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La professione di fede di Dante e la visione trinitaria
in dialogo con la dottrina di Gioacchino da Fiore

 

 

 

 

Nel canto XXIV del Paradiso, Dante professa un’autentica confessio fidei, nella quale riassume l’essenza della sua credenza cristiana. La dichiarazione comincia con un atto di fede nel Dio unico ed eterno, creatore e motore dell’universo:

E io rispondo: Io credo in uno Dio
solo ed etterno, che tutto ’l ciel move,
non moto, con amore e con disio;
(vv. 130-132)

Il “non moto” è una chiara allusione all’“immobile motore” aristotelico, reinterpretato cristianamente: Dio muove l’universo non per necessità ma per attrazione amorosa, principio che rimanda alla nozione agostiniana della carità come forza ordinatrice del cosmo.
Dante continua proclamando che la sua fede è radicata tanto nella ragione quanto nella rivelazione, riconoscendo quali fonti autentiche di verità i testi sacri dell’Antico e del Nuovo Testamento:

e a tal creder non ho io pur prove
fisice e metafisice, ma dalmi
anche la verità che quinci piove

per Moïsè, per profeti e per salmi,
per l’Evangelio e per voi che scriveste
poi che l’ardente Spirto vi fé almi;
(vv. 133-138)

Il culmine della sua professione di fede è la dichiarazione trinitaria:

e credo in tre persone etterne, e queste
credo una essenza sì una e sì trina,
che soffera congiunto ‘sono’ ed ‘este’.
(vv. 139-141)

La capacità di dire insieme sono (plurale) ed este (singolare) è segno della perfetta unità e distinzione tra le tre Persone della Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo.

L’immaginario trinitario di Dante trova una fonte ricca e suggestiva nella visione storico-profetica di Gioacchino da Fiore (1130-1202), figura dirompente nel pensiero religioso medievale, la cui influenza si è estesa ben oltre la sua epoca. Dante ne riconosce la statura carismatica, riservandogli un posto tra i beati nel Paradiso, accanto a San Bonaventura:

…e lucemi dallato,
il calavrese abate Gioacchino
di spirito profetico dotato.
(Par., canto XII, vv. 139-141)

Il riconoscimento non è casuale. Dante coglie in Gioacchino sia il carisma del profeta sia l’audacia teologica di un interprete che ha tentato di dare forma simbolica e dinamica al mistero centrale della fede cristiana: la Trinità. A differenza dei grandi scolastici suoi contemporanei, Gioacchino non costruì un sistema concettuale, ma una visione simbolica della storia, fondata su una lettura spirituale della Bibbia, delle genealogie, dei numeri e delle analogie tra eventi storici.
Al centro del pensiero gioachimita c’è l’idea che la Trinità non riguardi solo la natura di Dio: è la forma stessa della storia della salvezza. Questo principio si incarna nella sua concezione delle tre età o status temporum, ciascuna sotto il segno di una Persona divina. L’età del Padre è il tempo dell’Antico Testamento, segnato dalla Legge, dalla distanza tra Dio e l’uomo, dalla paura reverenziale; il Padre si rivela nella sua maestà, come legislatore e guida del popolo eletto. L’età del Figlio ha inizio con l’incarnazione del Verbo e prosegue nel tempo della Chiesa. È l’epoca della redenzione, della grazia e dell’imitazione di Cristo. Ma è anche, secondo Gioacchino, un tempo ancora “imperfetto”, perché caratterizzato da mediazioni esterne, strutture giuridiche e potere ecclesiastico. L’età dello Spirito Santo è la grande attesa profetica gioachimita: un’epoca futura e definitiva, in cui la legge scritta sarà superata da una legge interiore, spirituale. In questa terza fase non sarà più necessaria la mediazione della gerarchia ecclesiastica: l’uomo vivrà in libertà spirituale, in una comunità fraterna guidata dallo Spirito. È il tempo della consolatio, della sapienza diretta, della piena interiorizzazione del messaggio cristiano.
Questa struttura trinitaria è più di una cronologia: è una visione escatologica. Ogni età compie la precedente ma senza annullarla, in un movimento analogo alle relazioni interne alle Persone divine. Il Figlio manifesta pienamente il Padre, lo Spirito Santo compie l’opera del Figlio nella vita dell’anima e della comunità.
Nel Liber Figurarum, l’opera che raccoglie le visioni più significative di Gioacchino, la Trinità è rappresentata mediante tre cerchi congiunti, tre volti o alberi genealogici tripartiti. Queste immagini intendono rendere visibile la coappartenenza tra Dio e il tempo, tra struttura divina e destino umano. Le tavole, accompagnate da brevi commenti esegetici, sono strumenti meditativi e pedagogici, rivolti non a definire quanto a svelare attraverso il simbolo.
È probabilmente da queste rappresentazioni che Dante trasse ispirazione per la descrizione visionaria della Trinità nel XXXIII canto del Paradiso, dove tre cerchi colorati e concentrici rappresentano simbolicamente il mistero trinitario.

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;

e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.
(vv. 115-120)

I “tre giri” danteschi, distinti nei colori, ma identici nella sostanza, evocano direttamente l’immaginario figurativo gioachimita. Anche qui, la Trinità non è spiegata, è contemplata.

Pur riconoscendone il valore spirituale, Dante prende le distanze dall’escatologia più radicale di Gioacchino. L’idea di una futura “età dello Spirito” che possa superare la rivelazione evangelica e la struttura della Chiesa suscitò sospetti già nel XIII secolo e fu condannata, in parte, dal Concilio Lateranense IV (1215), che pur non citando Gioacchino per nome, ne mise in discussione le implicazioni teologiche.
Dante non abbracciò queste idee estreme. La sua Commedia non profetizza una terza rivelazione, ma culmina in una visione beatifica atemporale, in cui la verità della fede trova il suo compimento fuori dal tempo, nel punto eterno dell’Amore divino. L’età dello Spirito, per Dante, non è un’epoca storica futura: è una condizione spirituale già accessibile nell’esperienza mistica e nella comunione dei santi. La tensione profetica gioachimita viene così interiorizzata e armonizzata con la dottrina cristiana tradizionale.
Dante e Gioacchino da Fiore convergono su un punto fondamentale: la Trinità come forma dinamica e generativa della realtà. In Gioacchino, la Trinità diventa la struttura profonda del tempo e della storia; in Dante, è la chiave della visione finale, la sorgente dell’essere e della beatitudine.
Entrambi cercano, con mezzi diversi – il simbolo profetico e la poesia teologica – di esprimere l’inesprimibile: un Dio che è insieme Uno e Trino, distante e intimo, giudice e amante, inizio e fine.
Gioacchino aprì una nuova via nell’interpretazione della storia sacra, proponendo un’escatologia radicale della liberazione spirituale. Dante ne raccolse l’intuizione e la trasfigurò, facendo della Trinità non solo la fine del viaggio ultraterreno ma la forma ultima della conoscenza e dell’amore, quell’amor che move il sole e l’altre stelle.

 

 

 

L’effulgurazione nella filosofia di Plotino

Una metafisica dell’irradiazione dell’Essere

 

 

 

 

