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La religione entro i limiti della semplice ragione
di Immanuel Kant

Critica della ragion religiosa

 

 

 

 

La religione entro i limiti della semplice ragione di Immanuel Kant, pubblicata nel 1793, analizza il rapporto tra la religione e la razionalità, proponendo una visione in cui la prima è interpretata attraverso il prisma della ragion pura, senza dipendenza dalle rivelazioni o dagli insegnamenti specifici di una fede particolare.
Kant si muove nell’ambito della sua critica della ragion pura e pratica, estendendo l’indagine alla religione. Sostiene che la moralità, non la dottrina dogmatica o i miracoli, dovrebbe essere la vera essenza della religione. La tesi principale è che la vera religione debba essere universale, basata sulla ragione e accessibile a tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro cultura o background religioso.
Il filosofo comincia la trattazione operando una distinzione tra religione naturale e religione razionale, entrambe considerate alternative alle religioni rivelate, come il cristianesimo tradizionale, ma differenti significativamente nei loro approcci e presupposti.
La religione naturale si fonda sull’osservazione del mondo naturale e dell’universo, da cui si traggono inferenze sulla natura e sull’esistenza di un Creatore. Questa forma di religione è accessibile agli esseri umani attraverso l’uso della ragione e dell’esperienza sensoriale, senza necessità di rivelazione divina o testi sacri. Kant ritiene che la religione naturale sia una forma di fede che rispetta i limiti della conoscenza umana ed evita superstizioni e dogmi. Nonostante ciò, la religione naturale da sola è limitata, poiché non può fornire una guida completa per la moralità, che il filosofo considera essenziale.
La religione razionale, invece, è strettamente legata all’etica kantiana e si basa interamente su principi razionali. Non solo accetta l’esistenza di Dio, causata dalla necessità di un ordine morale universale, ma pone anche i principi morali come fondamentali per la comprensione e la pratica della religione. La religione razionale trascende la semplice osservazione del mondo naturale e integra le nozioni di dovere e legge morale come manifestazioni della volontà divina. La religione razionale è quindi superiore alla religione naturale, perché incorpora la ragione pura e pratica, fornendo una base solida per un’etica universale che promuova la giustizia e la benevolenza.
Nel trattare il cristianesimo, Kant si impegna in una critica costruttiva, riconoscendone il valore delle dottrine centrali, pur sottoponendole al giudizio della ragion pura. La sua analisi del cristianesimo non mira a respingere la religione rivelata in toto, ma a purificarla dagli elementi superstiziosi e dogmatici, per rivelarne il nucleo morale universale. Critica aspetti del cristianesimo che ritiene basati su dogmi irrazionali, come la dipendenza da miracoli e rivelazioni che non possono essere giustificate attraverso la ragione, sostenendo che tali elementi distolgano dalla vera essenza della religione, ovvero il perseguimento del bene morale. Al contempo, stima il cristianesimo per il suo forte accento sulla moralità, in particolare, l’etica dell’amore e del sacrificio personale, rappresentati dalla figura di Gesù Cristo, visto come l’archetipo dell’“uomo morale”, la cui vita esemplifica la conformità alla legge morale universale, elementi ritraenti l’ideale della moralità che la religione razionale cerca di favorire. Il filosofo, pertanto, propone una reinterpretazione razionalizzata del cristianesimo, un cristianesimo purificato che funga da guida morale universale.

La sua concezione è quella di una religione che, pur mantenendo le sue radici storiche e culturali, sia riformata per rispettare i principi della ragion pura e pratica, rendendola, così, vera e universale. Questa prospettiva sfida i credenti a riflettere sulle basi razionali della loro fede e suggerisce che la vera religiosità dovrebbe promuovere, anziché ostacolare, il progresso morale dell’umanità.
Tra le questioni più significative affrontate in quest’opera vi è quella riguardante la natura del male e del peccato. Kant introduce il concetto di “male radicale” nella natura umana, un’inclinazione verso il male che coesiste con la capacità dell’uomo di riconoscere e seguire il bene morale. Questo conflitto interno è generale e non può essere superato soltanto attraverso gli sforzi umani, richiedendo, invero, un cambiamento del cuore o una sorta di rinascita spirituale. Kant rimarca che la religione dovrebbe assecondare la moralità, non sostituirla, opponendosi a interpretazioni religiose che pongono la fede sopra la moralità o che giustificano azioni immorali attraverso la fede.
Altro aspetto importante è il ruolo di Dio nell’etica kantiana. Dio emerge non tanto come una figura da temere o adorare in senso tradizionale, ma come un ideale morale supremo verso il quale l’umanità dovrebbe tendere. Kant sostiene che l’idea di Dio serva quale punto di orientamento morale per facilitare l’aspirazione dell’uomo alla santità, ritenuta conformità alla legge morale.
La religione entro i limiti della semplice ragione è un’opera che sfida sia i credenti che gli scettici, invitandoli a considerare la religione da una prospettiva critica e razionale. Nonostante le sue premesse possano essere considerate radicali, specialmente nel contesto del XVIII secolo, il tentativo di Kant di armonizzare la fede con la ragione rimane una pietra miliare nel pensiero filosofico e religioso. L’opera sollecita una riflessione continua sulle basi della fede e sull’importanza della moralità, rendendola perennemente rilevante nel dialogo contemporaneo tra filosofia e religione.

 

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La Volontà e la Potenza

Schopenhauer e Nietzsche a confronto

 

 

 

 

Il confronto tra il concetto di Volontà in Arthur Schopenhauer e quello di volontà di potenza in Friedrich Nietzsche rappresenta un tema fondamentale nella filosofia moderna, evidenziando le profonde differenze di visione tra i due pensatori riguardo alla natura umana e al significato dell’esistenza.
Per approfondire tale raffronto, è utile esaminare le implicazioni ontologiche, etiche e pratiche di ciascun concetto, oltre che il contesto storico-filosofico che ha influenzato queste teorie.
Schopenhauer fonda la sua visione sul concetto di noumeno kantiano, ossia la realtà che esiste al di là della nostra percezione sensoriale. In Il mondo come volontà e rappresentazione, sostiene che, sebbene il mondo come lo percepiamo sia una rappresentazione mentale, esiste una realtà sottostante: la Volontà. Questa non è la volontà individuale e conscia di una persona, ma una forza universale e cieca, che opera al di sotto della superficie di tutte le cose, manifestandosi nel desiderio incessante di vivere, crescere e perpetuarsi.
Schopenhauer ritiene che questa Volontà sia priva di razionalità e significato, portando inevitabilmente alla sofferenza. Ogni essere umano, spinto da questo desiderio incessante, si trova in una condizione di perenne insoddisfazione. La felicità, nella visione schopenhaueriana, è transitoria e momentanea, poiché raggiungere un obiettivo non fa che generare nuovi desideri e perpetuare il ciclo di frustrazione.
La sua prospettiva pessimista è chiara quando afferma: “La vita è essenzialmente dolore, e tanto più si sale nella perfezione della forma, tanto più il dolore aumenta”. “La vita umana deve essere una sorta di errore: la sua condizione preminente è in ogni caso la sofferenza” (Il mondo come volontà e rappresentazione).
Per Schopenhauer, la redenzione dall’incessante sofferenza generata dalla Volontà è possibile solo attraverso la negazione del volere, che può essere raggiunta tramite pratiche ascetiche, la contemplazione estetica e un distacco radicale dai desideri materiali. Questo avvicinamento alla tradizione filosofica orientale, in particolare al buddhismo, implica una via di liberazione che abbandona la lotta e accetta la rinuncia come strada verso la serenità.

