Archivio mensile:Aprile 2025

Il dominio dell’anima

Proairesi e diairesi nel pensiero di Epitteto

 

 

 

 

 

Nel pensiero di Epitteto, filosofo stoico (50-130 d.C.) nato schiavo e divenuto uno dei più apprezzati maestri di filosofia morale del mondo antico, i concetti di proairesi e diairesi costituiscono il nucleo del suo insegnamento. Non sono termini astratti ma strumenti pratici per vivere bene. In una visione del mondo che riconosce l’instabilità della fortuna, l’imprevedibilità degli eventi e la fragilità delle condizioni esterne, Epitteto individua nella proairesi l’unico vero bene dell’essere umano: la capacità di scegliere consapevolmente il proprio atteggiamento davanti a ciò che accade.
Il termine proairesi (προαίρεσις) indica la facoltà razionale e deliberativa dell’uomo, ciò che lo rende libero e responsabile. È l’unica cosa che “dipende da noi” (ἐφ’ ἡμῖν), secondo la formula fondamentale del Manuale (Enchiridion, 1): non il corpo, non i beni materiali, non la reputazione, non la salute – tutte queste cose sono esterne e quindi vulnerabili. Solo la proairesi, cioè il modo in cui reagiamo interiormente a ciò che ci accade, è interamente sotto il nostro controllo. Epitteto insiste che, anche in condizioni estreme – come la malattia, la povertà o la schiavitù – nessuno può toccare la nostra proairesi senza il nostro consenso. Questa visione ribalta la prospettiva comune: non è libero chi può fare tutto ciò che desidera, ma chi riesce a desiderare solo ciò che dipende da sé. La vera libertà, per Epitteto, non è potere sull’esterno, ma dominio su se stessi.
Per esercitare correttamente la propria proairesi, occorre innanzitutto saper distinguere. Qui interviene il secondo concetto chiave: la diairesi (διαίρεσις), ovvero il principio di distinzione tra ciò che è in nostro potere e ciò che non lo è. Questo atto mentale di separazione è fondamentale per la filosofia pratica di Epitteto: senza diairesi, la proairesi rischia di impantanarsi in desideri irrealizzabili, aspettative illusorie, rabbia e frustrazione. Con la diairesi, invece, impariamo a concentrare le nostre energie solo su ciò che possiamo realmente governare: opinioni, giudizi, scelte morali. La diairesi non è solo un esercizio teorico ma una vera e propria ascesi mentale. È l’allenamento quotidiano che ci permette di affrontare gli eventi con equilibrio e coerenza. Quando un evento negativo si presenta – una perdita, un’ingiustizia, un dolore fisico – il discepolo di Epitteto non si chiede “Come posso evitarlo?”, ma “Dipende da me?”. Se la risposta è no, allora il suo compito non è combatterlo, ma accettarlo razionalmente, conservando la propria integrità morale.

La forza del pensiero di Epitteto sta nella connessione tra questi due concetti: la proairesi è il fulcro dell’identità morale, e la diairesi è lo strumento per proteggerla e guidarla. In questo senso, la filosofia stoica di Epitteto è una vera e propria etica dell’autonomia. Non propone un’illusione di onnipotenza ma una disciplina interiore che ci rende indipendenti dalle condizioni esterne. Non si tratta di rassegnazione passiva, quanto di una forma attiva di libertà: scegliere come vivere, anche quando non possiamo scegliere cosa ci accade.
Questa prospettiva ha implicazioni radicali. Innanzitutto, dissolve la paura dell’avversità: se il male non consiste negli eventi ma nei giudizi errati che formuliamo su di essi, allora è possibile essere felici anche nella sofferenza. In secondo luogo, cancella il bisogno di approvazione sociale: ciò che conta non è l’opinione degli altri, ma la coerenza della propria proairesi. Infine, libera dalla tirannia del successo esteriore: si può fallire agli occhi del mondo e tuttavia restare padroni di sé.
Epitteto insegna che la vera conquista dell’uomo non è il mondo esterno, ma il governo di sé attraverso la ragione. La proairesi è ciò che ci definisce come esseri morali; la diairesi è la bussola che ci permette di mantenerla integra. In tempi di incertezza, ansia e disorientamento, il suo insegnamento resta di sorprendente attualità: non possiamo controllare tutto, ma possiamo controllare come rispondiamo a tutto. E questo basta per vivere con dignità, serenità e forza.

 

 

 

 

Dio, l’anima e il silenzio nella mistica renana

 

 

 

 

La mistica renana è una delle espressioni più significative della spiritualità medievale europea. Si sviluppò tra il XIII e il XIV secolo lungo il bacino del Reno, in un’area comprendente le città di Colonia, Strasburgo e Magonza, e rappresentò un momento di straordinaria intensità religiosa e intellettuale. Non si trattò di una scuola teologica compatta o di un movimento istituzionalizzato, ma di un insieme di autori e autrici, per lo più legati all’ambiente domenicano o a gruppi spirituali laici, che condividevano una profonda attenzione all’interiorità e all’esperienza personale del divino.
La mistica renana emerse in un contesto segnato da crisi e trasformazioni profonde: l’autorità ecclesiastica era in discussione, nuovi movimenti religiosi ponevano l’accento sulla povertà evangelica, e nelle città in crescita si sviluppavano forme nuove di devozione. In quel contesto, la religione assunse anche un volto soggettivo, intimo, e si aprì all’analisi della coscienza.

