Archivi categoria: Società

Storia e metafisica della persona

 

 

 

 

Il concetto di persona è una delle nozioni più dense e trasformative del pensiero occidentale. Si tratta di un’idea che attraversa la filosofia, la teologia, l’antropologia, il diritto e la bioetica, assumendo significati sempre nuovi, a seconda dell’epoca e del contesto culturale. La sua evoluzione ha conosciuto momenti di svolta radicale, a partire dall’incontro tra la riflessione filosofica greca e la teologia cristiana, fino alla sua riformulazione moderna e alle sfide che la contemporaneità, con le sue crisi e le sue innovazioni tecnologiche, impone. In questa breve ricostruzione storica e concettuale, si distinguono alcuni snodi fondamentali che hanno reso possibile il significato attuale del termine persona.
Nonostante la piena valorizzazione della persona avvenga nel contesto cristiano, la cultura greca aveva già gettato i semi teoretici che hanno reso possibile tale sviluppo. Il pensiero filosofico dell’antichità, pur privo di una nozione compiuta di persona come soggetto irripetibile, aveva elaborato concetti che avrebbero poi costituito l’ossatura della futura riflessione personalista. Nella filosofia di Platone, in particolare in alcuni dialoghi maturi – il Fedone, il Simposio e la Repubblica – viene fuori un’immagine dell’anima come principio spirituale, immateriale e immortale, chiamato a elevarsi al mondo delle Idee. L’anima è portatrice di razionalità, desiderio del bene e tensione verso l’Assoluto. Sebbene Platone si muova ancora nell’ambito del pensiero universale e non colga la singolarità concreta dell’individuo, il suo modo di concepire la vita spirituale è già interioristico e anticipa la struttura della persona come soggetto cosciente.
Aristotele introdusse la nozione di sostanza individuale (ousia) e concepì l’essere umano come ζῷον λόγον ἔχον (zoon logon echon), un essere dotato di logos, cioè di linguaggio, ragione e capacità deliberativa. L’etica aristotelica è fondata sulla formazione del carattere e sulla ricerca del bene attraverso la virtù. L’individuo viene considerato in quanto partecipe della ragione universale, e la sua realizzazione personale è strettamente legata alla vita sociale e politica. Tuttavia, Aristotele non tematizza la persona come soggetto autonomo e irriducibile, poiché la sua prospettiva tende a privilegiare l’universale piuttosto che l’unicità irripetibile.
Nel periodo ellenistico, Panezio di Rodi e Posidonio iniziarono a porre maggiore attenzione alla soggettività morale, distinguendo tra l’identità sociale e l’identità interiore. Lo Stoicismo affermò l’idea dell’uomo come cittadino del mondo, guidato dalla ragione universale, e sviluppò una prima nozione etica di interiorità, che sarebbe stata poi raccolta e approfondita dai pensatori cristiani. Con il neoplatonismo e Plotino, si ebbe una visione spirituale radicalmente interiorizzata dell’essere umano. L’anima, per Plotino, è entità autonoma, capace di autocomprensione e di ritorno all’Uno. L’itinerario ascetico plotiniano è segnato da una tensione verso la purificazione, l’unificazione interiore e il superamento della molteplicità.
Tuttavia, nonostante queste intuizioni, la filosofia greca non giunse mai a riconoscere pienamente la persona quale centro irriducibile di coscienza, libertà e relazione. Mancava quella svolta ontologica, che avrebbe permesso di vedere nel singolo essere umano non solo un frammento del cosmo ma un io insostituibile, fondamento di responsabilità e valore.
Il Cristianesimo è stato il primo sistema di pensiero ad attribuire al concetto di persona una qualità ontologica e non meramente funzionale, sociale o psicologica. Il termine persona (dal latino per-sonare, “risuonare attraverso”, in origine legato alla maschera teatrale) è stato adottato in ambito filosofico e teologico per indicare una sostanza individuale di natura razionale (secondo la classica definizione di Boezio). Tuttavia, nel contesto della riflessione teologica trinitaria dei primi secoli, quel termine fu assunto e trasformato profondamente. La difficoltà di esprimere filosoficamente la coesistenza di tre realtà distinte (Padre, Figlio e Spirito Santo) nell’unica sostanza divina, portò i teologi cristiani, in particolare i Padri della Chiesa, a usare il concetto di persona per indicare le tre ipostasi divine. La persona venne così intesa non come maschera o funzione, ma come soggetto unico, sussistente in sé e capace di relazione.
Agostino d’Ippona giocò un ruolo fondamentale nel passaggio dal linguaggio biblico a una teologia sistematica della persona. Nella sua opera De Trinitate, esaminò la dimensione interiore dell’essere umano, individuando nella triade di memoria, intelletto e volontà un riflesso dell’immagine di Dio. Questo modello antropologico permette di affermare che ogni essere umano, proprio in quanto persona, è irripetibile e destinato a una relazione personale con Dio. L’apporto di Tommaso d’Aquino, nel XIII secolo, consolidò questa visione, definendo la persona, nella sua Summa contra Gentiles, “subsistens in natura rationali vel intellectuali” (essere sussistente dalla natura razionale o intellettuale): un essere dotato di intelligenza e volontà, capace di autodeterminazione e comunione.
Con questa svolta, la persona non è più solo un’astrazione filosofica, né un’entità dissolta nel cosmo, ma un centro unico di vita spirituale e responsabilità morale. È l’essere umano visto non come particella dell’universale, ma come volto concreto, degno di rispetto in quanto tale. Questo paradigma personalista, nato in ambito teologico, gettò le basi per lo sviluppo dell’etica della responsabilità e dell’idea moderna di soggettività.