Nietzsche riformula l’idea di Volontà, trasformandola in una forza creativa ed essenziale per la realizzazione dell’individuo. A differenza della Volontà schopenhaueriana, che è cieca e dolorosa, la volontà di potenza è un impulso positivo, vòlto all’affermazione, alla crescita e al superamento dei propri limiti. Nei suoi scritti, tra cui Al di là del bene e del male e Così parlò Zarathustra, Nietzsche sviluppa un pensiero in cui la volontà di potenza rappresenta la spinta fondamentale che anima l’intero universo e si manifesta in tutti gli esseri viventi come desiderio di affermarsi e migliorarsi.
La volontà di potenza nietzschiana non è solo un’energia vitale, ma è un principio ontologico che trasforma la vita in un atto creativo. Questo concetto si contrappone alla morale tradizionale e alla visione ascetica proposta da Schopenhauer. Nietzsche critica apertamente la negazione della volontà e la visione pessimistica della vita, vedendo in esse un segno di debolezza e di decadenza. La sua filosofia, invece, celebra la vitalità, l’audacia e la capacità di creare nuovi valori in un mondo privo di significato intrinseco.
Come Nietzsche dichiara in La gaia scienza: “Dio è morto. Dio resta morto. E noi lo abbiamo ucciso. […] Non è forse la grandezza di quest’atto troppo grande per noi? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, solo per esserne all’altezza?”. Questa affermazione sottolinea l’idea che, senza un ordine cosmico prestabilito o valori assoluti, l’uomo è libero (e obbligato) a forgiare il proprio destino attraverso la propria volontà di potenza. L’essere umano, secondo Nietzsche, deve abbandonare il risentimento e l’atteggiamento rinunciatario per diventare il superuomo (Übermensch), un individuo che crea e impone i propri valori senza essere limitato dalle morali tradizionali.
Dal punto di vista etico, Schopenhauer e Nietzsche propongono due visioni diametralmente opposte. Schopenhauer vede nella compassione e nella rinuncia agli impulsi egoistici un ideale morale, influenzato anche dalla sua conoscenza del pensiero buddista e della mistica orientale. Il suo etos è incentrato sull’empatia e sulla comprensione del dolore universale, considerando la pietà e l’autodisciplina come virtù suprema.
Nietzsche, al contrario, rigetta la compassione come debolezza e promuove un’etica del potere e dell’affermazione. Egli accusa la morale cristiana e quella schopenhaueriana di promuovere un’etica dei deboli, soffocando l’autentico potenziale umano. Il superuomo nietzschiano, che incarna la volontà di potenza, rappresenta colui che trasforma la propria esistenza in un’opera d’arte, accettando la lotta, il conflitto e persino la sofferenza come parti integranti del processo di crescita.
L’approccio schopenhaueriano si riflette anche nella sua concezione dell’arte, vista come un mezzo per sublimare la Volontà e trovare momentaneo sollievo dal ciclo di desiderio e sofferenza. L’esperienza estetica permette di distaccarsi dal mondo della rappresentazione e di cogliere, per un attimo, la quiete. La musica, per Schopenhauer, è l’arte suprema perché esprime direttamente l’essenza della Volontà.
Nietzsche, che inizialmente apprezza Schopenhauer, si distacca progressivamente da questa visione, sviluppando una concezione dell’arte come manifestazione della volontà di potenza. In La nascita della tragedia, approfondisce la tensione tra il dionisiaco e l’apollineo, celebrando il dionisiaco come simbolo della forza creatrice e distruttiva della vita, l’incarnazione della volontà di potenza. L’arte, per Nietzsche, non è una fuga dalla realtà, ma un’affermazione della vita stessa, con tutte le sue contraddizioni.
La differenza tra la Volontà di Schopenhauer e la volontà di potenza di Nietzsche, pertanto, è molto più di una semplice opposizione concettuale; rappresenta due visioni del mondo e della vita umana profondamente diverse. La Volontà di Schopenhauer è un impulso cieco che porta inevitabilmente alla sofferenza e dalla quale l’uomo deve distaccarsi per trovare pace. Al contrario, la volontà di potenza nietzschiana è un principio affermativo e dinamico, che vede nella lotta e nel superamento di sé stessi la più alta espressione dell’essere umano. Mentre Schopenhauer invita alla rassegnazione e alla compassione, Nietzsche incita all’azione e al superamento. Queste visioni divergenti hanno influenzato profondamente non solo la filosofia, ma anche la letteratura, l’arte e la cultura moderna, stimolando riflessioni sul significato della vita, del potere e della sofferenza.

 

 

 

 

 

Degni della felicità

Il comandamento dell’etica kantiana

 

 

 

 

L’etica non è esattamente la dottrina che ci insegna come essere felici, ma quella che ci insegna come possiamo fare per renderci degni della felicità”. Questa frase di Kant, contenuta nella Critica della ragion pratica (libro II, capitolo 2, par. 5), costituisce uno dei vertici della sua riflessione morale ed è anche una critica netta a ogni forma di etica strumentale, cioè a quelle dottrine morali che fanno del conseguimento della felicità l’obiettivo primario della condotta umana. In una sola frase, Kant mette in discussione un intero modo di intendere la vita morale, ancora oggi molto diffuso: l’idea che la morale sia uno strumento al servizio del benessere personale. Per Kant, questa è una confusione pericolosa.
Per capire a fondo questa affermazione, bisogna partire da una domanda: che cos’è la felicità, secondo Kant? Nella Critica della ragion pratica (libro II, capitolo 2, par. 4), il filosofo definisce così la felicità: “A meno che, nello stesso tempo, l’intera nostra natura non venisse trasformata, le inclinazioni, che in ogni caso si fanno sentire per prime, esigerebbero anzitutto la loro soddisfazione; e, congiunte con la riflessione razionale, una loro soddisfazione massima e duratura, che prende il nome di felicità”.
Questa definizione, però, è problematica: i desideri cambiano, entrano spesso in conflitto tra loro e ciò che oggi ci rende felici può domani rivelarsi fonte di insoddisfazione o rimpianto. La felicità, dunque, è una meta incerta, troppo legata al caso, alla contingenza, agli eventi esterni.
Kant non nega che la felicità sia importante per l’essere umano – anzi, riconosce che è un fine naturale per ogni individuo. Ma insiste sul fatto che la morale non può basarsi su di essa, perché i princìpi etici devono avere validità universale, indipendentemente dai gusti, dalle emozioni o dalle circostanze personali. L’etica non può fondarsi su qualcosa di così instabile come la felicità individuale.
Per Kant, l’etica è legata alla legge morale, che ciascun essere razionale può riconoscere dentro di sé tramite la propria ragione. Questa legge non si basa sul calcolo dei benefici ma sull’imperativo categorico, un principio che comanda un’azione come giusta in sé, universalizzabile, senza dipendere da altri fini. Ad esempio: “Io non devo mai comportarmi in modo tale da non ‘poter volere che la mia massima divenga una legge universale’” (Fondazione della metafisica dei costumi, sez. I).
Kant ribadisce che non esiste una “ricetta” morale per essere felici. Al contrario: può darsi che, facendo il proprio dovere, si finisca per rinunciare alla felicità. Ciò, comunque, non toglie valore all’azione; anzi, ne costituisce la grandezza morale. Pensiamo a chi dice la verità anche a costo di rimetterci, a chi si prende cura degli altri senza riceverne nulla in cambio, a chi lotta per la giustizia pur sapendo che non ne ricaverà alcun vantaggio. Queste azioni non sono felici nel senso comune ma sono moralmente degne.