Al centro della riflessione mistica vi era l’idea che l’essere umano potesse unirsi a Dio in modo diretto, senza mediazioni esterne, attraverso un cammino di svuotamento, silenzio e trasformazione interiore. Tale cammino è tutt’altro che passivo: richiede disciplina, consapevolezza e un distacco radicale da tutto ciò che è mondano o egoico. Il cuore della mistica renana è la convinzione che Dio non sia altro da cercare fuori, ma sia già presente nell’anima, in una scintilla profonda e nascosta che attende solo di essere riconosciuta. L’interiorità, dunque, diventa il luogo della rivelazione. Questa consapevolezza, tuttavia, non nasce solo da una speculazione intellettuale, ma da una pratica spirituale concreta, spesso dura, segnata dalla solitudine, dalla contemplazione e anche dalla sofferenza.
La figura più emblematica di questa corrente è Meister Eckhart, frate domenicano nato intorno al 1260. Teologo raffinato, maestro universitario e predicatore, Eckhart ha lasciato un’opera vasta e complessa, composta in parte in latino, per gli ambienti accademici, e in parte in tedesco, per i fedeli. Il suo pensiero ruota intorno a un concetto radicale di Dio come realtà assoluta, oltre ogni immagine, ogni nome, ogni rappresentazione. Dio è l’Essere stesso, o addirittura il Nulla che è più dell’essere. L’anima, per incontrare Dio, deve diventare come Lui: pura, vuota, spoglia di ogni desiderio e identità. La chiave di questo processo è il “distacco”, cioè la capacità di non essere legati a nulla, nemmeno a sé stessi. Solo nel vuoto totale l’anima può accogliere la “nascita di Dio” in sé, un’idea centrale in Eckhart, che non si riferisce alla nascita storica di Cristo ma a un evento interiore, quotidiano, che si verifica ogniqualvolta l’anima si apre davvero al divino. In questa prospettiva, l’unione mistica non è fusione emotiva o estasi ma una consapevolezza lucida e profonda di essere una cosa sola con il fondamento di tutto.
Accanto a Eckhart si colloca Johannes Tauler, anch’egli domenicano, ma di temperamento più pratico e pastorale. Vissuto tra il 1300 e il 1361, Tauler è noto per le sue prediche, rivolte non solo ai monaci ma anche a laici spiritualmente impegnati, in particolare donne appartenenti ai circoli delle beghine. Il suo stile è meno astratto di quello di Eckhart e più attento alla concretezza della vita spirituale. Tauler parla dell’importanza dell’umiltà, della pazienza nella sofferenza, del lavoro interiore come via per accogliere la grazia divina. Anche per lui Dio abita nel profondo dell’anima, ma il cammino per raggiungerlo passa attraverso prove, silenzi e oscurità interiori. Il mistico, nella visione di Tauler, non è qualcuno che fugge dal mondo, ma colui che impara a vivere in esso con uno sguardo purificato, capace di vedere il divino anche nella fatica quotidiana.
Un’altra figura importante è Enrico Suso, nato nel 1295. Rispetto a Eckhart e Tauler, Suso ha un tono più lirico, più affettivo, più incline all’espressione poetica. La sua mistica è caratterizzata da un linguaggio amoroso, spesso ardente, che descrive la relazione con Dio come una storia d’amore intensa, a tratti dolorosa, ma sempre carica di bellezza. Nei suoi scritti, Suso racconta visioni, dialoghi interiori, esperienze mistiche in cui l’anima si sente attratta, bruciata, trasformata dalla presenza divina. La sua è una spiritualità profondamente incarnata, dove il corpo e il cuore partecipano alla ricerca del divino. Non a caso, Suso descrive anche esperienze di sofferenza volontaria, vissute come atti di amore puro verso Dio.
Accanto ai grandi nomi maschili, la mistica renana include voci femminili straordinarie, come quelle di Mechthild di Magdeburgo e Margherita Porete. Mechthild, autrice della Luce fluente della divinità, scrive in volgare tedesco e descrive una mistica dell’amore in termini potenti, a volte spiazzanti. Per lei, l’anima è come una donna che cerca Dio con passione, che lo desidera e che soffre per la sua assenza. Margherita Porete, invece, è una figura tragica: autrice dello Specchio delle anime semplici, fu accusata di eresia e bruciata sul rogo nel 1310. Il suo libro, letto e apprezzato da molti mistici, incluso Tauler, propone una spiritualità radicale, in cui l’anima giunta alla perfezione non ha più bisogno nemmeno delle virtù o dei sacramenti, perché vive immersa nell’amore puro di Dio. La sua visione, estrema e audace, sfida le categorie della teologia ufficiale.
Tra i grandi temi della mistica renana, l’unione mistica con Dio è senza dubbio il principale. Non si tratta di un’unione metaforica, ma di un’esperienza concreta in cui l’anima cessa di percepirsi come separata da Dio. Questa esperienza non è automatica né concessa a tutti: richiede un cammino esigente di purificazione. Il distacco, infatti, è un altro cardine del pensiero renano. Per incontrare Dio, bisogna liberarsi di ogni attaccamento, non solo ai beni materiali ma anche alle proprie opinioni, ai propri desideri, persino alla secondo una formula ricorrente.
In questo cammino di svuotamento, l’interiorità gioca un ruolo centrale. Dio non si cerca fuori, nei riti o nei simboli esteriori, ma si riconosce nel fondo dell’anima, in quella “scintilla” che è già divina. Tuttavia, per accedervi è necessario il silenzio, non solo esterno ma soprattutto interiore. La contemplazione diventa allora un atto di ascolto profondo, in cui l’anima si fa vuota per accogliere l’ineffabile.
Infine, la sofferenza assume nella mistica renana un valore redentivo. Non viene cercata in modo morboso, ma accettata come via per spogliarsi del superfluo, come occasione per affidarsi totalmente a Dio. L’anima, purificata dalla prova, diventa capace di una fede più pura, più libera, più matura.
L’eredità della mistica renana è stata ampia e profonda. Ha influenzato la spiritualità cattolica e anche quella protestante. Martin Lutero, ad esempio, pur criticando molte forme di misticismo, lesse con attenzione Tauler e lo considerò un testimone autentico della fede. Più avanti, nel XVII secolo, il pensiero di Eckhart sarebbe stato riscoperto anche da mistici protestanti come Jakob Böhme e da pensatori spirituali di area tedesca. Nel Novecento, filosofi come Martin Heidegger sarebbero tornati a interrogarsi sul linguaggio e sull’ontologia eckhartiana, trovando nella sua riflessione sull’essere e sul nulla intuizioni ancora attuali.
La mistica renana, pur appartenendo a un’epoca lontana, continua a parlare a chi cerca una spiritualità essenziale, profonda, non dogmatica. Il suo messaggio – che Dio è dentro, che bisogna svuotarsi per riempirsi, che il silenzio può essere più eloquente della parola – resta uno dei lasciti più intensi e provocatori del Medioevo cristiano.

