, l’essere umano non è fatto per la libertà ma per la sicurezza, per il pane, per il miracolo. Lui – il razionale – vuole costruire una società ordinata, senza conflitti, senza dubbi, senza errori. Per farlo, toglierà agli uomini la libertà di scegliere il bene o il male. Ma Dostoevskij – attraverso la figura silenziosa di Cristo che bacia l’Inquisitore – afferma il contrario: meglio un mondo imperfetto e libero che un mondo perfetto ma disumano. La razionalità assoluta è una dittatura della logica. E dove la libertà viene soffocata, nulla accade davvero. Si vive, sì, ma come automi.
La vera grande intuizione di Dostoevskij è che l’irrazionale è la condizione stessa dell’autenticità umana. Ogni gesto significativo – l’amore, il perdono, il sacrificio, la fede – non nasce dalla logica ma da un salto nel vuoto. Chi ama non fa calcoli. Chi perdona non segue una regola. Chi crede lo fa contro ogni evidenza razionale. Sono gesti “assurdi” dal punto di vista logico, eppure essenziali per dare senso alla vita.
Oggi più che mai, il messaggio di Dostoevskij suona attuale. Viviamo in un’epoca in cui si tende a delegare le decisioni agli algoritmi, a ridurre il comportamento umano a modelli prevedibili, a misurare tutto con dati. La razionalità ha colonizzato ogni ambito: consumi, relazioni, lavoro, persino l’identità personale. Ma, come Dostoevskij ci insegna, un mondo puramente razionale è un mondo sterile. Senza errore non c’è scoperta. Senza rischio non c’è libertà. Senza imprevisto non c’è vita. Ecco perché la frase “Se ogni cosa sulla terra fosse razionale, non accadrebbe nulla” è più che una provocazione. È un avvertimento. Ci ricorda che la razionalità è uno strumento, non un fine. L’uomo ha bisogno di senso, non solo di logica.
Dostoevskij non è un irrazionalista. Non rifiuta la ragione, la ridimensiona. La razionalità è importante, certo, ma non basta a spiegare – né tantomeno a salvare – l’essere umano. Ciò che ci rende umani è proprio la nostra apertura all’assurdo, alla libertà, alla contraddizione. È il fatto che possiamo scegliere anche quando non conviene. Possiamo amare anche senza motivo. Possiamo soffrire e trasformare la sofferenza in speranza. In questo senso, Dostoevskij celebra la vita non nonostante l’irrazionale ma grazie all’irrazionale. Ed è proprio lì, dove la ragione non arriva, che “accade qualcosa”. Qualcosa di vero. Qualcosa di umano, profondamente umano.

 

 

 

 

 

 

Brevi ragguagli sul concetto di “coscienza” nella storia della filosofia Occidentale

 

PARTE II

 

LA COSCIENZA COME CONOSCENZA (Ragion pura) E COME MORALE (Ragion pratica)

downloadImmanuel Kant, nella sua monumentale opera filosofica, dà al concetto di coscienza una duplice attenzione: una gnoseologica, relativa ai processi della conoscenza, l’altra morale, relativa alla sfera comportamentale. Per quanto riguarda il primo aspetto, considerò la coscienza come appercezione (Leibniz), pur rimanendo nella convinzione dell’esistenza del mondo esterno alla coscienza. Il filosofo di Königsberg (immagine a destra) distinse, poi, le appercezioni in pure trascendentali (chiamate anche “Io penso“), il vertice della conoscenza critica, in quanto fornisce senso alle rappresentazioni della realtà esterna; e in empiriche, l’esperienza interna, variabile e soggettiva. Entrambe le appercezioni e, quindi, la coscienza di esse, concorrono alla formazione dei processi cognitivi. In merito all’aspetto comportamentale, Kant considerò la coscienza come l’elemento che garantisce il valore assoluto della legge morale. La moralità è la somma ultima dei comandamenti della ragione, o imperativi, dai quali l’uomo deriva tutti gli obblighi e i doveri. Kant definisce la morale “Ragione pura pratica“, concependola come un’attività razionale a priori, che risulta sufficiente, da sola, a determinare la volontà. (Critica della ragion pura, Critica della ragion pratica).