Con l’età moderna, il concetto di persona subì un’importante trasformazione: da realtà ontologica e relazionale divenne progressivamente sinonimo di soggetto pensante, autocosciente, autonomo. René Descartes, con la sua celebre affermazione “Cogito, ergo sum”, inaugurò la stagione della soggettività moderna. L’essere umano fu definito primariamente dalla sua capacità di pensare, di dubitare, di essere consapevole di sé. La persona coincideva, ormai, con la coscienza individuale, capace di porsi quale fondamento di ogni certezza e di ogni realtà. Il corpo diventava quasi secondario e ciò che contava era l’io pensante, il soggetto razionale.
Immanuel Kant, nel XVIII secolo, recuperò la centralità della persona, pur riformulandone il significato in senso etico. Nella Critica della ragion pratica e nella Metafisica dei costumi, afferma che la persona è un fine in sé, mai un mezzo per altro. La sua dignità deriva dalla capacità di autoregolarsi moralmente attraverso la ragione. La persona è, dunque, soggetto morale autonomo, fondamento della legge morale universale. Con Kant si affermò un’idea di persona che sarebbe stata alla base dei moderni diritti umani, intesi come espressione della razionalità morale di ciascun individuo.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel reinserì la persona in una cornice storica e relazionale. Nella Fenomenologia dello spirito, l’identità personale non è data ma si costruisce dialetticamente nel rapporto con l’altro. La coscienza si costituisce attraverso il riconoscimento reciproco, nella tensione tra sé e il mondo. La persona non è un monade isolata ma un essere storico, sociale, che diventa se stesso solo attraverso il conflitto, la mediazione e la sintesi.
Il XX secolo è stato segnato da eventi traumatici – guerre mondiali, totalitarismi, genocidi – che hanno messo in crisi l’immagine moderna della persona come soggetto razionale e autonomo. Di fronte alla disumanizzazione prodotta dalla tecnica e dall’ideologia, è nato un nuovo umanesimo, centrato sulla riscoperta della persona come valore assoluto, vulnerabile, relazionale. È in questo contesto che si è sviluppato il personalismo, una corrente filosofica che affonda le radici nel Cristianesimo, aprendosi al dialogo con la fenomenologia e la scienza sociale. Emmanuel Mounier, uno dei suoi principali esponenti, ha definito la persona come essere spirituale, storicamente situato, in tensione verso la comunione. La persona non è un individuo chiuso ma un essere per gli altri, capace di dono e di responsabilità.
Karol Wojtyła, nella sua opera Persona e atto, unisce la tradizione tomista con la fenomenologia husserliana, fornendo una visione della persona come soggetto che si realizza nell’azione libera e morale. L’atto non è solo movimento esterno ma espressione della profondità della persona, del suo essere in relazione.
Emmanuel Levinas, invece, ha ribaltato la prospettiva moderna: la persona non si definisce a partire da sé ma a partire dall’altro. Il volto dell’altro è il luogo in cui si rivela l’infinita responsabilità che riguarda ciascuno. La persona non è il soggetto della conoscenza, quanto colui che risponde all’appello dell’alterità. La sua dignità è irriducibile, non perché sia autonoma, ma perché è esposta, vulnerabile, amata prima di essere conosciuta.
Nel mondo contemporaneo, la nozione di persona è al centro di nuove sfide e controversie. La bioetica interroga i confini dell’umano: è persona un feto? Un embrione? Un paziente in coma? La discussione si divide tra chi adotta una concezione funzionalista, come Peter Singer, che lega la dignità personale a capacità cognitive misurabili, e chi, invece, difende una visione ontologica, secondo cui la sola appartenenza alla specie umana basta per riconoscere l’altro come persona.
Anche il diritto affronta interrogativi cruciali. Le persone giuridiche, come le imprese o gli Stati, hanno diritti e doveri: ma sono davvero persone? E che dire dell’Intelligenza Artificiale? Alcune proposte avanzano l’idea di una personalità elettronica, capace di agire autonomamente e di interagire con il mondo umano. Tuttavia, resta aperta la questione se la persona sia riducibile a un insieme di funzioni o se esista qualcosa di irriducibile, un nucleo di interiorità e di libertà che nessuna macchina potrà mai simulare pienamente.
In conclusione, il concetto di persona è una conquista complessa e stratificata, nata dall’incrocio tra pensiero greco, rivelazione cristiana, svolta moderna e sensibilità contemporanea. Dalla sostanza razionale alla coscienza morale, dall’interiorità alla responsabilità per l’altro, la persona è il centro dinamico della nostra civiltà. In un’epoca segnata da crisi antropologiche, da disumanizzazione tecnologica e da nuove forme di sfruttamento, riaffermare il valore della persona significa difendere ciò che di più umano esiste: la libertà, la dignità, la relazionalità e il mistero dell’io che guarda, ama, risponde.

 

 

 

 

Nietzsche: profeta della decadenza
e oracolo dell’occidente moderno

 

 

 

 

Friedrich Nietzsche è un pensatore imprescindibile per comprendere non solo la filosofia moderna, ma l’intero corso del pensiero occidentale contemporaneo. La sua capacità di diagnosticare i problemi della civiltà occidentale, la sua critica feroce alle istituzioni religiose e morali e la sua visione radicale di un’umanità da rifondare lo rendono una figura straordinaria e, per certi versi, ancora insuperata. Nietzsche non si limita a criticare la civiltà occidentale, ma ne offre una lettura profonda, smascherando le ipocrisie nascoste nei suoi fondamenti culturali e morali. E lo fa in un momento storico in cui il suo pensiero appare come una voce solitaria, spesso incompresa, ma che getta le basi per le crisi intellettuali, sociali e politiche del Novecento e oltre.
Al centro del pensiero di Nietzsche c’è una constatazione fondamentale: la civiltà occidentale è in declino. Questo declino non è semplicemente economico o politico, ma spirituale e culturale. Nietzsche vede nelle istituzioni morali e religiose della sua epoca – e, in particolare, nel cristianesimo – i principali colpevoli di questa decadenza. Accusa il cristianesimo di aver indebolito l’umanità, di aver soffocato il suo istinto vitale attraverso una morale del sacrificio e della sottomissione. Nella sua opera L’Anticristo, denuncia il cristianesimo come una “religione dei deboli”, che ha invertito i valori naturali, glorificando la sofferenza, la pietà e la rinuncia al mondo. Secondo lui, questa religione ha promosso una mentalità di sconfitta, sostituendo la vitalità e l’orgoglio con il senso di colpa e la repressione dei propri desideri.
La critica di Nietzsche, però, non si ferma al cristianesimo. La sua visione si estende a tutto l’impianto morale e filosofico della modernità occidentale. In particolare, attacca i concetti di verità oggettiva, di bene e male assoluti e di morale universale. Per lui, tali concetti sono costruzioni artificiali create dalle istituzioni religiose e politiche per mantenere il controllo sulle masse. Il pensiero di Nietzsche è rivoluzionario perché propone una nuova etica basata sulla “volontà di potenza” e sull’affermazione della propria individualità, in netto contrasto con le morali collettiviste e cristiane.

Uno degli aspetti più noti e fraintesi del pensiero di Nietzsche è la sua teoria dell’Oltreuomo (Übermensch). L’Oltreuomo non è, come spesso interpretato, un tiranno o una figura autoritaria, ma un individuo che è in grado di andare oltre i valori tradizionali e di creare nuovi orizzonti di significato. Per il filosofo, l’uomo comune è legato a norme convenzioni e morali, che non ha scelto ma che ha semplicemente ereditato dalla società. L’Oltreuomo, invece, è colui che è in grado di creare i propri valori, affermando se stesso e la propria volontà. Questo concetto è strettamente legato alla famosa affermazione della “morte di Dio”. Quando Nietzsche proclama che “Dio è morto” non intende annunciare la fine della religione tout court, quanto piuttosto il crollo di tutti i valori assoluti che per secoli hanno dato senso all’esistenza umana. La morte di Dio rappresenta, dunque, una crisi esistenziale per l’uomo moderno, che si trova improvvisamente senza punti di riferimento e costretto a inventare nuove forme di significato.
L’Oltreuomo è la risposta di Nietzsche a questa crisi: è colui che, in un mondo privo di valori trascendenti, ha la forza di creare la propria morale e di vivere in modo autentico, abbracciando la vita in tutte le sue contraddizioni e difficoltà. Tuttavia, questo concetto è stato spesso drammaticamente frainteso e utilizzato in modi perversi, in particolare dal nazismo, che vide nell’Oltreuomo l’ideale della razza superiore. In realtà, l’idea di Nietzsche era molto più complessa e non aveva nulla a che fare con l’eugenetica o il razzismo.
La vita di Nietzsche è stata altrettanto complessa quanto il suo pensiero. Nato in una famiglia protestante, con un padre pastore, si allontanò ben presto dalle convinzioni religiose familiari. All’età di ventiquattro anni, diventò professore di Filologia classica all’Università di Basilea, posizione prestigiosa per un giovane così promettente. Tuttavia, abbandonò presto la carriera accademica a causa dei suoi problemi di salute e della sua insoddisfazione nei confronti del mondo universitario, che considerava limitante e soffocante. La sua vita fu segnata da una salute fragile: soffriva di emicranie, disturbi gastrointestinali, insonnia e problemi alla vista, che lo accompagnarono per tutta la vita e che lo ridussero a una solitudine forzata.
Costretto a ritirarsi dall’ambiente accademico, trascorse gran parte della sua vita vagando per l’Europa, vivendo in pensioni e piccoli appartamenti, sempre alla ricerca di climi che potessero alleviare i suoi dolori fisici. Questa solitudine fu anche una condizione necessaria per il suo lavoro filosofico: Nietzsche era un pensatore profondamente introspettivo e la sua solitudine gli permise di esplorare le profondità della propria mente e del pensiero umano.
La sua vita fu anche segnata da relazioni personali difficili. Nonostante l’amicizia e la grande ammirazione per Richard Wagner, si allontanò progressivamente dal compositore, criticandone il legame con l’ideologia tedesca del tempo. La sua vita sentimentale fu altrettanto travagliata: non si sposò mai e le sue relazioni con le donne furono complesse e spesso dolorose.
Gli ultimi undici anni della sua vita furono tragici: cadde in uno stato di follia, probabilmente a causa di una forma avanzata di sifilide o di un crollo nervoso, e trascorse il resto dei suoi giorni sotto la cura della madre e della sorella. Ma anche nella follia, la sua opera continuava a esercitare una potente influenza sugli intellettuali dell’epoca che sarebbe seguitata persino su quelli del futuro.

