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Lo storico Polibio, le Costituzioni romane e un angoletto napoletano, “morto della storia”

 
 

Polibio di Megalopoli (206-124 a.C.), insigne storico greco antico, dedicò gran parte dei suoi scritti alla storia di Roma, alla nascita della Repubblica romana e alla sua potenza. Secondo lo studioso, il sistema politico romano repubblicano si basava su una costituzione mista, risultato della sintesi delle tre forme di governo fondamentali, dell’armonia e dell’equilibrio tra i tre organi depositari del potere: la monarchia (rappresentata, a Roma, dai consoli), l’aristocrazia (rappresentata dal senato) e la democrazia (rappresentata dai comizi). Già altri storici greci avevano teorizzato che questi tre ordinamenti degenerassero, inevitabilmente, rispettivamente, in tirannide, oligarchia e oclocrazia. Giunta l’oclocrazia il ciclo si sarebbe poi ripetuto, con il ritorno alla monarchia. Secondo Polibio, nel caso della costituzione mista, anche Roma non sarebbe potuta sfuggire al regresso. Nel VI libro delle “Storie”, il greco descrive proprio l’anaciclosi (in greco, anakyklosis), il processo di ritorno ciclico secondo il quale, le principali forme di governo e le relative degenerazioni si sarebbero succedute l’una all’altra, in un fatale trapasso involutivo: dalla monarchia alla tirannide, dall’aristocrazia all’oligarchia, dalla democrazia all’oclocrazia. Roma, tuttavia, avrebbe potuto ritardare questo processo storico di decadenza grazie alla sua costituzione e alla straordinaria preparazione militare, ma non vi si sarebbe potuta sottrarre. Una fortissima eco di questa teoria è presente nelle dottrine di uno dei pensatori napoletani più eminenti di tutta la storia del pensiero occidentale: Giambattista Vico (1668-1744). Questi, infatti, tra le tante dottrine, formulò quella dei corsi e ricorsi storici, ovvero il continuo e incessante ripetersi di tre cicli temporali distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il tutto, secondo un preciso disegno, stilato dalla divina provvidenza. L’intero sistema filosofico di Vico, impossibile da esaurire in queste poche righe, potente e meraviglioso, secondo le parole di Antonio Gramsci, fu elaborato da un “angoletto morto della storia”. Compitino per le vacanze di Natale: approfondite la filosofia di Giambattista Vico, cominciando con la lettura della “Scienza Nuova” (1725).

 

Pubblicato l’1 gennaio 2017 su La Lumaca
 
 
 
 


Italy = Mafia. Una comoda equazione richiamata, ancora oggi, da un buon numero di italiani idioti

 

 

È noto, pressoché unanimemente, che, nell’ambito delle azioni umane, così come, per dirla con George Hegel, negli atti degli spiriti dei popoli, si tenda a ricordare e a rimarcare quanto fatto di negativo rispetto alla strabordante quantità di positività, pure da riscontrare. E, allora, giù ad accusare, ad esempio, il filosofo Gottfried Leinbiz, di aver copiato da Isaac Newton le basi per il calcolo infinitesimale, quasi ciò fosse più importante del sistema filosofico che il primo consegnò all’umanità, o, ancora, i francesi di codardia e connivenza col nazismo, all’epoca del Regime di Vichy, quasi dimentichi di quanto fatto per la storia del pensiero universale, dalla lirica dei trovatori alle dottrine dei philosophes illuministi. Ecco, quindi, che giungo al punto, suggerito dall’argomento di questo numero della rivista: gli emigranti italiani. Bene, in qualunque paese del mondo essi abbiano messo piede, dagli Stati Uniti d’America all’Argentina, dal Canada all’Australia, hanno sempre lavorato sodo, veramente sodo, in condizioni, perlopiù, ai limiti dell’umana sopportazione, dovendo subire, sin all’arrivo, discriminazioni di varia natura, che avrebbero fatto impallidire quanti oggi giungono, in Italia, da immigrati. I nostri connazionali dei tempi passati, col proprio sudore e con le proprie rimesse economiche, contribuirono, non soltanto al miglioramento delle loro condizioni e di quelle delle loro famiglie, ma anche di quelle della nazione stessa. E, allora? Cos’è, ancora oggi, universalmente noto e tramandato dell’emigrazione italiana? La mafia. Ecco, tutto si riduce a una minima parte di italiani, che vollero disonestamente caratterizzare la loro permanenza in paesi esteri, specialmente gli Stati Uniti. Nel nostro tempo presente, in Italia, vi sono molti cittadini, i quali, per dare adito al proprio filantropismo da salotto o da PC e convincere gli altri delle loro idee, cioè flatus vocis, chiamano in causa quella subdola equazione secondo la quale noi tutti abbiamo l’obbligo morale di subire che immigrati stranieri, presenti nel nostro paese, delinquano, soltanto perché, 100 anni fa, alcuni nostri connazionali, da emigranti, fecero lo stesso nelle che li ospitavano. Questo è un atteggiamento da idioti, esiziale per il futuro della nostra nazione!

 

Pubblicato il 15 novembre 2016 su La Lumaca

 

 

 

 

Lectura Dantis: INFERNO. I Personaggi

 

 

LA LIBRERIA INDIPENDENTE DI SORRENTO OMAGGIA DANTE ALIGHIERI, NEL 695° ANNIVERSARIO DELLA MORTE, CON LA “LECTURA DANTIS: INFERNO. I PERSONAGGI”, REALIZZATA DA RICCARDO PIRODDI  

In occasione del 695° anniversario della morte di Dante Alighieri (14 settembre 1321 – 14 settembre 2016), la Libreria Indipendente di Sorrento rende omaggio al sommo poeta con la videoproiezione della “Lectura Dantis: INFERNO. I Personaggi”, realizzata da Riccardo Piroddi, pubblicista, blogger e autore, nel 2011, del saggio dal titolo, “Storia (non troppo seria) della Letteratura Italiana”, Edizioni Albatros. L’evento culturale si terrà sabato 17 settembre 2016, alle ore 20.00, presso i locali della libreria, in Corso Italia, 258/c, a Sorrento. “Sin dai decenni immediatamente successivi alla morte di Dante – ha dichiarato Piroddi – cominciarono a tenersi pubbliche letture dei suoi versi, sovente accompagnate da interventi analitici di commentatori. Tra i primi, Giovanni Boccaccio, nel 1373, a Firenze. La grandezza e l’immutato fascino dell’opera di Dante si aprono, oggi, alla tecnologia, pur nella secolare tradizione della lectura espressiva e della lectura esegetica. Questo è lo spirito che anima la mia realizzazione. Immagini, musiche, effetti sonori e gli stessi versi danteschi, magistralmente interpretati dalla potente voce recitante di Giulio Iaccarino, danno vita ad alcuni tra i più celebri personaggi dell’Inferno, prima cantica del Divino Poema (Paolo e Francesca, Farinata degli Uberti, Pier delle Vigne, Ugolino della Gherardesca e altri), le cui vicende storiche e poetiche saranno oggetto di mie riflessioni nel corso della serata”.