La parola chiave della frase iniziale è “degni” della felicità. Kant non ritiene che la morale ci insegni a ottenere la felicità ma che ci educhi a meritarla. Questo è un passaggio decisivo. In un mondo giusto, ci aspetteremmo che chi agisce bene venga ricompensato, che la virtù sia premiata dalla felicità. Ma il mondo reale, lo sappiamo, non funziona così. La felicità è spesso distribuita in modo arbitrario e persone moralmente integre possono vivere nella sofferenza o nella sventura. Kant, però, ritiene che la ragione umana debba postulare una connessione tra virtù e felicità, perché altrimenti l’agire morale rischierebbe di apparire inutile o assurdo. Ecco, allora, l’idea del postulato dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima: non come prove teologiche ma come esigenze pratiche. Solo in una prospettiva che supera il mondo empirico – cioè in un ordine morale ideale – possiamo credere che chi agisce rettamente sarà, alla fine, felice in quanto lo merita. Non perché ha seguito una strategia ma perché è una persona giusta.
Nell’enunciato in apertura è contenuta anche una critica implicita, e fortissima, all’etica utilitarista. L’utilitarismo, in tutte le sue forme, assume che il criterio fondamentale dell’agire morale sia la massimizzazione della felicità o del piacere (individuale o collettivo). Per Kant, questo è un errore concettuale: rende la morale uno strumento subordinato a uno scopo variabile, soggettivo e incerto. Un’etica costruita su questi presupposti può giustificare azioni moralmente inaccettabili se producono un risultato “utile”. Kant rifiuta questo relativismo morale: per lui, esistono azioni che devono essere compiute (o evitate) non per le loro conseguenze ma per il principio che incarnano. È questo che distingue la persona morale dall’individuo semplicemente calcolatore.
Nel mondo contemporaneo, dominato dall’idea che ogni scelta debba portare vantaggi immediati o benessere psicologico, il messaggio kantiano è più che mai controcorrente. In un’epoca in cui la felicità è diventata un prodotto da inseguire, spesso misurato in termini di successo, visibilità, gratificazione istantanea, Kant ci costringe a guardare oltre. La domanda che ci rivolge è scomoda ma necessaria: che tipo di persona stai diventando, mentre insegui ciò che ti fa stare bene? Stai agendo in modo giusto o solo in modo utile? Sei felice o stai vivendo in modo tale da meritare la felicità, qualora dovesse arrivare?
Kant ci propone un’etica esigente, eppure profondamente rispettosa della nostra dignità razionale. Non ci promette ricompense automatiche né una vita comoda. Ci mostra che la vera grandezza dell’essere umano sta nella capacità di scegliere il bene anche quando non conviene. L’etica non serve a renderci felici, serve a renderci degni della felicità. E questa distinzione, tanto semplice quanto radicale, è ciò che fa della morale kantiana una delle conquiste più alte del pensiero filosofico occidentale.

 

 

L’amore in Spinoza

La forza che unisce individuo, natura e divino

 

 

 

 

L’amore, secondo Spinoza, è un affetto che si radica profondamente nella nostra capacità di comprendere e interagire con il mondo. Nel suo capolavoro, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico (1677), lo definisce come «gioia concomitante con l’idea di una causa esterna». Spinoza, quindi, colloca l’amore tra gli affetti, quelle modificazioni della mente che aumentano la nostra potenza di agire. L’amore non è un semplice sentimento individuale, ma un’esperienza relazionale che ci rende più vivi, più attivi e più immersi nella realtà. Esso si manifesta come un movimento verso l’alterità, guidato dal desiderio, che il filosofo concepisce come una tensione naturale verso ciò che ci completa e ci arricchisce.
Nell’Etica, Spinoza attribuisce all’amore una dimensione virtuosa, fondata sulla comprensione profonda degli altri e della realtà divina. Egli distingue tra vari tipi di amore, a seconda del livello di comprensione coinvolto. Alla base dell’amore vi è la volontà, intesa non come arbitrio individuale, ma come una forza creativa che esprime la nostra essenza. Nella Parte III dell’Etica, Spinoza spiega che il nostro conatus, lo sforzo intrinseco di ogni essere di perseverare nel proprio essere, genera gli affetti, tra cui l’amore. La volontà, quindi, non è un’entità separata, ma il principio dinamico che ci spinge a costruire relazioni autentiche con gli altri e con il mondo.
La comprensione degli altri è centrale nell’amore spinoziano. Gli esseri umani, essendo parte di un unico ordine naturale, possono comprendere e amare gli altri riconoscendoli come espressioni della stessa sostanza divina. Questo amore, quindi, non è solo un atto di connessione individuale, ma un riconoscimento della nostra interconnessione universale.

Un aspetto fondamentale del pensiero di Spinoza è il legame tra amore e socialità. Nella Parte IV dell’Etica, il filosofo afferma che il bene supremo degli esseri umani risiede nella capacità di vivere in armonia con gli altri. L’amore diventa, quindi, il principio sostanziale per la costruzione di relazioni sociali positive. Spinoza scrive che «il bene supremo degli uomini consiste nel fatto che essi possano vivere in concordia e che uniti formino, per così dire, un’unica mente e un unico corpo».
L’amore, quindi, non è un sentimento egoistico o possessivo, ma una forza che promuove il bene comune, rafforzando i legami tra gli individui. Le relazioni sociali si sviluppano in base agli affetti e l’amore rappresenta l’apice di questa dinamica. È un principio che consente agli esseri umani di esercitare la loro socialità in modo armonico e virtuoso, costruendo una società basata sulla comprensione e sulla collaborazione.
Per Spinoza, non esiste una gerarchia tra le diverse forme di amore. Questo principio si basa sulla sua concezione monistica, secondo cui tutto ciò che esiste è espressione di una sostanza unica, Dio. Ogni forma di amore è una manifestazione di questa sostanza e non può essere valutata in termini di superiorità o inferiorità.
L’amore per un individuo, l’amore per la natura e l’amore per Dio sono tutte espressioni di una stessa forza vitale che permea l’universo. Questa prospettiva elimina la separazione tra amore terreno e amore spirituale, riconoscendo l’unità fondamentale di tutte le cose. Come afferma nella Parte V dell’Etica, la vera beatitudine consiste nella conoscenza e nell’amore di questa unità, che ci libera dalle passioni e ci permette di vivere in armonia con l’ordine eterno della natura.
L’amore, pertanto, non è un ideale astratto o un fine da raggiungere, ma una virtù inalienabile che si realizza nella relazione con gli altri e con il mondo. È una forza che ci spinge a comprendere gli altri, a costruire legami autentici e a riconoscere la nostra appartenenza a una realtà infinita. La forma più alta è l’amor Dei intellectualis (amore intellettuale di Dio), che rappresenta la massima espressione di amore. Questo amore non è una passione mutevole, ma una conoscenza adeguata della sostanza unica, Dio, che Spinoza identifica con la Natura (Deus sive Natura). Amare Dio, quindi, significa riconoscere l’ordine eterno e necessario della realtà e vivere in accordo con esso. Tale amore intellettuale non è un’esperienza mistica o trascendente, ma una forma di comprensione razionale e profonda che ci lega alla natura e agli altri esseri umani. In questa prospettiva, amare Dio equivale a comprendere la perfezione e l’unità della natura, accettando la nostra partecipazione a un ordine universale.
Amare, per Spinoza, significa vivere pienamente la nostra natura, riconoscendo l’unità di tutto ciò che esiste. L’amore è al tempo stesso una forza sociale e un principio conoscitivo, che ci guida verso una libertà autentica, fondata sulla comprensione razionale e sull’armonia con il tutto. Nell’amore si riflette l’essenza stessa dell’etica spinoziana: la ricerca della libertà attraverso la comprensione e l’unità con il mondo.