 

 

 

 

History of Medieval Church


Part XII


Monastic Reforms and New Orders

 

 

 

 

Monasteries: from the Mixed Rule to the Rule of St. Benedict

During the Carolingian period, monasteries experienced two phases: the phase of the mixed rule, which was a combination of Western monastic rules—including the widely followed rules of the Irish-Scottish and Benedictine monks—and the phase of unification under the Benedictine Rule, guided by the work of St. Benedict of Aniane (France). Until the 8th century, around thirty different rules circulated, and each monastery had its own tradition. St. Boniface (Winfrid) attempted to unify monasteries under the single Benedictine Rule but was unsuccessful. However, the new emperor Charlemagne succeeded in this endeavor, viewing monastic unification as a guarantee of unity for the empire and thus imposing the rule on all monasteries. Alongside monasteries, prayer fraternities also emerged from the 8th century onwards. These were associations among monks or monasteries, established both for mutual support and for commemorating members and benefactors—both living and deceased. Under the reign of Louis the Pious, Charlemagne’s son, St. Benedict of Aniane continued the reform initiated by the unification of monasteries under the Benedictine Rule. He applied this rule to the 25 monasteries he founded, creating a system of aggregation that later became the foundation for Cluniac monasticism. This system led to the establishment of 2,000 convents across Europe, all centralized under the mother house of Cluny and under papal direction. St. Benedict of Aniane also compiled two works, Codex Regularum and Concordia Regularum, which provided a compendium of monastic rules up to that time. However, unifying monasticism under a single rule did not ensure the complete reform of monasteries. Since they were closely tied to the empire, they suffered the consequences of its decline.

Monastic Reform

The monastic reform that took place in Brogne (Belgium), affecting 11 monasteries and indirectly influencing England and Montecassino, was characterized by three key elements:

  • Independence of monasteries from bishops.
  • The presence of a regular abbot.
  • The adoption of the Rule of St. Benedict.

A particularly significant development was the rise and spread of the monastery of Cluny in southern France.

Cluny: History and Importance

After the Carolingian crisis, which also affected the Church due to its close ties with the empire, monastic reform movements emerged, leading to profound spiritual and cultural renewal throughout the West. These movements paved the way for the Gregorian Reform. Monasticism played a crucial role in embodying the Christian detachment from the world and guarding against secularization. It also served as a powerful call for renewal within a Church that had become deeply entangled in earthly affairs. In this way, monasticism acted as a prophetic voice within both the Church and Christendom. Unlike Eastern monasticism, which was focused on contemplation and mysticism, Western monasticism engaged with the broader concerns of Christendom. Among the many monastic reform movements of the 10th century, the Cluniac movement, centered in eastern-central France, was the most significant. In 910, Duke William the Pious founded a monastery in Cluny and placed it under papal authority, ensuring its full independence from bishops and local lords. Cluny was distinguished by the free election of its abbot, who held absolute authority, and by its extensive monastic network. As Cluny’s influence grew, its monastic model spread, leading to the foundation of 2,000 monasteries across Western Europe. The abbots of these monasteries were bound by oath to the abbot of Cluny, who exerted direct influence over their monastic life. Another defining aspect of Cluny was its emphasis on liturgy, which occupied much of the monks’ daily lives and was seen as a participation in the heavenly realm. Additionally, Cluny established monastic seminaries to train candidates for monastic life. Alongside Cluny, other reform movements contributed to the spiritual renewal of the Church and Western Christendom, particularly the reform of Brogne. The Cluniac reform also spread to Italy from 936 onward, leading to the establishment of various monastic centers, particularly in central and southern Italy. However, Italian monasticism developed distinct characteristics, including a revival of the eremitic ideal, a strong missionary enthusiasm, and a pursuit of martyrdom linked to missionary work.

The Canonical Reform

Alongside monasticism, the canonical life developed with its own distinct characteristics. This life was governed by specific rules, notably the Institutio Canonicorum or Rule of Aachen (816). The main duties established by this rule included:

  • Choral prayer.
  • A life centered on the claustrum, with shared dining and sleeping arrangements.

However, within the claustrum, canons were allowed to live in individual houses and own private property. This practice was opposed by the Synod of Aachen, which promoted an ideal of poverty, particularly in communities where chapters and monasteries coexisted. As monasteries underwent reform, chapters were also influenced by these changes. However, the reform of the chapters was short-lived because they lacked a crucial element present in monasteries: the abbot.

The Charismatic Movement: a Return to the Primitive Church

The spiritual renewal that affected monks and canons also influenced laypeople. Many sought a new spirituality based on a return to the ideals of the early Church, as described in the Acts of the Apostles: a Church that lived in community, shared its possessions, and embraced poverty and love. This ideal of poverty clashed with the reality of monasteries, which, despite requiring individual monks to live in poverty, were themselves wealthy. In contrast, those following the evangelical movement renounced material possessions entirely and withdrew to the wilderness for contemplation. This spiritual climate led some secular canons to separate from their communities and adopt a lifestyle of poverty similar to monasticism. This movement arose spontaneously and was rooted in charismatic leadership. It aligned closely with the Gregorian Reform, sharing its opposition to simony, clerical corruption, and wealth. However, because this movement lacked strong theological foundations, some members eventually deviated from Church doctrine, leading to spiritual excesses, particularly among itinerant preachers known as the Pauperes Christi. The close relationship between this movement and the general population inspired many laypeople to imitate the monastic life. Between the 8th and 10th centuries, they settled near monasteries, leading to the emergence of lay brothers or conversi, who in the 11th century joined monastic communities and lived a nearly identical lifestyle, including taking monastic vows.

Monastic Differentiation and New Orders: Carthusians and Cistercians

A period of great spiritual vitality (1059-1123) led to numerous new foundations, followed by a phase of stabilization and differentiation among monastic communities. Two key examples from this period were the Carthusians, who emphasized solitary monastic life, and the Cistercians, who stressed communal living. The Carthusian Order was founded by Bruno of Cologne (1032-1101), who, after conflicts with the Archbishop of Reims, withdrew with six companions to the wilderness of Chartreuse in 1084, establishing a hermitic way of life. The “Rules of Chartreuse” (1127) provided a legal framework that ensured the order’s longevity. The Cistercians, founded at Cîteaux in 1098, originated from Cluny but sought a stricter adherence to the Benedictine Rule, emphasizing a balance of manual labor, asceticism, silence, and solitude. Their legal framework, the Carta Caritatis, was written by their founder, Stephen Harding, and promoted charity and the salvation of souls. Unlike Cluny’s rigid centralization, Cistercian abbeys maintained mutual obligations, including annual visitations between mother and daughter houses. The order expanded rapidly across the West, with over 700 monasteries promoting a simple, austere architectural style later adopted by the Franciscans.