 

Lectura Dantis: INFERNO. I Personaggi”

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Brevissima considerazione sulle rivoluzioni

 

 

Poco meno di dodici anni dopo la decapitazione di Luigi XVI di Francia, ad opera della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità, Napoleone Bonaparte fu incoronato imperatore dei Francesi. Come a dire: in nome del popolo, la libertà, l’uguaglianza e la fraternità decapitano un re e incoronano un imperatore, ovvero mutano soltanto il titolo del padrone! Ecco perché non ho fiducia nelle rivoluzioni!

 

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Una esposizione alquanto insolita, e molto partenopea, dell’Inferno di Dante Alighieri

 

 

 

Cominciamo con fornire qualche breve ragguaglio di ordine generale sulla Divina Commedia. Dante, innanzi tutto, non la titolò mai in questo modo, ma semplicemente Comedía. Fu Giovanni Boccaccio ad aggiungere, qualche tempo dopo la morte dell’Autore, l’aggettivo Divina, perché era Dio il padrone dei luoghi visitati dal poeta. Nella Divina Commedia è raccontato il viaggio che il sommo poeta immagina di compiere nei tre regni dell’Aldilà, tra anime dannate, spiriti penitenti e beati nella gloria del Signore. Il poema è diviso in tre cantiche, l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, 2composte, ciascuna, di trentatré canti di terzine, tranne l’Inferno, che ne ha uno in più, fungente da prologo generale. Il cammino, cominciato il 7 aprile 1300, giovedì santo, e finito il successivo mercoledì 13, ha come intento principale quello di mostrare agli uomini come stessero le cose dal lato dei morti, a cosa si andasse incontro se si fosse disobbedito a Dio e quali fossero, invece, i premi, se si fosse fatta la sua volontà. Il pellegrino non è solo, perché nell’Inferno e nel Purgatorio  è il grande letterato latino Virgilio ad accompagnarlo, mentre, dall’ingresso del Paradiso Terrestre, è Beatrice, la sua Beatrice, a guidarlo sino a Dio. L’Autore, sostituendo la sua giustizia a quella divina, riempie il mondo ultraterreno dei personaggi più diversi: dai re ai grandi condottieri, dagli scrittori antichi ai filosofi, dai protagonisti delle storie della Bibbia e della mitologia classica a quelli dei romanzi cortesi, fino ai concittadini, morti qualche anno prima che cominciasse a scrivere. Questo perché, i lettori, conoscendo di chi si trattava, rimanessero maggiormente impressionati in negativo o in positivo. Bene, ora possiamo andare all’inferno!

Dante si è perso in una selva oscura ed è già impaurito di suo, quando gli si parano davanti tre bestiacce: un leone, una lonza (lince) e una lupa. Il poveretto non sa più che pesci prendere, ma, per fortuna, arriva a salvarlo Virgilio e, insieme, cominciano a scendere verso il baratro. L’Inferno ha la forma di un cono, che arriva fino al centro della Terra, formatosi quando Dio buttò giù dal suo regno Lucifero, rimasto conficcato nel fondo alla botticelli-infernovoragine. Il luogo della dannazione infinita, tra burroni, precipizi, ripe, dirupi e fossi, è diviso in nove cerchi, nei quali i dannati pagano per le loro colpe: quanto più grossa l’hanno combinata durante la vita, tanto più giù scendono. Si comincia dall’antinferno, in cui sono quelli che vissero tanto per vivere, forse solo perché erano nati (gli ignavi). Oltrepassata la porta dalla scritta terribile della Città Dolente e il fiume Acheronte, dove il nocchiero Caronte prende a remate sulla schiena le animacce che non si muovono a salire sulla sua barca, si trova il Limbo, nel quale bambini e persone perbene nate prima di Cristo sospirano e si struggono. Da lì, passando davanti a Minosse, il giudice infernale, il quale attorciglia la coda tante volte quante il numero del cerchio dove lo spiritaccio deve andare a scontare la sua pena, si trovano i veri maledetti da Dio. Nei primi sei cerchi ci sono i cosiddetti incontinenti: quelli che pensavano sempre alla stessa cosa (i lussuriosi); quelli che stavano sempre a masticare qualcosa e ad ingozzarsi (i golosi); quelli che avevano la mano corta, i genovesi e gli scozzesi (gli avari) e quelli che ce l’avevano bucata (i prodighi); quelli che si incazzavano per un nonnulla e quelli che se ne fregavano di ogni cosa per tutta la vita (gli iracondi e gli accidiosi). Nel settimo cerchio Dante trova i violenti contro il prossimo, i violenti contro se stessi e i violenti contro Dio, l’arte e la natura: quelli che dicevano la verità contro le bugie della Chiesa (gli eretici); quelli che avevano il grilletto facile e quelli che ti scamazzavano per rubarti pure le mutande e i calzini (gli assassini e i briganti); quelli che l’avevano fatta finita prima del tempo e quelli che guadagnavano duemila euro al mese e ne spendevano cinquemila (i suicidi e gli scialacquatori); quelli che nominavano Dio, la Madonna e i santi senza motivo, specialmente all’interno di volgari e colorite espressioni (i bestemmiatori); quelli che ti prestavano ventimila euro e dopo un mese ne volevano cinquantamila, sennò ti facevano incendiare il negozio (gli usurai); quegli uomini col vizio di andare con gli altri uomini (i sodomiti). Nell’ottavo cerchio, invece, ci sono i fraudolenti contro chi non si fida: pierdellevignequelli che cercavano di fregarti con il loro bell’aspetto (i seduttori); quelli che volevano imbrogliarti con le belle parole (i lusingatori); quelli che vendevano o compravano cose sacre fuori dalle sagrestie (i simoniaci); quelli che predicevano il futuro, pure se ci azzeccavano (gli indovini); quelli che vivevano facendo imbrogli e pacchi vari (i barattieri); quelli che davanti ti dicevano che eri bravo e dietro che non eri buon a niente (gli ipocriti); quelli che avevano le mani lunghe (i ladri); quelli che con i loro consigli ti sgarrupavano (i cattivi consiglieri); quelli che ti facevano fare a mazzate con tutti (i seminatori di discordia); quelli che stampavano e spacciavano soldi e monete false (i  falsari). Infine, il nono cerchio, l’ultima zona, divisa in quattro parti, proprio la peggiore, patibolo eterno dei fraudolenti contro chi si fida: la Caina, con i traditori dei parenti, da Caino, che aveva ucciso il fratello Abele; l’Antenora, con i traditori della patria, da Antenore, che aveva venduto la città di Troia ai greci; la Tolomea, con i traditori degli ospiti, da Tolomeo, un sacerdote biblico che aveva fatto uccidere il suocero e i cognati dopo averli invitati a pranzo a casa sua; la Giudecca, con i traditori dei benefattori, da Giuda, il traditore di Cristo, sommo benefattore dell’umanità. Tutti questi disgraziati sono affogati nel fiume ghiacciato Cocito. E, nell’ultimo posto possibile, il buco del c..o del mondo, inficcatovi come un pecorone, Lucifero, un mostro con le ali di pipistrello e tre teste, nelle cui bocche maciulla i tre più schifosi peccatori di tutta la storia dell’umanità: Giuda, Bruto e Cassio, responsabili della morte dei due veri rappresentanti di quei poteri che, all’epoca di Dante, si dividevano il mondo: il religioso (Gesù) e il civile (Giulio Cesare).