 

 

 

 

History of Medieval Church


Part XIII


Heretical Movements from the 11th to the 13th Century

The Inquisition

 

 

 

 

 

The Church, so entangled in the life of the Empire that it became a fundamental and constitutive part of it, was also drawn into a lifestyle marked by extravagant luxury and its associated pleasures. Simony and Nicolaitism denounced its moral degradation and spiritual decline, which led it to lose its identity and sense of mission. However, from the second half of the 11th century, spiritualist and ascetic rigorist movements emerged from within the Church itself, even among laypeople, aiming for its transformation and spiritual renewal. These movements sought purity of life and a return to the essential evangelical life modeled after the primitive Church described in the Acts. These movements, characterized by poverty and asceticism, became strong allies of the Gregorian reform and of all the popes who promoted it. However, it must be noted that the spontaneous formation of these groups, often lacking adequate theological and cultural formation and driven mostly by spontaneity and indignation against the Church’s shameful lifestyle, frequently resulted in doctrinally deviant behavior. Nonetheless, these movements, both positively and negatively, were a clear sign that the Church could no longer continue in its current state. They prompted reflection that led to a gradual detachment from the Empire and to a rediscovery of the Church’s identity and mission. Among these, the Waldensians, the Cathars or Albigensians, and the Patarenes are especially noteworthy for their spread.

The Waldensians

They originated from the wealthy merchant Peter Waldo of Lyon. Inspired by a meditation on Matthew 10:5ff, he sold everything he had and embraced the ideal of poverty. His followers were called “Pauperes Christi” (Poor of Christ). His preaching was not without excesses: he criticized the veneration of saints and relics, and also claimed, under pain of sin, that it was necessary to live in evangelical poverty. The bishop forbade him from preaching, but the Third Lateran Council, after he appealed to Pope Alexander III, reinstated his right. However, this permission was revoked by Alexander III’s successor, Lucius III (1181–1185), against whom Waldo rebelled, leading to his excommunication. Waldensianism split into two branches: one in Lyon and one in Lombardy, where followers were persecuted and forced to seek refuge in the valleys of the Turin area, also known as the Waldensian Valleys.

The Cathars or Albigensians

They originated from a form of Manichaeism. They taught that the world was created by the devil, that is, the evil God of the Old Testament, against whom the good God of the New Testament sent his angel Jesus Christ to teach humans how to free themselves from evil matter and thus become pure, or kaqaroi. Consequently, all of creation was seen as evil, including the human body, marriage, and sexual relations — all things to be avoided. They opposed the wealthy Catholic Church with their own poor church, organized similarly to the Catholic structure. The Cathars also fought fiercely against the state, referring to the emperor as the “proconsul of Satan.” They spread mainly in France, particularly in Albi, from which they took the name Albigensians. Their wide reach in France led them to ally with barons preparing for conflicts against the French Crown. Thus, Church and State joined forces to fight them — the former with the Inquisition, the latter with military force. Pope Innocent III (1198–1216) called a crusade against them, which triggered a twenty-year war with massive bloodshed.

The Patarenes

This was a political-religious movement that emerged in Milan around the mid-11th century in opposition to the oppression of the corrupt high clergy. It was composed mainly of the lower classes and was called the Patarenes, named after the Milanese rag market. The movement arose as a reaction to the appointment of Guido da Velate as Archbishop of Milan.

The Inquisition

In the Middle Ages, there was strong solidarity between Church and State, which, under Charlemagne and the German Ottonians, became one of identification between religion and politics. Within this framework — where faith was not separate from one’s civic identity — any doctrinal deviation was also considered an attack on the state, due to the deep bond between the two. Heresy was thus not seen merely as doctrinal error, but as opposition to the Church and to the established order. In the context of medieval heresies, a distinction must be made between “heterodoxies” — erroneous opinions developed within academic and intellectual circles and largely confined there — and the popular heretical movements characterized by ascetic rigor and populist biblical interpretations. These movements often represented a distorted and extreme reaction to the Church’s luxurious and indulgent lifestyle. Their goal was a “renovation of the Church,” but pursued in the wrong way. Thus, by opposing the Church, they undermined the harmonious world of the noble Church and, consequently, the social order.

Combating Heresy and the Inquisition

As long as heresy remained sporadic and confined to academic circles — which already had internal mechanisms for repression — or existed among the populace as mere erroneous belief, it posed no major issue. The problem arose when heresy rapidly spread among the people and formed organized movements that often led to uprisings and disturbances of social peace around 1150. This prompted the pope to issue strict measures against heresy, which was classified as a crime of lèse-majesté and disturbance of public order. The fight against heretics thus aimed at safeguarding and restoring social peace and public order. A significant boost to this fight came from procedural reform: judges no longer acted only upon complaints but also conducted official investigations, taking an active role in accusations. This led to the development of the inquisitorial procedure — the Inquisition. In its initial phase, the Inquisition was overseen by individual bishops who appointed “inquisitors,” though they proved largely ineffective. It was under Gregory IX (1227–1241) and Innocent IV (1243–1254) that the Inquisition gained considerable operational and legal momentum: it shifted from an episcopal to a papal institution, and the inquisitors were granted extensive powers, combining the roles of prosecutor, judge, and sentencer. Heresy became a crime under exclusive papal jurisdiction. Trials were held behind closed doors, and the accused were stripped of all rights. The inquisitor typically sought to confirm his own investigations and did not hesitate to resort to torture. In this climate, trials became public spectacles, with verdicts often predetermined. The Inquisition was most established in Italy, Spain, and France. Gregory IX entrusted it to the Dominicans and Franciscans. There were two types of Inquisition: one of papal origin, initiated by Innocent III (1198–1216), and one of Spanish origin, launched by the Spanish monarchs in 1478, which became a tool of royal power against Jewish, Islamic, and heterodox minorities. From a legal perspective, there were two inquisitorial procedures: one ex officio — where papal legates independently sought out heretics — and one based on denunciation. Once heresy was confirmed, the heretic was urged to recant; if not, they were handed over to the secular arm, which usually sentenced them to death, commonly by burning. Under Innocent IV (1243–1254), torture was authorized to extract confessions of heresy. Besides heretics, the Inquisition also targeted witchcraft, another obsession of that era.

 

 

 

 

 

 

 

Filosofia e mutamenti sociali

Tra eredità storiche e prova dei fatti

 

 

 

Nel corso della storia, i filosofi si sono interrogati incessantemente sulle modalità e sulle cause dell’evoluzione della realtà sociale, elaborando interpretazioni che riflettono differenti sensibilità teoriche e contesti storici. Alcuni hanno attribuito questa funzione alle idee, alla coscienza individuale o collettiva; altri hanno visto nei fattori economici il motore primario del cambiamento sociale oppure nei progressi scientifici e tecnologici. Questa pluralità di approcci, talvolta complementari, talaltra conflittuali, testimonia la complessità intrinseca della dinamica sociale e l’impossibilità di ridurla a una singola causa o prospettiva.
Tra le teorie più influenti spicca la tradizione dell’idealismo, soprattutto nella forma assunta dal pensiero di G.W.F. Hegel. Per Hegel, il motore della storia non è la materia, bensì lo sviluppo progressivo dello Spirito (Geist), inteso come autocoscienza razionale e libera. L’evoluzione sociale è interpretata come il dispiegarsi dialettico della libertà, attraverso momenti di conflitto e superamento (Aufhebung), in una direzione teleologica verso la piena realizzazione della ragione e della libertà nell’ordine politico e giuridico.
In netta contrapposizione all’idealismo si colloca il materialismo storico, elaborato in modo sistematico da Karl Marx e Friedrich Engels. Secondo questa impostazione, è la struttura economica – il modo di produzione dei beni materiali – a determinare, in ultima istanza, la sovrastruttura politica, giuridica e ideologica della società. Il cambiamento storico si origina dal conflitto tra le forze produttive e i rapporti di produzione e l’evoluzione sociale è vista come il risultato necessario di tali contraddizioni interne. Questa concezione ha avuto un enorme impatto, fornendo una chiave di lettura che ha ispirato movimenti politici e interpretazioni storiche nel corso di tutto il XX secolo.