 

 

 

 

Il potere e la legge

L’ordine politico secondo Giovanni di Salisbury

 

 

 

 

 

Giovanni di Salisbury (circa 1115-1180), filosofo, ecclesiastico e umanista ante litteram, è tra gli intellettuali più originali del pensiero politico medievale. Vissuto in un’epoca di intensi conflitti tra Chiesa e monarchia, ha lasciato come eredità il Policraticus, un’opera che unisce critica sociale, riflessione morale e proposta politica, dando vita a un modello di potere fondato sulla legge, sulla virtù e sul servizio al bene comune.
Redatto tra il 1156 e il 1159, durante l’esilio di Giovanni al seguito di Thomas Becket, il Policraticus sive de nugis curialium et vestigiis philosophorum si presenta come un testo duplice: da un lato, una feroce denuncia delle “sciocchezze dei cortigiani”, dall’altro, un’indagine rigorosa sui fondamenti della legittimità politica e sull’obbligo morale del principe. L’opera nasce, dunque, da una crisi concreta – quella tra l’arcivescovo di Canterbury e il re Enrico II – ma si eleva a una riflessione di portata universale, in cui il potere è sottoposto al giudizio della ragione e della legge divina.
Il Policraticus si articola in otto libri. I primi trattano con tono ironico e amaro della decadenza morale delle corti e dell’arroganza dei funzionari pubblici; i successivi si spostano su un piano teorico, esponendo una filosofia del potere che recupera e rielabora la tradizione classica, filtrata attraverso la sensibilità cristiana. Questo passaggio dall’attacco polemico alla costruzione speculativa non è casuale: Giovanni mostra come la corruzione delle istituzioni sia sintomo di un problema più profondo, ossia l’allontanamento del potere dalla sua vera funzione: servire la giustizia.
L’intero impianto dell’opera è dunque orientato alla riforma, intesa non come cambiamento strutturale ma come ritorno all’ordine naturale e divino. In questo senso, il Policraticus può essere letto quale manuale per il buon governo, ma anche esortazione alla responsabilità personale e collettiva.
Al centro della teoria politica di Giovanni vi è la concezione dello Stato come un organismo vivente, in cui ogni parte svolge una funzione necessaria per la salute del tutto. Questa immagine, già presente nella filosofia greca e romana – da Platone a Cicerone, passando per l’epistolario di Paolo di Tarso – assume in Giovanni una dimensione normativa. Il principe è la testa del corpo politico, sede della razionalità e dell’orientamento; il consiglio dei sapienti ne costituisce il cuore, fonte della prudenza e della deliberazione; i giudici sono gli occhi, che distinguono il giusto dall’ingiusto; i soldati sono le mani, deputate alla difesa e all’azione; il popolo costituisce le membra inferiori, fondamentali per la stabilità e il movimento dell’insieme. Tuttavia, questo equilibrio può facilmente degenerare. Quando la testa agisce senza ascoltare il cuore o quando gli occhi si lasciano accecare dalla corruzione, l’intero corpo si ammala. Giovanni non propone una metafora puramente descrittiva ma una vera e propria teoria della responsabilità funzionale: ogni componente dell’ordine politico deve operare in vista del bene comune e chi tradisce questa funzione, come i cortigiani adulanti o i giudici venali, contribuisce al disfacimento dell’intero organismo sociale.
Nel pensiero di Giovanni, il potere non è mai un fatto bruto o una concessione divina arbitraria. Esso trova la sua giustificazione solo nel rispetto della legge. La legge, a sua volta, non è semplicemente un insieme di norme positive: è un ordine superiore, fondato sulla ragione e voluto da Dio. Giovanni distingue chiaramente tra legge naturale, legge divina e legge positiva. La prima è impressa nell’animo umano e riconoscibile attraverso la ragione; la seconda si manifesta nella rivelazione cristiana; la terza è quella codificata dalle autorità umane. Tuttavia, affinché la legge positiva sia valida, deve essere conforme alle prime due. Nessuna autorità può quindi legittimare una norma ingiusta o un atto arbitrario. Questo principio ha conseguenze dirompenti: il sovrano, lungi dall’essere legibus absolutus, è egli stesso sottoposto alla legge. Secondo Giovanni, il re è colui il quale agisce secondo giustizia, tiranno, invece, è chi governa contro la giustizia. Il potere non è fondato sulla forza ma sull’adesione alla norma morale. Un sovrano che viola la legge cessa di essere legittimo.

La figura del filosofo ha in Giovanni una funzione centrale. Contrariamente all’immagine stereotipata del pensatore astratto e lontano dalla realtà, egli vede nella filosofia un sapere operativo, capace di orientare l’azione politica verso il bene. Il principe deve essere o un filosofo o, quantomeno, farsi guidare da filosofi: non nel senso accademico del termine ma come persone formate alla riflessione morale, al senso della giustizia e alla consapevolezza dei limiti dell’umano. In opposizione al filosofo, Giovanni colloca il cortigiano, figura emblematica della degenerazione del potere. Il cortigiano non agisce per verità ma per interesse; non cerca il bene del regno ma il proprio tornaconto; è pronto ad adulare, mentire, cospirare pur di ottenere favori. Il suo potere è parassitario, distruttivo, incompatibile con l’ordine razionale dello Stato. La lotta tra il filosofo e il cortigiano è, in ultima istanza, la lotta tra la verità e la menzogna nella vita politica.
Uno degli aspetti più coraggiosi del pensiero di Giovanni è la giustificazione della resistenza al potere tirannico. Nel Policraticus si trova, infatti, una delle prime formulazioni sistematiche del diritto al tirannicidio in epoca cristiana. Giovanni distingue tra due tipi di tiranno: il tiranno per usurpazione, che non ha mai avuto un mandato legittimo, e il tiranno per abuso, che ha ricevuto legittimamente il potere ma lo esercita in modo contrario alla giustizia. In entrambi i casi è lecito opporsi, anche con la forza. Non si tratta di promuovere l’anarchia, piuttosto di difendere un ordine superiore, quello della legge naturale. La resistenza non è solo un diritto ma, in alcuni casi, un dovere morale. L’uccisione del tiranno non è un atto criminale, bensì un atto di giustizia, purché sia compiuto per motivi legittimi e non per vendetta o ambizione personale. Questa posizione, pur temperata da cautela e razionalità, è una sfida all’idea del potere assoluto. Giovanni non attribuisce mai al popolo una sovranità diretta – siamo ancora nel pieno della visione medievale della società gerarchica – ma riconosce il diritto del corpo politico a difendersi dall’abuso.
L’opera di Giovanni di Salisbury, seppur poco nota al grande pubblico, ha avuto un impatto profondo nel pensiero politico occidentale. La sua visione della legge come criterio della legittimità del potere ha anticipato le dottrine del costituzionalismo moderno. La sua difesa della giustizia come fine del governo ha ispirato pensatori come Dante, Tommaso d’Aquino, Marsilio da Padova e, in parte, anche i teorici della resistenza protestante nel XVI secolo. A differenza di Machiavelli, che separerà nettamente etica e politica, Giovanni insiste sulla loro inseparabilità. Dove Machiavelli avrebbe visto nella forza uno strumento necessario per il mantenimento del potere, Giovanni la intese una minaccia se non fosse guidata dalla giustizia. La sua è una filosofia politica che pone limiti netti al potere e chiede ai governanti di essere servi della legge, non padroni della sorte altrui.