Per comminare le pene alle anime infami, il poeta ricorre al sistema del contrappasso: in base a quello che di male avevano commesso nella vita, così pagheranno per l’eternità. I lussuriosi, ad esempio, lasciatisi trascinare dall’impeto delle passioni, sono sbattuti di qua e di là da venti fortissimi; i suicidi, che avevano voluto privarsi con violenza del loro corpo, sono imprigionati in alberelli secchi e brutti; i lusingatori, dopo aver coperto tutti di belle parole, false come loro, sono immersi nella merda, anche oltre il collo. Dante non si preoccupa affatto di usare un linguaggio adatto a questo luogo: bestemmie, male parole e mandate affanculo, lungo i canti, sono all’ordine del giorno, anzi, della notte, visto il posto. L’intera cantica, con i suoi dannati, è pervasa da una negatività, da un buio, da un rumore assordante e da una puzza così forte da apparire reale e da sembrare vera, soprattutto a quanti ne leggevano allora. Nonostante ciò, da questo vallone di pianti, di strilli e di tormenti vengono fuori, sublimate, figure memorabili, rimaste nella storia della letteratura mondiale: Paolo e Francesca, amanti anche nella dannazione, Farinata degli Uberti, valoroso nemico ghibellino dei guelfi di Dante, Pier delle Vigne, il consigliere dell’imperatore Federico II di Svevia, Brunetto Latini, il maestro di gioventù del poeta, Ulisse, che invitò i compagni a seguir virtute e canoscenza, e il conte Ugolino della Gherardesca, di cui colpisce, ancora oggi, la fine orrenda, insieme con i figli, nella Torre della Muda.

 

 

I Papi, la guerra e la pace: Pio XII e i radiomessaggi, Ecco alfine terminata, del 9 maggio 1945, e La coesistenza nel timore, nell’errore e nella verità, del 24 dicembre 1954

 

 

Eugenio Pacelli, asceso al soglio pontificio col nome di Pio XII, è stato il 260° papa della Chiesa Cattolica Romana. Nato a Roma, il 2 marzo 1876, fu eletto papa nel 1939. Segretario di Stato di Pio XI, tentò, in tutti i modi, di scongiurare la Seconda guerra mondiale. Morì il 9 ottobre 1958.

 

 