Nel lessico della filosofia neoplatonica, il termine “effulgurazione” (ἀπόρροια, ἀπορροή in greco, “emanazione”, ma anche “irradiamento”) descrive efficacemente il cuore del sistema plotiniano: un processo ontologico di generazione della realtà a partire dall’Uno, per irradiazione necessaria, spontanea e priva di ogni intenzionalità deliberata. È un modello alternativo sia alla creazione ex nihilo del teismo cristiano sia alla necessità meccanica della fisica stoica. È un tertium genus, che unisce trascendenza assoluta e continuità ontologica.
L’arché, il principio primo, per Plotino, è l’Uno (Τὸ Ἕν), e non l’Essere. L’anteriorità significa qui non solo ordine logico ma anche ontologico. L’Uno è superiore all’Essere, al pensiero e alla molteplicità. È unità indivisibile, inarticolata, priva di determinazioni. Non è una sostanza, né un soggetto. Per questo Plotino rifiuta di attribuirgli attività come volere, pensare, amare. Eppure, l’Uno produce. Da lui emana ciò che è, non per decisione ma per sovrabbondanza (περιουσία). L’effulgurazione è la conseguenza inevitabile del suo essere assolutamente perfetto. Come una fonte trabocca d’acqua perché è piena, come il fuoco emana calore, l’Uno effonde l’essere. Questa immagine di traboccamento è centrale: implica che l’Uno non si impoverisce nel dare, né cambia in ciò che genera.
Il primo termine generato è l’Intelletto (Nοῦς), che rappresenta l’essere autentico. L’Intelletto, a differenza dell’Uno, è molteplice, perché pensa e contempla le Forme, le Idee. In esso si produce la prima articolazione della realtà. L’Intelletto è il luogo delle Idee platoniche, ma non come entità statiche: esse sono vita intelligibile. L’Intelletto nasce come desiderio dell’Uno, che non può essere afferrato. La tensione del primo derivato verso il principio lo costringe a rivolgersi su sé stesso, generando, così, il pensiero e l’identità. La struttura dell’Intelletto è duale: ha, da un lato, il riferimento all’Uno e, dall’altro, la sua autocomprensione come pensiero attivo.
Dall’Intelletto effulge l’Anima (Ψυχή), che è già rivolta verso il molteplice. Mentre l’Intelletto è ancora in un piano di unità relativa, l’Anima introduce la dimensione del tempo, del movimento, del divenire. Essa funge da mediatrice tra mondo intelligibile e mondo sensibile. L’Anima genera le anime particolari e si volge infine verso la materia, dando forma e vita all’universo sensibile. Ma anche qui, l’effulgurazione non è un atto volontario: l’Anima, contemplando l’Intelletto, genera immagini delle Idee. È come uno specchio che riflette ciò che vede, generando forme in successione, fino alla più debole delle realtà: la materia.

La materia è, in Plotino, ciò che resta della luce quando essa ha perso quasi tutta la sua intensità. È priva di forma, pura potenzialità (δύναμις) e si avvicina al nulla. Non ha sostanza in sé, ma è necessaria per l’esistenza del mondo sensibile. La materia, tuttavia, non è male in sé. Il male nasce solo quando un essere si identifica con il livello più basso dell’essere, dimenticando la sua origine. In altri termini: il male è ignoranza dell’effulgurazione, non parte costitutiva di essa.
Il modello dell’effulgurazione implica una triade ontologica: Πρόοδος (processione) – ogni realtà scaturisce da un principio superiore; Μονή (permanenza) – il principio non si consuma nel generare; Ἐπιστροϕή (ritorno): ogni livello tende naturalmente al superiore. Questa struttura triadica regola ogni livello della realtà, dall’Anima fino all’intelligenza umana. Non si tratta solo di una cosmologia ma di un’etica e di una mistica: l’uomo è chiamato a ritornare all’Uno, risalendo i gradi dell’essere, riconoscendo in sé le tracce della luce originaria.
La conoscenza razionale ha un limite: non può cogliere l’Uno, che è oltre ogni determinazione. Per questo, Plotino introduce l’estasi (ἔκστασις), stato in cui l’anima si spoglia della molteplicità e raggiunge momentaneamente l’unità originaria. L’estasi non è un annullamento dell’essere ma il suo compimento. In essa l’anima si riconosce come frutto dell’effulgurazione e, ritornando alla fonte, realizza pienamente la propria identità.
Il modello dell’effulgurazione influenzò profondamente la filosofia tardo-antica (Proclo, Damascio), la teologia cristiana (Pseudo-Dionigi Areopagita), l’Islam filosofico (Avicenna, Suhrawardī) e persino il pensiero rinascimentale (Marsilio Ficino). L’idea che il reale non sia prodotto per comando ma per irradiazione, ha aperto uno spazio concettuale per pensare la relazione tra trascendenza e immanenza, unità e molteplicità, senza ricorrere al dualismo né al materialismo.
La dottrina dell’effulgurazione è una delle espressioni più profonde del pensiero metafisico occidentale. In essa si intrecciano ontologia, cosmologia, etica e mistica, in un sistema coerente e radicale. L’Essere, per Plotino, non è comandato ma irradia. Ogni cosa, anche la più umile, è un’eco della luce prima. E ogni essere dotato di coscienza ha in sé la possibilità di risalire la corrente dell’effulgurazione, fino a perdersi – o ritrovarsi – nell’Uno.

 

 

 

 

Storia e metafisica della persona

 

 

 

 

Il concetto di persona è una delle nozioni più dense e trasformative del pensiero occidentale. Si tratta di un’idea che attraversa la filosofia, la teologia, l’antropologia, il diritto e la bioetica, assumendo significati sempre nuovi, a seconda dell’epoca e del contesto culturale. La sua evoluzione ha conosciuto momenti di svolta radicale, a partire dall’incontro tra la riflessione filosofica greca e la teologia cristiana, fino alla sua riformulazione moderna e alle sfide che la contemporaneità, con le sue crisi e le sue innovazioni tecnologiche, impone. In questa breve ricostruzione storica e concettuale, si distinguono alcuni snodi fondamentali che hanno reso possibile il significato attuale del termine persona.
Nonostante la piena valorizzazione della persona avvenga nel contesto cristiano, la cultura greca aveva già gettato i semi teoretici che hanno reso possibile tale sviluppo. Il pensiero filosofico dell’antichità, pur privo di una nozione compiuta di persona come soggetto irripetibile, aveva elaborato concetti che avrebbero poi costituito l’ossatura della futura riflessione personalista. Nella filosofia di Platone, in particolare in alcuni dialoghi maturi – il Fedone, il Simposio e la Repubblica – viene fuori un’immagine dell’anima come principio spirituale, immateriale e immortale, chiamato a elevarsi al mondo delle Idee. L’anima è portatrice di razionalità, desiderio del bene e tensione verso l’Assoluto. Sebbene Platone si muova ancora nell’ambito del pensiero universale e non colga la singolarità concreta dell’individuo, il suo modo di concepire la vita spirituale è già interioristico e anticipa la struttura della persona come soggetto cosciente.
Aristotele introdusse la nozione di sostanza individuale (ousia) e concepì l’essere umano come ζῷον λόγον ἔχον (zoon logon echon), un essere dotato di logos, cioè di linguaggio, ragione e capacità deliberativa. L’etica aristotelica è fondata sulla formazione del carattere e sulla ricerca del bene attraverso la virtù. L’individuo viene considerato in quanto partecipe della ragione universale, e la sua realizzazione personale è strettamente legata alla vita sociale e politica. Tuttavia, Aristotele non tematizza la persona come soggetto autonomo e irriducibile, poiché la sua prospettiva tende a privilegiare l’universale piuttosto che l’unicità irripetibile.
Nel periodo ellenistico, Panezio di Rodi e Posidonio iniziarono a porre maggiore attenzione alla soggettività morale, distinguendo tra l’identità sociale e l’identità interiore. Lo Stoicismo affermò l’idea dell’uomo come cittadino del mondo, guidato dalla ragione universale, e sviluppò una prima nozione etica di interiorità, che sarebbe stata poi raccolta e approfondita dai pensatori cristiani. Con il neoplatonismo e Plotino, si ebbe una visione spirituale radicalmente interiorizzata dell’essere umano. L’anima, per Plotino, è entità autonoma, capace di autocomprensione e di ritorno all’Uno. L’itinerario ascetico plotiniano è segnato da una tensione verso la purificazione, l’unificazione interiore e il superamento della molteplicità.
Tuttavia, nonostante queste intuizioni, la filosofia greca non giunse mai a riconoscere pienamente la persona quale centro irriducibile di coscienza, libertà e relazione. Mancava quella svolta ontologica, che avrebbe permesso di vedere nel singolo essere umano non solo un frammento del cosmo ma un io insostituibile, fondamento di responsabilità e valore.
Il Cristianesimo è stato il primo sistema di pensiero ad attribuire al concetto di persona una qualità ontologica e non meramente funzionale, sociale o psicologica. Il termine persona (dal latino per-sonare, “risuonare attraverso”, in origine legato alla maschera teatrale) è stato adottato in ambito filosofico e teologico per indicare una sostanza individuale di natura razionale (secondo la classica definizione di Boezio). Tuttavia, nel contesto della riflessione teologica trinitaria dei primi secoli, quel termine fu assunto e trasformato profondamente. La difficoltà di esprimere filosoficamente la coesistenza di tre realtà distinte (Padre, Figlio e Spirito Santo) nell’unica sostanza divina, portò i teologi cristiani, in particolare i Padri della Chiesa, a usare il concetto di persona per indicare le tre ipostasi divine. La persona venne così intesa non come maschera o funzione, ma come soggetto unico, sussistente in sé e capace di relazione.
Agostino d’Ippona giocò un ruolo fondamentale nel passaggio dal linguaggio biblico a una teologia sistematica della persona. Nella sua opera De Trinitate, esaminò la dimensione interiore dell’essere umano, individuando nella triade di memoria, intelletto e volontà un riflesso dell’immagine di Dio. Questo modello antropologico permette di affermare che ogni essere umano, proprio in quanto persona, è irripetibile e destinato a una relazione personale con Dio. L’apporto di Tommaso d’Aquino, nel XIII secolo, consolidò questa visione, definendo la persona, nella sua Summa contra Gentiles, “subsistens in natura rationali vel intellectuali” (essere sussistente dalla natura razionale o intellettuale): un essere dotato di intelligenza e volontà, capace di autodeterminazione e comunione.
Con questa svolta, la persona non è più solo un’astrazione filosofica, né un’entità dissolta nel cosmo, ma un centro unico di vita spirituale e responsabilità morale. È l’essere umano visto non come particella dell’universale, ma come volto concreto, degno di rispetto in quanto tale. Questo paradigma personalista, nato in ambito teologico, gettò le basi per lo sviluppo dell’etica della responsabilità e dell’idea moderna di soggettività.