 

HEGEL: LA COSCIENZA PREMESSA DELL’AUTOCOSCIENZA CHE NON RICERCA L’ASSOLUTO PERCHE’ E’ PARTE DI ESSO

GeorgWilhelmFriedrichHegelAl concetto di coscienza, inteso in molteplici significati, il filosofo tedesco George Wilhelm Hegel (immagine a sinistra) dedicò un’intera opera: La fenomenologia dello Spirito. Nella Fenomenologia è tracciato il cammino che la coscienza umana, detta anche individuale, deve compiere per giungere all’Assoluto. La prima tappa è costituita dall’indagine sulla coscienza: l’individuo, attraverso il confronto sensibile con la realtà circostante, ha contezza e, quindi, coscienza della propria esistenza. Tale consapevolezza è generata dalla conoscenza sensibile, dalla percezione e dall’intelletto. Interiorizzata in sé la realtà, la coscienza diviene autocoscienza, seconda tappa. L’autocoscienza che riesce a raggiungere l’indipendenza crede di poter sussistere facendo a meno della realtà. La scissione tra l’autocoscienza e il tutto è chiamata da Hegelcoscienza infelice religiosa“, intesa come spaccatura che l’uomo avverte tra sé e Dio. Giunta al punto più basso di mortificazione e infelicità, l’autocoscienza si rende conto che è inutile ricercare l’Assoluto in quanto essa stessa è parte dell’Assoluto. Allora diviene Ragione, terza ed ultima tappa del percorso.

 

LA COSCIENZA COME RIFLESSO DELLA REALTA’ MATERIALE

220px-Karl_Marx_001Per Karl Marx (immagine a destra) la coscienza, come la produzione di idee e di rappresentazioni mentali, è direttamente collegata alle attività materiali degli uomini. Anche la produzione spirituale, che si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale e della religione, è una conseguenza dei comportamenti materiali. Gli uomini, intesi quali reali, operanti e condizionati dallo sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono, sono i produttori delle loro rappresentazioni. La coscienza, quindi, è l’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita. Gli uomini, sviluppando la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali, trasformano, insieme con la loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è, dunque, la coscienza a determinare la vita, ma la vita a determinare la coscienza  (Ideologia Tedesca).

 