Il breve radiomessaggio Ecco alfine terminata fu trasmesso dalla Radio Vaticana due giorni dopo la resa della Germania nazista (7 maggio 1945) e la fine della guerra in Europa. Nel mondo, invece, essa si sarebbe conclusa soltanto nell’agosto successivo, dopo lo sganciamento delle prime bombe atomiche in Giappone, evento apocalittico, sul quale Pio XII non si pronunciò pubblicamente. Il messaggio costituì un sintetico bilancio delle distruzioni e degli orrori della guerra. Mancò un riferimento esplicito al dramma dell’Olocausto. Di qui, anche la polemica, mai spenta, sui silenzi e i dilemmi di Pio XII. La guerra, finalmente, era finita. Essa aveva accumulato un caos di rovine, materiali e morali. Bisognava, da quel momento, riedificare il mondo. Il primo elemento della restaurazione sarebbe dovuto essere il ritorno a casa, pronto e rapido, di tutti i prigionieri, degli internati, dei combattenti e dei civili. Ognuno si sarebbe dovuto mettere al lavoro per la ricostruzione, animato dal generoso e indistruttibile amore per il prossimo. Se ci si fosse limitati a considerare soltanto l’Europa, ci si sarebbe ritrovati dinanzi a problemi e difficoltà giganteschi, che era necessario superare, per aprire il cammino ad una pace vera, la sola che potesse essere duratura. Essa, infatti, non sarebbe potuta fiorire, se non in un’atmosfera di giustizia e di lealtà, congiunte con la fiducia e la comprensione reciproche. Il mondo avrebbe evitato il ritorno della guerra, vi avrebbero regneranno la vera e stabile fratellanza universale e la pace soltanto se gli uomini avessero avuto un cuore nuovo e un nuovo spirito, seguendo i precetti della legge di Dio e mettendoli in pratica. Il radiomessaggio natalizio La coesistenza nel timore, nell’errore e nella verità rappresentò una delle riflessioni più approfondite e coerenti di Pio XII sulla guerra fredda, in cui, talvolta, fu accusato dalla stampa socialcomunista di essere coinvolto, e, più in generale, sui rapporti tra i due blocchi. Il radiomessaggio, pur senza espliciti riferimenti, tenne conto del passaggio dalla guerra fredda alla pace fredda, cioè, dalla prima timida distensione internazionale, a seguito della morte di Stalin, nel 1953. Il pontefice rivendicò il compito di offrire un ponte spirituale e cristiano di collegamento fra le due opposte sponde dell’Europa. Criticò, con decisione, la coesistenza nel timore, così come la coesistenza nell’errore, che finivano per pregiudicare la possibilità stessa di una coesistenza nella verità. Nel sedicesimo Natale del proprio pontificato, secondo quanto era assicurato da molti, alla guerra fredda si era sostituito un periodo di distensione chiamato, non senza ironia, pace fredda. Questo, però, rappresentava soltanto un breve passo, nella faticosa maturazione della pace. Nel mondo della politica, per pace fredda si intendeva la mera coesistenza di popoli diversi, sostenuta dal vicendevole timore e dal disinganno reciproco. La semplice coesistenza non meritava il nome di pace. La pace fredda rappresentava soltanto una calma provvisoria, la cui durata era condizionata dalla sensazione mutevole del timore e dal calcolo oscillante delle forze presenti. Esaminando le manchevolezze, che impedivano alla pace fredda di essere pace vera e duratura emergevano:
La coesistenza del timore: il fondamento su cui poggiava lo stato di relativa calma era il timore. Ciascuno dei gruppi nei quali era diviso il mondo, tollerava che esistesse l’altro, perché non voleva perire egli stesso. Evitando, così, il rischio di una guerra totale, ambedue i gruppi non convivevano, ma esistevano. Non era uno stato di guerra, ma neppure di pace: una fredda calma. In ciascuno dei due gruppi era assillante il timore per la potenza militare ed economica dell’altro, e vivissima l’apprensione per gli effetti catastrofici delle nuovissime armi. L’assurdo più evidente, che emergeva da questa situazione era che la prassi politica, pur paventando la guerra, le concedeva tutto il credito, come se fosse l’unico espediente per sussistere e l’unica regolatrice dei rapporti internazionali. Appariva assurda quella dottrina secondo la quale la guerra fosse lo sbocco necessario degli insanabili dissensi tra due Paesi. Essa era stata considerata come un dado, da giocare con maggiori o minori cautela e destrezza, non come un fatto morale, che impegnava la coscienza e le superiori responsabilità. Occorsero le rovine prodotte dalla Seconda guerra mondiale perché mostrasse il suo vero volto. La coesistenza nel timore aveva soltanto due prospettive dinanzi a sé: o si sarebbe contratta sempre di più in una paralisi glaciale della vita internazionale, i cui gravi pericoli erano immediatamente prevedibili, oppure si sarebbe innalzata a coesistenza nel timore di Dio, e, poi, a pace vera, ispirata e vagliata dal suo ordine morale.
La coesistenza dell’errore: nonostante la guerra fredda, e, allo stesso modo, la pace fredda, mantenessero il mondo in una dannosa scissione, ciò non impedì che pulsasse, in esso, un intenso ritmo di vita, che si svolgeva, quasi esclusivamente, nel campo economico. Era innegabile che l’economia, avvalendosi dell’incalzante progresso della ricerca moderna, avesse raggiunto sorprendenti risultati, tali da far prevedere una trasformazione profonda della vita dei popoli. Ma era altrettanto vero che essa, con la sua capacità apparente di produrre beni illimitati, esercitasse sui contemporanei un fascino superiore alle sue possibilità. L’errore di una simile fiducia, riposta nella moderna economia, accomunava, ancora una volta, le due parti in cui era diviso il mondo. In una di esse si insegnava che, se l’uomo aveva dimostrato tanto potere da creare il meraviglioso complesso tecnico-economico di cui si vantava, avrebbe avuto anche le capacità di organizzare la liberazione della vita umana da tutte le privazioni e da tutti i mali di cui soffriva; dall’altra parte, invece, guadagnava terreno la concezione che dall’economia e, in particolare, dal libero scambio, si dovesse attendere la soluzione del problema della pace. Entrambe le dottrine apparivano, a Pio XII, infondate e il corso degli eventi aveva dimostrato quanto fosse ingannevole l’illusione di confidare la pace al solo libero scambio. In una delle parti coesistenti nella pace fredda, la libertà economica, tanto esaltata, ancora non esisteva; nell’altra, era addirittura rigettata come principio assurdo. A prescindere da queste considerazioni, però, era necessario persuadersi che le relazioni economiche sarebbero stati fattori di pace, in quanto obbedienti alle norme del diritto internazionale.
La coesistenza nella verità: benché fosse triste notare come la frattura della famiglia umana si fosse prodotta, dall’inizio, tra uomini che conoscevano e adoravano il medesimo Salvatore, nondimeno c’era fiducia che nel Suo nome, si potesse gettare un ponte di pace tra le opposte sponde e ristabilire il vincolo comune spezzato. Il pontefice sperava che la coesistenza avvicinasse l’umanità alla pace e, per giustificare questa attesa, dovesse essere, in qualche modo, una coesistenza nella verità. Non si poteva costruire, nella verità, un ponte tra questi due mondi separati, se non appoggiandosi sugli uomini che vivevano nell’uno e nell’altro, e non sui loro regimi e sistemi sociali. Molti si offrivano per preparare la base dell’unità umana, ma, poiché essa sarebbe dovuta essere di natura spirituale, non erano certamente qualificati per questa opera gli scettici e i cinici, che riconducevano le più anguste verità e i più alti valori spirituali alla scuola di un materialismo, più o meno velato. Né lo erano quelli che non riconoscevano verità assolute e non accettavano obblighi morali,  sul terreno della vita sociale. Nell’attesa che il ponte spirituale cristiano, già esistente tra le due sponde, prendesse più efficace consistenza, i cristiani dei Paesi dove si godeva ancora del dono della pace, dovevano fare il possibile per affrettare l’ora del suo ristabilimento universale. Essi dovevano persuadersi che la verità dovesse essere vissuta e applicata in tutti i campi della vita, non restare chiusa in loro stessi. Più gravi conseguenze, concluse Pio XII, avrebbe causato all’ordine sociale e politico, la condotta dei cristiani che non avessero osservato i propri obblighi sociali nel maneggio dei loro affari economici.

 

I Papi, la guerra e la pace: Pio XII e il radiomessaggio Nell’alba e nella luce. Auspici di pace giusta e duratura, del 24 dicembre 1941

 

 

Eugenio Pacelli, asceso al soglio pontificio col nome di Pio XII, è stato il 260° papa della Chiesa Cattolica Romana. Nato a Roma, il 2 marzo 1876, fu eletto papa nel 1939. Segretario di Stato di Pio XI, tentò, in tutti i modi, di scongiurare la Seconda guerra mondiale. Morì il 9 ottobre 1958.

 

PioXII

 