Con l’età moderna, il concetto di persona subì un’importante trasformazione: da realtà ontologica e relazionale divenne progressivamente sinonimo di soggetto pensante, autocosciente, autonomo. René Descartes, con la sua celebre affermazione “Cogito, ergo sum”, inaugurò la stagione della soggettività moderna. L’essere umano fu definito primariamente dalla sua capacità di pensare, di dubitare, di essere consapevole di sé. La persona coincideva, ormai, con la coscienza individuale, capace di porsi quale fondamento di ogni certezza e di ogni realtà. Il corpo diventava quasi secondario e ciò che contava era l’io pensante, il soggetto razionale.
Immanuel Kant, nel XVIII secolo, recuperò la centralità della persona, pur riformulandone il significato in senso etico. Nella Critica della ragion pratica e nella Metafisica dei costumi, afferma che la persona è un fine in sé, mai un mezzo per altro. La sua dignità deriva dalla capacità di autoregolarsi moralmente attraverso la ragione. La persona è, dunque, soggetto morale autonomo, fondamento della legge morale universale. Con Kant si affermò un’idea di persona che sarebbe stata alla base dei moderni diritti umani, intesi come espressione della razionalità morale di ciascun individuo.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel reinserì la persona in una cornice storica e relazionale. Nella Fenomenologia dello spirito, l’identità personale non è data ma si costruisce dialetticamente nel rapporto con l’altro. La coscienza si costituisce attraverso il riconoscimento reciproco, nella tensione tra sé e il mondo. La persona non è un monade isolata ma un essere storico, sociale, che diventa se stesso solo attraverso il conflitto, la mediazione e la sintesi.
Il XX secolo è stato segnato da eventi traumatici – guerre mondiali, totalitarismi, genocidi – che hanno messo in crisi l’immagine moderna della persona come soggetto razionale e autonomo. Di fronte alla disumanizzazione prodotta dalla tecnica e dall’ideologia, è nato un nuovo umanesimo, centrato sulla riscoperta della persona come valore assoluto, vulnerabile, relazionale. È in questo contesto che si è sviluppato il personalismo, una corrente filosofica che affonda le radici nel Cristianesimo, aprendosi al dialogo con la fenomenologia e la scienza sociale. Emmanuel Mounier, uno dei suoi principali esponenti, ha definito la persona come essere spirituale, storicamente situato, in tensione verso la comunione. La persona non è un individuo chiuso ma un essere per gli altri, capace di dono e di responsabilità.
Karol Wojtyła, nella sua opera Persona e atto, unisce la tradizione tomista con la fenomenologia husserliana, fornendo una visione della persona come soggetto che si realizza nell’azione libera e morale. L’atto non è solo movimento esterno ma espressione della profondità della persona, del suo essere in relazione.
Emmanuel Levinas, invece, ha ribaltato la prospettiva moderna: la persona non si definisce a partire da sé ma a partire dall’altro. Il volto dell’altro è il luogo in cui si rivela l’infinita responsabilità che riguarda ciascuno. La persona non è il soggetto della conoscenza, quanto colui che risponde all’appello dell’alterità. La sua dignità è irriducibile, non perché sia autonoma, ma perché è esposta, vulnerabile, amata prima di essere conosciuta.
Nel mondo contemporaneo, la nozione di persona è al centro di nuove sfide e controversie. La bioetica interroga i confini dell’umano: è persona un feto? Un embrione? Un paziente in coma? La discussione si divide tra chi adotta una concezione funzionalista, come Peter Singer, che lega la dignità personale a capacità cognitive misurabili, e chi, invece, difende una visione ontologica, secondo cui la sola appartenenza alla specie umana basta per riconoscere l’altro come persona.
Anche il diritto affronta interrogativi cruciali. Le persone giuridiche, come le imprese o gli Stati, hanno diritti e doveri: ma sono davvero persone? E che dire dell’Intelligenza Artificiale? Alcune proposte avanzano l’idea di una personalità elettronica, capace di agire autonomamente e di interagire con il mondo umano. Tuttavia, resta aperta la questione se la persona sia riducibile a un insieme di funzioni o se esista qualcosa di irriducibile, un nucleo di interiorità e di libertà che nessuna macchina potrà mai simulare pienamente.
In conclusione, il concetto di persona è una conquista complessa e stratificata, nata dall’incrocio tra pensiero greco, rivelazione cristiana, svolta moderna e sensibilità contemporanea. Dalla sostanza razionale alla coscienza morale, dall’interiorità alla responsabilità per l’altro, la persona è il centro dinamico della nostra civiltà. In un’epoca segnata da crisi antropologiche, da disumanizzazione tecnologica e da nuove forme di sfruttamento, riaffermare il valore della persona significa difendere ciò che di più umano esiste: la libertà, la dignità, la relazionalità e il mistero dell’io che guarda, ama, risponde.

 

 

 

 

Tommaso d’Aquino e Dante Alighieri

Convergenze dottrinali e trasfigurazione poetica

 

 

 

 

Tommaso d’Aquino non è, per Dante, una semplice fonte tra le tante: è la colonna portante della sua visione del mondo, il sistema attraverso cui l’universo acquista senso, ordine e finalità. La teologia e la filosofia dell’Aquinate offrono al poeta non soltanto un lessico concettuale, quanto una struttura ontologica completa – un’impalcatura che regge la Divina Commedia su più piani: cosmologico, antropologico, morale, epistemologico e politico. Quando Dante guarda al cielo, all’anima umana, alla giustizia divina o alla distribuzione dei poteri terreni, dietro ogni scelta poetica si intravede un quadro teorico rigoroso, spesso riconducibile all’elaborazione tomista della dottrina cristiana. Eppure, sarebbe un errore ridurre il poeta a un mero esecutore di un pensiero altrui. Dante non è uno scolaro che ripete la lezione: è un autore che rilegge, interpreta, piega e, talvolta, sfida l’autorità stessa che lo ispira. Se Tommaso offre la mappa, è Dante che traccia il percorso. Nella Divina Commedia, l’eredità tomista non è mai trasferita in modo meccanico: è rifusa in una forma poetica che ne amplifica il potere immaginativo e ne rivela al contempo i punti di tensione. È all’interno della dimensione visionaria – tra il viaggio oltremondano e la rappresentazione simbolica del reale – che il pensiero tomista si trasforma. Le gerarchie celesti diventano moti d’amore, la legge morale si fa dramma interiore, la razionalità filosofica si intreccia con la grazia, la fede, la profezia. In questo, Dante compie un’operazione radicale: umanizza il pensiero scolastico senza impoverirlo, lo trasfigura senza tradirlo. Accanto al filosofo sistematico, egli pone il poeta profeta; accanto al teologo che ordina il sapere, l’autore che narra la salvezza come cammino personale e collettivo. Il risultato è un’opera che accoglie l’eredità dell’Aquinate, rilanciandola, vivificandola e mettendola in dialogo con l’immaginazione e con le contraddizioni dell’esperienza umana.