Accanto a queste due grandi correnti, il positivismo – affermatosi soprattutto nel XIX secolo con figure come Auguste Comte – ha proposto una visione della realtà sociale ispirata ai metodi delle scienze naturali. Per i positivisti, l’evoluzione della società segue leggi oggettive e progressive, analoghe a quelle che regolano i fenomeni fisici. Comte, in particolare, teorizzò la “legge dei tre stadi”, secondo cui l’umanità progredisce da una fase teologica a una metafisica, per giungere infine a una fase scientifica e positiva, dominata dal sapere empirico e tecnico. L’ottimismo positivista vedeva nella scienza e nella tecnologia le leve principali del progresso sociale.
Va sottolineato con decisione che nessun appello al prestigio intellettuale di questi grandi sistemi teorici può sostituire la verifica empirica. La validità di una teoria circa l’evoluzione della realtà sociale non risiede nel suo pedigree filosofico, bensì nella sua capacità di interpretare e spiegare i processi reali, di coglierne le contraddizioni e le potenzialità, di anticiparne le direzioni future. Né l’idealismo hegeliano, con la sua visione dialettica della libertà, né il materialismo storico, con la sua robusta analisi dei conflitti economici, né il positivismo, con la sua fede nel progresso scientifico, possono valere come modelli da adottare acriticamente.
La sola fonte di legittimazione di una teoria rimane, dunque, la realtà stessa, intesa come terreno di verifica continua. Solo l’osservazione rigorosa delle trasformazioni sociali, il loro studio sistematico e la capacità della teoria di reggere alla prova dei fatti possono confermare o confutare gli assunti avanzati. Qualsiasi costruzione concettuale che si sottragga a questo criterio si condanna da sé all’irrilevanza. Il richiamo ai grandi filoni del pensiero filosofico, quindi, serve a inserirla in una tradizione critica, consapevole della complessità della realtà sociale e dell’esigenza imprescindibile di sottoporre ogni ipotesi a un confronto serrato con i dati concreti dell’esperienza storica.

 

 

 

 

Bertrand Russell aveva ragione!

Senza pensiero critico la democrazia muore

 

 

 

 

Una delle responsabilità più alte e decisive che competono alla scuola in una nazione democratica è quella di formare il pensiero critico dei suoi studenti. Non si tratta semplicemente di trasmettere informazioni o far memorizzare contenuti, ma di costruire teste pensanti, capaci di orientarsi nel mondo con giudizio autonomo e con apertura verso l’altro. Bertrand Russell, nel saggio Perché non sono cristiano del 1927, lo afferma con estrema lucidità: una democrazia vive solo se i suoi cittadini sono in grado di pensare criticamente e di confrontarsi con opinioni diverse dalle proprie. Dove questo esercizio viene impedito, si rischia di sostituire il dialogo con il dogma e la pluralità con l’uniformità.
La scuola, in questo senso, non è soltanto un luogo di istruzione, ma uno dei principali laboratori di cittadinanza. Qui si gettano le basi del pensiero libero, si impara a distinguere un fatto da un’opinione, a riconoscere le manipolazioni, a porsi domande scomode. Si apprende, soprattutto, che esistono molteplici punti di vista e che la verità non è mai proprietà esclusiva di una sola voce. Allenare il pensiero critico significa insegnare ad ascoltare senza aderire automaticamente, a dissentire senza aggredire, a valutare i contenuti e non solo chi li esprime.

Quando, al contrario, l’ambiente scolastico viene limitato dalla censura – sia essa politica, ideologica o culturale – il processo educativo viene snaturato. Se all’insegnante viene tolta la libertà di stimolare il confronto, di presentare visioni alternative, di affrontare argomenti controversi, il rischio è quello di ridurre l’istruzione a un esercizio meccanico, privo di vitalità e di senso. Peggio ancora, si finisce per alimentare un conformismo sterile, che non prepara alla vita, ma alla dipendenza intellettuale. Si coltivano così non cittadini liberi e responsabili, ma individui incapaci di gestire la complessità del reale. In altre parole, si costruisce il terreno perfetto per l’emergere del fanatismo, dell’intolleranza, della chiusura mentale.
Il pensiero di Russell, seppur espresso quasi un secolo fa, risuona oggi con una forza rinnovata. In un’epoca segnata dalla polarizzazione, dalla diffusione di fake news, dall’acerrimo odio per il nemico politico e da un crescente discredito verso la competenza e la conoscenza, la difesa del pensiero critico come cardine dell’educazione è un’urgenza civile. Non basta parlare di libertà: bisogna praticarla, e l’unico modo per farlo è rendere le persone capaci di capire, valutare, decidere con consapevolezza.
Una scuola che si limita a “non offendere” o a “non esporsi” per paura di reazioni o censure non è neutrale: è complice di una rinuncia educativa. La neutralità, in contesti di conflitto culturale o politico, spesso si traduce in accettazione silenziosa dello status quo. Al contrario, una scuola viva è una scuola che stimola il dubbio, che accoglie la complessità, che insegna a riconoscere la differenza tra libertà e permissivismo, tra rispetto e passività.
Educare al pensiero critico, quindi, è il più grande investimento che una società possa fare su sé stessa. Significa formare persone che non si accontentano di slogan, che non si lasciano guidare solo dalle emozioni o dal gruppo, ma che cercano, ragionano, scelgono. Solo così è possibile mantenere viva una democrazia: affidandosi non a una massa obbediente, ma a cittadini capaci di pensare.

 

 

 

 

L’odio per l’avversario politico non è militanza:
è fallimento culturale

 

 

#25aprile

 

 

L’odio per l’avversario politico è una scorciatoia. È il riflesso automatico di chi ha smesso di pensare. Trasforma la politica, che dovrebbe essere uno spazio di confronto tra visioni del mondo, in un’arena primitiva, dove l’obiettivo non è convincere ma distruggere. Non si cercano soluzioni, si cercano colpevoli. Non si argomenta, si sputa veleno. Questo atteggiamento non è nuovo, ma oggi si è radicalizzato e normalizzato. Sui social, nei talk show, nelle piazze digitali e fisiche, si è diffusa l’idea per cui l’avversario politico non è solo qualcuno con cui si è in disaccordo: è un’ossessione da combattere, una minaccia da annientare. Ed è proprio qui che si consuma il fallimento culturale. Perché una democrazia in salute ha bisogno del dissenso, del confronto civile, della pluralità di idee. Senza di essi, resta solo l’eco vuota del tifo.
L’odio politico, in fondo, è un sintomo. È il segnale che non si riesce più a distinguere tra identità personale e opinione politica. Si prende ogni critica come un attacco personale e si reagisce con la rabbia di chi difende se stesso, non un’idea. Questo meccanismo lo aveva già intuito Hannah Arendt, quando parlava della “banalità del male”: non servono mostri per generare violenza, bastano individui che rinunciano a pensare. E chi odia l’avversario, spesso, non pensa: si limita a ripetere slogan, a cliccare “condividi”, a nutrire una rabbia e una frustrazione impersonali e sterili.
Nietzsche, da parte sua, aveva colto un altro aspetto chiave: “Chi combatte i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro”. Quando l’odio diventa il motore della propria militanza, si perde di vista la ragione per cui si è iniziato. Si diventa ciò che si dice di combattere. E non si costruisce più nulla: si vive solo per distruggere.

