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Filosofia e mutamenti sociali

Tra eredità storiche e prova dei fatti

 

 

 

Nel corso della storia, i filosofi si sono interrogati incessantemente sulle modalità e sulle cause dell’evoluzione della realtà sociale, elaborando interpretazioni che riflettono differenti sensibilità teoriche e contesti storici. Alcuni hanno attribuito questa funzione alle idee, alla coscienza individuale o collettiva; altri hanno visto nei fattori economici il motore primario del cambiamento sociale oppure nei progressi scientifici e tecnologici. Questa pluralità di approcci, talvolta complementari, talaltra conflittuali, testimonia la complessità intrinseca della dinamica sociale e l’impossibilità di ridurla a una singola causa o prospettiva.
Tra le teorie più influenti spicca la tradizione dell’idealismo, soprattutto nella forma assunta dal pensiero di G.W.F. Hegel. Per Hegel, il motore della storia non è la materia, bensì lo sviluppo progressivo dello Spirito (Geist), inteso come autocoscienza razionale e libera. L’evoluzione sociale è interpretata come il dispiegarsi dialettico della libertà, attraverso momenti di conflitto e superamento (Aufhebung), in una direzione teleologica verso la piena realizzazione della ragione e della libertà nell’ordine politico e giuridico.
In netta contrapposizione all’idealismo si colloca il materialismo storico, elaborato in modo sistematico da Karl Marx e Friedrich Engels. Secondo questa impostazione, è la struttura economica – il modo di produzione dei beni materiali – a determinare, in ultima istanza, la sovrastruttura politica, giuridica e ideologica della società. Il cambiamento storico si origina dal conflitto tra le forze produttive e i rapporti di produzione e l’evoluzione sociale è vista come il risultato necessario di tali contraddizioni interne. Questa concezione ha avuto un enorme impatto, fornendo una chiave di lettura che ha ispirato movimenti politici e interpretazioni storiche nel corso di tutto il XX secolo.

Accanto a queste due grandi correnti, il positivismo – affermatosi soprattutto nel XIX secolo con figure come Auguste Comte – ha proposto una visione della realtà sociale ispirata ai metodi delle scienze naturali. Per i positivisti, l’evoluzione della società segue leggi oggettive e progressive, analoghe a quelle che regolano i fenomeni fisici. Comte, in particolare, teorizzò la “legge dei tre stadi”, secondo cui l’umanità progredisce da una fase teologica a una metafisica, per giungere infine a una fase scientifica e positiva, dominata dal sapere empirico e tecnico. L’ottimismo positivista vedeva nella scienza e nella tecnologia le leve principali del progresso sociale.
Va sottolineato con decisione che nessun appello al prestigio intellettuale di questi grandi sistemi teorici può sostituire la verifica empirica. La validità di una teoria circa l’evoluzione della realtà sociale non risiede nel suo pedigree filosofico, bensì nella sua capacità di interpretare e spiegare i processi reali, di coglierne le contraddizioni e le potenzialità, di anticiparne le direzioni future. Né l’idealismo hegeliano, con la sua visione dialettica della libertà, né il materialismo storico, con la sua robusta analisi dei conflitti economici, né il positivismo, con la sua fede nel progresso scientifico, possono valere come modelli da adottare acriticamente.
La sola fonte di legittimazione di una teoria rimane, dunque, la realtà stessa, intesa come terreno di verifica continua. Solo l’osservazione rigorosa delle trasformazioni sociali, il loro studio sistematico e la capacità della teoria di reggere alla prova dei fatti possono confermare o confutare gli assunti avanzati. Qualsiasi costruzione concettuale che si sottragga a questo criterio si condanna da sé all’irrilevanza. Il richiamo ai grandi filoni del pensiero filosofico, quindi, serve a inserirla in una tradizione critica, consapevole della complessità della realtà sociale e dell’esigenza imprescindibile di sottoporre ogni ipotesi a un confronto serrato con i dati concreti dell’esperienza storica.

 

 

 

 

Bertrand Russell aveva ragione!

Senza pensiero critico la democrazia muore

 

 

 

 

Una delle responsabilità più alte e decisive che competono alla scuola in una nazione democratica è quella di formare il pensiero critico dei suoi studenti. Non si tratta semplicemente di trasmettere informazioni o far memorizzare contenuti, ma di costruire teste pensanti, capaci di orientarsi nel mondo con giudizio autonomo e con apertura verso l’altro. Bertrand Russell, nel saggio Perché non sono cristiano del 1927, lo afferma con estrema lucidità: una democrazia vive solo se i suoi cittadini sono in grado di pensare criticamente e di confrontarsi con opinioni diverse dalle proprie. Dove questo esercizio viene impedito, si rischia di sostituire il dialogo con il dogma e la pluralità con l’uniformità.
La scuola, in questo senso, non è soltanto un luogo di istruzione, ma uno dei principali laboratori di cittadinanza. Qui si gettano le basi del pensiero libero, si impara a distinguere un fatto da un’opinione, a riconoscere le manipolazioni, a porsi domande scomode. Si apprende, soprattutto, che esistono molteplici punti di vista e che la verità non è mai proprietà esclusiva di una sola voce. Allenare il pensiero critico significa insegnare ad ascoltare senza aderire automaticamente, a dissentire senza aggredire, a valutare i contenuti e non solo chi li esprime.