Female Monasticism

The spiritual fervor that gave rise to numerous movements inspired by the spirituality of the early Church, as described by Luke in the Acts of the Apostles, also involved many women. Under the influence of major monastic movements, these women lived and expressed their spirituality in ways that reflected their unique sensitivity, thereby enriching monastic life with new aspects and exclusively female institutions. In response to this growing enthusiasm, the Church sought to promote female monasticism, favoring enclosure and other observances that characterized male monasteries. However, nuns asserted their own distinct identity as women. At the time, there were no monastic rules specifically written for women—only adaptations of male monastic rules, which did not fully align with female spirituality. It was not until St. Clare that a monastic rule would be written by a woman, for women. Female monasteries included members from all social classes.

Regular Canons: the Premonstratensians

Reformed or regular monks based their lives not only on the fundamental rule of Acts 4:32 but also on the teachings of the Church Fathers. Among these, St. Augustine’s Rule of St. Augustine was particularly influential. This rule was divided into two parts:

  • The first, Ordo Monasterii or Regula Secunda, was shorter but much stricter.
  • The second, Regula Tertia or Ad Servos Dei, was more lenient and moderate.

In 1120, these two sets of rules were officially recognized, leading to a fundamental division among the regular canons:

  • The Ordo Novus, which followed the stricter Regula Secunda, sought to discredit the more lenient rule by claiming it had been written for women and was therefore unsuitable for canons.
  • The Ordo Antiquus, which adhered to the milder Regula Tertia.

This division led to conflicts and disputes between the two groups. Among them, the most widespread order was the Premonstratensians, founded in France by Norbert of Xanten, a canon and chaplain of Emperor Henry V. After withdrawing from court life, he established a canonical community with 40 clerics based on the Rule of St. Augustine. Initially contemplative, the Premonstratensians later shifted their focus toward pastoral care and preaching. At first, St. Norbert also welcomed women into the order under strict enclosure. However, over time, they were progressively excluded.

 

 

 

 

 

L’americanizzazione di Francesca

Dante a Broadway nel XIX secolo

Parte II

 

 

di Carmela Puntillo

 

 

 

È provato che fu un successo eccezionale, essendo dato cinque volte a Philadelphia e portando all’autore considerevoli profitti. “The World A Mask” è una satira sociale che ridicolizza la tendenza della società a elevare le mere apparenze di rispettabilità sopra la vera virtù. Non è un veicolo teatrale particolarmente valido, soffrendo di una trama contorta senza speranza. Come le due più tarde commedie di Boker, “The Widow’s Marriage” (prodotta nel 1852) e “The Bankrupt” (prodotta nel 1855), sottolineano che Boker ha una superficiale comprensione della commedia che, fatta eccezione del Betrothal, non era il suo forte…

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Il sapere che si vive

La pedagogia esperienziale di John Dewey

 

 

 

 

Nel pensiero di John Dewey (1859-1952), uno dei principali esponenti del pragmatismo americano, il concetto di esperienza occupa una posizione centrale e strutturante, soprattutto nella sua riflessione pedagogica e filosofica. Dewey non concepisce l’esperienza come una semplice registrazione passiva di eventi esterni, ma come un processo attivo, continuo e trasformativo, che coinvolge il soggetto in modo profondo. L’esperienza, in questa prospettiva, è al tempo stesso il punto di partenza e l’obiettivo dell’educazione, il luogo in cui conoscenza, azione e significato si intrecciano.
Per Dewey, l’esperienza è sempre un’interazione tra l’organismo e l’ambiente. Non si dà esperienza se non c’è un soggetto che agisce sul mondo e ne riceve una risposta. In questo scambio, l’individuo non è uno spettatore, ma un partecipante attivo. L’esperienza, quindi, è costruita attraverso il fare e il patire (to do and to undergo), cioè attraverso l’azione e la ricezione delle conseguenze dell’azione. Questo processo interattivo è essenziale per la crescita: ogni esperienza modifica chi la vive, lasciando tracce che condizionano le esperienze future. Dewey sottolinea che l’apprendimento autentico non avviene tramite la semplice trasmissione di informazioni, ma quando l’individuo è coinvolto in un’attività significativa, che suscita interesse, richiede riflessione e porta a una comprensione più profonda del mondo.
Nel suo libro Esperienza ed educazione (1938), Dewey definisce due criteri fondamentali per valutare se un’esperienza è realmente educativa: la continuità e l’interazione. La continuità si riferisce al fatto che ogni esperienza lascia un’eredità che influisce su quelle successive. Un’educazione efficace è quella che organizza le esperienze in modo da promuovere lo sviluppo personale, morale e intellettuale. Al contrario, un’esperienza negativa può bloccare la curiosità, rafforzare atteggiamenti passivi o il disinteresse, compromettendo le possibilità future di apprendimento. L’interazione riguarda invece il legame tra l’esperienza, le condizioni in cui avviene e la personalità del soggetto che la vive. Le esperienze non sono mai isolate, ma sempre connesse al contesto e all’individuo. Un ambiente educativo, quindi, deve considerare le esigenze, le motivazioni e le capacità degli studenti, adattandosi per favorire esperienze realmente coinvolgenti e trasformative.