Tommaso nel Cielo del Sole: un’autorità dottrinale e spirituale

Nei canti X e XI del Paradiso, Tommaso compare tra i savi che ruotano intorno a Dante e Beatrice. Non è solo un sapiente, è il” sapiente che apre il discorso. Lo fa con misura, chiarezza e reverenza, tratti tipici del suo stile. Dante assegna a Tommaso la funzione di interprete della storia sacra della sapienza. È significativo che sia proprio il domenicano a lodare la vita di san Francesco: una scelta che esprime un desiderio di conciliazione tra gli ordini mendicanti, spesso in contrasto nel Trecento. Ma è anche un riconoscimento della carità intellettuale di Tommaso, in linea con quanto egli stesso scrive nella Summa Theologiae: “Nec benevolentia sufficit ad rationem amicitiae, sed requiritur quaedam mutua amatio, quia amicus est amico amicus. Talis autem mutua benevolentia fundatur super aliqua communicatione. Cum igitur sit aliqua communicatio hominis ad Deum secundum quod nobis suam beatitudinem communicat, super hac communicatione oportet aliquam amicitiam fundari. De qua quidem communicatione dicitur I ad Cor. I, fidelis Deus, per quem vocati estis in societatem filii eius. Amor autem super hac communicatione fundatus est caritas. Unde manifestum est quod caritas amicitia quaedam est hominis ad Deum” (Per l’amicizia non basta neppure la benevolenza, ma si richiede l’amore scambievole: poiché un amico è amico per l’amico. E tale mutua benevolenza è fondata su qualche comunanza. Ora, essendoci una certa comunanza dell’uomo con Dio, in quanto questi ci rende partecipi della sua beatitudine, è necessario che su questo scambio si fondi un’amicizia. E di questa compartecipazione così parla S. Paolo: “Fedele è Dio, per opera del quale siete stati chiamati alla comunione del Figlio suo”. Ma l’amore che si fonda su questa comunicazione è la carità. Dunque, è evidente che la carità è un’amicizia dell’uomo con Dio. STh, II-II, q. 23, a. 1). La carità quale fondamento dell’amicizia tra l’uomo e Dio è anche il principio di unità tra scienza e fede in Paradiso, dove la luce dell’intelletto è inseparabile dalla luce dell’amore.

Ordine cosmico e metafisica dell’Essere

Il cosmo dantesco è un ordine gerarchico e finalizzato, retto da leggi razionali che hanno origine nell’Actus Purus tomista, ossia Dio. In Dante, questa struttura si manifesta nella mirabile armonia delle sfere celesti e nella simbologia della rosa celeste. Tommaso definisce Dio come ipsum esse subsistens: “Substantia enim est ens per se subsistens. Hoc autem maxime convenit Deo. Ergo Deus est in genere substantiae” (La sostanza è di per sé sussistente. Ora, sussistere così conviene soprattutto a Dio. Dunque, Dio è nel genere sostanza. STh, I, q. 3, a. 5). Per Tommaso, ogni ente partecipa all’essere in misura differente, secondo una gerarchia che rispecchia la sua distanza dalla perfezione divina. “Praeterea, quanto aliquod agens est virtuosius, tanto ad magis distans eius actio procedit. Sed Deus est virtuosissimum agens. Ergo eius actio pertingere potest ad ea etiam quae ab ipso distant, nec oportet quod sit in omnibus” (Quanto più potente è un agente, a tanto maggior distanza arriva la sua azione. Ora, Dio è un agente onnipotente. Dunque, la sua azione può giungere anche alle cose che distano da lui; e non è necessario che sia in tutte le cose. STh, I, q. 8, a. 1). Questa idea è trasposta poeticamente nella Commedia, dove i beati appaiono in diverse sfere, non per diversa beatitudine, ma per diversa manifestazione della gloria. Il concetto tomista di ordo universi, cioè che l’universo è più perfetto nella varietà delle creature che non nella uniformità, trova eco nei versi:

… “Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante.

(Par., I, vv. 103-105)

L’anima razionale e l’intelletto

La concezione dell’anima in Dante deriva direttamente dalla dottrina tomista dell’anima come forma del corpo e dell’intelletto come sua facoltà più alta. Nella Summa Theologiae si legge: “Anima igitur intellectiva est forma absoluta, non autem aliquid compositum ex materia et forma. Si enim anima intellectiva esset composita ex materia et forma, formae rerum reciperentur in ea ut individuales, et sic non cognosceret nisi singulare, sicut accidit in potentiis sensitivis, quae recipiunt formas rerum in organo corporali, materia enim est principium individuationis formarum. Relinquitur ergo quod anima intellectiva, et omnis intellectualis substantia cognoscens formas absolute, caret compositione formae et materiae” (Perciò, l’anima intellettiva è una forma assoluta, non già un composto di materia e di forma. Infatti, se l’anima intellettiva fosse composta di materia e di forma, le forme delle cose sarebbero ricevute in essa nella loro individualità; e così essa conoscerebbe le cose soltanto nella loro singolarità, come avviene nelle potenze sensitive, che ricevono le forme delle cose in un organo corporeo: la materia infatti è il principio di individuazione delle forme. Rimane dunque che l’anima intellettiva e ogni sostanza intellettuale, che conosca le forme nella loro assolutezza, non è composta di materia e di forma. STh, I, q. 75, a. 5). Nel canto XXV del Purgatorio, Dante riprende la dottrina della generazione dell’anima e del ruolo dell’intelletto possibile e agente in modo estremamente fedele:

Sangue perfetto, che poi non si beve
da l’assetate vene, e si rimane
quasi alimento che di mensa leve,

prende nel core a tutte membra umane
virtute informativa, come quello
ch’a farsi quelle per le vene vane.

(Purg., XXV, vv. 37-42)

Tommaso, infatti, distingue fra intelletto possibile (recettivo, passivo) e intelletto agente (attivo, astrattivo), una ripartizione fondamentale nella gnoseologia medievale: “Sicut et in aliis rebus naturalibus perfectis, praeter universales causas agentes, sunt propriae virtutes inditae singulis rebus perfectis, ab universalibus agentibus derivatae, non enim solus sol generat hominem, sed est in homine virtus generativa hominis; et similiter in aliis animalibus perfectis. Nihil autem est perfectius in inferioribus rebus anima humana. Unde oportet dicere quod in ipsa sit aliqua virtus derivata a superiori intellectu, per quam possit phantasmata illustrare” (Anche nel mondo degli esseri fisici più perfetti vediamo che, oltre alle cause efficienti più universali, esistono nei singoli esseri perfetti le loro proprie capacità derivate dalle cause universali: infatti non è soltanto il sole che genera l’uomo, ma nell’uomo stesso vi è la virtù di generare altri uomini; così si dica per gli altri animali perfetti. Ora nella sfera degli esseri inferiori non vi è niente di più perfetto dell’anima umana. Perciò bisogna concludere che esiste in essa una facoltà derivata da un intelletto superiore, mediante la quale possa illuminare i fantasmi. STh, I, q. 79, a. 4). Dante assume tale distinzione per spiegare l’ascensione conoscitiva dell’uomo, culminante nella visione beatifica.

Etica, virtù e beatitudine

Secondo Tommaso, la beatitudine suprema dell’uomo è la visione dell’essenza divina (visio Dei). Questo è il punto d’arrivo sia della teologia sia del cammino dantesco. Nella Summa, Tommaso scrive: “Praeterea, beatitudo est ultimus finis, in quem naturaliter humana voluntas tendit. Sed in nullum aliud voluntas tanquam in finem tendere debet nisi in Deum; quo solo fruendum est, ut Augustinus dicit. Ergo beatitudo est idem quod Deus” (La beatitudine è l’ultimo fine, al quale tende per natura la volontà umana. Ma la volontà non deve avere come fine un oggetto diverso da Dio; poiché di lui soltanto dobbiamo fruire, secondo l’espressione di S. Agostino. Dunque, la beatitudine è Dio stesso. STh, I-II, q. 3, a. 8). Dante realizza questa dottrina nel momento culminante della Commedia:

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle.

(Par., XXXIII, vv. 142-145)

Qui si conclude il cammino di razionalizzazione tomista della fede. L’amore è l’ultima forma del sapere, non irrazionale, ma illuminato dalla grazia e perfetto nella visione.