In questo clima, anche il linguaggio si degrada. La complessità viene semplificata, la realtà ridotta a meme, i concetti appiattiti in etichette: “fascista”, “razzista”, “omofobo”, “servo”, “analfabeta funzionale”. Parole usate non per descrivere ma per zittire. È un linguaggio di guerra, non di dialogo. Karl Popper ci avvertiva: “la tolleranza illimitata verso l’intolleranza può distruggere la tolleranza stessa”. Oggi si fa l’opposto: si pratica l’intolleranza totale verso qualsiasi forma di pensiero dissenziente dal proprio, sovente in nome di una presunta, ma in realtà inesistente, superiorità morale e intellettuale.
L’odio politico, poi, è pigro. Non richiede studio, approfondimento, comprensione. È immediato, impulsivo, facile da condividere. Questa pigrizia è pericolosa, perché deforma la realtà. Trasforma avversari in nemici, errori in crimini, critiche in tradimenti. E, soprattutto, impedisce ogni possibilità di dialogo. Perché chi odia non ascolta, non riflette, non cambia.
C’è una responsabilità collettiva in tutto questo. Dei media, che spesso alimentano il conflitto per fare audience. Dei politici, che preferiscono la guerra culturale alla buona amministrazione. Ma anche, e soprattutto, dei cittadini, che rinunciano alla complessità in cambio della sicurezza delle certezze assolute.
Eppure, proprio oggi, serve il coraggio di fare il contrario: ascoltare l’avversario. Provare a capire, senza dover essere d’accordo. Difendere il dissenso come risorsa, non come minaccia. Perché l’unico modo per salvare la politica dall’odio è ridarle dignità. E la dignità si fonda su una semplice verità: chi la pensa diversamente non è il nemico. È parte della stessa comunità.

Se gli odiatori ossessionati e seriali non capiscono questo, abbiamo già perso. Tutti!

Specialmente a loro, dunque, auguro di comprendere, finalmente, il vero senso di questa giornata celebrativa!

 

 

 

 

 

History of Medieval Church


Part XII


Monastic Reforms and New Orders

 

 

 

 

Monasteries: from the Mixed Rule to the Rule of St. Benedict

During the Carolingian period, monasteries experienced two phases: the phase of the mixed rule, which was a combination of Western monastic rules—including the widely followed rules of the Irish-Scottish and Benedictine monks—and the phase of unification under the Benedictine Rule, guided by the work of St. Benedict of Aniane (France). Until the 8th century, around thirty different rules circulated, and each monastery had its own tradition. St. Boniface (Winfrid) attempted to unify monasteries under the single Benedictine Rule but was unsuccessful. However, the new emperor Charlemagne succeeded in this endeavor, viewing monastic unification as a guarantee of unity for the empire and thus imposing the rule on all monasteries. Alongside monasteries, prayer fraternities also emerged from the 8th century onwards. These were associations among monks or monasteries, established both for mutual support and for commemorating members and benefactors—both living and deceased. Under the reign of Louis the Pious, Charlemagne’s son, St. Benedict of Aniane continued the reform initiated by the unification of monasteries under the Benedictine Rule. He applied this rule to the 25 monasteries he founded, creating a system of aggregation that later became the foundation for Cluniac monasticism. This system led to the establishment of 2,000 convents across Europe, all centralized under the mother house of Cluny and under papal direction. St. Benedict of Aniane also compiled two works, Codex Regularum and Concordia Regularum, which provided a compendium of monastic rules up to that time. However, unifying monasticism under a single rule did not ensure the complete reform of monasteries. Since they were closely tied to the empire, they suffered the consequences of its decline.

Monastic Reform

The monastic reform that took place in Brogne (Belgium), affecting 11 monasteries and indirectly influencing England and Montecassino, was characterized by three key elements:

  • Independence of monasteries from bishops.
  • The presence of a regular abbot.
  • The adoption of the Rule of St. Benedict.

A particularly significant development was the rise and spread of the monastery of Cluny in southern France.

Cluny: History and Importance

After the Carolingian crisis, which also affected the Church due to its close ties with the empire, monastic reform movements emerged, leading to profound spiritual and cultural renewal throughout the West. These movements paved the way for the Gregorian Reform. Monasticism played a crucial role in embodying the Christian detachment from the world and guarding against secularization. It also served as a powerful call for renewal within a Church that had become deeply entangled in earthly affairs. In this way, monasticism acted as a prophetic voice within both the Church and Christendom. Unlike Eastern monasticism, which was focused on contemplation and mysticism, Western monasticism engaged with the broader concerns of Christendom. Among the many monastic reform movements of the 10th century, the Cluniac movement, centered in eastern-central France, was the most significant. In 910, Duke William the Pious founded a monastery in Cluny and placed it under papal authority, ensuring its full independence from bishops and local lords. Cluny was distinguished by the free election of its abbot, who held absolute authority, and by its extensive monastic network. As Cluny’s influence grew, its monastic model spread, leading to the foundation of 2,000 monasteries across Western Europe. The abbots of these monasteries were bound by oath to the abbot of Cluny, who exerted direct influence over their monastic life. Another defining aspect of Cluny was its emphasis on liturgy, which occupied much of the monks’ daily lives and was seen as a participation in the heavenly realm. Additionally, Cluny established monastic seminaries to train candidates for monastic life. Alongside Cluny, other reform movements contributed to the spiritual renewal of the Church and Western Christendom, particularly the reform of Brogne. The Cluniac reform also spread to Italy from 936 onward, leading to the establishment of various monastic centers, particularly in central and southern Italy. However, Italian monasticism developed distinct characteristics, including a revival of the eremitic ideal, a strong missionary enthusiasm, and a pursuit of martyrdom linked to missionary work.

The Canonical Reform

Alongside monasticism, the canonical life developed with its own distinct characteristics. This life was governed by specific rules, notably the Institutio Canonicorum or Rule of Aachen (816). The main duties established by this rule included:

  • Choral prayer.
  • A life centered on the claustrum, with shared dining and sleeping arrangements.

However, within the claustrum, canons were allowed to live in individual houses and own private property. This practice was opposed by the Synod of Aachen, which promoted an ideal of poverty, particularly in communities where chapters and monasteries coexisted. As monasteries underwent reform, chapters were also influenced by these changes. However, the reform of the chapters was short-lived because they lacked a crucial element present in monasteries: the abbot.

The Charismatic Movement: a Return to the Primitive Church

The spiritual renewal that affected monks and canons also influenced laypeople. Many sought a new spirituality based on a return to the ideals of the early Church, as described in the Acts of the Apostles: a Church that lived in community, shared its possessions, and embraced poverty and love. This ideal of poverty clashed with the reality of monasteries, which, despite requiring individual monks to live in poverty, were themselves wealthy. In contrast, those following the evangelical movement renounced material possessions entirely and withdrew to the wilderness for contemplation. This spiritual climate led some secular canons to separate from their communities and adopt a lifestyle of poverty similar to monasticism. This movement arose spontaneously and was rooted in charismatic leadership. It aligned closely with the Gregorian Reform, sharing its opposition to simony, clerical corruption, and wealth. However, because this movement lacked strong theological foundations, some members eventually deviated from Church doctrine, leading to spiritual excesses, particularly among itinerant preachers known as the Pauperes Christi. The close relationship between this movement and the general population inspired many laypeople to imitate the monastic life. Between the 8th and 10th centuries, they settled near monasteries, leading to the emergence of lay brothers or conversi, who in the 11th century joined monastic communities and lived a nearly identical lifestyle, including taking monastic vows.