Uno degli aspetti più originali del pensiero di Dewey è il legame tra esperienza e pensiero riflessivo. L’esperienza diventa veramente educativa quando stimola la riflessione, cioè quando spinge l’individuo a interrogarsi sul significato delle proprie azioni e delle loro conseguenze. Questo tipo di pensiero non è automatico, ma deve essere coltivato attraverso pratiche educative attente, che mettano in primo piano il problem solving, la sperimentazione, il confronto con l’errore. L’apprendimento, in questa visione, non è mai un processo meccanico o lineare, ma un percorso di esplorazione e scoperta. L’educazione deve quindi organizzare situazioni in cui l’esperienza sia fonte di domande autentiche, in grado di generare curiosità e comprensione duratura.
Dewey collega strettamente il concetto di esperienza con una visione democratica dell’educazione. La scuola, per essere davvero educativa, deve essere una comunità in cui si apprende facendo, discutendo, collaborando. Lo studente non è un contenitore da riempire, ma un soggetto attivo, coinvolto nella costruzione del sapere insieme agli altri. L’educazione ha altresì una funzione politica: preparare i cittadini a partecipare consapevolmente alla vita democratica. Solo un’educazione fondata su esperienze significative può formare individui autonomi, critici e capaci di contribuire al bene comune.
L’esperienza, per John Dewey, non è solo un concetto teorico, ma il fondamento stesso dell’educazione, della conoscenza e della democrazia. È ciò che collega l’individuo al mondo, che rende possibile la crescita personale e sociale. Educare significa, quindi, progettare esperienze che abbiano valore, che stimolino il pensiero, che favoriscano l’autonomia e che aprano la strada a nuove possibilità.

 

 

 

 

Oltre il mondo, dentro l’esperienza

L’ambizione radicale della fenomenologia husserliana

 

 

 

 

La riduzione fenomenologica è il gesto teorico fondamentale con cui Edmund Husserl inaugura la fenomenologia come scienza rigorosa dell’esperienza. Non è semplicemente una tecnica filosofica, ma un vero e proprio cambio di prospettiva, un mutamento radicale dell’atteggiamento conoscitivo. Mettendo tra parentesi il mondo così come lo conosciamo abitualmente, Husserl cerca di accedere a un livello più profondo e originario dell’esperienza: il modo in cui i fenomeni si danno alla coscienza.
Il primo passo della riduzione è l’epoché, un termine ripreso dagli scettici antichi, che indica la sospensione del giudizio. Ma Husserl ne fa un uso del tutto nuovo: non si tratta di dubitare del mondo, come facevano gli scettici, quanto di astenersi dal prenderlo per scontato.
Nella nostra vita quotidiana, adottiamo ciò che Husserl chiama l’atteggiamento naturale: agiamo, pensiamo, sentiamo, parlando e vivendo come se il mondo che ci circonda esistesse in modo indipendente e oggettivo. Per Husserl, però, questa convinzione va messa “tra parentesi” (fenomenologicamente: bracketing) per poter analizzare come l’esperienza del mondo si costituisce nella coscienza.
Attraverso la riduzione, si passa a quello che Husserl definisce atteggiamento fenomenologico. Qui l’interesse non è più rivolto al mondo in sé, ma al modo in cui il mondo appare alla coscienza. In questa prospettiva, ogni oggetto – un albero, un numero, una paura – viene studiato non come entità in sé, ma come fenomeno, ovvero come dato intenzionale: qualcosa che appare a un soggetto.
Uno dei risultati fondamentali della riduzione è la scoperta dell’intenzionalità. Ogni atto di coscienza (percepire, ricordare, immaginare, giudicare) è sempre diretto verso qualcosa. Non esiste una coscienza “vuota” o isolata: la coscienza è sempre relazione, apertura, orientamento verso un oggetto, anche quando questo oggetto non esiste nel mondo reale (come nel caso dell’immaginazione o del ricordo).
Questa caratteristica strutturale della coscienza permette di studiare la costituzione del significato: come le cose acquistano senso per noi, in quanto soggetti esperienti.

Dopo la riduzione, ciò che resta non è un soggetto chiuso su sé stesso, ma un campo di esperienza in cui ogni oggetto è correlato alla coscienza che lo vive. Il mondo fenomenologico non è cancellato, ma riportato alla sua dimensione originaria: quella dell’esperienza vissuta.
Questo è ciò che Husserl intende quando parla di mondo della vita (Lebenswelt), cioè il mondo così come lo viviamo prima di ogni astrazione scientifica o teorica. Il compito della fenomenologia è analizzare come questo mondo prende forma per noi, come si “costituisce” nell’esperienza soggettiva.
Husserl concepisce la fenomenologia come una “scienza rigorosa”, non nel senso delle scienze naturali, ma come un sapere fondativo. La riduzione serve a portare alla luce le strutture originarie su cui si basa ogni forma di conoscenza: tempo, spazio, oggetti, numeri, valori, ecc. Non si tratta di spiegare il mondo, ma di chiarire come si dà un mondo alla coscienza. In questo senso, la fenomenologia vuole essere una filosofia prima, un punto di partenza certo e indubitabile per ogni altra disciplina. Non a caso Husserl parla della riduzione trascendentale come di un ritorno all’“Io puro”, non come individuo psicologico, ma come soggetto trascendentale, cioè condizione di possibilità di ogni esperienza e conoscenza.
La riduzione fenomenologica è stata al centro di molte critiche e interpretazioni. Alcuni, come Heidegger, l’hanno riformulata radicalmente, sostenendo che la coscienza non può mai essere isolata dal mondo. Altri, come Merleau-Ponty, hanno cercato di superare la dicotomia tra soggetto e oggetto recuperando il corpo come punto d’incontro tra coscienza e mondo. Nonostante questo, la riduzione rimane uno degli strumenti più potenti per interrogare il senso dell’esperienza e mettere in discussione le nostre convinzioni più profonde su ciò che è “reale”.
La riduzione fenomenologica, pertanto, non è un esercizio teorico fine a sé stesso. È una strategia per smascherare ciò che diamo per scontato, per tornare alle radici del nostro rapporto con il mondo. È il tentativo di capire come si costruisce il significato, come il mondo prende forma per noi, prima ancora che lo pensiamo, lo misuriamo o lo giudichiamo.