Quando, al contrario, l’ambiente scolastico viene limitato dalla censura – sia essa politica, ideologica o culturale – il processo educativo viene snaturato. Se all’insegnante viene tolta la libertà di stimolare il confronto, di presentare visioni alternative, di affrontare argomenti controversi, il rischio è quello di ridurre l’istruzione a un esercizio meccanico, privo di vitalità e di senso. Peggio ancora, si finisce per alimentare un conformismo sterile, che non prepara alla vita, ma alla dipendenza intellettuale. Si coltivano così non cittadini liberi e responsabili, ma individui incapaci di gestire la complessità del reale. In altre parole, si costruisce il terreno perfetto per l’emergere del fanatismo, dell’intolleranza, della chiusura mentale.
Il pensiero di Russell, seppur espresso quasi un secolo fa, risuona oggi con una forza rinnovata. In un’epoca segnata dalla polarizzazione, dalla diffusione di fake news, dall’acerrimo odio per il nemico politico e da un crescente discredito verso la competenza e la conoscenza, la difesa del pensiero critico come cardine dell’educazione è un’urgenza civile. Non basta parlare di libertà: bisogna praticarla, e l’unico modo per farlo è rendere le persone capaci di capire, valutare, decidere con consapevolezza.
Una scuola che si limita a “non offendere” o a “non esporsi” per paura di reazioni o censure non è neutrale: è complice di una rinuncia educativa. La neutralità, in contesti di conflitto culturale o politico, spesso si traduce in accettazione silenziosa dello status quo. Al contrario, una scuola viva è una scuola che stimola il dubbio, che accoglie la complessità, che insegna a riconoscere la differenza tra libertà e permissivismo, tra rispetto e passività.
Educare al pensiero critico, quindi, è il più grande investimento che una società possa fare su sé stessa. Significa formare persone che non si accontentano di slogan, che non si lasciano guidare solo dalle emozioni o dal gruppo, ma che cercano, ragionano, scelgono. Solo così è possibile mantenere viva una democrazia: affidandosi non a una massa obbediente, ma a cittadini capaci di pensare.

 

 

 

 

L’odio per l’avversario politico non è militanza:
è fallimento culturale

 

 

#25aprile

 

 

L’odio per l’avversario politico è una scorciatoia. È il riflesso automatico di chi ha smesso di pensare. Trasforma la politica, che dovrebbe essere uno spazio di confronto tra visioni del mondo, in un’arena primitiva, dove l’obiettivo non è convincere ma distruggere. Non si cercano soluzioni, si cercano colpevoli. Non si argomenta, si sputa veleno. Questo atteggiamento non è nuovo, ma oggi si è radicalizzato e normalizzato. Sui social, nei talk show, nelle piazze digitali e fisiche, si è diffusa l’idea per cui l’avversario politico non è solo qualcuno con cui si è in disaccordo: è un’ossessione da combattere, una minaccia da annientare. Ed è proprio qui che si consuma il fallimento culturale. Perché una democrazia in salute ha bisogno del dissenso, del confronto civile, della pluralità di idee. Senza di essi, resta solo l’eco vuota del tifo.
L’odio politico, in fondo, è un sintomo. È il segnale che non si riesce più a distinguere tra identità personale e opinione politica. Si prende ogni critica come un attacco personale e si reagisce con la rabbia di chi difende se stesso, non un’idea. Questo meccanismo lo aveva già intuito Hannah Arendt, quando parlava della “banalità del male”: non servono mostri per generare violenza, bastano individui che rinunciano a pensare. E chi odia l’avversario, spesso, non pensa: si limita a ripetere slogan, a cliccare “condividi”, a nutrire una rabbia e una frustrazione impersonali e sterili.
Nietzsche, da parte sua, aveva colto un altro aspetto chiave: “Chi combatte i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro”. Quando l’odio diventa il motore della propria militanza, si perde di vista la ragione per cui si è iniziato. Si diventa ciò che si dice di combattere. E non si costruisce più nulla: si vive solo per distruggere.

In questo clima, anche il linguaggio si degrada. La complessità viene semplificata, la realtà ridotta a meme, i concetti appiattiti in etichette: “fascista”, “razzista”, “omofobo”, “servo”, “analfabeta funzionale”. Parole usate non per descrivere ma per zittire. È un linguaggio di guerra, non di dialogo. Karl Popper ci avvertiva: “la tolleranza illimitata verso l’intolleranza può distruggere la tolleranza stessa”. Oggi si fa l’opposto: si pratica l’intolleranza totale verso qualsiasi forma di pensiero dissenziente dal proprio, sovente in nome di una presunta, ma in realtà inesistente, superiorità morale e intellettuale.
L’odio politico, poi, è pigro. Non richiede studio, approfondimento, comprensione. È immediato, impulsivo, facile da condividere. Questa pigrizia è pericolosa, perché deforma la realtà. Trasforma avversari in nemici, errori in crimini, critiche in tradimenti. E, soprattutto, impedisce ogni possibilità di dialogo. Perché chi odia non ascolta, non riflette, non cambia.
C’è una responsabilità collettiva in tutto questo. Dei media, che spesso alimentano il conflitto per fare audience. Dei politici, che preferiscono la guerra culturale alla buona amministrazione. Ma anche, e soprattutto, dei cittadini, che rinunciano alla complessità in cambio della sicurezza delle certezze assolute.
Eppure, proprio oggi, serve il coraggio di fare il contrario: ascoltare l’avversario. Provare a capire, senza dover essere d’accordo. Difendere il dissenso come risorsa, non come minaccia. Perché l’unico modo per salvare la politica dall’odio è ridarle dignità. E la dignità si fonda su una semplice verità: chi la pensa diversamente non è il nemico. È parte della stessa comunità.