Il pensiero politico: armonia e conflitto con Tommaso

Nel De Monarchia, Dante costruisce una visione della monarchia universale che ha molti tratti comuni con il pensiero tomista, ma anche divergenze importanti. Tommaso ammette una subordinazione dell’Impero al Papa (con eco dell’auctoritas spiritualis superiore al potestas temporalis): “Potestas spiritualis distinguitur a temporali. Sed quandoque praelati habentes spiritualem potestatem intromittunt se de his quae pertinent ad potestatem saecularem. Ergo usurpatum iudicium non est illicitum” (Il potere spirituale è distante da quello temporale. Ma talora i prelati che sono investiti di un potere spirituale s’immischiano in affari che riguardano il potere temporale. Quindi il giudizio usurpato non è illecito. STh, II-II, q. 60, a. 6). Dante, invece, scrive: “Per questo l’uomo ha avuto bisogno di una duplice guida in vista di una duplice meta: il sommo Pontefice che guidasse il genere umano alla vita eterna per la via segnata dalla rivelazione, e l’Imperatore, che sugli insegnamenti filosofici dirigesse il genere umano verso la felicità temporale” (De Monarchia, III, 15, 10). Dunque, per Dante, Papato e Impero devono essere autonomi ma armonici, entrambi ordinati a Dio, ma non subordinati l’uno all’altro.

Fede e ragione

Infine, il vero asse portante comune è la sinergia tra fede e ragione. Secondo Tommaso: “Per gratiam perfectior cognitio de Deo habetur a nobis, quam per rationem naturalem. Quod sic patet. Cognitio enim quam per naturalem rationem habemus, duo requirit, scilicet, phantasmata ex sensibilibus accepta, et lumen naturale intelligibile, cuius virtute intelligibiles conceptiones ab eis abstrahimus. Et quantum ad utrumque, iuvatur humana cognitio per revelationem gratiae. Nam et lumen naturale intellectus confortatur per infusionem luminis gratuiti. Et interdum etiam phantasmata in imaginatione hominis formantur divinitus, magis exprimentia res divinas, quam ea quae naturaliter a sensibilibus accipimus; sicut apparet in visionibus prophetalibus” (Noi mediante la grazia possediamo una conoscenza di Dio più perfetta che per ragione naturale. Eccone la prova. La conoscenza che abbiamo per ragione naturale richiede due cose: cioè dei fantasmi, o immagini, che ci vengono dalle cose sensibili, e il lume naturale dell’intelligenza, in forza del quale astraiamo dai fantasmi concezioni intelligibili. Ora, quanto all’una e all’altra cosa, la nostra conoscenza umana è aiutata dalla rivelazione della grazia. Infatti: il lume naturale dell’intelletto viene rinvigorito dall’infusione del lume di grazia. E talora si formano per virtù divina nell’immaginazione dell’uomo anche immagini sensibili, assai più espressive delle cose divine, di quel che non siano quelle che ricaviamo naturalmente dalle cose esterne; come appare chiaro nelle visioni profetiche. STh, I, q. 12, a. 13). E Dante, nel Convivio, riecheggia questo principio: “Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di propria natura impinta è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti” (Convivio, I, 1). L’intero cammino della Commedia è l’attualizzazione di questa potenzialità: dall’ignoranza iniziale dell’Inferno fino alla pienezza luminosa del Paradiso, l’intelletto umano, guidato dalla ragione e dalla grazia, ascende alla contemplazione divina.

La Divina Commedia è il poema della visione: non solo della visione beatifica, ma della visione razionale del mondo, secondo un ordine divino che Tommaso ha tracciato con la chiarezza del teologo e Dante ha cantato con la potenza del poeta. Dove Tommaso costruisce la cattedrale della ragione teologica, Dante la riempie di luce, suono, volto e voce. In questo senso, leggere Dante significa anche ascoltare l’eco del pensiero tomista, trasfigurato in poesia. L’ordine dell’universo, la gerarchia degli esseri, il fine ultimo dell’uomo: tutto ciò che nella Summa appare come architettura concettuale, nella Commedia prende vita, si anima, si fa esperienza sensibile e spirituale. Dante non si limita a recepire il modello di Tommaso; lo reinterpreta, lo rende carne e sangue, visione e cammino. È così che la teologia scolastica diventa teatro dell’anima e il pensiero si fa canto. Questa trasformazione non è semplice ornamento poetico ma un’operazione intellettuale profonda. Dante assume la struttura tomista non per rinchiudervisi ma per mostrarne la forza generativa: la sua poesia non è un commento, è un’estensione, una dimostrazione incarnata del pensiero teologico. Ogni figura che si incontra nel poema, ogni dialogo, ogni paesaggio ultraterreno, riflette una logica interna, un disegno preciso che affonda le radici nella filosofia per giungere alla visione escatologica. La Commedia si presenta, così, come l’altro volto della Summa Theologiae: dove quest’ultima si esprime per argomenti e definizioni, la prima risponde con immagini e movimenti dell’anima. In definitiva, il legame tra Tommaso e Dante non è quello tra un maestro e un discepolo ma tra due costruttori dello stesso edificio: l’uno con gli strumenti della ragione sistematica, l’altro con quelli della fantasia ordinata. E se il fine è lo stesso – mostrare la via che conduce a Dio – allora si può affermare che la Divina Commedia sia il completamento poetico della teologia tomista, il suo specchio narrativo, la sua forma visibile e percorribile. È in questo intreccio vertiginoso di dottrina e arte, di pensiero e visione, che si gioca la grandezza di Dante e l’inesauribile potenza del suo poema.

 

 

 

 

Le ipostasi dell’Essere

Fondamenti metafisici e trasformazioni ontologiche
dall’Uno plotiniano alla Scolastica

 

 

 

 

L’uso del termine “ipostasi” in filosofia ha radici profonde e si sviluppa attraverso una lunga storia di riflessione sul rapporto tra l’essere, le idee e la realtà. Originariamente, il termine greco “ὑπόστασις” (hypóstasis) significa “ciò che sta sotto” o “fondamento”, e questo concetto assume diverse sfumature a seconda del contesto filosofico in cui viene applicato.
Plotino, il fondatore del Neoplatonismo, applica il termine ipostasi alle tre sostanze del mondo intelligibile, ovvero l’Uno, l’Intelletto (o Nous) e l’Anima. Questi tre princìpi, nella sua visione, formano la gerarchia ontologica della realtà e sono fondamenti che si collocano oltre il mondo sensibile.
L’Uno: l’ipostasi fondamentale e più alta. L’Uno, secondo Plotino, non è solo un principio di unità, ma una realtà che trascende ogni essere, persino l’esistenza stessa. È la fonte di tutto, paragonabile a una luce che emana dal sole ma che rimane, per natura, ineffabile e inafferrabile. L’Uno è l’ipostasi primaria, da cui deriva ogni altra realtà, ed è assolutamente semplice, privo di divisione o pluralità.
L’Intelletto (Nous): è la seconda ipostasi e rappresenta l’atto del pensiero puro e dell’autocoscienza. Mentre l’Uno è oltre l’essere e l’intellegibile, l’Intelletto è l’ipostasi che comprende tutte le idee o forme platoniche. È il luogo dell’essere e della conoscenza ed è il primo effetto dell’Uno. Nell’Intelletto si trovano tutte le realtà intelligibili, che sono contemplate eternamente in un’unità organica.
L’Anima: la terza ipostasi che media tra il mondo intelligibile e il mondo sensibile. L’Anima ha una duplice natura: da un lato, contempla l’Intelletto, dall’altro, genera e organizza il mondo sensibile. È tramite l’Anima che la realtà intelligibile si riflette nel mondo fenomenico. In questo senso, l’Anima costituisce il ponte tra il mondo eterno delle forme e il mondo mutevole della materia.
In questo schema, ogni ipostasi deriva dalla precedente e, sebbene inferiori rispetto all’Uno, mantengono un legame essenziale con esso, poiché tutto proviene dall’Uno come causa prima e somma fonte di ogni realtà.