 

 

 

 

Per il Maestro Roberto De Simone
nel giorno della sua dipartita

 

 

 

 

Quando se ne va un Maestro come Roberto De Simone, non si spegne solo una voce, si abbassa un intero sipario sonoro. Resta un silenzio spesso, pesante, dentro cui ancora si aggirano echi di processioni lente, canti strozzati dalla fatica, tamburi che battono come un cuore antico. Se ne va un uomo e con lui rischiano di svanire secoli di memoria orale, riti dimenticati, volti senza nome che lui aveva saputo rievocare con rispetto e verità.
De Simone è stato molte cose: musicista, regista, musicologo, antropologo, compositore, intellettuale. Ma più di tutto è stato un testimone. Un uomo che ha scelto di ascoltare le voci più deboli, quelle che la cultura ufficiale aveva ignorato o, peggio, ridicolizzato. Le voci delle lavandaie, dei pastori, dei cantastorie, dei devoti, dei contadini e delle comari, di chi piangeva nelle veglie funebri e cantava in dialetto per non impazzire. Voci che lui ha raccolto, studiato, custodito come reliquie viventi.
Con La gatta Cenerentola, De Simone non ha solo riscritto la fiaba. Ha riscritto il teatro. Ha dimostrato che Napoli e il Sud non sono un folklore da cartolina, ma un luogo colmo di stratificazioni, di dolore, di bellezza e di resistenza. Quell’opera, insieme ad altre come La cantata dei pastori o Mistero Napoletano, è diventata una crepa luminosa nel muro della cultura alta, un passaggio tra colto e popolare, tra memoria e invenzione, tra teatro e rito.

Il suo pensiero non ha mai accettato la superficialità. Per De Simone, la tradizione non era una fotografia sbiadita da appendere al muro. Era materia viva, da toccare, da interrogare. Era anche conflitto, contraddizione, oscurità. In un tempo in cui tutto tende ad appiattirsi, lui ci ha costretto a guardare l’ombra che ci portiamo dietro, i demoni delle nostre origini, il dolore sotto la festa. Ha detto, in mille modi, che non possiamo capire chi siamo senza passare da lì.
Il suo lavoro sul teatro popolare, sulla musica sacra e profana del Mezzogiorno, sulla liturgia dei sentimenti collettivi, è stato un atto d’amore e insieme un gesto politico. Perché portare sul palco il pianto rituale, la tarantella, il lamento funebre, non era folklore: era riscrivere la storia culturale d’Italia da un altro punto di vista.
Oggi che la sua voce si è spenta, ci resta la sua opera. Ma soprattutto ci resta un insegnamento forte: che la bellezza va cercata anche dove nessuno guarda più. Che il passato non è morto, se sappiamo ancora ascoltarlo. E che la cultura non è solo quello che si studia nei libri, ma anche quello che si tramanda con un sussurro, un canto storto, una festa patronale in un paese dimenticato.
Mancherà il suo sguardo lucido, ironico, appassionato. Mancherà la sua capacità di vedere l’invisibile e di renderlo scena, musica, parola. Ma forse, se abbiamo davvero imparato qualcosa da lui, ora tocca a noi portare avanti il suo lavoro. Con rispetto. Con attenzione. Con coraggio.

Arrivederci, Maestro, degnissimo figlio della nostra amata Napoli. La vostra voce non tacerà. L’ascolteremo meglio, adesso!

 

 

 

 

La legge tra le spade

Ugo Grozio e la nascita del diritto internazionale

 

 

 

 

De iure belli ac pacis (Sul diritto della guerra e della pace), pubblicato nel 1625, è l’opera più celebre del giurista e filosofo olandese Ugo Grozio (Hugo de Groot). Questo trattato ha segnato un punto di svolta nella storia del pensiero giuridico e politico, ponendo le basi teoriche per il diritto internazionale moderno. In un’epoca segnata da guerre feroci, instabilità politica e conflitti religiosi – in particolare la Guerra dei Trent’anni – Grozio propose un sistema di norme giuridiche valide anche in tempo di guerra, cercando di umanizzare i conflitti e limitare la violenza tra Stati.
Grozio scriveva in un momento in cui l’Europa era lacerata da conflitti politici e religiosi che mettevano in discussione l’unità del diritto e dell’autorità. La frattura tra cattolici e protestanti, la crisi dell’autorità imperiale e l’affermazione degli Stati sovrani rendevano urgente la necessità di un ordine giuridico nuovo, capace di trascendere le divisioni confessionali e garantire una convivenza pacifica.
Inoltre, l’emergere del concetto di Stato moderno e il declino dell’autorità papale e imperiale spingevano i pensatori a interrogarsi su cosa potesse regolare i rapporti tra entità politiche indipendenti. Grozio rispose a questa domanda costruendo un sistema giuridico fondato sulla ragione naturale, ossia su princìpi che tutti gli uomini potessero riconoscere indipendentemente dalla religione o dalla cultura.
De iure belli ac pacis è diviso in tre libri. Nel Libro I – “Fondamenti del diritto naturale e del diritto delle genti”, Grozio principiò da una riflessione teorica sul diritto naturale: esiste un ordine di giustizia universale, comprensibile attraverso la ragione, che precede e fonda il diritto positivo (cioè il diritto creato dagli uomini). In una delle sue affermazioni più celebri, sostenne: “Ci sarebbe diritto anche se si concedesse – cosa che non si può fare senza empietà – che Dio non esista”. Con questa frase, Grozio affermò la piena autonomia del diritto naturale dalla religione: la legge morale non ha bisogno della rivelazione divina per essere valida. Questo è un passaggio cruciale verso una concezione laica e razionale del diritto. Inoltre, in questo libro, Grozio distinse tra ius naturale (diritto naturale) e ius gentium (diritto delle genti), cioè quell’insieme di norme che regolano i rapporti tra le nazioni. Nel Libro II – “Le cause giuste della guerra”, analizzò in quali casi una guerra potesse essere considerata giusta. La guerra, per essere legittima, deve avere uno scopo giuridicamente fondato: difesa da un’aggressione, punizione di un torto subito, recupero di un diritto violato. Grozio condannava le guerre di conquista e le guerre preventive non fondate su una minaccia reale. Per lui, la sovranità non giustifica automaticamente la guerra: anche i sovrani devono sottostare a regole. Questa è una netta presa di distanza dal realismo politico di autori come Machiavelli o Hobbes. Nel Libro III – “Il diritto nella guerra (ius in bello)” affrontò il comportamento lecito durante i conflitti. Anche quando una guerra è giusta, ci sono limiti da rispettare. Non tutto è permesso: devono essere tutelati i civili, i prigionieri e deve essere evitata la crudeltà gratuita. L’intento è chiaramente quello di “civilizzare” la guerra, ponendo limiti morali e giuridici alla violenza. In questo senso, anticipò molti dei princìpi che si sarebbero ritrovati nel diritto internazionale umanitario contemporaneo, come le Convenzioni di Ginevra.