 

 

 

 

 

Estetica, etica e fede nell’ascesa dell’uomo
secondo Kierkegaard

 

 

 

 

 

Søren Kierkegaard (1813-1855), considerato il padre dell’esistenzialismo cristiano, ha sondato il tema dell’esistenza umana attraverso una prospettiva profondamente individuale, ponendo al centro della sua riflessione la soggettività e l’esperienza personale. Secondo Kierkegaard, l’esistenza non può essere compresa tramite categorie universali o concetti astratti, ma va vissuta e interpretata individualmente, in un rapporto autentico con se stessi e con Dio. In questo contesto, il filosofo danese elabora la teoria dei tre stadi dell’esistenza, che non rappresentano semplici tappe cronologiche, ma piuttosto scelte esistenziali che l’individuo può compiere nel corso della sua vita.
La concezione kierkegaardiana degli stadi dell’esistenza si fonda sull’idea che l’uomo sia un essere finito e imperfetto, costantemente posto di fronte a scelte che ne determinano la qualità della vita e il grado di autenticità. Tuttavia, il passaggio da uno stadio all’altro non è automatico né garantito. Avviene spesso attraverso crisi esistenziali profonde, momenti di angoscia e disperazione che spingono l’individuo a interrogarsi sul senso della propria vita. Kierkegaard individua tre principali modalità esistenziali: lo stadio estetico, lo stadio etico e lo stadio religioso, ciascuno dei quali riflette un diverso modo di rapportarsi alla realtà, al sé e al divino.

Lo stadio estetico rappresenta il livello più immediato e superficiale dell’esistenza umana. In questa fase, l’individuo vive orientato alla ricerca del piacere, del godimento e della bellezza, evitando sistematicamente ogni forma di responsabilità o impegno profondo. La vita estetica è dominata dall’immediatezza e dall’edonismo: l’obiettivo dell’individuo estetico è quello di evitare la noia, considerata da Kierkegaard come il più grande pericolo per l’esteta, poiché essa svela il vuoto esistenziale che si cela dietro la maschera del piacere. L’esteta vive come spettatore della propria vita, senza mai coinvolgersi realmente. La sua esistenza è frammentata, priva di unità e coerenza, segnata dall’incapacità di stabilire legami autentici e duraturi. Egli si rifugia nell’arte, nella musica, nella letteratura, oppure si dedica a esperienze effimere e sensazionali, che gli consentano di mantenere un certo distacco emotivo. L’ironia diventa uno strumento fondamentale per l’esteta, poiché gli permette di osservare la realtà senza esserne toccato profondamente, mantenendo un atteggiamento di superiorità intellettuale e di distacco. Tuttavia, questa continua ricerca del piacere e dell’evasione non è priva di conseguenze. Kierkegaard sottolinea che l’esteta è inevitabilmente destinato a sperimentare la disperazione. Questa disperazione, tuttavia, è inizialmente celata: l’esteta non ne è pienamente consapevole, poiché il suo stile di vita mira proprio a evitare ogni confronto serio con la propria interiorità. La noia diventa il segnale della crisi imminente, un sintomo del vuoto esistenziale che l’esteta tenta invano di colmare. Un esempio emblematico di questa condizione è rappresentato dalla figura di Don Giovanni, che Kierkegaard analizza in Aut-Aut. Don Giovanni incarna l’archetipo dell’esteta: seduttore instancabile, vive esclusivamente per il piacere della conquista, ma ogni esperienza si dissolve nell’immediatezza, lasciandolo in una condizione di perpetua insoddisfazione. Il punto critico dello stadio estetico è la disperazione, una condizione esistenziale profonda che emerge quando l’individuo si rende conto della vacuità della propria vita. Kierkegaard distingue tra una disperazione inconsapevole e una consapevole: l’esteta inizia a riconoscere il proprio malessere solo quando la maschera del piacere crolla, rivelando l’angoscia sottostante. È in questo momento che si apre la possibilità di un passaggio allo stadio successivo, quello etico, ma non tutti gli individui riescono a compiere questo salto. Alcuni restano intrappolati nella disperazione, sprofondando in una condizione di nichilismo o autodistruzione.

Il passaggio allo stadio etico avviene nel momento in cui l’individuo riconosce la vacuità della vita estetica e decide di assumersi la responsabilità della propria esistenza. Lo stadio etico rappresenta, quindi, una fase di maggiore maturità e consapevolezza, in cui l’individuo abbandona la superficialità del piacere immediato per dedicarsi alla costruzione di un progetto di vita coerente e significativo. Vivere eticamente significa accettare la propria finitezza e i propri limiti, assumendo responsabilità non solo verso se stessi, ma anche verso gli altri e la comunità. L’individuo etico si impegna nel lavoro, nella famiglia, nelle relazioni sociali, cercando di realizzare il bene comune e di costruire un’esistenza solida e autentica. La scelta diventa l’elemento fondamentale di questo stadio: l’etico è colui che sceglie se stesso come progetto, assumendo le conseguenze delle proprie azioni e riconoscendo la propria libertà come fonte di responsabilità. La consapevolezza della colpa è un altro aspetto centrale dello stadio etico. L’individuo comprende che, nonostante i suoi sforzi, non potrà mai raggiungere la perfezione morale e che la sua esistenza è inevitabilmente segnata dall’errore e dalla fragilità. Questa consapevolezza genera un senso di colpa che non è distruttivo, ma funzionale alla crescita interiore e al miglioramento di sé. Il pentimento diventa quindi uno strumento attraverso cui l’individuo etico si confronta con i propri limiti e lavora per superarli. Tuttavia, anche lo stadio etico presenta dei limiti. L’impegno morale, se vissuto come fine ultimo dell’esistenza, rischia di condurre l’individuo a una nuova forma di disperazione, quella derivante dalla consapevolezza della propria impotenza di fronte all’infinito. L’etico comprende che, pur seguendo le regole morali e vivendo in modo responsabile, non può colmare il divario tra la propria finitezza e l’ideale assoluto del bene. Questo senso di inadeguatezza può generare angoscia e frustrazione, spingendo l’individuo verso una nuova crisi esistenziale. Il personaggio che meglio incarna lo stadio etico è quello del marito fedele e del cittadino esemplare, colui che vive secondo i princìpi morali, si dedica alla famiglia, lavora per il bene della comunità e accetta le proprie responsabilità. Tuttavia, anche questa figura, apparentemente realizzata, può sperimentare la crisi del senso e l’angoscia della finitezza.