Monastic Differentiation and New Orders: Carthusians and Cistercians

A period of great spiritual vitality (1059-1123) led to numerous new foundations, followed by a phase of stabilization and differentiation among monastic communities. Two key examples from this period were the Carthusians, who emphasized solitary monastic life, and the Cistercians, who stressed communal living. The Carthusian Order was founded by Bruno of Cologne (1032-1101), who, after conflicts with the Archbishop of Reims, withdrew with six companions to the wilderness of Chartreuse in 1084, establishing a hermitic way of life. The “Rules of Chartreuse” (1127) provided a legal framework that ensured the order’s longevity. The Cistercians, founded at Cîteaux in 1098, originated from Cluny but sought a stricter adherence to the Benedictine Rule, emphasizing a balance of manual labor, asceticism, silence, and solitude. Their legal framework, the Carta Caritatis, was written by their founder, Stephen Harding, and promoted charity and the salvation of souls. Unlike Cluny’s rigid centralization, Cistercian abbeys maintained mutual obligations, including annual visitations between mother and daughter houses. The order expanded rapidly across the West, with over 700 monasteries promoting a simple, austere architectural style later adopted by the Franciscans.

Female Monasticism

The spiritual fervor that gave rise to numerous movements inspired by the spirituality of the early Church, as described by Luke in the Acts of the Apostles, also involved many women. Under the influence of major monastic movements, these women lived and expressed their spirituality in ways that reflected their unique sensitivity, thereby enriching monastic life with new aspects and exclusively female institutions. In response to this growing enthusiasm, the Church sought to promote female monasticism, favoring enclosure and other observances that characterized male monasteries. However, nuns asserted their own distinct identity as women. At the time, there were no monastic rules specifically written for women—only adaptations of male monastic rules, which did not fully align with female spirituality. It was not until St. Clare that a monastic rule would be written by a woman, for women. Female monasteries included members from all social classes.

Regular Canons: the Premonstratensians

Reformed or regular monks based their lives not only on the fundamental rule of Acts 4:32 but also on the teachings of the Church Fathers. Among these, St. Augustine’s Rule of St. Augustine was particularly influential. This rule was divided into two parts:

  • The first, Ordo Monasterii or Regula Secunda, was shorter but much stricter.
  • The second, Regula Tertia or Ad Servos Dei, was more lenient and moderate.

In 1120, these two sets of rules were officially recognized, leading to a fundamental division among the regular canons:

  • The Ordo Novus, which followed the stricter Regula Secunda, sought to discredit the more lenient rule by claiming it had been written for women and was therefore unsuitable for canons.
  • The Ordo Antiquus, which adhered to the milder Regula Tertia.

This division led to conflicts and disputes between the two groups. Among them, the most widespread order was the Premonstratensians, founded in France by Norbert of Xanten, a canon and chaplain of Emperor Henry V. After withdrawing from court life, he established a canonical community with 40 clerics based on the Rule of St. Augustine. Initially contemplative, the Premonstratensians later shifted their focus toward pastoral care and preaching. At first, St. Norbert also welcomed women into the order under strict enclosure. However, over time, they were progressively excluded.

 

 

 

 

 

La lezione di Jorge da Burgos sul riso e sulla derisione
ai “politologi dell’odio”

 

 

 

 

Chi può dimenticare il monaco cieco Jorge da Burgos, il vero antagonista del romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco? Un personaggio mirabilmente costruito dal celeberrimo semiologo, a cominciare dall’omaggio, nel nome, allo scrittore argentino Jorge Luis Borges. Un personaggio che risulta essere odioso (i personaggi meglio riusciti sono quelli in grado di suscitare nel lettore forti sentimenti). Un personaggio che affascina, pur senza addentrarsi nelle sfaccettature con le quali è stato caratterizzato, per la singolare quanto lugubre concezione che ha del riso. Ecco come ce lo presenta l’Autore:

 

Jorge da Burgos, interpretato dall’attore Fëdor Fëdorovič Šaljapin
nel film del 1986 “Il nome della rosa”, diretto da Jean-Jacques Annaud

 

E fu mentre tutti ancora ridevano che udimmo alle nostre spalle una voce, solenne e severa.
“Verba vana aut risui apta non loqui”.
Ci voltammo. Chi aveva parlato era un monaco curvo per il peso degli anni, bianco come la neve, non dico solo il pelo, ma pure il viso, e le pupille. Mi avvidi che era cieco. La voce era ancora maestosa e le membra possenti anche se il corpo era rattrappito dal peso dell’età. Ci fissava come se ci vedesse, e sempre anche in seguito lo vidi muoversi e parlare come se possedesse ancora il bene della vista. Ma il tono della voce era invece di chi possieda solo il dono della profezia.
“L’uomo venerando d’età e sapienza che vedete”, disse Malachia a Guglielmo indicandogli il nuovo venuto, “è Jorge da Burgos. Più vecchio di chiunque viva nel monastero, salvo Alinardo da Grottaferrata, egli è colui a cui moltissimi tra i monaci affidano il carico dei loro peccati nel segreto della confessione”. Poi, volgendosi al vegliardo: “Quello che sta davanti a voi è frate Guglielmo da Baskerville, nostro ospite”.
“Spero che non vi siate adirato per le mie parole”, disse il vecchio in tono brusco. “Ho udito persone che ridevano su cose risibili e ho ricordato loro uno dei principi della nostra regola. E come dice il salmista, se il monaco si deve astenere dai discorsi buoni per il voto di silenzio, a quanto maggior ragione deve sottrarsi ai discorsi cattivi. E come ci sono discorsi cattivi ci sono immagini cattive. E sono quelle che mentono circa la forma della creazione e mostrano il mondo al contrario di ciò che deve essere, è sempre stato e sempre sarà nei secoli dei secoli sino alla consunzione dei tempi. Ma voi venite da altro ordine, dove mi dicono è vista con indulgenza anche la giocondità più inopportuna”.
 
E, ancora, sul riso:
 
Si parlava del riso”, disse seccamente Jorge. “Le commedie erano scritte dai pagani per muovere gli spettatori al riso, e male facevano. Gesù Nostro Signore non raccontò mai commedie né favole, ma solo limpide parabole che allegoricamente ci istruiscono su come guadagnarci il paradiso, e così sia”.
“Mi chiedo”, disse Guglielmo, “perché siate tanto contrario a pensare che Gesù abbia mai riso. Io credo che il riso sia una buona medicina, come i bagni, per curare gli umori e le altre affezioni del corpo, in particolare la melanconia”.
“I bagni sono cosa buona”, disse Jorge, “e lo stesso Aquinate li consiglia per rimuovere la tristezza, che può essere passione cattiva quando non si rivolga a un male che possa essere rimosso attraverso l’audacia. I bagni restituiscono l’equilibrio degli umori. Il riso squassa il corpo, deforma i lineamenti del viso, rende l’uomo simile alla scimmia”.
“Le scimmie non ridono, il riso è proprio dell’uomo, è segno della sua razionalità”, disse Guglielmo.
“È segno della razionalità umana anche la parola e con la parola si può bestemmiare Dio. Non tutto ciò che è proprio dell’uomo è necessariamente buono. Il riso è segno di stoltezza. Chi ride non crede in ciò di cui si ride, ma neppure lo odia. E dunque ridere del male significa non disporsi a combatterlo e ridere del bene significa disconoscere la forza per cui il bene è diffusivo di sé. Per questo la Regola dice: «decimus humilitatis gradus est si non sit facilis ac promptus in risu, quia scriptum est: stultus in risu exaltat vocem suam»”.
[…]
“Ma Ildeberto disse: «Admittendo tibi joca sunt post seria quaedam, sed tamen et dignis et ipsa gerenda modis.» E Giovanni di Salisbury ha autorizzato una modesta ilarità. E infine l’Ecclesiaste, di cui avete citato il passo a cui si riferisce la vostra Regola, dove si dice che il riso è proprio dello stolto, ammette almeno un riso silenzioso, dell’animo sereno”.
“L’animo è sereno solo quando contempla la verità e si diletta del bene compiuto, e della verità e del bene non si ride. Ecco perché Cristo non rideva. Il riso è fomite di dubbio.”
“Ma talora è giusto dubitare.”
“Non ne vedo la ragione. Quando si dubita occorre rivolgersi a un’autorità, alle parole di un padre o di un dottore, e cessa ogni ragione di dubbio. Mi sembrate imbevuto di dottrine discutibili, come quelle dei logici di Parigi. Ma san Bernardo seppe bene intervenire contro il castrato Abelardo che voleva sottomettere tutti i problemi al vaglio freddo e senza vita di una ragione non illuminata dalle scritture, pronunciando il suo è così e non è così. Certo colui che accetti queste idee pericolosissime può anche apprezzare il gioco dell’insipiente che ride di ciò di cui solo si deve sapere l’unica verità, che è già stata detta una volta per tutte. Così ridendo l’insipiente dice implicitamente «Deus non est»”.