Nel medioevo, con la filosofia Scolastica, il concetto di ipostasi subisce un’evoluzione. Gli scolastici, come Tommaso d’Aquino, adottano una distinzione tra sostanza in senso generale e sostanza individuale. Per gli Scolastici, l’ipostasi è la sostanza individuale concreta, distinguendosi dalla sostanza universale o comune. Questo si ricollega alla loro riflessione sulla natura degli individui e delle essenze.
Nella Scolastica, l’ipostasi non riguarda più solo i princìpi trascendenti del mondo intelligibile, ma diventa un termine chiave per descrivere l’individuo nella sua concretezza ontologica. Ogni entità individuale che possiede una propria identità e sussistenza autonoma è considerata un’ipostasi. Ciò contrasta con la sostanza universale, che si riferisce a una natura comune condivisa da più individui, come “umanità” o “animalità”.
In un senso più ampio, l’ipostasi, in filosofia, viene anche utilizzata per indicare la personificazione di concetti astratti, specialmente quelli legati al mondo soprannaturale o metafisico. Ciò avviene quando si attribuiscono qualità individuali e quasi personali a concetti che altrimenti rimarrebbero astratti. Un esempio classico potrebbe essere il concetto di Giustizia o Morte, concepiti in molte culture come figure autonome dotate di personalità, azione e volontà proprie.
Questo processo di ipostatizzazione è comune in molte tradizioni mitologiche e religiose, dove concetti complessi o forze naturali vengono resi comprensibili attraverso la loro personificazione. Ad esempio, nella mitologia greca, concetti come il Tempo (Crono) o l’Amore (Eros) sono stati trasformati in divinità, con ruoli ben definiti nel pantheon, assumendo forme concrete e narrative.
Infine, il termine “ipostasi” assume anche una valenza ontologica profonda, quando viene usato per riferirsi a “ciò che sta sotto” le apparenze, ovvero l’essenza ultima della realtà, distinta dai fenomeni o dalle apparenze esterne. In questo senso, l’ipostasi è ciò che garantisce l’esistenza reale e sostanziale di qualcosa al di là delle sue manifestazioni empiriche. Rappresenta, dunque, l’essenza stessa di una cosa, ciò che la rende reale e sussistente, indipendentemente dal modo in cui si presenta ai sensi.

 

 

 

 

La scena del vuoto

Esistenza e identità nel “teatro dell’assurdo”

 

 

 

 

Il teatro dell’assurdo, emerso tra gli anni ’40 e ’60 del Novecento, è una delle espressioni artistiche più radicali del disincanto moderno. Non si tratta semplicemente di una corrente estetica, ma di un vero e proprio punto di rottura con la tradizione teatrale e con l’idea che l’esistenza umana sia dotata di senso, coerenza e finalità. Sotto la superficie surreale, grottesca o comica dei suoi testi, si muove un pensiero profondamente filosofico, che affonda le radici nell’esistenzialismo, nel nichilismo e nel pensiero tragico.
Alla base del teatro dell’assurdo c’è una constatazione: l’uomo moderno si trova in un mondo che non risponde più alle sue domande fondamentali. Non c’è più Dio, né una verità oggettiva, né un destino superiore a cui affidarsi. Il soggetto è solo, in un universo che non offre garanzie. Questa visione riprende direttamente l’idea di assurdo formulata da Albert Camus, secondo cui l’assurdo nasce dal confronto tra il bisogno umano di chiarezza e di senso e il silenzio irragionevole del mondo.
In Aspettando Godot di Samuel Beckett, Vladimir ed Estragon aspettano un personaggio che non arriverà mai. Non sanno esattamente chi sia, perché lo aspettano, né se lo abbiano già incontrato. Eppure, aspettano. Il tempo si dilata, si ripete, si svuota. Ma proprio in questo nulla si consuma il dramma dell’uomo moderno: la consapevolezza dell’assurdo non lo paralizza, lo condanna a insistere, a fallire ancora, fallire meglio.
Un’altra implicazione filosofica centrale è la crisi del linguaggio. I dialoghi nei testi dell’assurdo non servono a comunicare o trasmettere informazioni ma diventano flussi disconnessi, ripetitivi, meccanici. I personaggi spesso parlano per riempire il vuoto, per evitare il silenzio, non per capirsi. Questo riflette una visione post-strutturalista ante litteram: il linguaggio non è un mezzo neutro ma una struttura opaca, instabile, che può anche deformare la realtà invece di chiarirla.

In La cantatrice calva di Eugène Ionesco, i dialoghi degenerano in puro nonsenso. Frasi scollegate, automatismi verbali, giochi fonetici: tutto denuncia la perdita di contatto tra parole e cose. Questo si può leggere come una critica radicale alla fiducia illuminista nella razionalità e nella comunicazione. L’assurdo mostra un mondo in cui le parole non salvano, non ordinano, non spiegano.
Il teatro dell’assurdo mette in scena personaggi privi di una psicologia solida, senza storia personale, senza futuro. Spesso non hanno nemmeno un nome stabile. Questo rompe con la tradizione del personaggio “realistico” e porta alla luce una concezione postmoderna dell’identità: l’io come costruzione fragile, frammentata, fluida.
In Fin de partie di Beckett, Hamm e Clov vivono in uno spazio chiuso, isolati dal mondo, ripetendo gesti e battute come prigionieri di un copione. Non c’è evoluzione, non c’è catarsi. I personaggi non cambiano ma reiterano. Questo sottintende una visione disillusa della soggettività: non siamo padroni del nostro destino, ma attori intrappolati in ruoli, maschere, automatismi.
Nel teatro classico o borghese, l’azione teatrale è orientata: c’è un conflitto, uno sviluppo, una risoluzione. Nell’assurdo, invece, le azioni non portano a nulla. Si fanno e si disfano. Si mangia, si aspetta, si parla, si dorme, si ripete. Ma non si arriva da nessuna parte. Questo svuotamento dell’agire rappresenta una critica implicita al mito moderno del progresso e dell’efficienza. Tuttavia, proprio in questo vuoto, si apre uno spazio etico. L’insistenza dei personaggi, il loro “andare avanti” nonostante tutto, ricorda l’eroismo tragico di Sisifo, condannato a spingere il masso per l’eternità. Camus scrisse: “Bisogna immaginare Sisifo felice”. Allo stesso modo, i personaggi dell’assurdo trovano una forma di dignità nell’ostinazione. Continuano, resistono. Nonostante l’assenza di senso, scelgono la presenza.
Il teatro dell’assurdo non è solo critica o provocazione, ma anche analisi di una condizione metafisica. Lo spazio scenico è spesso spoglio, astratto, simile a una zona d’attesa, una terra di nessuno. Il tempo è ciclico o sospeso. Il corpo è disarticolato, a volte ridicolo. Tutto questo contribuisce a creare un senso di sospensione ontologica: siamo, ma non sappiamo perché. Ci muoviamo, ma non andiamo da nessuna parte. Il teatro dell’assurdo, quindi, non è tanto un teatro del nichilismo, quanto un teatro della domanda. Non offre risposte, ma costringe lo spettatore a confrontarsi con il vuoto, con il limite, con l’inspiegabile. E in questo confronto, paradossalmente, si produce pensiero.
Il teatro dell’assurdo è una delle forme più spietate e oneste di riflessione sulla condizione umana contemporanea. Attraverso il silenzio, il fallimento, il non-senso, mette a nudo l’inquietudine metafisica dell’uomo moderno. Non consola, non redime, ma espone. E proprio in questo gesto – crudo, ironico, lucido – risiede la sua potenza filosofica.

 

 

 

 

Dio, uomo e universo

L’audace architettura del reale
secondo Giovanni Scoto Eriugena

 

 

 

 

De divisione naturae, conosciuto anche con il titolo greco Periphyseon, è l’opera maggiore di Giovanni Scoto Eriugena, pensatore irlandese del IX secolo, attivo alla corte carolingia di Carlo il Calvo. Quest’opera monumentale costituisce uno dei tentativi più originali e audaci del Medioevo di costruire un sistema filosofico e teologico capace di integrare la rivelazione cristiana con le strutture speculative del neoplatonismo tardo-antico. Scritta in un latino raffinato e spesso complesso, è organizzata in forma dialogica, con l’alternanza tra maestro e discepolo, un espediente che permette all’autore di esaminare e discutere i concetti da più angolazioni, senza appiattirli in un’esposizione lineare.
L’opera si fonda su una visione della realtà strutturata in quattro modalità fondamentali dell’essere, che Eriugena definisce “nature”. Non si tratta di categorie fisse, né di enti distinti, ma di modalità dinamiche in cui si articola il rapporto tra Dio, la creazione e il ritorno finale di tutte le cose all’origine divina. La prima natura è Dio in quanto principio assoluto, che crea tutto ma non è creato da nulla. È la fonte inesauribile dell’essere, trascendente e inconoscibile, che si colloca al di là di ogni determinazione. La seconda natura comprende le cause primarie e le idee eterne che risiedono nella mente divina e che partecipano all’atto creativo: sono forme intelligibili che danno struttura alla realtà creata. La terza natura è l’universo sensibile, la realtà materiale e visibile, che riceve la forma ma non è in grado di produrne a sua volta. La quarta e ultima natura è Dio come fine supremo, il termine verso cui tutto tende. In questa visione, Dio è sia origine che destinazione: tutto ha inizio in Lui e tutto ritorna a Lui, in un movimento circolare che richiama esplicitamente la metafisica neoplatonica del processus e reditus.
Questa visione non è puramente teorica ma si innesta in una riflessione più ampia sulla conoscenza, sul linguaggio e sulla funzione della filosofia e della teologia. Per Eriugena, non esiste separazione tra ragione e fede: la filosofia autentica è essa stessa teologia e la teologia non può che essere esercizio della ragione. Questo principio lo porta ad affermare che nulla di ciò che è in contrasto con la ragione può provenire da una vera autorità, anche se ecclesiastica. Una tesi che, per i suoi tempi, era estremamente ardita. La ragione, dunque, non è nemica della fede ma suo completamento e strumento privilegiato per cogliere il senso profondo della rivelazione.