Lo stadio religioso rappresenta il culmine del percorso esistenziale delineato da Kierkegaard. In questa fase, l’individuo riconosce i limiti dello stadio etico e comprende che l’autenticità piena della propria esistenza può essere raggiunta solo attraverso il rapporto diretto con Dio. Tuttavia, questo passaggio richiede un salto radicale, un atto di fede che implica il superamento della razionalità e l’accettazione del paradosso. La fede, per Kierkegaard, non è una semplice adesione intellettuale a dogmi o princìpi religiosi, ma un’esperienza esistenziale profonda che coinvolge l’intera persona. Il cuore della fede è il paradosso dell’incarnazione: l’infinito che si fa finito, Dio che si manifesta nella figura umana di Cristo. Questo evento è incomprensibile per la ragione umana e può essere accolto solo attraverso un atto di fiducia assoluta. Il “salto della fede” è il momento decisivo dello stadio religioso. L’individuo è chiamato ad abbandonarsi completamente a Dio, anche quando le sue richieste appaiono irrazionali o in contrasto con l’etica umana. Kierkegaard esamina questo concetto nel suo capolavoro Timore e tremore, analizzando il racconto biblico del sacrificio di Isacco. Abramo, pur amando profondamente suo figlio, è disposto a sacrificarlo per obbedire al comando divino, compiendo così un atto di fede estrema. Questo gesto non può essere giustificato moralmente o razionalmente: è un paradosso che solo la fede può sostenere. La figura del “cavaliere della fede” incarna l’individuo che riesce a vivere questo paradosso, accettando la sofferenza, l’angoscia e l’incertezza che la fede comporta. Egli vive pienamente il mondo, ma è interiormente distaccato, poiché la sua vera appartenenza è a Dio. Questa condizione genera una profonda serenità, frutto dell’abbandono totale alla volontà divina. Lo stadio religioso non elimina la disperazione, l’angoscia o il dolore, ma li trasfigura, inserendoli in un orizzonte di senso più ampio. La fede permette all’individuo di accettare la propria finitezza e di trovare un senso anche nella sofferenza, poiché essa diventa parte del cammino verso l’incontro con l’Assoluto.

Il percorso esistenziale delineato da Kierkegaard, pertanto, è un invito a vivere autenticamente, riconoscendo la propria libertà e assumendosi la responsabilità delle proprie scelte. Ogni stadio rappresenta una possibilità esistenziale, ma solo attraverso il superamento della superficialità estetica e della razionalità etica l’individuo può raggiungere la piena realizzazione di sé. Il salto della fede, con il suo carico di incertezza e paradosso, è l’atto supremo della libertà umana, poiché implica il rischio totale e l’abbandono a qualcosa che va oltre la comprensione razionale. Kierkegaard mostra come l’esistenza autentica non sia priva di sofferenza o di angoscia, ma è proprio attraverso queste esperienze che l’uomo può confrontarsi con la propria verità più profonda. La fede non è una certezza consolatoria, ma un cammino arduo e coraggioso, che richiede di abbracciare l’assurdo e di affidarsi completamente a Dio.
In un mondo che spesso privilegia l’omologazione, la superficialità e la fuga dalle responsabilità, il pensiero di Kierkegaard rimane straordinariamente attuale. Egli ci invita a riscoprire la dimensione profonda della nostra esistenza, a vivere con passione, consapevolezza e autenticità, assumendo il rischio della libertà e il peso della scelta. Solo così l’uomo può superare la disperazione e trovare un senso pieno alla propria vita, in un dialogo continuo con se stesso, con gli altri e con il divino.

 

 

 

 

 

Brevi ragguagli sul concetto di “coscienza” nella storia della filosofia Occidentale

 

PARTE II

 

LA COSCIENZA COME CONOSCENZA (Ragion pura) E COME MORALE (Ragion pratica)

downloadImmanuel Kant, nella sua monumentale opera filosofica, dà al concetto di coscienza una duplice attenzione: una gnoseologica, relativa ai processi della conoscenza, l’altra morale, relativa alla sfera comportamentale. Per quanto riguarda il primo aspetto, considerò la coscienza come appercezione (Leibniz), pur rimanendo nella convinzione dell’esistenza del mondo esterno alla coscienza. Il filosofo di Königsberg (immagine a destra) distinse, poi, le appercezioni in pure trascendentali (chiamate anche “Io penso“), il vertice della conoscenza critica, in quanto fornisce senso alle rappresentazioni della realtà esterna; e in empiriche, l’esperienza interna, variabile e soggettiva. Entrambe le appercezioni e, quindi, la coscienza di esse, concorrono alla formazione dei processi cognitivi. In merito all’aspetto comportamentale, Kant considerò la coscienza come l’elemento che garantisce il valore assoluto della legge morale. La moralità è la somma ultima dei comandamenti della ragione, o imperativi, dai quali l’uomo deriva tutti gli obblighi e i doveri. Kant definisce la morale “Ragione pura pratica“, concependola come un’attività razionale a priori, che risulta sufficiente, da sola, a determinare la volontà. (Critica della ragion pura, Critica della ragion pratica).

 

HEGEL: LA COSCIENZA PREMESSA DELL’AUTOCOSCIENZA CHE NON RICERCA L’ASSOLUTO PERCHE’ E’ PARTE DI ESSO

GeorgWilhelmFriedrichHegelAl concetto di coscienza, inteso in molteplici significati, il filosofo tedesco George Wilhelm Hegel (immagine a sinistra) dedicò un’intera opera: La fenomenologia dello Spirito. Nella Fenomenologia è tracciato il cammino che la coscienza umana, detta anche individuale, deve compiere per giungere all’Assoluto. La prima tappa è costituita dall’indagine sulla coscienza: l’individuo, attraverso il confronto sensibile con la realtà circostante, ha contezza e, quindi, coscienza della propria esistenza. Tale consapevolezza è generata dalla conoscenza sensibile, dalla percezione e dall’intelletto. Interiorizzata in sé la realtà, la coscienza diviene autocoscienza, seconda tappa. L’autocoscienza che riesce a raggiungere l’indipendenza crede di poter sussistere facendo a meno della realtà. La scissione tra l’autocoscienza e il tutto è chiamata da Hegelcoscienza infelice religiosa“, intesa come spaccatura che l’uomo avverte tra sé e Dio. Giunta al punto più basso di mortificazione e infelicità, l’autocoscienza si rende conto che è inutile ricercare l’Assoluto in quanto essa stessa è parte dell’Assoluto. Allora diviene Ragione, terza ed ultima tappa del percorso.

 

LA COSCIENZA COME RIFLESSO DELLA REALTA’ MATERIALE

220px-Karl_Marx_001Per Karl Marx (immagine a destra) la coscienza, come la produzione di idee e di rappresentazioni mentali, è direttamente collegata alle attività materiali degli uomini. Anche la produzione spirituale, che si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale e della religione, è una conseguenza dei comportamenti materiali. Gli uomini, intesi quali reali, operanti e condizionati dallo sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono, sono i produttori delle loro rappresentazioni. La coscienza, quindi, è l’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita. Gli uomini, sviluppando la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali, trasformano, insieme con la loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è, dunque, la coscienza a determinare la vita, ma la vita a determinare la coscienza  (Ideologia Tedesca).