L’impatto dell’opera di Grozio è stato duraturo. Il suo pensiero ha influenzato filosofi, giuristi e teorici della politica nei secoli successivi, da Pufendorf a Kant, da Locke a Vattel. La sua visione di un ordine giuridico internazionale fondato sulla ragione ha anticipato l’idea di una comunità delle nazioni regolata da norme condivise, che si sarebbe ritorvata nei progetti dell’Illuminismo e, più tardi, nelle istituzioni moderne come l’ONU o la Corte Internazionale di Giustizia.
Grozio è spesso definito il “padre del diritto internazionale” proprio perché ha posto le basi teoriche di un diritto che non si limita ai confini degli Stati, ma regola i rapporti tra di essi in nome di una razionalità giuridica superiore.
De iure belli ac pacis fu un tentativo coraggioso e innovativo di costruire un diritto comune in un’epoca di disordine. Grozio si rivolse alla ragione come fondamento della convivenza tra gli uomini e tra gli Stati, superando il particolarismo delle leggi nazionali e l’arbitrarietà del potere. In un mondo in cui la guerra sembrava inevitabile e spesso giustificata da pretesti religiosi o politici, Grozio ebbe l’ambizione – e la lucidità – di immaginare un sistema giuridico universale, in cui anche il conflitto fosse soggetto a regole. La sua lezione rimane attuale: in un’epoca globale segnata da nuove tensioni e minacce, il richiamo alla ragione e alla legge come strumenti per contenere la violenza e garantire la pace non ha perso forza.

 

 

 

 

 

Pensiero collettivo e presenze psichiche

L’eggregoro tra esoterismo e psicologia

 

 

 

 

Il concetto di eggregoro appartiene alla tradizione esoterica occidentale e si riferisce a un’entità psichica o spirituale collettiva generata dalla somma delle intenzioni, emozioni e pensieri di un gruppo umano coeso intorno a un obiettivo, un simbolo o una credenza comune. Si tratta di un’idea che, pur nascendo in ambito occultista, presenta implicazioni rilevanti anche nel campo della psicologia collettiva, della sociologia e della filosofia della mente.
L’origine etimologica della parola risale al greco antico egrégoroi (ἐγρήγοροι), utilizzato nel Libro di Enoch per indicare “coloro che vegliano”, ovvero esseri spirituali caduti, spesso interpretati come angeli ribelli. Questo riferimento biblico-apocrifo, ripreso successivamente da testi esoterici tardo-ottocenteschi, viene rielaborato da occultisti come Éliphas Lévi, il quale, nei suoi scritti, in particolare Dogme et Rituel de la Haute Magie (1854-1856), ipotizza l’esistenza di entità astrali influenzate dalla volontà umana, suggerendo che gruppi di persone possano, attraverso il rituale e la concentrazione mentale, “creare” vere e proprie forze intelligenti.
Il concetto assume una forma più strutturata nell’ambito delle scuole esoteriche moderne, come l’Hermetic Order of the Golden Dawn e, più tardi, nella Societas Rosicruciana in Anglia. Arthur Edward Waite, in alcune sue opere sulla magia cerimoniale, accenna alla possibilità che un gruppo coeso e disciplinato possa generare una presenza autonoma, dotata di una sorta di identità propria. Questo pensiero verrà poi approfondito nel XX secolo da autori come Dion Fortune, che nel suo Psychic Self-Defense (1930) descrive gli eggregori come forme-pensiero collettive dotate di potere reale nel mondo psichico e in grado di esercitare influenza sui singoli membri del gruppo.
Negli anni successivi, l’idea di eggregoro trova una nuova sistematizzazione nell’opera di Valentin Tomberg, autore dei Meditations on the Tarot (pubblicato postumo nel 1980), in cui il concetto viene associato alla realtà degli archetipi collettivi e delle strutture immaginative che plasmano l’esperienza spirituale dell’essere umano.

Sebbene il termine non faccia parte del vocabolario scientifico, il concetto di eggregoro può essere messo in relazione con alcune teorie psicologiche, in particolare con la psicologia del profondo. Carl Gustav Jung, pur non utilizzando questa parola, descrive nel suo lavoro l’esistenza di archetipi condivisi che abitano l’inconscio collettivo e influenzano profondamente le strutture simboliche e i comportamenti individuali. Gli archetipi, come forze impersonali e transpersonali, possono essere attivati da energie collettive e assumere un ruolo dominante nei contesti culturali o nei gruppi sociali.
In questo senso, un eggregoro può essere visto come un archetipo attualizzato attraverso la partecipazione emotiva e simbolica del gruppo, che ne rinforza la coerenza interna e lo “incarna” in forme riconoscibili, talvolta mitizzate. La dinamica del transfert collettivo, concettualizzata anche in ambito psicoanalitico, descrive in termini clinici come il singolo individuo possa perdere il senso critico quando immerso in una psiche di gruppo altamente suggestiva.
Nella cultura contemporanea, l’idea di eggregoro si manifesta sotto forma di identità collettive che acquisiscono vita propria. Ad esempio, la cultura di marca (brand culture), come evidenziato da Naomi Klein in No Logo (1999), mostra come alcuni marchi diventino “organismi viventi” capaci di aggregare comunità di consumatori affezionati, alimentare immaginari condivisi e influenzare scelte comportamentali e valoriali. Il marchio non è solo un simbolo commerciale, ma un catalizzatore di significati, simile a un eggregoro: è sostenuto da narrazioni, rituali, fedeltà e perfino forme di identificazione personale.
Anche nei fenomeni politici e ideologici troviamo dinamiche simili. La propaganda, i rituali di appartenenza e le rappresentazioni simboliche condivise (bandiere, slogan, inni) rafforzano l’eggregoro ideologico di una nazione, di un partito o di un movimento. Lo stesso accade nelle religioni istituzionalizzate, dove divinità, santi o figure carismatiche vengono alimentate da millenni di devozione collettiva, diventando entità psichiche stabili nella memoria e nella pratica dei fedeli.
Nel contesto digitale, il concetto di eggregoro si rivela particolarmente attuale. Le comunità online, i fandom, le subculture nate sui social media producono continuamente nuove entità psichiche collettive, alimentate da flussi costanti di attenzione, affetto, indignazione o partecipazione. La viralità stessa può essere interpretata come un meccanismo di “nutrimento” energetico per queste forme simboliche, che acquistano rilevanza, potere e resistenza grazie alla massa critica di utenti coinvolti.
Secondo alcuni esoteristi contemporanei, tra cui Mark Stavish nel suo libro Egregores: The Occult Entities That Watch Over Human Destiny (2018), un eggregoro può diventare tanto potente da acquisire un’autonomia relativa, condizionando le decisioni dei singoli anche al di fuori della loro volontà conscia. Questo lo rende uno strumento potente, ma anche potenzialmente pericoloso. Un eggregoro positivo può sostenere un movimento evolutivo, spirituale o sociale; uno negativo può degenerare in fanatismo, controllo psichico e regressione collettiva.
L’idea che una forma-pensiero collettiva possa “sopravvivere” a chi l’ha creata è centrale nella teoria esoterica. Alcuni eggregori, una volta generati, tendono a mantenere la loro coerenza e persistenza attraverso nuove generazioni di aderenti, mantenendo il nucleo simbolico e adattandosi ai mutamenti storici. Si parla in questo caso di eggregori longevi, come quelli associati alle grandi religioni, agli ordini iniziatici o a istituzioni culturali millenarie.
L’eggregoro, quindi, pur rimanendo un concetto non scientifico in senso stretto, rappresenta una metafora potente per interpretare la dinamica psichica e simbolica dei gruppi umani. Che lo si consideri un’entità spirituale autonoma o una rappresentazione delle forze collettive dell’inconscio, esso permette di indagare come le idee si trasformino in strutture vive, capaci di influenzare individui, società e culture. Comprendere gli eggregori significa riconoscere che il pensiero collettivo non è una semplice somma di pensieri individuali, ma una forza emergente, complessa, talvolta creativa, talvolta distruttiva. In un’epoca in cui la partecipazione di massa è mediata da tecnologie istantanee e dove le identità si formano spesso all’interno di spazi virtuali, la consapevolezza della natura e del potere degli eggregori è più che mai urgente.