Un tema centrale dell’opera è il concetto di logos, inteso come parola divina ma anche come ragione universale che permea la creazione. Il mondo, per Eriugena, è una sorta di “testo” scritto da Dio, e l’uomo, attraverso la sua intelligenza, è chiamato a leggerlo e interpretarlo. La conoscenza non è mai separata dalla contemplazione del divino ed è proprio tramite questa attività interpretativa che l’essere umano realizza la sua natura più autentica.
In questo sistema, l’uomo occupa una posizione privilegiata. Non è soltanto parte del creato ma è altresì immagine di Dio, contenendo in sé tutti gli elementi della realtà. Per questa ragione, Eriugena lo definisce microcosmo, cioè un riassunto dell’universo. L’essere umano, in quanto creatura razionale e spirituale, è l’anello di congiunzione tra il mondo sensibile e quello intelligibile. In lui si realizza la sintesi di tutte le nature. È attraverso l’uomo che la creazione prende coscienza di sé e può, mediante un processo di purificazione e conoscenza, ritornare al proprio principio.
Una riflessione importante riguarda anche il problema del male. Eriugena lo interpreta in continuità con la tradizione agostiniana e neoplatonica, sostenendo che il male non ha consistenza ontologica: non è una realtà creata, quanto una privazione, un’assenza del bene. Il male è, quindi, non-essere, disordine, deviazione rispetto alla pienezza dell’essere che è Dio. Perciò, non si può attribuire a Dio la responsabilità del male, perché Dio è solo bene, e tutto ciò che esiste veramente partecipa del bene.
Nonostante l’elevata coerenza speculativa del sistema, il pensiero di Eriugena fu accolto con diffidenza. Le sue tesi, specie quelle che sembravano dissolvere la distinzione tra creatore e creato nel ritorno finale a Dio, furono ritenute ambigue e pericolose. Nel XIII secolo, l’opera fu condannata come eretica dal concilio di Sens (1225) e da papa Onorio III, e ne fu proibita la lettura. Per secoli, il De divisione naturae è rimasto ai margini della tradizione scolastica, ma è stato riscoperto in epoca moderna come un’opera di straordinaria originalità.
Oggi, De divisione naturae è considerato un testo filosofico e teologico di primo piano nell’Alto Medioevo, capace di anticipare temi che sarebbero diventati centrali nella scolastica, nel misticismo renano e nella metafisica dell’età moderna. La sua riflessione sulla natura, sull’unità dell’essere, sulla funzione della ragione e sul destino dell’uomo si colloca in un punto di snodo tra la cultura tardo-antica e la filosofia cristiana medievale, rendendo Giovanni Scoto Eriugena una figura chiave nella storia del pensiero occidentale.

 

 

 

 

Dio, l’anima e il silenzio nella mistica renana

 

 

 

 

La mistica renana è una delle espressioni più significative della spiritualità medievale europea. Si sviluppò tra il XIII e il XIV secolo lungo il bacino del Reno, in un’area comprendente le città di Colonia, Strasburgo e Magonza, e rappresentò un momento di straordinaria intensità religiosa e intellettuale. Non si trattò di una scuola teologica compatta o di un movimento istituzionalizzato, ma di un insieme di autori e autrici, per lo più legati all’ambiente domenicano o a gruppi spirituali laici, che condividevano una profonda attenzione all’interiorità e all’esperienza personale del divino.
La mistica renana emerse in un contesto segnato da crisi e trasformazioni profonde: l’autorità ecclesiastica era in discussione, nuovi movimenti religiosi ponevano l’accento sulla povertà evangelica, e nelle città in crescita si sviluppavano forme nuove di devozione. In quel contesto, la religione assunse anche un volto soggettivo, intimo, e si aprì all’analisi della coscienza.