Se gli odiatori ossessionati e seriali non capiscono questo, abbiamo già perso. Tutti!

Specialmente a loro, dunque, auguro di comprendere, finalmente, il vero senso di questa giornata celebrativa!

 

 

 

 

 

History of Medieval Church


Part XII


Monastic Reforms and New Orders

 

 

 

 

Monasteries: from the Mixed Rule to the Rule of St. Benedict

During the Carolingian period, monasteries experienced two phases: the phase of the mixed rule, which was a combination of Western monastic rules—including the widely followed rules of the Irish-Scottish and Benedictine monks—and the phase of unification under the Benedictine Rule, guided by the work of St. Benedict of Aniane (France). Until the 8th century, around thirty different rules circulated, and each monastery had its own tradition. St. Boniface (Winfrid) attempted to unify monasteries under the single Benedictine Rule but was unsuccessful. However, the new emperor Charlemagne succeeded in this endeavor, viewing monastic unification as a guarantee of unity for the empire and thus imposing the rule on all monasteries. Alongside monasteries, prayer fraternities also emerged from the 8th century onwards. These were associations among monks or monasteries, established both for mutual support and for commemorating members and benefactors—both living and deceased. Under the reign of Louis the Pious, Charlemagne’s son, St. Benedict of Aniane continued the reform initiated by the unification of monasteries under the Benedictine Rule. He applied this rule to the 25 monasteries he founded, creating a system of aggregation that later became the foundation for Cluniac monasticism. This system led to the establishment of 2,000 convents across Europe, all centralized under the mother house of Cluny and under papal direction. St. Benedict of Aniane also compiled two works, Codex Regularum and Concordia Regularum, which provided a compendium of monastic rules up to that time. However, unifying monasticism under a single rule did not ensure the complete reform of monasteries. Since they were closely tied to the empire, they suffered the consequences of its decline.

Monastic Reform

The monastic reform that took place in Brogne (Belgium), affecting 11 monasteries and indirectly influencing England and Montecassino, was characterized by three key elements:

  • Independence of monasteries from bishops.
  • The presence of a regular abbot.
  • The adoption of the Rule of St. Benedict.

A particularly significant development was the rise and spread of the monastery of Cluny in southern France.

Cluny: History and Importance

After the Carolingian crisis, which also affected the Church due to its close ties with the empire, monastic reform movements emerged, leading to profound spiritual and cultural renewal throughout the West. These movements paved the way for the Gregorian Reform. Monasticism played a crucial role in embodying the Christian detachment from the world and guarding against secularization. It also served as a powerful call for renewal within a Church that had become deeply entangled in earthly affairs. In this way, monasticism acted as a prophetic voice within both the Church and Christendom. Unlike Eastern monasticism, which was focused on contemplation and mysticism, Western monasticism engaged with the broader concerns of Christendom. Among the many monastic reform movements of the 10th century, the Cluniac movement, centered in eastern-central France, was the most significant. In 910, Duke William the Pious founded a monastery in Cluny and placed it under papal authority, ensuring its full independence from bishops and local lords. Cluny was distinguished by the free election of its abbot, who held absolute authority, and by its extensive monastic network. As Cluny’s influence grew, its monastic model spread, leading to the foundation of 2,000 monasteries across Western Europe. The abbots of these monasteries were bound by oath to the abbot of Cluny, who exerted direct influence over their monastic life. Another defining aspect of Cluny was its emphasis on liturgy, which occupied much of the monks’ daily lives and was seen as a participation in the heavenly realm. Additionally, Cluny established monastic seminaries to train candidates for monastic life. Alongside Cluny, other reform movements contributed to the spiritual renewal of the Church and Western Christendom, particularly the reform of Brogne. The Cluniac reform also spread to Italy from 936 onward, leading to the establishment of various monastic centers, particularly in central and southern Italy. However, Italian monasticism developed distinct characteristics, including a revival of the eremitic ideal, a strong missionary enthusiasm, and a pursuit of martyrdom linked to missionary work.

The Canonical Reform

Alongside monasticism, the canonical life developed with its own distinct characteristics. This life was governed by specific rules, notably the Institutio Canonicorum or Rule of Aachen (816). The main duties established by this rule included:

  • Choral prayer.
  • A life centered on the claustrum, with shared dining and sleeping arrangements.