LA COSCIENZA NEL PENSIERO FILOSOFICO CONTEMPORANEO

Con Edmund Husserl il concetto di coscienza, arricchito dalle dottrine dei filosofi dei secoli precedenti, conquista il passaggio verso il pensiero contemporaneo. Se per Hegel il termine Husserl-3fenomenologia aveva significato tracciare il cammino della coscienza, per Husserl (immagine a sinistra), invece, ineriva proprio lo studio della coscienza. Il filosofo prese le distanze dallo Spiritualismo del XIX secolo, per cui la coscienza era una sostanza, un ente, sostenendo che questa non fosse, appunto, un essenza, ma un’attività. In più, essa è anche intenzionalità, ovvero coscienza di qualcosa e si presenta in diversi modi: percepire, pensare, ricordare, immaginare. La coscienza, però – e qui c’è la rottura con tutta la tradizione precedente -, non si identifica col suo oggetto. Essa è totalmente soggettiva. Solo la coscienza può rivelare l’essere: essere è solo ciò che è per la coscienza. Da ciò, l’originale intreccio husserliano tra coscienza e filosofia: teoretica (filosofia di riflessione, di contemplazione, poiché riguarda sempre il soggetto conoscente); edetica (che si occupa delle essenze, non avendo un rapporto diretto con la realtà come essa è ma come appare alla coscienza); non oggettiva (l’approdo cui giungono le sue posizioni è estremamente soggettivo) (Ricerche logiche, Meditazioni cartesiane). Come Husserl, anche Martin Heidegger muove la sua analisi della coscienza Heideggerdalla soggettività di questa, mettendo, però, in luce che gli sforzi di Husserl non siano bastati, avendo questi non tenuto conto anche della finitezza e della esistenza storica. Il filosofo tedesco (immagine a destra) insiste sull’esigenza di connettere la coscienza alla concretezza dell’esistenza. L’essere, progettando il mondo, lo fa venire all’esistenza, in quanto coscienza trascendentale, trovandosi, quindi, ad essere a sua volta progettato. L’essere, avendo coscienza della propria esistenza si apre al mondo, uscendo dalla soggettività per entrare nell’universo della coesistenza fra le cose. Tale azione aliena l’essere da sé stesso. La conseguenza è l’appello alla coscienza, ma questa apre la prospettiva al nulla, al nichilismo (Essere e tempo). Jean Paul Sartre, ponendosi tra la fenomenologia di Husserl e l’esistenzialismo di Heidegger, trasforma la filosofia della coscienza in esistenzialismo ateo, negando l’esistenza dell’io nella coscienza e trasportandolo al di fuori di essa, come ente del mondo. L’esistenza è la nullificazione dell’essere, poiché l’essere è affetto da una frattura insanabile tra l’essere in sé, come totalità fuori dalla coscienza, e l’essere per sé, che è l’essere della coscienza stessa. L’essere non riesce mai ad afferrare sé stesso. Ha in sé la tara del nulla. Da qui, la nullificazione del mondo, poiché le cose sono quelle che sono in sé, ma non ne hanno coscienza. Esse non hanno senso, come non ha senso la coscienza umana; sono una realtà di fronte alla quale l’unico atteggiamento possibile della coscienza umana non può che essere la nausea (Saggi, La nausea). Con Sigmund Freud e la sua scuola il concetto di coscienza entra nella psicoanalisi moderna. Per esigenze di brevità, data la vastità del pensiero freudiano, mi limito a fornire accenni esplicativi sui più importanti contributi che lo psicoanalista austriaco ha fornito alla scienza contemporanea, con l’indagine della mente umana e dei suoi processi: i concetti di coscienza, preconscio e inconscio. La coscienza è downloadfacilmente accessibile perché in stretta e immediata connessione con la realtà che ci circonda: essa è sempre vigile, razionale, presente e non vive, perciò, di ricordi passati. Freud (immagine a sinistra) considera la coscienza come un dato dell’esperienza individuale. La assimila alla percezione, considera come essenza di quest’ultima la capacità di ricevere qualità sensibili e affida questa funzione di percezione-coscienza ad un sistema autonomo e funzionante in base a principi quantitativi. Tra la coscienza e l’inconscio, è collocato il preconscio. Esso incamera tutte le esperienze passate, che possono essere fatte emergere con facilità: attraverso uno sforzo, grande o piccolo, dipende dal ricordo, si può riscoprire qualcosa che è accaduto. Al preconscio, dunque, vi si può accedere grazie alla ragione, senza grosse difficoltà. L’inconscio. In esso risiedono desideri vergognosi, impulsi repressi, esperienze traumatiche rimosse. Tutto ciò che si vuole cancellare definitivamente e domare con la ragione si inabissa in questo spazio di ricordo eterno. Tutto ciò che accade o è accaduto in un passato, anche remotissimo, viene divorato dall’inconscio e mai viene dimenticato (L’interpretazione dei sogni).

 

Brevi ragguagli sul concetto di “coscienza” nella storia della filosofia Occidentale

 

PARTE I

 

LA COSCIENZA COME ANIMA 

images (1)

Secondo Platone (immagine a sinistra) la coscienza umana ha una funzione essenzialmente conoscitiva, collegata alla dottrina delle Idee, cardine della sua filosofia. Le Idee, infatti, oltre ad essere realtà ontologiche a sé stanti, immutabili ed eterne, che fungono da modello al Demiurgo per plasmare il mondo, ovvero forme con le quali è strutturata la realtà empirica, sono altresì presenti nella coscienza umana, come forme intellettuali, mediante le quali l’uomo comprende la dimensione sensibile dell’esistenza. La coscienza, quindi, nella dottrina platonica, corrisponde, sotto l’aspetto del mito, all’anima, la quale, avendo vissuto nell’Iperuranio, conserva in sé il ricordo delle Idee. Da ciò, scaturisce la concezione platonica della conoscenza innata, proprio perché già presente nell’anima e, quindi, nella coscienza di ogni essere umano (Fedone, Critone, Repubblica). Anche Aristotele identifica la coscienza con l’anima ma, a differenza di Platone, non strettamente nell’ambito della conoscenza, quanto piuttosto riguardo al concetto di tempo. Il filosofo di Stagira indaga sul rapporto tra il tempo e il movimento per far assumere ai due concetti una connotazione concreta. Il movimento è nel tempo e il tempo non può esistere senza movimento. Per Aristotele, infatti, il tempo è “il numero del movimento secondo il prima e il poi”, intendendo per numero la funzione del contare, che non è possibile senza avere coscienza della successione numerica. Dato che l’esistenza del tempo è empiricamente ovvia e chiaramente riscontrabile, la sua percezione è un fatto di coscienza. Per coscienza, dunque, Aristotele intende l’anima, unico ente in grado di determinare un prima e un poi in relazione alla vita del singolo individuo (Fisica, De Anima).