 

LA COSCIENZA NEL PENSIERO FILOSOFICO CONTEMPORANEO

Con Edmund Husserl il concetto di coscienza, arricchito dalle dottrine dei filosofi dei secoli precedenti, conquista il passaggio verso il pensiero contemporaneo. Se per Hegel il termine Husserl-3fenomenologia aveva significato tracciare il cammino della coscienza, per Husserl (immagine a sinistra), invece, ineriva proprio lo studio della coscienza. Il filosofo prese le distanze dallo Spiritualismo del XIX secolo, per cui la coscienza era una sostanza, un ente, sostenendo che questa non fosse, appunto, un essenza, ma un’attività. In più, essa è anche intenzionalità, ovvero coscienza di qualcosa e si presenta in diversi modi: percepire, pensare, ricordare, immaginare. La coscienza, però – e qui c’è la rottura con tutta la tradizione precedente -, non si identifica col suo oggetto. Essa è totalmente soggettiva. Solo la coscienza può rivelare l’essere: essere è solo ciò che è per la coscienza. Da ciò, l’originale intreccio husserliano tra coscienza e filosofia: teoretica (filosofia di riflessione, di contemplazione, poiché riguarda sempre il soggetto conoscente); edetica (che si occupa delle essenze, non avendo un rapporto diretto con la realtà come essa è ma come appare alla coscienza); non oggettiva (l’approdo cui giungono le sue posizioni è estremamente soggettivo) (Ricerche logiche, Meditazioni cartesiane). Come Husserl, anche Martin Heidegger muove la sua analisi della coscienza Heideggerdalla soggettività di questa, mettendo, però, in luce che gli sforzi di Husserl non siano bastati, avendo questi non tenuto conto anche della finitezza e della esistenza storica. Il filosofo tedesco (immagine a destra) insiste sull’esigenza di connettere la coscienza alla concretezza dell’esistenza. L’essere, progettando il mondo, lo fa venire all’esistenza, in quanto coscienza trascendentale, trovandosi, quindi, ad essere a sua volta progettato. L’essere, avendo coscienza della propria esistenza si apre al mondo, uscendo dalla soggettività per entrare nell’universo della coesistenza fra le cose. Tale azione aliena l’essere da sé stesso. La conseguenza è l’appello alla coscienza, ma questa apre la prospettiva al nulla, al nichilismo (Essere e tempo). Jean Paul Sartre, ponendosi tra la fenomenologia di Husserl e l’esistenzialismo di Heidegger, trasforma la filosofia della coscienza in esistenzialismo ateo, negando l’esistenza dell’io nella coscienza e trasportandolo al di fuori di essa, come ente del mondo. L’esistenza è la nullificazione dell’essere, poiché l’essere è affetto da una frattura insanabile tra l’essere in sé, come totalità fuori dalla coscienza, e l’essere per sé, che è l’essere della coscienza stessa. L’essere non riesce mai ad afferrare sé stesso. Ha in sé la tara del nulla. Da qui, la nullificazione del mondo, poiché le cose sono quelle che sono in sé, ma non ne hanno coscienza. Esse non hanno senso, come non ha senso la coscienza umana; sono una realtà di fronte alla quale l’unico atteggiamento possibile della coscienza umana non può che essere la nausea (Saggi, La nausea). Con Sigmund Freud e la sua scuola il concetto di coscienza entra nella psicoanalisi moderna. Per esigenze di brevità, data la vastità del pensiero freudiano, mi limito a fornire accenni esplicativi sui più importanti contributi che lo psicoanalista austriaco ha fornito alla scienza contemporanea, con l’indagine della mente umana e dei suoi processi: i concetti di coscienza, preconscio e inconscio. La coscienza è downloadfacilmente accessibile perché in stretta e immediata connessione con la realtà che ci circonda: essa è sempre vigile, razionale, presente e non vive, perciò, di ricordi passati. Freud (immagine a sinistra) considera la coscienza come un dato dell’esperienza individuale. La assimila alla percezione, considera come essenza di quest’ultima la capacità di ricevere qualità sensibili e affida questa funzione di percezione-coscienza ad un sistema autonomo e funzionante in base a principi quantitativi. Tra la coscienza e l’inconscio, è collocato il preconscio. Esso incamera tutte le esperienze passate, che possono essere fatte emergere con facilità: attraverso uno sforzo, grande o piccolo, dipende dal ricordo, si può riscoprire qualcosa che è accaduto. Al preconscio, dunque, vi si può accedere grazie alla ragione, senza grosse difficoltà. L’inconscio. In esso risiedono desideri vergognosi, impulsi repressi, esperienze traumatiche rimosse. Tutto ciò che si vuole cancellare definitivamente e domare con la ragione si inabissa in questo spazio di ricordo eterno. Tutto ciò che accade o è accaduto in un passato, anche remotissimo, viene divorato dall’inconscio e mai viene dimenticato (L’interpretazione dei sogni).

 

Convertirsi alla Leadership finalmente etica

 

di

Riccardo Piroddi

 

È possibile discettare di Leadership ed Etica in modo non accademico, direi finanche poetico, al mondo accademico? Certo! È quanto Antonino Giannone* compie nel suo ultimo lavoro, LEADERSHIP AND ETHICS NELLA SOCIETÀ DELLA GLOBALIZZAZIONE – Compendio di lezioni e seminari, pubblicato da Eurilink University Press a giugno 2020. Il testo, certamente maturato in ambito universitario (le lezioni e i seminari del sottotitolo), ha un sostrato di diversa origine, non (solo) accademica, non (solo) professionale, (non solo) divulgativa. Il terreno, molto fertile, in cui l’Autore pianta i semi del suo argomentare è la radicata e forte fede cristiana, il cui maggiore portato, la speranza, abbraccia così strettamente ogni singola pagina del volume da permearle tutte di sé. Credere in Dio significa anche non abbandonare mai la speranza e non essere mai abbandonati da essa. E nelle vite segnate da un “evento”, il Covid-19, che qualche mese fa sarebbe apparso fantascientifico, c’è bisogno di speranza perché da questa deve ripartire la programmazione del futuro nei campi etici e pratici. L’Autore, però, suona anche l’allarme, perché di allarme si tratta, riguardo ciò che dovrà essere fatto nei prossimi anni per invertire l’esiziale tendenza della società globalizzata allo spasmodico raggiungimento del profitto in qualsiasi ambito. Penso a Sant’Agostino, il quale scrisse: “E vanno gli uomini ad ammirare le vette dei monti e i grandi flutti del mare e il lungo corso dei fiumi e l’immensità dell’oceano e il volgere degli astri… e si dimenticano di sé medesimi”. Dimenticarsi di sé medesimi, oggi, vuol dire altresì maltrattare l’ambiente in cui si vive e che si sta danneggiando, ahimè, irrimediabilmente. Ed ecco, allora, tornare la speranza. Quella cristiana, quella che serve da spinta, da avvio al motore rappresentato da ciascun uomo. Speranza, quindi, momento teorico, e impegno, di conseguenza, momento pratico, in quella dicotomia che sottintende all’umano agire. Umano agire che contempla il rapporto tra signore e servo, per dirla con la celeberrima figura dialettica della hegeliana Fenomenologia dello Spirito, o leader e collaboratore, per tornare al volume del professor Giannone, in cui è mostrato come Leadership ed Etica non possano essere scisse, anzi, debbano presupporsi vicendevolmente, perché è chiaro come non vi sia vera Leadership senza Etica. Un leader non etico non potrà mai essere un leader autorevole e benefico e un tale capo non sarà in grado di indirizzare correttamente i propri subordinati, rendendo vano il suo ruolo e dannose le sue disposizioni. Un volume questo, pertanto, la cui lettura “val bene una messa”, come esclamò Enrico di Navarra rinunciando, nel 1593, alla fede ugonotta per abbracciare il cattolicesimo ed essere così incoronato, col nome di Enrico IV, re dei francesi, perché, visti i tempi, si rende necessaria una “conversione” dalla china tenuta finora verso un nuovo modo etico che regoli i rapporti tra gli uomini.