However, within the claustrum, canons were allowed to live in individual houses and own private property. This practice was opposed by the Synod of Aachen, which promoted an ideal of poverty, particularly in communities where chapters and monasteries coexisted. As monasteries underwent reform, chapters were also influenced by these changes. However, the reform of the chapters was short-lived because they lacked a crucial element present in monasteries: the abbot.

The Charismatic Movement: a Return to the Primitive Church

The spiritual renewal that affected monks and canons also influenced laypeople. Many sought a new spirituality based on a return to the ideals of the early Church, as described in the Acts of the Apostles: a Church that lived in community, shared its possessions, and embraced poverty and love. This ideal of poverty clashed with the reality of monasteries, which, despite requiring individual monks to live in poverty, were themselves wealthy. In contrast, those following the evangelical movement renounced material possessions entirely and withdrew to the wilderness for contemplation. This spiritual climate led some secular canons to separate from their communities and adopt a lifestyle of poverty similar to monasticism. This movement arose spontaneously and was rooted in charismatic leadership. It aligned closely with the Gregorian Reform, sharing its opposition to simony, clerical corruption, and wealth. However, because this movement lacked strong theological foundations, some members eventually deviated from Church doctrine, leading to spiritual excesses, particularly among itinerant preachers known as the Pauperes Christi. The close relationship between this movement and the general population inspired many laypeople to imitate the monastic life. Between the 8th and 10th centuries, they settled near monasteries, leading to the emergence of lay brothers or conversi, who in the 11th century joined monastic communities and lived a nearly identical lifestyle, including taking monastic vows.

Monastic Differentiation and New Orders: Carthusians and Cistercians

A period of great spiritual vitality (1059-1123) led to numerous new foundations, followed by a phase of stabilization and differentiation among monastic communities. Two key examples from this period were the Carthusians, who emphasized solitary monastic life, and the Cistercians, who stressed communal living. The Carthusian Order was founded by Bruno of Cologne (1032-1101), who, after conflicts with the Archbishop of Reims, withdrew with six companions to the wilderness of Chartreuse in 1084, establishing a hermitic way of life. The “Rules of Chartreuse” (1127) provided a legal framework that ensured the order’s longevity. The Cistercians, founded at Cîteaux in 1098, originated from Cluny but sought a stricter adherence to the Benedictine Rule, emphasizing a balance of manual labor, asceticism, silence, and solitude. Their legal framework, the Carta Caritatis, was written by their founder, Stephen Harding, and promoted charity and the salvation of souls. Unlike Cluny’s rigid centralization, Cistercian abbeys maintained mutual obligations, including annual visitations between mother and daughter houses. The order expanded rapidly across the West, with over 700 monasteries promoting a simple, austere architectural style later adopted by the Franciscans.

Female Monasticism

The spiritual fervor that gave rise to numerous movements inspired by the spirituality of the early Church, as described by Luke in the Acts of the Apostles, also involved many women. Under the influence of major monastic movements, these women lived and expressed their spirituality in ways that reflected their unique sensitivity, thereby enriching monastic life with new aspects and exclusively female institutions. In response to this growing enthusiasm, the Church sought to promote female monasticism, favoring enclosure and other observances that characterized male monasteries. However, nuns asserted their own distinct identity as women. At the time, there were no monastic rules specifically written for women—only adaptations of male monastic rules, which did not fully align with female spirituality. It was not until St. Clare that a monastic rule would be written by a woman, for women. Female monasteries included members from all social classes.

Regular Canons: the Premonstratensians

Reformed or regular monks based their lives not only on the fundamental rule of Acts 4:32 but also on the teachings of the Church Fathers. Among these, St. Augustine’s Rule of St. Augustine was particularly influential. This rule was divided into two parts:

  • The first, Ordo Monasterii or Regula Secunda, was shorter but much stricter.
  • The second, Regula Tertia or Ad Servos Dei, was more lenient and moderate.

In 1120, these two sets of rules were officially recognized, leading to a fundamental division among the regular canons:

  • The Ordo Novus, which followed the stricter Regula Secunda, sought to discredit the more lenient rule by claiming it had been written for women and was therefore unsuitable for canons.
  • The Ordo Antiquus, which adhered to the milder Regula Tertia.

This division led to conflicts and disputes between the two groups. Among them, the most widespread order was the Premonstratensians, founded in France by Norbert of Xanten, a canon and chaplain of Emperor Henry V. After withdrawing from court life, he established a canonical community with 40 clerics based on the Rule of St. Augustine. Initially contemplative, the Premonstratensians later shifted their focus toward pastoral care and preaching. At first, St. Norbert also welcomed women into the order under strict enclosure. However, over time, they were progressively excluded.