Il radiomessaggio di Pio XII del 24 dicembre 1941 è conosciuto anche con l’espressione Il nuovo ordine internazionale. Il mezzo radiofonico permise al pontefice di comunicare con il mondo intero. Il contenuto, quindi, ancor più che il linguaggio, ne furono, in qualche modo, condizionati. Il radiomessaggio si collocò nel contesto del terribile inverno di una guerra, ormai estesa all’intera Europa, particolarmente violenta e sanguinosa nell’area orientale e balcanica. In una prospettiva di pace e di nuovo ordine internazionale, cinque erano, secondo il pontefice, gli elementi che sarebbero dovuti essere superati: la mortificazione dei diritti dei popoli; l’oppressione delle minoranze nazionali; gli accaparramenti e i monopoli economici; la guerra totale e la corsa agli armamenti e, infine, la persecuzione religiosa. Il nuovo ordinamento, che tutti i popoli desideravano fosse attuato, dopo le rovine della guerra, si sarebbe dovuto innalzare sulla vetta incrollabile e immutabile della legge morale, manifestata da Dio attraverso l’ordine naturale, da lui scolpita nei cuori degli uomini e la cui osservanza sarebbe dovuta essere promossa dall’opinione pubblica di tutte le Nazioni e di tutti gli Stati, con tale unanimità di voce e di forza, che nessuno potesse più osare di porla in dubbio o attenuarne il vincolo obbligante. Ecco, desunti dal messaggio del papa, i presupposti essenziali di un ordine internazionale che, assicurando a tutti i popoli una pace giusta e duratura, arrecasse benessere e prosperità. Nel campo di un nuovo ordinamento, fondato sui principi morali, non vi era posto per la lesione della libertà, dell’integrità e della sicurezza di altre Nazioni, qualunque fosse la loro estensione territoriale o la loro capacità di difesa. Se era inevitabile che i grandi Stati tracciassero il cammino per la costituzione di gruppi economici tra essi e le Nazioni più piccole e deboli, appariva incontestabile il diritto di queste ultime al rispetto della loro libertà nel campo politico, alla efficace custodia di quella neutralità nelle contese fra gli Stati, alla tutela del loro sviluppo economico, poiché soltanto in questo modo avrebbero potuto conseguire adeguatamente il bene comune e il benessere materiale e spirituale dei popoli. Inoltre, in questo nuovo ordinamento, non ci sarebbe stato posto per l’oppressione aperta e subdola delle peculiarità culturali e linguistiche delle minoranze nazionali, per l’impedimento e la contrazione delle loro capacità economiche, per la limitazione o l’abolizione della loro naturale produttività. Quanto più coscienziosamente l’autorità dello Stato avesse rispettato i diritti delle minoranze, tanto più certamente ed efficacemente avrebbe potuto esigere dai loro membri il leale compimento dei doveri civili, comunicagli altri cittadini. Né avrebbero trovato posto i calcoli egoistici, tendenti ad accaparrarsi le risorse economiche e le materie di uso comune, in modo che le Nazioni meno favorite dalla natura, ne restassero sprovviste. A tale proposito, si palesava necessario che una soluzione equa a questa questione, decisiva per l’economia del mondo, fosse trovata metodicamente e progressivamente, con le garanzie necessarie, traendo insegnamenti dalle mancanze e dalle omissioni del passato. Se nella pace futura non si fosse affrontata questa questione, sarebbe rimasta, nelle relazioni tra i popoli, la radice del contrasto, che avrebbe portato, inevitabilmente, a nuovi conflitti. Ancora, non ci sarebbe stato posto, una volta eliminati i più pericolosi focolai di conflitti armati, per una guerra totale, né per una sfrenata corsa agli armamenti. La sciagura di una guerra mondiale, con le sue rovine economiche e sociali e le sue aberrazioni morali, non avrebbe dovuto rovesciarsi 1050475098906sull’umanità per la terza volta. Per tutelare l’umanità da questo pericolo, sarebbe stato necessario procedere ad una limitazione progressiva e adeguata degli armamenti. Lo squilibrio tra un esagerato armamento degli Stati potenti e il deficiente armamento dei deboli, creava un pericolo per la conservazione della pace tra i popoli e consigliava di scendere ad un ampio e proporzionato limite nella fabbricazione e nel possesso di armi offensive. Infine, nel nuovo ordinamento prospettato dal papa, non ci sarebbe dovuta essere alcuna persecuzione della religione e della Chiesa. Dalla fede in Dio era generata la vigoria morale che investiva tutto il corso della vita. La fede non rappresentava soltanto una virtù ma era la porta attraverso la quale entravano nell’anima tutte le virtù. La fede era necessaria ai governanti così come ai semplici cittadini, per costruire una nuova Europa e un nuovo mondo, dopo la guerra. Per quanto riguardava le questioni sociali, che, a guerra terminata, si presentarono più acute, Pio XII, così come i suoi predecessori, individuò delle soluzioni le quali, però, avrebbero potuto portare i loro pieni frutti, soltanto se uomini di Stato e popoli, datori di lavoro e operai, fossero stati animati dalla fede in Dio.

 

L’Illuminismo a Milano: Il Caffè, Pietro Verri, Alessandro Verri e Cesare Beccaria

 

Il Caffè

Questa rivista, uscita in settantaquattro numeri, uno ogni dieci giorni, tra il giugno 1764 e il maggio 1766, raccolse intorno a sé i maggiori intellettuali dell’Illuminismo milanese. Fondata da Pietro Verri, ad essa facevano capo i membri dell’Accademia dei Pugni, società culturale tra i cui soci sarebbero stati annoverati anche Primo Carnera, Nino Benvenuti, Patrizio Oliva e caffe-201x300Agostino Cardamone (scherzo!), e così chiamata a causa dell’epilogo molto animato delle riunioni: scazzottate degne di Bud Spencer e Terence Hill. Gli articoli, tutti molto interessanti e riguardanti gli argomenti più vari e di interesse pubblico, ebbero le firme prestigiose di Pietro e Alessandro Verri, Cesare Beccaria, Pietro Secchi, Paolo Frisi, per citare i più autorevoli. Il comitato di redazione decise di rivolgersi ad un pubblico nuovo di lettori, non solo sapientoni e letterati, ma anche gente comune, piccoli professionisti, artigiani e donne. Questa fu una grande novità perché permise al sapere di uscire dalla torre d’avorio, dove, per secoli, era stato confinato, e di mettersi al servizio di tutti, secondo quel precetto tipicamente illuminista dell’uso intelligente della conoscenza per migliorare la società. Nei quattro fogli del Caffè, infatti, si poteva leggere tutto quello che era di interesse pubblico, dal commercio all’economia, dalla medicina all’agricoltura, dalla sanità alla politica.

Pietro Verri

Figlio del conte Gabriele e di Barbara Dati, nacque a Milano il 12 dicembre 1728. Il padre, col quale non ebbe mai un buon rapporto, fu molto severo, tanto da farlo studiare presso i collegi più terribili di Milano e provincia, esperienze che segnarono profondamente l’animo del giovane Pietro.Pietro_Verri Al ritorno in famiglia, i litigi col babbo ripresero più forti di prima, fino alla rottura definitiva, quando divenne l’amante di Maria Vittoria Ottoboni Boncompagni, moglie del duca Gabrio Serbelloni, gente molto in vista a Milano. Fu scandalo e il conte Gabriele, un alto funzionario del governo milanese, per lo scorno quasi non usciva più di casa. La relazione con la duchessa, donna molto colta e chic, instillò nel giovanotto la passione per il teatro e per la cultura francese, oltre che la voluttà nell’alcova. Il ménage con l’aristocratica amante, però, dopo qualche anno finì, lasciandolo così male da decidere di darsi alla vita militare, andando a combattere come ufficiale dell’esercito austriaco contro i prussiani. Al rientro a Milano fondò, col fratello Alessandro e i “pugili” della citata Accademia, Il Caffé e, allo stesso tempo, prese lavoro nell’amministrazione pubblica austriaca del capoluogo lombardo. A questi anni risale la composizione delle sue opere principali: le Meditazioni sull’economia politica, il Discorso sull’indole del piacere e del dolore, le Osservazioni sulla tortura, e i Ricordi a mia figlia, scritto per la figlioletta Teresa, nata proprio poche settimane prima. Posso dire con (quasi) certezza che, senza Pietro Verri e i suoi instancabili sforzi per la cultura e la sua diffusione, l’Illuminismo milanese sarebbe stato molto meno luminoso.