 

* Docente di Leadership and Ethics presso Icelab del Politecnico di Torino, ICT for Logistics and Enterprises Center, e docente presso la Link Campus University di Roma al corso di Laurea Magistrale in Business Management e Gestione Aziendale. Dopo la laurea in Ingegneria al Politecnico di Torino e le specializzazioni in Management in Italia e all’estero (Londra, Parigi, Zurigo, San Francisco, New York), ha ricoperto ruoli di direzione, fino a direttore generale e consigliere di amministrazione, in aziende industriali e di servizi di assistenza ospedaliera e sanitaria. Pubblicazioni: Etica professionale e Leader nella società della Globalizzazione (ed. CLUT Torino); Etica professionale e Relazioni industriali (ed. CLUT); Strategie aziendali (ed. CLUT); Valori fondanti ed etica per la società della globalizzazione (ed. Mazzanti, Venezia); Elementi di politica aziendale e innovazione tecnologica (ed. Cacucci, Bari), oltre a centinaia di articoli su riviste specializzate e siti web. Socio onorario dell’Accademia di storia dell’Arte sanitaria. Socio fondatore del CEIIL (Centro economia industria informatica e lavoro).

 

 

Alcune riflessioni sul tempo presente attraverso i concetti di “Leadership” ed “Etica”

 

Dedicate al prof. Antonino Giannone*  nel giorno del suo genetliaco

 

 

L’era digitale in cui stiamo vivendo è un periodo decisamente tormentato. Le tecnologie che adoperiamo sono mutate rispetto a qualche decennio fa e i cambiamenti che queste hanno portato non sono stati affrontati sempre con tempestività. Le imprese si trovano al centro di questo processo di evoluzione e cambiamento continuo. Sfide diverse si presentano alla società e per questo è necessario trovare nuovi modelli organizzativi, nuove strategie e nuovi modi di pensare per affrontare il mercato. Bisogna saper prendere decisioni per raggiungere specifici obiettivi. Senza piani strategici le aziende restano fragili. In questi contesti, i codici etici assumono capitale importanza. Il rispetto di valori etici come l’onestà, la trasparenza, la giustizia, la moralità è dovuto non solo dai dipendenti, ma dall’intero management. Servirebbe un recupero dell’etica, che, nella società della globalizzazione, è caduta in ogni professione e attività. Bisognerebbe riscoprire i principi e i comportamenti ispirati dalle virtù umane, tramandate, sin dai tempi antichi, dai grandi filosofi greci e latini e, poi, dai pensatori moderni e contemporanei. Apprendere e imparare i valori fondamentali e fondanti dell’uomo, che hanno caratterizzato la sua storia, per ridurre il degrado delle relazioni sociali ed economiche nella società globalizzata, dove prevale la spietata logica del più forte, quella dell’avere rispetto all’essere. Le imprese hanno conquistato il potere d’azione, finora addomesticato con la politica dello Stato sociale del capitalismo. Con la globalizzazione, le imprese sono arrivate a detenere un ruolo chiave non solo nell’organizzazione dell’economia ma anche in quella della società nel suo complesso. L’economia che agisce in maniera globale sgretola i fondamenti degli Stati-Nazione e della loro economia nazionale. Il potere delle imprese internazionali si fonda sulla possibilità di esportare i posti di lavoro dove ciò è più conveniente. Negli ultimi anni, il concetto di etica sembra sia diventato protagonista del dibattito economico: sempre più spesso si usano espressioni come finanza etica, commercio etico, etica degli affari, e tutte le maggiori aziende internazionali si sono dotate di un codice etico. Fa da contraltare a questa apparente “eticizzazione” dell’economia una crisi gravissima, interpretabile anche come la conseguenza e il frutto di comportamenti eccessivi e spregiudicati da parte di alcuni operatori economici. La spiegazione di questo paradosso potrebbe risiedere nel fatto che la domanda di comportamenti etici è una reazione e, appunto, una prevedibile risposta alla crisi attuale, ma anche che la professione di eticità sia in questa fase un mero strumento di marketing usato per mascherare e giustificare comportamenti che, nella sostanza, continuano a essere tutt’altro che etici. L’eredità spirituale dell’ultimo conflitto mondiale è forse l’aver mostrato che l’etica si fonda più che sulle buone intenzioni sull’assumersi pienamente le proprie responsabilità verso gli altri. L’etica è, innanzitutto, un problema di assunzione in prima persona di responsabilità verso una collettività. Ne consegue che l’economia che regola gli scambi tra collettività di attori, tanto a livello di impresa che di interi sistemi economici, sia un campo privilegiato per lo svolgimento del discorso etico. A livello di impresa, può essere opinabile e non oggettivamente misurabile determinare se e quanto una certa azienda, nel suo complesso, sia etica. L’etica dell’impresa può essere vista come il prodotto dei valori che tengono insieme il gruppo e dei meccanismi che premiano il rispetto di questi valori. L’implicazione operativa per i tutti i membri dell’impresa, e soprattutto per i vertici, è che da un lato i valori devono essere chiaramente definiti e comunicati, e, dall’altro, che la devianza dai principi deve essere esplicitamente sanzionata anche se ciò avvenisse a discapito del ritorno economico di breve. A livello di intero sistema economico, se la diatriba teorica sulla eticità del principio del mercato versus altre forme di organizzazione economica tende ad apparire sterile, il focus del confronto dovrebbe piuttosto essere su quali meccanismi, regole e correttivi possano essere introdotti per migliorare il sistema rendendolo tangibilmente più giusto ed equo. Anche in questo caso, la riposta migliore sta nel riconoscimento dei valori condivisi in cui una comunità locale, nazionale o internazionale si riconosce, e su cui ha deciso di fondare la propria vita civile e il proprio destino. Troppo spesso si dimentica il ruolo fondante e preordinato rispetto agli aspetti economici che le dichiarazioni dei valori di libertà, uguaglianza e di ricerca della pace hanno nella nostra Carta Costituzionale o nella Carta dei diritti dell’Unione Europea, e perfino in un documento che regolava solo transazioni squisitamente commerciali come il Trattato della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Solo alla luce di questi valori si può raccogliere la “sfida etica” della globalizzazione per ristabilire il primato delle regole, ritrovando il difficile ma imprescindibile equilibrio tra efficienza, equità, libertà e benessere.

 

* Docente di Leadership and Ethics presso Icelab, del Politecnico di Torino, ICT for Logistics and Enterprises Center e docente presso la Link Campus University di Roma, nel corso di Laurea Magistrale in Business Management e Gestione Aziendale. Dopo la laurea in Ingegneria al Politecnico di Torino e le specializzazioni in Management in Italia e all’estero (Londra, Parigi, Zurigo, San. Francisco, New York), ha ricoperto ruoli di direzione, fino a direttore Generale e Consigliere di Amministrazione, in aziende industriali e di servizi di assistenza ospedaliera e sanitaria. Pubblicazioni: Etica professionale e Leader nella società della Globalizzazione (ed. CLUT Torino); Etica professionale e Relazioni industriali (ed. CLUT); Strategie aziendali (ed. CLUT); Valori fondanti ed etica per la società della globalizzazione (ed. Mazzanti, Venezia); Elementi di politica aziendale e innovazione tecnologica (ed. Cacucci, Bari), oltre a centinaia di articoli su riviste specializzate e siti web. Socio onorario dell’Accademia di storia dell’Arte sanitaria. Socio fondatore del CEIIL (Centro economia industria informatica e lavoro). In uscita, per Eurilink University Press (giugno 2020), LEADERSHIP AND ETHICS NELLA SOCIETÀ DELLA GLOBALIZZAZIONE – Compendio di lezioni e seminari.