LA COSCIENZA COME INTERIORITA’/RIFLESSIONE SU DI SE’, PER GIUNGERE A DIO

Il filosofo Plotino sviluppa il concetto di coscienza non come consapevolezza di qualsivoglia proprio stato interno, ma come campo privilegiato in cui si manifestano, nella loro evidenza, le verità più alte cui l’uomo può giungere, e la fonte, o il principio stesso, di tali verità: Dio. Indicando la coscienza come introspezione o ascolto interiore, egli adopera espressioni quali “ritorno a sé stesso”, “ritorno alla interiorità”, “riflessione su di sé”, contrapponendo costantemente questo atteggiamento proprio del saggio a quanti, invece, per la condotta della propria vita, si basano unicamente sulla conoscenza delle cose esterne (Enneadi).

LA COSCIENZA COME MORALE 

Simone_Martini_003Con il Cristianesimo, a cominciare da San Paolo e dai Padri della Chiesa, il concetto di coscienza viene ricondotto a quello di morale. Ne è esempio l’espressione di uso comune “voce della coscienza” la quale dovrebbe suggerire come comportarsi e quali siano i principi certi che, in ogni uomo, lo guiderebbero sulla retta via, dalla quale esso devia a causa della debolezza umana. E inoltre, non a caso, la precettistica cristiana prescrive l’esame di coscienza come pratica per rintracciare i propri errori morali. Per Sant’Agostino  (immagine a destra) la coscienza è il luogo interiore dove l’uomo cerca e trova Dio, la Mens superior inhaerens Deo (mente superiore insita in Dio). Dio è per l’uomo Essere e Verità, Trascendenza e Rivelazione, Padre e Logos. In quanto Verità, Dio rivela all’uomo ciò che è, in contrasto al falso che fa apparire o credere ciò che non è. Dio-Verità è l’essere che si rivela, che illumina la coscienza umana della sua luce e le fornisce la norma di ogni giudizio, la misura di ogni valutazione. Dio si rivela come trascendenza all’uomo che incessantemente e amorevolmente lo cerca nella profondità del suo io, la coscienza (Confessioni, De vera religione). San Tommaso d’Aquino intende la coscienza sempre ed esclusivamente come coscienza morale. La sua stessa definizione (scienza con l’altro), secondo l’Aquinate, rivela l’ambito di una ricerca volta a definire la coscienza morale come un’applicazione della scienza morale al comportamento umano, al fine di valutarlo e direzionarlo. La coscienza è un atto della persona, che investe sia la sfera intelligibile che quella razionale. Essa applica ai casi concreti della vita l’oggettività e l’universalità della legge a cui si riferisce, la sinderesi, intesa come abito che contiene i precetti della legge naturale, i quali sono i primi principi delle azioni umane. La coscienza, pertanto, nella filosofia del Doctor Angelicus, non è un’altra facoltà (le facoltà sono due: intelletto e volontà), ma è l’uso della ragione per valutare cosa bisogna fare nella situazione concreta hic et nunc (qui e ora). Attraverso la ragione l’uomo applica le norme morali (Somma Teologica, De Veritate) .