Alessandro Verri

Fratello minore di Pietro, nacque nel 1741 e fu più furbo del maggiore perché, per non farsi ammorbare oltremodo dal padre, molto presto, fece i bagagli e, dopo aver collaborato al Caffè, se ne andò Alessandro_Verria Parigi e Londra e, poi, a Roma, dove visse fino alla morte, nel 1816. Appassionato di teatro e lui stesso attore per diletto, fu uno dei primi a tradurre le opere di Shakespeare in italiano. Scrisse anche due romanzi, le Avventure di Saffo poetessa di Mitilene e la Vita di Erostrato. Avendo vissuto così tanto tempo lontano da Milano, pian piano, abbandonò lo spirito illuminista che aveva caratterizzato la prima fase della sua vita e ripiegò su visioni un po’ più cupe dell’esistenza, che saranno, poi, determinanti nel Romanticismo. Ne è prova una sua opera, le Notti romane al sepolcro degli Scipioni, scritto che compose in occasione del ritrovamento archeologico delle sepolture di quest’importante famiglia della Roma antica, in cui figura, che dalle tombe escano le ombre di romani illustri per discutere della grandezza e della rovina dell’impero più potente della Terra.

Cesare Beccaria

Il marchese Beccaria nacque a Milano nel 1738. Come Pietro Verri ebbe grosse e dure litigate con i genitori, a causa di una donna che, però, non era  moglie di un nobile conosciutissimo, quanto una ragazza di famiglia povera, Teresa Blasco, che lui amò tantissimo e che, grazie Cesare_Beccaria_in_Dei_delitti_cropanche all’aiuto proprio del Verri, il quale mediò con i suoi parenti, riuscì a sposare. Oltre ai contributi giornalistici al Caffè, Beccaria fece due cose importanti nella vita: la prima, diede i natali alla figlia Giulia, la futura madre di Alessandro Manzoni, e la seconda, scrisse Dei delitti e delle pene, un saggio che ebbe un successo esagerato in tutta Europa, tanto da farlo diventare l’idolo di molti dei filosofi dell’Illuminismo francese, in particolare di Voltaire. In questo trattato, colmo di spirito illuminista, Beccaria sostiene l’abolizione della pena di morte perché, a suo avviso, questa non fa né diminuire i crimini, né è buona come deterrente. “È più utile prevenire i delitti mostrando la certezza della pena – scrive l’autore – perché, per un criminale, è meglio morire che passare la vita in galera. Ma quando un ergastolano scappa dal carcere e mette in pericolo la vita dei cittadini, allora può essere messo a morte.” Questo libro dovrebbe rappresentare un articolo fondamentale della Costituzione di molti paesi del mondo, i quali, ahimè, evidentemente, ancora non hanno ancora visto o sentito parlare di Illuminismo.

 

Francesco Guicciardini e la storiografia moderna

 

Terzo figlio di Piero di Jacopo e Simona Gianfigliazzi, ricchi e influenti cittadini fiorentini fedeli ai Medici, nacque il 6 marzo 1483 e fu tenuto a battesimo nientemeno che da Marsilio Ficino – chissà quale influenza esercitò su di lui questo padrino così illustre! Il giovane Francesco apprese il diritto a Firenze, presso uno degli insegnanti più alla moda del tempo, messer Francesco Pepi. francesco-guicciardiniFu, poi, a Ferrara e a Padova, dove concluse gli studi presso la celeberrima Università cittadina. Rientrato a Firenze non ancora laureato, cominciò ad esercitare la professione forense e l’insegnamento. Nel 1508, contro il volere del padre, sposò Maria Salviati, figlia di Alamanno, potente aristocratico che aveva le mani in paste un po’ dappertutto nella città dell’Arno. Grazie proprio alle amicizie del suocero poté avviarsi alla carriera politica, che lo condusse rapidamente al successo. Fu ambasciatore in Spagna e, al ritorno dei Medici a Firenze, governatore di Modena, Reggio Emilia, Parma e, in seguito, di tutta la Romagna, incarico nel quale dimostrò carattere e grande abilità diplomatica. Nel 1527, dopo la cacciata dei Medici, a causa dei sospetti dei repubblicani che non si fidarono di lui, decise di ritirarsi nella sua villa al Finocchietto, fuori Firenze. Colà si dedicò alla scrittura, aspettando tempi migliori che, però, non arrivarono. Nel 1529, gli furono perfino confiscati i beni, costringendo lui e la sua famiglia a trasferirsi a Roma, presso papa Clemente VII, un Medici. Quando il potente casato mediceo, per la terza volta, rientrò in città, fu consigliere del duca Alessandro ma poco ottenne dal suo successore Cosimo I. Scelse, quindi, di abbandonare definitivamente la vita politica. Pochi anni dopo, nel 1540, il 22 maggio, morì.

Ricordi politici e civili

Presso le famiglie di ricchi mercanti o, comunque, molto facoltose, era consuetudine, da parte dei membri culturalmente dotati, redigere e collezionare brevi pensieri, aforismi, raccomandazioni pratiche ed etiche, consigli, rivolti ai congiunti. Guicciardini elaborò sentenze e precetti lungo tutta la vita, sin dalla prima gioventù. Da essi si intuisce molto bene quali fossero i reali pensieri dell’Autore e il suo modo di rapportarsi alla realtà, alla vita civile e alla politica.Doria-Pamphilij-Metsys-Usurai Non esistono verità universali! Questo è il suo punto di partenza. La realtà è così multiforme e mutevole che ricercare regole di comportamento generali è una mera perdita di tempo. Importante è che ogni uomo riesca ad accrescere la propria riputazione e quella della sua famiglia. Una regola, tutto sommato, può essere seguita: orientarsi al meglio attraverso tutti gli innumerevoli casi della vita, cercando di cavalcare la fortuna quando essa arride. Proprio per questo, l’uomo di successo, ben conscio che i rapporti sociali siano condizionati da falsità, errori e illusioni, deve soltanto occuparsi di sé, aumentando, ad ogni costo, la propria posizione, agendo segretamente senza mai far intendere ad alcuno i suoi intenti, dissimulando e mascherando. In una parola, deve agire pensando esclusivamente ai fatti propri. 

XIII. È molto utile el governare le cose sue segretamente, ma piú utile in chi si ingegna quanto può di non parere con gli amici; perché molti, come poco stimati, si sdegnono quando veggono che uno recusa di conferirgli le cose sue.

XVIII. È da desiderare piú l’onore e la riputazione che le ricchezze; ma perché oggidí sanza quelle male si ha e conserva la riputazione, debbono gli uomini virtuosi cercare non d’averne immoderatamente, ma tante che basti allo effetto di avere o conservare la riputazione e autoritá.

IL. Conviene a ognuno el ricordo di non comunicare e’ secreti suoi se non per necessitá, perché si fanno schiavi di coloro a chi gli comunicano, oltre a tutti gli altri mali che el sapersi può portare; e se pure la necessitá vi strigne a dirgli, metteteli in altri per manco tempo potete, perché nel tempo assai nascono mille pensamenti cattivi.