 

 

 

 

 

La lezione di Jorge da Burgos sul riso e sulla derisione
ai “politologi dell’odio”

 

 

 

 

Chi può dimenticare il monaco cieco Jorge da Burgos, il vero antagonista del romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco? Un personaggio mirabilmente costruito dal celeberrimo semiologo, a cominciare dall’omaggio, nel nome, allo scrittore argentino Jorge Luis Borges. Un personaggio che risulta essere odioso (i personaggi meglio riusciti sono quelli in grado di suscitare nel lettore forti sentimenti). Un personaggio che affascina, pur senza addentrarsi nelle sfaccettature con le quali è stato caratterizzato, per la singolare quanto lugubre concezione che ha del riso. Ecco come ce lo presenta l’Autore:

 

Jorge da Burgos, interpretato dall’attore Fëdor Fëdorovič Šaljapin
nel film del 1986 “Il nome della rosa”, diretto da Jean-Jacques Annaud

 

E fu mentre tutti ancora ridevano che udimmo alle nostre spalle una voce, solenne e severa.
“Verba vana aut risui apta non loqui”.
Ci voltammo. Chi aveva parlato era un monaco curvo per il peso degli anni, bianco come la neve, non dico solo il pelo, ma pure il viso, e le pupille. Mi avvidi che era cieco. La voce era ancora maestosa e le membra possenti anche se il corpo era rattrappito dal peso dell’età. Ci fissava come se ci vedesse, e sempre anche in seguito lo vidi muoversi e parlare come se possedesse ancora il bene della vista. Ma il tono della voce era invece di chi possieda solo il dono della profezia.
“L’uomo venerando d’età e sapienza che vedete”, disse Malachia a Guglielmo indicandogli il nuovo venuto, “è Jorge da Burgos. Più vecchio di chiunque viva nel monastero, salvo Alinardo da Grottaferrata, egli è colui a cui moltissimi tra i monaci affidano il carico dei loro peccati nel segreto della confessione”. Poi, volgendosi al vegliardo: “Quello che sta davanti a voi è frate Guglielmo da Baskerville, nostro ospite”.
“Spero che non vi siate adirato per le mie parole”, disse il vecchio in tono brusco. “Ho udito persone che ridevano su cose risibili e ho ricordato loro uno dei principi della nostra regola. E come dice il salmista, se il monaco si deve astenere dai discorsi buoni per il voto di silenzio, a quanto maggior ragione deve sottrarsi ai discorsi cattivi. E come ci sono discorsi cattivi ci sono immagini cattive. E sono quelle che mentono circa la forma della creazione e mostrano il mondo al contrario di ciò che deve essere, è sempre stato e sempre sarà nei secoli dei secoli sino alla consunzione dei tempi. Ma voi venite da altro ordine, dove mi dicono è vista con indulgenza anche la giocondità più inopportuna”.
 
E, ancora, sul riso:
 
Si parlava del riso”, disse seccamente Jorge. “Le commedie erano scritte dai pagani per muovere gli spettatori al riso, e male facevano. Gesù Nostro Signore non raccontò mai commedie né favole, ma solo limpide parabole che allegoricamente ci istruiscono su come guadagnarci il paradiso, e così sia”.
“Mi chiedo”, disse Guglielmo, “perché siate tanto contrario a pensare che Gesù abbia mai riso. Io credo che il riso sia una buona medicina, come i bagni, per curare gli umori e le altre affezioni del corpo, in particolare la melanconia”.
“I bagni sono cosa buona”, disse Jorge, “e lo stesso Aquinate li consiglia per rimuovere la tristezza, che può essere passione cattiva quando non si rivolga a un male che possa essere rimosso attraverso l’audacia. I bagni restituiscono l’equilibrio degli umori. Il riso squassa il corpo, deforma i lineamenti del viso, rende l’uomo simile alla scimmia”.
“Le scimmie non ridono, il riso è proprio dell’uomo, è segno della sua razionalità”, disse Guglielmo.
“È segno della razionalità umana anche la parola e con la parola si può bestemmiare Dio. Non tutto ciò che è proprio dell’uomo è necessariamente buono. Il riso è segno di stoltezza. Chi ride non crede in ciò di cui si ride, ma neppure lo odia. E dunque ridere del male significa non disporsi a combatterlo e ridere del bene significa disconoscere la forza per cui il bene è diffusivo di sé. Per questo la Regola dice: «decimus humilitatis gradus est si non sit facilis ac promptus in risu, quia scriptum est: stultus in risu exaltat vocem suam»”.
[…]
“Ma Ildeberto disse: «Admittendo tibi joca sunt post seria quaedam, sed tamen et dignis et ipsa gerenda modis.» E Giovanni di Salisbury ha autorizzato una modesta ilarità. E infine l’Ecclesiaste, di cui avete citato il passo a cui si riferisce la vostra Regola, dove si dice che il riso è proprio dello stolto, ammette almeno un riso silenzioso, dell’animo sereno”.
“L’animo è sereno solo quando contempla la verità e si diletta del bene compiuto, e della verità e del bene non si ride. Ecco perché Cristo non rideva. Il riso è fomite di dubbio.”
“Ma talora è giusto dubitare.”
“Non ne vedo la ragione. Quando si dubita occorre rivolgersi a un’autorità, alle parole di un padre o di un dottore, e cessa ogni ragione di dubbio. Mi sembrate imbevuto di dottrine discutibili, come quelle dei logici di Parigi. Ma san Bernardo seppe bene intervenire contro il castrato Abelardo che voleva sottomettere tutti i problemi al vaglio freddo e senza vita di una ragione non illuminata dalle scritture, pronunciando il suo è così e non è così. Certo colui che accetti queste idee pericolosissime può anche apprezzare il gioco dell’insipiente che ride di ciò di cui solo si deve sapere l’unica verità, che è già stata detta una volta per tutte. Così ridendo l’insipiente dice implicitamente «Deus non est»”.