 

Copertina de “Il nome della rosa”, Bompiani, 1980

 

Un personaggio, Jorge, che odia. Odia il riso e la derisione. Li odia perché li teme. Ma teme soprattutto la derisione di ciò di cui ha paura:

“Ma cosa ti ha spaventato in questo discorso sul riso? Non elimini il riso eliminando questo libro”. Chiese Guglielmo.
“No, certo”, rispose Jorge. “Il riso è la debolezza, la corruzione, l’insipidità della nostra carne. È il sollazzo per il contadino, la licenza per l’avvinazzato, anche la Chiesa nella sua saggezza ha concesso il momento della festa, del carnevale, della fiera, questa polluzione diurna che scarica gli umori e trattiene da altri desideri e da altre ambizioni… Ma così il riso rimane cosa vile, difesa per i semplici, mistero dissacrato per la plebe. Lo diceva anche l’apostolo, piuttosto di bruciare, sposatevi. Piuttosto di ribellarvi all’ordine voluto da Dio, ridete e dilettatevi delle vostre immonde parodie dell’ordine, alla fine del pasto, dopo che avete vuotato le brocche e i fiaschi. Eleggete il re degli stolti, perdetevi nella liturgia dell’asino e del maiale, giocate a rappresentare i vostri saturnali a testa in giù… Ma qui, qui…” ora Jorge batteva il dito sul tavolo, vicino al libro che Guglielmo teneva davanti”, qui si ribalta la funzione del riso, la si eleva ad arte, le si aprono le porte del mondo dei dotti, se ne fa oggetto di filosofia, e di perfida teologia… Tu hai visto ieri come i semplici possono concepire, e mettere in atto, le più torbide eresie, disconoscendo e le leggi di Dio e le leggi della natura. Ma la chiesa può sopportare l’eresia dei semplici, i quali si condannano da soli, rovinati dalla loro ignoranza. La incolta dissennatezza di Dolcino e dei suoi pari non porrà mai in crisi l’ordine divino. Predicherà violenza e morirà di violenza, non lascerà traccia, si consumerà così come si consuma il carnevale, e non importa se durante la festa si sarà prodotta in terra, e per breve tempo, l’epifania del mondo alla rovescia. Basta che il gesto non si trasformi in disegno, che questo volgare non trovi un latino che lo traduca. Il riso libera il villano dalla paura del diavolo, perché nella festa degli stolti anche il diavolo appare povero e stolto, dunque controllabile. Ma questo libro potrebbe insegnare che liberarsi della paura del diavolo è sapienza. Quando ride, mentre il vino gli gorgoglia in gola, il villano si sente padrone, perché ha capovolto i rapporti di signoria: ma questo libro potrebbe insegnare ai dotti gli artifici arguti, e da quel momento illustri, con cui legittimare il capovolgimento. Allora si trasformerebbe in operazione dell’intelletto quello che nel gesto irriflesso del villano è ancora e fortunatamente operazione del ventre. Che il riso sia proprio dell’uomo è segno del nostro limite di peccatori. Ma da questo libro quante menti corrotte come la tua trarrebbero l’estremo sillogismo, per cui il riso è il fine dell’uomo! Il riso distoglie, per alcuni istanti, il villano dalla paura. Ma la legge si impone attraverso la paura, il cui nome vero è timor di Dio. E da questo libro potrebbe partire la scintilla luciferina che appiccherebbe al mondo intero un nuovo incendio: e il riso si disegnerebbe come l’arte nuova, ignota persino a Prometeo, per annullare la paura. Al villano che ride, in quel momento, non importa di morire: ma poi, cessata la sua licenza, la liturgia gli impone di nuovo, secondo il disegno divino, la paura della morte. E da questo libro potrebbe nascere la nuova e distruttiva aspirazione a distruggere la morte attraverso l’affrancamento dalla paura. E cosa saremmo, noi creature peccatrici, senza la paura, forse il più provvido, e affettuoso dei doni divini? Per secoli i dottori e i padri hanno secreto profumate essenze di santo sapere per redimere, attraverso il pensiero di ciò che è alto, la miseria e la tentazione di ciò che è basso. E questo libro, giustificando come miracolosa medicina la commedia, e la satira e il mimo, che produrrebbero la purificazione dalle passioni attraverso la rappresentazione del difetto, del vizio, della debolezza, indurrebbe i falsi sapienti a tentar di redimere (con diabolico rovesciamento) l’alto attraverso l’accettazione del basso. Da questo libro deriverebbe il pensiero che l’uomo può volere sulla terra (come suggeriva il tuo Bacone a proposito della magìa naturale) l’abbondanza stessa del paese di Cuccagna. Ma è questo che non dobbiamo e non possiamo avere. Guarda i monacelli che si svergognano nella parodia buffonesca della Coena Cypriani. Quale diabolica trasfigurazione della sacra scrittura! Eppure nel farlo sanno che ciò è male. Ma il giorno che la parola del Filosofo giustificasse i giochi marginali della immaginazione entro si perderebbe ogni traccia. Il popolo di Dio si trasformerebbe in una assemblea di mostri eruttati dagli abissi della terra incognita, e in quel momento la periferia della terra conosciuta diventerebbe il cuore dell’impero cristiano, gli arimaspi sul trono di Pietro, i blemmi nei monasteri, i nani dal ventre grosso e dalla testa immensa a guardia della biblioteca! I servi a dettare la legge, noi (ma anche tu, allora) a ubbidire alla vacanza di ogni legge. Disse un filosofo greco (che il tuo Aristotele qui cita, complice e immonda auctoritas) che si deve smantellare la serietà degli avversari con il riso, e il riso avversare con la serietà. La prudenza dei nostri padri ha fatto la sua scelta: se il riso è il diletto della plebe, la licenza della plebe venga tenuta a freno e umiliata, e intimorita con la severità. E la plebe non ha armi per affinare il suo riso sino a farlo diventare strumento contro la serietà dei pastori che devono condurla alla vita eterna e sottrarla alle seduzioni del ventre, delle pudenda, del cibo, dei suoi sordidi desideri. Ma se qualcuno un giorno, agitando le parole del Filosofo, e quindi parlando da filosofo, portasse l’arte del riso a condizione di arma sottile, se alla retorica della convinzione si sostituisse la retorica dell’irrisione, se alla topica della paziente e salvifica costruzione delle immagini della redenzione si sostituisse la topica dell’impaziente decostruzione e dello stravolgimento di tutte le immagini più sante e venerabili – oh quel giorno anche tu e tutta la tua sapienza, Guglielmo, ne sareste travolti!”.