CLXXIV. Non mancate di fare le cose che vi diano riputazione, per desiderio di fare piacere e acquistare amici; perché a chi si mantiene o accresce la riputazione, corrono gli amici e le benivolenzie drieto; ma chi pretermette di fare quello che debbe, ne è stimato manco; e a chi manca la riputazione, mancano poi gli amici e la grazia. 

È chiaro come questa sia una vera lezione di opportunismo, egoismo e cinismo, comprensibile, certamente, se si tiene conto del contesto storico e familiare in cui visse l’Autore: per un aristocratico impegnato in politica, in un’epoca dove, d’improvviso, ci si poteva trovare con la testa avvoltolata in un cappio o con un pugnale piantato dietro la schiena, era necessario usare qualsiasi mezzo per riuscire a rimanere in auge, evitando di essere travolti dagli eventi.

Storia d’Italia

Quando Guicciardini cominciò a stendere quest’opera, era ormai in pensione. In gioventù, aveva scritto le Storie fiorentine dal 1378 al 1509, per cui, l’argomentazione storica e la sua metodologia non gli erano affatto sconosciute. 70231AnobilE’ stato questo il suo unico scritto elaborato per la pubblicazione, che, però, fu postuma, del 1561. L’esposizione include gli eventi compresi tra la morte di Lorenzo il Magnifico (1492) e quella di papa Clemente VII (1534). Lo scrittore ragiona della rovina dei principi e dei principati italiani, i quali sono passati dalla libertà della fine del ‘400 al dominio straniero, francese e spagnolo, del ‘500. Questi poco sagaci signori, a detta dell’Autore, credendo di essere assennati e prudenti, si sono fidati troppo degli stranieri, venendone, poi, travolti. Con impassibile distacco e cruda ironia, Guicciardini indaga le cause di questo decadimento italiano, il tutto seguito in maniera molto scrupolosa e dettagliata, grazie alle testimonianze di numerosi protagonisti e alla consultazione di materiali d’archivio (esaminò gran parte dell’archivio della Magistratura fiorentina). Proprio per questo, per il metodo che adoperò nella stesura della sua opera, Guicciardini può, a buon diritto, essere definito il padre della storiografia moderna.

 

La Guerra fredda

 

 

INTRODUZIONE

Il termine guerra fredda è stato coniato dal giornalista americano Walter Lippman per descrivere la situazione, presente a livello mondiale, in seguito all’esplosione della bomba atomica ad Hiroshima. La fine della Seconda guerra mondiale segnò il declino dell’egemonia europea sul mondo. Le due reali potenze vincitrici, ciascuna detentrice di una propria ideologia e di una propria promessa di benessere universale, risultarono essere gli USA e l’URSS, destinate a dominare gli equilibri mondiali del dopoguerra. Il modello statunitense si fondava sul capitalismo e sull’affermazione dell’economia di mercato su scala mondiale, mentre il modello di origine sovietica (socialismo), basato sulla filosofia marxista, prevedeva una lotta di classe sul piano internazionale, ovvero, uno scontro fra Paesi proletari e Paesi capitalisti. Durante il periodo degli anni ’50, noto, appunto col termine di guerra fredda, i due modelli e i relativi progetti di egemonia si fronteggiarono su scala planetaria. Si definì guerra, per la contrapposizione tra i contendenti e la mobilitazione militare sviluppatasi all’interno dei Paesi coinvolti, fredda, perché le armi prodotte e accumulate in realtà non furono utilizzate. Ciascuna delle due potenze possedeva armamenti distruttivi e sofisticati, sia convenzionali che nucleari. La competizione nell’accumulo di tali armi sostituì il loro uso effettivo e garantì il mantenimento dell’equilibrio. Tali armi, quindi, ebbero, principalmente, una funzione di dissuasione: minacciare l’avversario in modo da impedirgli qualsiasi azione aggressiva. Come affermato dal politologo francese Raymond Aron, la guerra fredda, tuttavia, vide anche l’utilizzo di altre armi: strumenti di persuasione e di sovversione. I due strumenti di persuasione furono rappresentati dalla diplomazia e dalla propaganda, basata, quest’ultima, su un uso spregiudicato dei mezzi di comunicazione di massa, tra cui la radio, e finalizzata a condizionare l’opinione pubblica dei Paesi avversari. La sovversione, invece, utilizzò strumenti clandestini, per infiltrarsi imagesnell’area dell’avversario e minarne le capacità di controllo: ne sono esempi la CIA (agenzia americana di intelligence, cioè di spionaggio e controspionaggio), e il KGB (agenzia sovietica di spionaggio e controspionaggio, interno e internazionale). Il periodo compreso tra il 1945 e gli anni ‘70 fu contrassegnato da una situazione di mobilitazione psicologica, economica e politica, come in precedenza si era verificata solo in periodi di guerra. Nel blocco sovietico, la mobilitazione consistette in una restrizione permanente delle libertà fondamentali, al fine di contrastare la minaccia imperialista; nel blocco occidentale, invece, nell’anticomunismo, con pesanti misure repressive, che portarono all’estromissione dal pubblico impiego di tutti i sospetti simpatizzanti comunisti (una vera caccia alle streghe!) e alla repressione delle minoranze, a partire dai neri, potenzialmente sovversive. Il periodo della guerra fredda presentò diverse fasi: una prima fase di guerra fredda vera e propria, 1947 ai primi anni ‘60, una seconda fase di distensione, dagli anni ‘60 ai primi anni ’70, e una terza fase di tensione internazionale, successiva al 1973.

 