Al centro della riflessione mistica vi era l’idea che l’essere umano potesse unirsi a Dio in modo diretto, senza mediazioni esterne, attraverso un cammino di svuotamento, silenzio e trasformazione interiore. Tale cammino è tutt’altro che passivo: richiede disciplina, consapevolezza e un distacco radicale da tutto ciò che è mondano o egoico. Il cuore della mistica renana è la convinzione che Dio non sia altro da cercare fuori, ma sia già presente nell’anima, in una scintilla profonda e nascosta che attende solo di essere riconosciuta. L’interiorità, dunque, diventa il luogo della rivelazione. Questa consapevolezza, tuttavia, non nasce solo da una speculazione intellettuale, ma da una pratica spirituale concreta, spesso dura, segnata dalla solitudine, dalla contemplazione e anche dalla sofferenza.
La figura più emblematica di questa corrente è Meister Eckhart, frate domenicano nato intorno al 1260. Teologo raffinato, maestro universitario e predicatore, Eckhart ha lasciato un’opera vasta e complessa, composta in parte in latino, per gli ambienti accademici, e in parte in tedesco, per i fedeli. Il suo pensiero ruota intorno a un concetto radicale di Dio come realtà assoluta, oltre ogni immagine, ogni nome, ogni rappresentazione. Dio è l’Essere stesso, o addirittura il Nulla che è più dell’essere. L’anima, per incontrare Dio, deve diventare come Lui: pura, vuota, spoglia di ogni desiderio e identità. La chiave di questo processo è il “distacco”, cioè la capacità di non essere legati a nulla, nemmeno a sé stessi. Solo nel vuoto totale l’anima può accogliere la “nascita di Dio” in sé, un’idea centrale in Eckhart, che non si riferisce alla nascita storica di Cristo ma a un evento interiore, quotidiano, che si verifica ogniqualvolta l’anima si apre davvero al divino. In questa prospettiva, l’unione mistica non è fusione emotiva o estasi ma una consapevolezza lucida e profonda di essere una cosa sola con il fondamento di tutto.
Accanto a Eckhart si colloca Johannes Tauler, anch’egli domenicano, ma di temperamento più pratico e pastorale. Vissuto tra il 1300 e il 1361, Tauler è noto per le sue prediche, rivolte non solo ai monaci ma anche a laici spiritualmente impegnati, in particolare donne appartenenti ai circoli delle beghine. Il suo stile è meno astratto di quello di Eckhart e più attento alla concretezza della vita spirituale. Tauler parla dell’importanza dell’umiltà, della pazienza nella sofferenza, del lavoro interiore come via per accogliere la grazia divina. Anche per lui Dio abita nel profondo dell’anima, ma il cammino per raggiungerlo passa attraverso prove, silenzi e oscurità interiori. Il mistico, nella visione di Tauler, non è qualcuno che fugge dal mondo, ma colui che impara a vivere in esso con uno sguardo purificato, capace di vedere il divino anche nella fatica quotidiana.
Un’altra figura importante è Enrico Suso, nato nel 1295. Rispetto a Eckhart e Tauler, Suso ha un tono più lirico, più affettivo, più incline all’espressione poetica. La sua mistica è caratterizzata da un linguaggio amoroso, spesso ardente, che descrive la relazione con Dio come una storia d’amore intensa, a tratti dolorosa, ma sempre carica di bellezza. Nei suoi scritti, Suso racconta visioni, dialoghi interiori, esperienze mistiche in cui l’anima si sente attratta, bruciata, trasformata dalla presenza divina. La sua è una spiritualità profondamente incarnata, dove il corpo e il cuore partecipano alla ricerca del divino. Non a caso, Suso descrive anche esperienze di sofferenza volontaria, vissute come atti di amore puro verso Dio.
Accanto ai grandi nomi maschili, la mistica renana include voci femminili straordinarie, come quelle di Mechthild di Magdeburgo e Margherita Porete. Mechthild, autrice della Luce fluente della divinità, scrive in volgare tedesco e descrive una mistica dell’amore in termini potenti, a volte spiazzanti. Per lei, l’anima è come una donna che cerca Dio con passione, che lo desidera e che soffre per la sua assenza. Margherita Porete, invece, è una figura tragica: autrice dello Specchio delle anime semplici, fu accusata di eresia e bruciata sul rogo nel 1310. Il suo libro, letto e apprezzato da molti mistici, incluso Tauler, propone una spiritualità radicale, in cui l’anima giunta alla perfezione non ha più bisogno nemmeno delle virtù o dei sacramenti, perché vive immersa nell’amore puro di Dio. La sua visione, estrema e audace, sfida le categorie della teologia ufficiale.
Tra i grandi temi della mistica renana, l’unione mistica con Dio è senza dubbio il principale. Non si tratta di un’unione metaforica, ma di un’esperienza concreta in cui l’anima cessa di percepirsi come separata da Dio. Questa esperienza non è automatica né concessa a tutti: richiede un cammino esigente di purificazione. Il distacco, infatti, è un altro cardine del pensiero renano. Per incontrare Dio, bisogna liberarsi di ogni attaccamento, non solo ai beni materiali ma anche alle proprie opinioni, ai propri desideri, persino alla secondo una formula ricorrente.
In questo cammino di svuotamento, l’interiorità gioca un ruolo centrale. Dio non si cerca fuori, nei riti o nei simboli esteriori, ma si riconosce nel fondo dell’anima, in quella “scintilla” che è già divina. Tuttavia, per accedervi è necessario il silenzio, non solo esterno ma soprattutto interiore. La contemplazione diventa allora un atto di ascolto profondo, in cui l’anima si fa vuota per accogliere l’ineffabile.
Infine, la sofferenza assume nella mistica renana un valore redentivo. Non viene cercata in modo morboso, ma accettata come via per spogliarsi del superfluo, come occasione per affidarsi totalmente a Dio. L’anima, purificata dalla prova, diventa capace di una fede più pura, più libera, più matura.
L’eredità della mistica renana è stata ampia e profonda. Ha influenzato la spiritualità cattolica e anche quella protestante. Martin Lutero, ad esempio, pur criticando molte forme di misticismo, lesse con attenzione Tauler e lo considerò un testimone autentico della fede. Più avanti, nel XVII secolo, il pensiero di Eckhart sarebbe stato riscoperto anche da mistici protestanti come Jakob Böhme e da pensatori spirituali di area tedesca. Nel Novecento, filosofi come Martin Heidegger sarebbero tornati a interrogarsi sul linguaggio e sull’ontologia eckhartiana, trovando nella sua riflessione sull’essere e sul nulla intuizioni ancora attuali.
La mistica renana, pur appartenendo a un’epoca lontana, continua a parlare a chi cerca una spiritualità essenziale, profonda, non dogmatica. Il suo messaggio – che Dio è dentro, che bisogna svuotarsi per riempirsi, che il silenzio può essere più eloquente della parola – resta uno dei lasciti più intensi e provocatori del Medioevo cristiano.

 

 

 

 

Materia, forma e volontà

Il sistema universale di Avicebron

 

 

 

 

Il Fons Vitae (La Fonte della Vita) è l’opera filosofica più significativa di Shelomoh ben Yehuda Ibn Gabirol (circa 1021-1058), poeta e pensatore ebreo andaluso, noto nel mondo latino come Avicebron. Composto originariamente in arabo con il titolo Yanbu’ al-Ḥayāt, il testo fu tradotto in latino nel XII secolo da Giovanni di Spagna e Domenico Gundisalvi, diventando un punto di riferimento nel pensiero filosofico medievale europeo. La sua influenza fu vasta e duratura, nonostante l’opera rimase per secoli slegata dalla tradizione ebraica, anche perché nella traduzione latina non compariva il nome dell’autore.
Il Fons Vitae non contiene citazioni bibliche né elementi specificamente ebraici. È costruito interamente come un dialogo filosofico tra maestro e discepolo, sul modello neoplatonico, con una struttura rigorosa e sistematica. Questa scelta non è casuale: Ibn Gabirol intende costruire una metafisica universale, in grado di spiegare la struttura dell’essere a prescindere dal credo religioso. Tuttavia, il suo pensiero è radicato in una visione del mondo tipicamente ebraica, dove Dio è assolutamente trascendente e la creazione non è un atto arbitrario ma ordinato secondo un principio di giustizia e armonia.
La dottrina centrale del Fons Vitae è che tutto ciò che è stato creato da Dio è composto di materia e forma, inclusi gli esseri spirituali. Questo è un punto di rottura importante rispetto alla tradizione aristotelica, secondo cui solo le cose corporee hanno materia. Avicebron estende invece la composizione materia-forma anche alle anime, agli angeli e agli intelletti separati, sostenendo che solo Dio è forma pura e assolutamente semplice.
Questa visione implica, da un lato, l’unità della creazione: tutta la realtà, dai corpi ai puri spiriti, è strutturata secondo lo stesso principio duale. Ne risulta un universo ordinato, gerarchico ma coerente, in cui ogni livello dell’essere è connesso agli altri. Dall’altro lato, essa comporta la contingenza universale: se tutto ciò che esiste, tranne Dio, ha materia, allora tutto è contingente e dipendente da Dio, che solo è necessario.

Nel Fons Vitae, Avicebron propone anche una teoria originale dell’emanazione: Dio, in quanto unità assoluta e trascendente, non agisce direttamente sulla creazione, ma tramite la sua volontà. La volontà è il primo principio emanato da Dio, e funge da intermediario tra l’Uno e il mondo molteplice.
Questo concetto di volontà come ponte tra trascendenza e immanenza ha un significato profondo: Avicebron vuole evitare l’antropomorfismo (cioè l’attribuzione a Dio di tratti umani) e allo stesso tempo spiegare come un Dio assolutamente semplice possa dare origine a una realtà molteplice e articolata. La volontà divina, pur essendo distinta da Dio, è ancora perfettamente unificata e non soggetta al cambiamento.
Il Fons Vitae è composto da cinque trattati, nei quali il maestro espone gradualmente al discepolo la struttura della realtà. L’approccio è deduttivo, astratto e sistematico: non si parte dall’esperienza sensibile, ma da princìpi metafisici che vengono via via sviluppati per spiegare il mondo creato. È un’opera complessa, che richiede familiarità con il linguaggio filosofico neoplatonico e con i concetti aristotelici, ma che offre una visione altamente coerente e profonda dell’essere.
Per lungo tempo il Fons Vitae fu letto senza sapere che l’autore fosse ebreo. Molti pensatori cristiani, in particolare i filosofi francescani come Bonaventura da Bagnoregio, ne furono profondamente ispirati, soprattutto per la sua trattazione della spiritualità della materia e della gerarchia degli esseri. Al contrario, filosofi dominicani come Tommaso d’Aquino respinsero l’idea che gli spiriti potessero essere composti di materia e forma, ritenendola incompatibile con la dottrina aristotelico-tomista.
Nel mondo ebraico, l’opera fu quasi ignorata per secoli, anche perché scritta in arabo filosofico e non in ebraico e priva di riferimenti alla Torah o al Talmud. Solo nel XIX e XX secolo, grazie agli studi di filosofi e storici come Salomon Munk, Avicebron fu pienamente riconosciuto come figura centrale del pensiero ebraico medievale.
Il Fons Vitae è un esempio emblematico del dialogo tra le tre grandi tradizioni religiose e filosofiche del Medioevo: l’ebraica, la cristiana e l’islamica. Un’opera scritta da un ebreo in arabo, tradotta in latino da un cristiano, studiata da scolastici europei e infine riscoperta come parte della tradizione ebraica: questa è la traiettoria unica del testo. Avicebron mostra come la filosofia possa essere un linguaggio universale, capace di superare confini religiosi e culturali per affrontare le grandi domande sull’essere, l’ordine e la vita.