Le periodiche riflessioni che compio confrontandomi col capolavoro di Umberto Eco mi hanno indotto a scovare paralleli (certamente assenti nelle intenzioni dell’Autore) tra Jorge da Burgos, l’odio, la derisione e i “politologi dell’odio”, espressione, quest’ultima, con la quale definisco quei sostenitori di qualsiasi parte politica, che siano giornalisti, opinionisti o semplici cittadini, capaci soltanto di manifestare odio verso “quelli dell’altra parte”, meramente perché si trovano dall’altra parte, e di deriderli.
La lezione di Jorge da Burgos sul riso e sulla derisione, come atteggiamento e pratica di chi odia gli avversari politici, è la seguente: deridere con odio un leader politico avversario è dannoso, perché la derisione lo rende meno “pauroso” agli occhi dei suoi possibili sostenitori (“Il riso libera il villano dalla paura del diavolo, perché nella festa degli stolti anche il diavolo appare povero e stolto, dunque controllabile”). Ridicolizzare un esponente politico, parlandone spasmodicamente in termini sarcastici e dileggiatori, da un lato, irrita i suoi sostenitori, i quali, controbattendo, sviliscono il dibattito con argomentazioni solitamente di pari grado, e, dall’altro, lo riportano a una dimensione comune, da uomo comune, che lo rende suscettibile di instillare “simpatia”, aumentandone inevitabilmente il consenso. Per cui, se si vuole arrecare danno a un leader politico avversario e ridurne il consenso bisogna parlarne il meno possibile, laddove oggi, specialmente sui social network, è un vomitare continuo di odio, dileggio e derisione contro gli esponenti politici avversari. Poi, è facile giustificarne l’ascesa al governo con l’analfabetismo funzionale degli elettori che lo votano. È troppo facile, perbacco!

 

Umberto Eco (1932-2016)

 

 

 

 

 

 

L’utopia realizzabile

La visione politica di James Harrington
in La Repubblica di Oceana

 

 

 

 

James Harrington, filosofo e teorico politico inglese, scrisse La Repubblica di Oceana nel 1656, in un periodo storico segnato da profondi cambiamenti politici e sociali in Inghilterra. L’opera fu pubblicata durante il Commonwealth di Oliver Cromwell, successivo alla Guerra civile inglese (1642-1651) e alla decapitazione del re Carlo I nel 1649. In un’epoca in cui il vecchio ordine monarchico veniva messo in discussione e le idee repubblicane iniziavano a guadagnare terreno, Harrington propose un modello di governo che si poneva quale alternativa sia al dispotismo monarchico sia ai rischi di instabilità associati alla democrazia diretta. La Repubblica di Oceana rappresenta, quindi, una risposta politica e intellettuale ai problemi del suo tempo, fornendo la visione di una società razionale, equilibrata e stabile.
Il contesto culturale e politico del Seicento inglese fu caratterizzato da una crescente riflessione sulla sovranità, sulla proprietà e sulla partecipazione politica. La rivoluzione puritana e la successiva instaurazione del Commonwealth avevano sollevato interrogativi fondamentali sull’organizzazione del potere e sul ruolo delle istituzioni. Harrington, influenzato dai classici greci e romani, nonché dalle opere di Machiavelli, si fece portavoce di un’idea di governo basata su princìpi razionali e sulla virtù civica. La sua opera si distingue per l’intento pratico: non si limita a immaginare una società ideale, ma si propone di offrire soluzioni concrete e applicabili al contesto inglese del suo tempo.
Il cuore della riflessione di Harrington risiede nella connessione tra proprietà terriera e potere politico. Secondo il filosofo, il controllo della terra determina inevitabilmente l’equilibrio delle forze politiche in una società. La concentrazione delle proprietà in poche mani conduce a governi oligarchici o tirannici, mentre una distribuzione più equa della terra garantisce stabilità e partecipazione democratica. Harrington propone, quindi, una redistribuzione della proprietà fondiaria come fondamento di una società giusta e di un governo repubblicano. Questo approccio evidenzia l’importanza delle strutture economiche come base per l’organizzazione politica, anticipando tematiche che sarebbero poi emerse con forza nel pensiero politico moderno.

Un altro elemento centrale di La Repubblica di Oceana è la sua struttura istituzionale, che riflette un modello di governo misto. Harrington immagina una repubblica in cui il potere sia distribuito tra diverse istituzioni, ognuna delle quali rappresenta un principio politico distinto. Il Senato rappresenta l’aristocrazia e si occupa della deliberazione e della formulazione delle leggi, mentre l’assemblea popolare, espressione della democrazia, approva le decisioni legislative. A questi due organi si aggiunge un esecutivo, incaricato di applicare le leggi e garantire l’equilibrio tra le parti. Questo sistema misto si ispira alla costituzione dell’antica Roma e alle riflessioni di Polibio sulla combinazione di monarchia, aristocrazia e democrazia, adattandole al contesto moderno di Harrington. Per prevenire la corruzione e il consolidamento del potere, Harrington introduce l’idea della rotazione degli incarichi pubblici attraverso meccanismi di sorteggio ed elezione, una proposta che mira a garantire la partecipazione diffusa e a evitare che una classe politica si trasformi in una casta privilegiata.
L’etica politica di Harrington ruota intorno al concetto di virtù civica, considerata il fondamento di una società stabile e giusta. In Oceana, i cittadini sono attivamente coinvolti nella vita politica e mettono il bene comune al di sopra degli interessi personali. La partecipazione attiva e consapevole alla res publica è il principio cardine su cui si basa la stabilità della repubblica. Harrington ritiene che una società virtuosa possa essere costruita solo attraverso un’educazione politica e una distribuzione equa delle risorse, che impediscano la formazione di disuguaglianze eccessive.
Sul piano delle influenze e dei confronti, La Repubblica di Oceana si colloca nel filone delle utopie politiche del Seicento, ma si distingue per la sua attenzione alle implicazioni pratiche delle teorie proposte. Rispetto a opere precedenti, come La Città del Sole di Tommaso Campanella, pubblicata nel 1602, l’approccio di Harrington è meno idealistico e più orientato a rispondere alle esigenze concrete del suo tempo. Campanella immagina una società teocratica e proto-comunista, in cui la proprietà privata è abolita e il governo è affidato ai sapienti, secondo una visione influenzata dal neoplatonismo e dalla religiosità. Harrington, invece, considera la proprietà come una componente essenziale dell’ordine politico e si concentra su una redistribuzione equa piuttosto che sulla sua eliminazione.
Un altro confronto significativo è con Nuova Atlantide di Francis Bacon, pubblicata postuma nel 1626. Bacon descrive una società ideale basata sul progresso scientifico e tecnologico, in cui l’organizzazione politica è subordinata alla ricerca del sapere e al benessere collettivo derivante dall’innovazione. Sebbene Harrington condivida l’idea di una società razionale, la sua attenzione si rivolge principalmente agli aspetti istituzionali e alla gestione del potere, piuttosto che alla scienza o alla tecnologia.
Infine, un paragone interessante può essere fatto con Utopia di Thomas More, pubblicata nel 1516, che, pur appartenendo a un contesto storico e culturale diverso, condivide con Oceana il desiderio di riformare la società attraverso un modello ideale. Tuttavia, mentre l’opera di More si presenta come una narrazione satirica che solleva interrogativi senza offrire soluzioni applicabili, Harrington costruisce un sistema politico dettagliato e concretamente realizzabile.
L’eredità de La Repubblica di Oceana è significativa, in quanto anticipa molte delle idee che sarebbero state sviluppate nel pensiero politico moderno. Harrington influenzò teorici come John Locke e Montesquieu, i quali ripresero i suoi concetti di separazione dei poteri e di equilibrio politico. L’opera ispirò anche i Padri Fondatori degli Stati Uniti, che ne trassero spunti per la redazione della Costituzione americana. In definitiva, La Repubblica di Oceana costituisce un punto di incontro tra utopia e realismo politico, una visione ambiziosa di una società giusta e stabile che riflette le tensioni e le speranze del Seicento inglese, ma che continua a offrire spunti di riflessione anche nella contemporaneità.