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IL BLOCCO SOVIETICO

Nel dopoguerra, l’URSS era presente, militarmente, nei Paesi dell’Europa orientale, distrutti dalla guerra e che aveva liberato dal nazismo, ma, nello stesso tempo, rappresentava il Paese maggiormente devastato economicamente e demograficamente. Quindi, per garantire la propria sicurezza e la propria ripresa economica, creò una sfera di influenza su quei Paesi, caratterizzati da un regime analogo al socialismo. Il piano sovietico, nel periodo 1945-48, si basò sull’idea delle cosiddette democrazie popolari. I Paesi interessati non passarono direttamente al socialismo (stato a partito unico, collettivizzazione dell’agricoltura, nazionalizzazione images (2)dell’economia) ma attraversarono una fase transitoria, che vide insediarsi governi di coalizione, nei quali, il partito comunista assumeva un’influenza superiore rispetto agli altri e avviava una progressiva introduzione di elementi di socialismo. Nel 1947, tale progetto gradualistico di controllo sui Paesi orientali subì una brusca svolta, dovuta all’offerta americana di estendere ad essi gli aiuti del Piano Marshall. Questo progetto di finanziamento alla ricostruzione dei Paesi distrutti dal conflitto, interessò numerosi governi dell’Europa orientale e, in tal modo, l’egemonia economica statunitense minacciò di estendersi oltre l’Elba. Andrej Zdanov, stretto collaboratore di Stalin e presidente del Soviet supremo (organo legislativo dell’URSS) definì il Piano Marshall, durante un discorso pronunciato a Varsavia, in occasione del convegno di fondazione del Cominform (organismo che prese il posto del Comintern, cioè la Terza Internazionale), “un’arma dei disegni imperialistici americani“. Invitò, pertanto, tutti i Paesi amici dell’URSS ad opporvisi. Nello stesso 1947, si verificò un grave dissidio tra URSS e Jugoslavia, la quale mirava alla costruzione di un regime socialista autonomo e non direttamente condizionato dall’influenza sovietica. Tale contrasto comportò una rottura clamorosa nella sinistra internazionale e nel blocco sovietico. Nel blocco sovietico nacquero regimi di tipo staliniano, in Cecoslovacchia fu soppresso, nel 1948, il governo di coalizione e il leader comunista Klement Gottwald assunse la presidenza della Repubblica, guidando la trasformazione del Paese in una images (3)democrazia popolare, in cui non era previsto il pluralismo dei partiti. In altri Paesi, il regime a partito unico si impose, di fatto, salvaguardando (Polonia e Ungheria) la facciata di partiti socialdemocratici o contadini. Tra il 1948 ed il 1953, si potenziò il controllo sovietico sui Paesi satelliti dell’URSS. Sul piano economico, si assistette alla nascita del Comecon (1949), un organismo centralizzato di coordinamento, che comportò la chiusura degli scambi con l’Occidente e favorì lo sviluppo dell’URSS. Sul piano politico, ebbe luogo il processo già avvenuto in URSS: in Ungheria (processo Rajk), così come in Cecoslovacchia (processo Slansky) si effettuarono grandi purghe di comunisti, che il regime reputava eccessivamente nazionalisti. Fu, così, negata, all’interno dei partiti comunisti, qualsiasi possibilità di dibattito. Nel 1953, si verificò la prima crisi politica del blocco sovietico, pochi mesi dopo la morte di Stalin, avvenuta nel mese di marzo. La prima rivolta in cui i lavoratori manifestarono contro le proprie misere condizioni di vita, fu a Pilsen (Cecoslovacchia), seguita da Berlino Est, capitale della Germania Orientale (Repubblica Democratica Tedesca). Nel 1955, il Patto di Varsavia comportò un potenziamento delle alleanze militari tra gli stati dell’Europa orientale, nei quali la leadership sovietica tentò una sorta di liberalizzazione. Si concesse, quindi, qualche spazio a leader emergenti (Imre Nagy, in Ungheria), si ridimensionarono i capi di stato più compromessi e si intraprese una graduale riconciliazione con la Jugoslavia.

L’EUROPA NEL 1956:NATO E PATTO DI VARSAVIA. IL SISTEMA DI ALLEANZE AMERICANO

Durante gli anni ‘40 e i primi anni ’50, gli USA realizzarono un sistema di alleanze politiche, militari ed economiche, mirato a contrastare la minaccia comunista e a risolvere il problema del declino degli imperi coloniali e della trasformazione degli equilibri economici, presenti a livello mondiale. Nei primi anni del dopoguerra, gli USA diventarono il Paese-guida di uno dei due grandi blocchi, formatisi contemporaneamente durante quel periodo: il blocco sovietico e il blocco occidentale, entrambi aspiranti ad ottenere l’egemonia planetaria. A partire dal 1947, la politica di contenimento del comunismo, lanciata dal presidente Harry Truman, permise agli USA di abbandonare l’isolazionismo e fu ritenuta la più idonea a realizzare, nella migliore images (4)maniera, gli interessi economici e politici americani. Si aprì, così, una fase in cui, negli USA, politica estera e finanza si muovevano di pari passo. Il 5 giugno 1947, il Segretario di Stato americano, George Marshall, annunciò il Programma per la ripresa economica europea (ERP), destinato a fornire aiuti economici per i Paesi europei, per oltre 13 miliardi di dollari: tale Programma è conosciuto con il nome di Piano Marshall. Il piano, originariamente ideato per favorire anche l’Unione Sovietica e la sua crescente sfera di influenza, prevedeva che l’offerta di aiuto economico all’URSS fosse accompagnata da un cambio di politica, comportando, quindi, negli anni immediatamente successivi al lancio del piano, una netta rottura tra i due blocchi. Il Piano Marshall, tuttavia, non aveva soltanto un fine economico, quanto anche politico: mirava, infatti, a far crescere, all’interno dei Paesi europei, l’influenza dei gruppi politici moderati, a discapito di quelli comunisti, e auspicava di ottenere una riconciliazione con la Germania (privata della sua parte orientale). A distanza di due anni nacque un’alleanza militare tra gli USA e i Paesi Europei ad ovest di Trieste: l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO). Con la progressiva fine del colonialismo e la conseguente dissoluzione degli imperi coloniali, si temeva un allargamento della sfera di influenza sovietica. Sulla base di questa situazione, la politica degli USA prevedeva di non intervenire nelle aree di rivolta considerate meno rischiose (Nordafrica e India), di convincere Gran Bretagna e Francia ad aprire le loro aree imperiali al commercio internazionale, a potenziare la propria influenza economica e politica a livello europeo e mondiale, come in Grecia e in America Latina, unita agli USA, dal 1948, nell’Organizzazione degli Stati Americani, e di sostenere il colonialismo nelle aree a rischio di espansione del comunismo (colonie francesi dell’Indocina). In seguito alla vittoria del comunismo in Cina, avvenuta alla fine degli anni ‘40, gli USA costruirono, in Asia orientale, un sistema di alleanze politico-militari più complesso e agguerrito di quello creato in Europa, finalizzato a contenere il comunismo. In Giappone, inizialmente occupato dalla potenza americana al fine di disarticolare le basi economiche, politiche e ideologiche del militarismo nipponico, e come forma punitiva per la guerra, si passò, dal 1948-49, durante il governatorato di Douglas MacArthur, ad una politica di incoraggiamento della ripresa economica analoga a quella prevista dal Piano Marshall. A cinque anni da Hiroshima, Giappone e USA passano da Paesi nemici a stretti partner economici e politici. In molti Paesi asiatici, attraversati dalla crisi del colonialismo, gli USA tentarono di sperimentare una soluzione analoga a quella adottata in Germania: la Corea fu divisa in una Repubblica Democratica Socialista (Nord) e in una Repubblica di Corea (Sud), fortemente sostenuta dall’aiuto economico e militare americano; il Vietnam, dopo il 1954, fu suddiviso in Repubblica Democratico-Socialista, al nord, e in uno stato filoamericano al sud; in Cina, dopo la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese, a Pechino, gli USA tentarono di sostenere economicamente la Repubblica Cinese, insediatasi nell’isola di Taiwan, come unica vera rappresentante del popolo cinese. Questa politica aveva l’obbiettivo di opporre al comunismo degli stati socialisti, nati per via rivoluzionaria nei Paesi colonizzati, un sano nazionalismo asiatico, ispirato ad un modello di Stato nazionale libero (in realtà, quasi sempre dittatoriale).