 

Copertina de “Il nome della rosa”, Bompiani, 1980

 

Un personaggio, Jorge, che odia. Odia il riso e la derisione. Li odia perché li teme. Ma teme soprattutto la derisione di ciò di cui ha paura:

“Ma cosa ti ha spaventato in questo discorso sul riso? Non elimini il riso eliminando questo libro”. Chiese Guglielmo.
“No, certo”, rispose Jorge. “Il riso è la debolezza, la corruzione, l’insipidità della nostra carne. È il sollazzo per il contadino, la licenza per l’avvinazzato, anche la Chiesa nella sua saggezza ha concesso il momento della festa, del carnevale, della fiera, questa polluzione diurna che scarica gli umori e trattiene da altri desideri e da altre ambizioni… Ma così il riso rimane cosa vile, difesa per i semplici, mistero dissacrato per la plebe. Lo diceva anche l’apostolo, piuttosto di bruciare, sposatevi. Piuttosto di ribellarvi all’ordine voluto da Dio, ridete e dilettatevi delle vostre immonde parodie dell’ordine, alla fine del pasto, dopo che avete vuotato le brocche e i fiaschi. Eleggete il re degli stolti, perdetevi nella liturgia dell’asino e del maiale, giocate a rappresentare i vostri saturnali a testa in giù… Ma qui, qui…” ora Jorge batteva il dito sul tavolo, vicino al libro che Guglielmo teneva davanti”, qui si ribalta la funzione del riso, la si eleva ad arte, le si aprono le porte del mondo dei dotti, se ne fa oggetto di filosofia, e di perfida teologia… Tu hai visto ieri come i semplici possono concepire, e mettere in atto, le più torbide eresie, disconoscendo e le leggi di Dio e le leggi della natura. Ma la chiesa può sopportare l’eresia dei semplici, i quali si condannano da soli, rovinati dalla loro ignoranza. La incolta dissennatezza di Dolcino e dei suoi pari non porrà mai in crisi l’ordine divino. Predicherà violenza e morirà di violenza, non lascerà traccia, si consumerà così come si consuma il carnevale, e non importa se durante la festa si sarà prodotta in terra, e per breve tempo, l’epifania del mondo alla rovescia. Basta che il gesto non si trasformi in disegno, che questo volgare non trovi un latino che lo traduca. Il riso libera il villano dalla paura del diavolo, perché nella festa degli stolti anche il diavolo appare povero e stolto, dunque controllabile. Ma questo libro potrebbe insegnare che liberarsi della paura del diavolo è sapienza. Quando ride, mentre il vino gli gorgoglia in gola, il villano si sente padrone, perché ha capovolto i rapporti di signoria: ma questo libro potrebbe insegnare ai dotti gli artifici arguti, e da quel momento illustri, con cui legittimare il capovolgimento. Allora si trasformerebbe in operazione dell’intelletto quello che nel gesto irriflesso del villano è ancora e fortunatamente operazione del ventre. Che il riso sia proprio dell’uomo è segno del nostro limite di peccatori. Ma da questo libro quante menti corrotte come la tua trarrebbero l’estremo sillogismo, per cui il riso è il fine dell’uomo! Il riso distoglie, per alcuni istanti, il villano dalla paura. Ma la legge si impone attraverso la paura, il cui nome vero è timor di Dio. E da questo libro potrebbe partire la scintilla luciferina che appiccherebbe al mondo intero un nuovo incendio: e il riso si disegnerebbe come l’arte nuova, ignota persino a Prometeo, per annullare la paura. Al villano che ride, in quel momento, non importa di morire: ma poi, cessata la sua licenza, la liturgia gli impone di nuovo, secondo il disegno divino, la paura della morte. E da questo libro potrebbe nascere la nuova e distruttiva aspirazione a distruggere la morte attraverso l’affrancamento dalla paura. E cosa saremmo, noi creature peccatrici, senza la paura, forse il più provvido, e affettuoso dei doni divini? Per secoli i dottori e i padri hanno secreto profumate essenze di santo sapere per redimere, attraverso il pensiero di ciò che è alto, la miseria e la tentazione di ciò che è basso. E questo libro, giustificando come miracolosa medicina la commedia, e la satira e il mimo, che produrrebbero la purificazione dalle passioni attraverso la rappresentazione del difetto, del vizio, della debolezza, indurrebbe i falsi sapienti a tentar di redimere (con diabolico rovesciamento) l’alto attraverso l’accettazione del basso. Da questo libro deriverebbe il pensiero che l’uomo può volere sulla terra (come suggeriva il tuo Bacone a proposito della magìa naturale) l’abbondanza stessa del paese di Cuccagna. Ma è questo che non dobbiamo e non possiamo avere. Guarda i monacelli che si svergognano nella parodia buffonesca della Coena Cypriani. Quale diabolica trasfigurazione della sacra scrittura! Eppure nel farlo sanno che ciò è male. Ma il giorno che la parola del Filosofo giustificasse i giochi marginali della immaginazione entro si perderebbe ogni traccia. Il popolo di Dio si trasformerebbe in una assemblea di mostri eruttati dagli abissi della terra incognita, e in quel momento la periferia della terra conosciuta diventerebbe il cuore dell’impero cristiano, gli arimaspi sul trono di Pietro, i blemmi nei monasteri, i nani dal ventre grosso e dalla testa immensa a guardia della biblioteca! I servi a dettare la legge, noi (ma anche tu, allora) a ubbidire alla vacanza di ogni legge. Disse un filosofo greco (che il tuo Aristotele qui cita, complice e immonda auctoritas) che si deve smantellare la serietà degli avversari con il riso, e il riso avversare con la serietà. La prudenza dei nostri padri ha fatto la sua scelta: se il riso è il diletto della plebe, la licenza della plebe venga tenuta a freno e umiliata, e intimorita con la severità. E la plebe non ha armi per affinare il suo riso sino a farlo diventare strumento contro la serietà dei pastori che devono condurla alla vita eterna e sottrarla alle seduzioni del ventre, delle pudenda, del cibo, dei suoi sordidi desideri. Ma se qualcuno un giorno, agitando le parole del Filosofo, e quindi parlando da filosofo, portasse l’arte del riso a condizione di arma sottile, se alla retorica della convinzione si sostituisse la retorica dell’irrisione, se alla topica della paziente e salvifica costruzione delle immagini della redenzione si sostituisse la topica dell’impaziente decostruzione e dello stravolgimento di tutte le immagini più sante e venerabili – oh quel giorno anche tu e tutta la tua sapienza, Guglielmo, ne sareste travolti!”.