 

 

 

 

Tra fine e rinascita

L’anno Mille nei racconti di Rodolfo il Glabro

 

 

 

 

 

Rodolfo il Glabro (Rodulfus Glaber), monaco benedettino nato intorno al 985 e morto dopo il 1047, è uno dei cronisti più noti del primo Medioevo. Il suo nome, “Glabro”, significa “pelato”, soprannome che ha finito per identificarlo più della sua origine o della sua vocazione. La sua opera principale, i Cinque libri di storie (Historiarum libri quinque), è una delle testimonianze più vive e discusse del clima culturale e spirituale attorno all’anno Mille.
Rodolfo non è un autore neutrale. Le sue cronache non cercano oggettività: sono dense di giudizi morali, visioni religiose e interpretazioni teologiche degli eventi. Era un monaco irrequieto, spesso trasferito da un monastero all’altro a causa del suo comportamento difficile. Questo rende la sua voce ancora più unica: non quella del monaco ideale, ma quella di un uomo in perenne conflitto tra vocazione religiosa e tensione verso il mondo.
I suoi scritti si muovono tra due piani: quello della cronaca storica e quello dell’interpretazione apocalittica. Rodolfo vive in un’epoca di cambiamenti profondi: la dissoluzione dell’Impero carolingio, l’affermazione delle signorie feudali, i disordini sociali, le carestie, le epidemie. Tutto questo viene letto attraverso una lente teologica: l’umanità è colpevole e Dio punisce i peccati del mondo.

L’aspetto più celebre della sua cronaca è il resoconto delle ansie legate all’anno Mille. Anche se non ci sono prove di un vero e proprio “panico collettivo”, Rodolfo rappresenta bene un certo spirito del tempo: la convinzione che il mondo stesse attraversando una crisi profonda, forse il preludio della fine.
Tuttavia, accanto alla paura, Rodolfo nota un fenomeno opposto: un’ondata di fervore religioso e di rinnovamento spirituale. Il passaggio più noto della sua opera è quello in cui descrive la “rinascita delle chiese” in tutta Europa: “Mentre ci si avvicinava al terzo anno dopo il Mille in quasi tutto il mondo, ma soprattutto in Italia e in Gallia, furono rinnovati gli edifici delle chiese. Benché la maggior parte di esse, essendo costruzioni solide, non avessero bisogno di restauri, tuttavia le genti cristiane sembravano gareggiare tra loro per edificare chiese che fossero le une più belle delle altre. Era come se il mondo stesso, scuotendosi, volesse spogliarsi della sua vecchiezza per rivestirsi di un bianco mantello di chiese”.
Questa immagine – forte, poetica, quasi mistica – è diventata il simbolo di quella che gli storici hanno poi chiamato “la rinascita dell’anno Mille”. Si tratta di un processo lento ma reale: espansione agricola, crescita dei villaggi, aumento delle fondazioni monastiche e soprattutto una nuova energia nella Chiesa.
Le cronache di Rodolfo non sono sempre attendibili nel senso moderno del termine. Talvolta esagera, deforma i fatti, inserisce elementi miracolosi o leggendari. Ma proprio per questo sono così preziose: non ci danno solo i fatti, ci danno lo sguardo con cui quei fatti venivano vissuti e raccontati. Più che uno storico, Rodolfo è un interprete della realtà. Per lui, il compito del cronista non è solo registrare, ma leggere i segni dei tempi. Il suo stile è vivido, talvolta teatrale. Le sue pagine sono piene di segni, presagi, punizioni divine, ma anche di speranze e rinnovamenti. È un autore che fotografa un’epoca inquieta, in bilico tra la fine di un mondo e l’inizio di un altro.
Le cronache di Rodolfo il Glabro sono un documento chiave per capire l’Europa attorno all’anno Mille. Non offrono una narrazione lineare o affidabile, ma restituiscono con forza la sensibilità di un’epoca di transizione. Il suo sguardo, spesso cupo ma anche capace di stupore, ci fa entrare nella mente medievale, dove storia e fede, paura e speranza, si intrecciano senza soluzione di continuità.