LA COSCIENZA COME RAGIONE

Frans_Hals_-_Portret_van_René_DescartesCon l’età moderna, il concetto di coscienza si svincola da qualsiasi implicazione morale e religiosa e diviene il fulcro di tutte le dottrine cognitive e di tutti i processi di conoscenza. Il primo filosofo che muove la sua indagine in questo senso è Cartesio (immagine a sinistra). Egli ritiene che ogni operazione della mente sia accompagnata dalla coscienza di sentire o di ragionare, cioè dalla consapevolezza di possedere nella mente i propri contenuti mentali. La coscienza, per Cartesio, è la consapevolezza soggettiva di sentire e ragionare, perché il pensare implica il sapere di stare pensando. Le idee esistono nella mente, che ne ha coscienza, ma possono non corrispondere alla realtà esterna. Tra queste, ce n’è una privilegiata: l’idea del soggetto come mente, la quale è l’unica ad imporsi come certa vera e indubitabile (cogito ergo sum). Il cogito non è più l’atto pensante originario, da cui nasce il filosofare, ma diventa un pensato. L’evidenza o coscienza del cogito offre un metodo sicuro e infallibile di indagine razionale, tramite il quale poter distinguere il vero dal falso. Il cogito, inoltre, pone l’io esistente come  assolutamente indipendente dal corpo, non potendosi imporre come idea chiara se la mente pensante non fosse completamente separata dalla materia. La coscienza, nella filosofia cartesiana, è, dunque, equiparabile all’anima, intesa come res cogitans, distinta dal corpo, la res extensa (Principi di filosofia). Anche per il filosofo Gottfried Leibnitz il concetto di coscienza è strettamente legato ai processi della conoscenza. Questi, infatti, affida alla coscienza quella caratteristica che determina la capacità di percepire. Nell’uomo questa capacità è più elevata, rispetto agli altri esseri viventi, e le percezioni sono chiare e distinte. La loro consapevolezza o coscienza è l’appercezione, termine con il quale Leibnitz indica l’atto riflessivo attraverso cui l’uomo acquista consapevolezza, o coscienza, delle proprie percezioni, le quali, di per loro, potrebbero anche rimanere inavvertite. L’appercezione  è il fondamento ultimo della coscienza e dell’io (Monadologia).

LA COSCIENZA EMPIRICA 

John-Locke-painting-664x1024La concezione cartesiana di coscienza ispirò anche i filosofi dell’empirismo inglese. John Locke (immagine a destra) intese, infatti, la coscienza come la percezione di ciò che passa nella mente di un uomo, o meglio, le sue idee. Inoltre, egli, da empirista, rinviò alla coscienza ogni possibile esperienza delle cose esterne poiché, proprio da quelle, l’uomo forma dentro di sé le idee. La coscienza, quindi, è l’io che possiede e sviluppa tutte le attività mentali (Saggio sull’intelletto umano). George Berkeley  fu ancora più radicale di Locke, sostenendo che l’esistenza delle cose è in quanto queste sono percepite come esistenti (esse est percipi), ovvero quando si ha coscienza della loro esistenza, nonostante le sostanze materiali, le res extensae di Cartesio, siano soltanto proiezioni della mente cui dover rinunciare per attenersi unicamente alle pure sensazioni (Commentari filosofici).

 

In nome di Dio si può uccidere?

 

 

In nome di Dio si può uccidere? Dio può comandare agli uomini di uccidere in suo nome?
Dio non ha esistenza propria. Dio non esiste, almeno se lo si considera come figurato dalle religioni rivelate. Dio altro non è che una rappresentazione proiettata dell’uomo, creata dal suo stesso cervello. Ce lo ha dimostrato Ludwig Feuerbach, il cui pensiero in merito può essere concentrato nell’assunto: “Non è strato Dio a creare l’uomo, ma l’uomo a creare Dio”. Dio è una idealizzazione oggettiva dell’essenza stessa dell’uomo. Il filosofo tedesco continua: “Attribuendo a Dio l’onniscienza, l’onnipotenza, l’amore incommensurabile, l’uomo esprime l’infinità delle proprie possibilità conoscitive, del proprio potere sulla natura e dell’amore. L’uomo, quindi, proietta in Dio e nei suoi attributi, i di lui bisogni e desideri. La religione è la prima, seppure indiretta, coscienza che l’uomo ha di sé”.
Ciò detto, la risposta alle domande di apertura è affermativa. L’uomo può uccidere in nome di Dio perché uccide in nome di se stesso e della sua propria natura. Questa, infatti, è portata alla conservazione di sé, perseguibile con qualunque mezzo, anche e, spesso, soprattutto, con la prevaricazione fisica. L’adagio latino “Mors tua, vita mea” è molto illuminante in questo caso. Uomini e popoli che portano guerra e uccidono in nome del loro Dio applicano soltanto le condizioni atte alla loro conservazione. Il resto, lo fa la letteratura e, consentitemelo, gli intelletti alquanto deboli!

 

creazione-di-adamo

Michelangelo Buonarroti “La creazione di Adamo” (1511), Cappella Sistina, Roma