Le periodiche riflessioni che compio confrontandomi col capolavoro di Umberto Eco mi hanno indotto a scovare paralleli (certamente assenti nelle intenzioni dell’Autore) tra Jorge da Burgos, l’odio, la derisione e i “politologi dell’odio”, espressione, quest’ultima, con la quale definisco quei sostenitori di qualsiasi parte politica, che siano giornalisti, opinionisti o semplici cittadini, capaci soltanto di manifestare odio verso “quelli dell’altra parte”, meramente perché si trovano dall’altra parte, e di deriderli.
La lezione di Jorge da Burgos sul riso e sulla derisione, come atteggiamento e pratica di chi odia gli avversari politici, è la seguente: deridere con odio un leader politico avversario è dannoso, perché la derisione lo rende meno “pauroso” agli occhi dei suoi possibili sostenitori (“Il riso libera il villano dalla paura del diavolo, perché nella festa degli stolti anche il diavolo appare povero e stolto, dunque controllabile”). Ridicolizzare un esponente politico, parlandone spasmodicamente in termini sarcastici e dileggiatori, da un lato, irrita i suoi sostenitori, i quali, controbattendo, sviliscono il dibattito con argomentazioni solitamente di pari grado, e, dall’altro, lo riportano a una dimensione comune, da uomo comune, che lo rende suscettibile di instillare “simpatia”, aumentandone inevitabilmente il consenso. Per cui, se si vuole arrecare danno a un leader politico avversario e ridurne il consenso bisogna parlarne il meno possibile, laddove oggi, specialmente sui social network, è un vomitare continuo di odio, dileggio e derisione contro gli esponenti politici avversari. Poi, è facile giustificarne l’ascesa al governo con l’analfabetismo funzionale degli elettori che lo votano. È troppo facile, perbacco!

 

Umberto Eco (1932-2016)

 

 

 

 

 

 

L’utopia realizzabile

La visione politica di James Harrington
in La Repubblica di Oceana

 

 

 

 

James Harrington, filosofo e teorico politico inglese, scrisse La Repubblica di Oceana nel 1656, in un periodo storico segnato da profondi cambiamenti politici e sociali in Inghilterra. L’opera fu pubblicata durante il Commonwealth di Oliver Cromwell, successivo alla Guerra civile inglese (1642-1651) e alla decapitazione del re Carlo I nel 1649. In un’epoca in cui il vecchio ordine monarchico veniva messo in discussione e le idee repubblicane iniziavano a guadagnare terreno, Harrington propose un modello di governo che si poneva quale alternativa sia al dispotismo monarchico sia ai rischi di instabilità associati alla democrazia diretta. La Repubblica di Oceana rappresenta, quindi, una risposta politica e intellettuale ai problemi del suo tempo, fornendo la visione di una società razionale, equilibrata e stabile.
Il contesto culturale e politico del Seicento inglese fu caratterizzato da una crescente riflessione sulla sovranità, sulla proprietà e sulla partecipazione politica. La rivoluzione puritana e la successiva instaurazione del Commonwealth avevano sollevato interrogativi fondamentali sull’organizzazione del potere e sul ruolo delle istituzioni. Harrington, influenzato dai classici greci e romani, nonché dalle opere di Machiavelli, si fece portavoce di un’idea di governo basata su princìpi razionali e sulla virtù civica. La sua opera si distingue per l’intento pratico: non si limita a immaginare una società ideale, ma si propone di offrire soluzioni concrete e applicabili al contesto inglese del suo tempo.
Il cuore della riflessione di Harrington risiede nella connessione tra proprietà terriera e potere politico. Secondo il filosofo, il controllo della terra determina inevitabilmente l’equilibrio delle forze politiche in una società. La concentrazione delle proprietà in poche mani conduce a governi oligarchici o tirannici, mentre una distribuzione più equa della terra garantisce stabilità e partecipazione democratica. Harrington propone, quindi, una redistribuzione della proprietà fondiaria come fondamento di una società giusta e di un governo repubblicano. Questo approccio evidenzia l’importanza delle strutture economiche come base per l’organizzazione politica, anticipando tematiche che sarebbero poi emerse con forza nel pensiero politico moderno.

Un altro elemento centrale di La Repubblica di Oceana è la sua struttura istituzionale, che riflette un modello di governo misto. Harrington immagina una repubblica in cui il potere sia distribuito tra diverse istituzioni, ognuna delle quali rappresenta un principio politico distinto. Il Senato rappresenta l’aristocrazia e si occupa della deliberazione e della formulazione delle leggi, mentre l’assemblea popolare, espressione della democrazia, approva le decisioni legislative. A questi due organi si aggiunge un esecutivo, incaricato di applicare le leggi e garantire l’equilibrio tra le parti. Questo sistema misto si ispira alla costituzione dell’antica Roma e alle riflessioni di Polibio sulla combinazione di monarchia, aristocrazia e democrazia, adattandole al contesto moderno di Harrington. Per prevenire la corruzione e il consolidamento del potere, Harrington introduce l’idea della rotazione degli incarichi pubblici attraverso meccanismi di sorteggio ed elezione, una proposta che mira a garantire la partecipazione diffusa e a evitare che una classe politica si trasformi in una casta privilegiata.
L’etica politica di Harrington ruota intorno al concetto di virtù civica, considerata il fondamento di una società stabile e giusta. In Oceana, i cittadini sono attivamente coinvolti nella vita politica e mettono il bene comune al di sopra degli interessi personali. La partecipazione attiva e consapevole alla res publica è il principio cardine su cui si basa la stabilità della repubblica. Harrington ritiene che una società virtuosa possa essere costruita solo attraverso un’educazione politica e una distribuzione equa delle risorse, che impediscano la formazione di disuguaglianze eccessive.
Sul piano delle influenze e dei confronti, La Repubblica di Oceana si colloca nel filone delle utopie politiche del Seicento, ma si distingue per la sua attenzione alle implicazioni pratiche delle teorie proposte. Rispetto a opere precedenti, come La Città del Sole di Tommaso Campanella, pubblicata nel 1602, l’approccio di Harrington è meno idealistico e più orientato a rispondere alle esigenze concrete del suo tempo. Campanella immagina una società teocratica e proto-comunista, in cui la proprietà privata è abolita e il governo è affidato ai sapienti, secondo una visione influenzata dal neoplatonismo e dalla religiosità. Harrington, invece, considera la proprietà come una componente essenziale dell’ordine politico e si concentra su una redistribuzione equa piuttosto che sulla sua eliminazione.
Un altro confronto significativo è con Nuova Atlantide di Francis Bacon, pubblicata postuma nel 1626. Bacon descrive una società ideale basata sul progresso scientifico e tecnologico, in cui l’organizzazione politica è subordinata alla ricerca del sapere e al benessere collettivo derivante dall’innovazione. Sebbene Harrington condivida l’idea di una società razionale, la sua attenzione si rivolge principalmente agli aspetti istituzionali e alla gestione del potere, piuttosto che alla scienza o alla tecnologia.
Infine, un paragone interessante può essere fatto con Utopia di Thomas More, pubblicata nel 1516, che, pur appartenendo a un contesto storico e culturale diverso, condivide con Oceana il desiderio di riformare la società attraverso un modello ideale. Tuttavia, mentre l’opera di More si presenta come una narrazione satirica che solleva interrogativi senza offrire soluzioni applicabili, Harrington costruisce un sistema politico dettagliato e concretamente realizzabile.
L’eredità de La Repubblica di Oceana è significativa, in quanto anticipa molte delle idee che sarebbero state sviluppate nel pensiero politico moderno. Harrington influenzò teorici come John Locke e Montesquieu, i quali ripresero i suoi concetti di separazione dei poteri e di equilibrio politico. L’opera ispirò anche i Padri Fondatori degli Stati Uniti, che ne trassero spunti per la redazione della Costituzione americana. In definitiva, La Repubblica di Oceana costituisce un punto di incontro tra utopia e realismo politico, una visione ambiziosa di una società giusta e stabile che riflette le tensioni e le speranze del Seicento inglese, ma che continua a offrire spunti di riflessione anche nella contemporaneità.

 

 

 

 

Il barbaro nel mondo greco

Tra identità culturale e pregiudizio ideologico

 

 

 

 

Il termine barbaro ha un’origine etimologica profondamente radicata nella percezione che i greci avevano del mondo esterno. Derivato dall’onomatopea “bar-bar”, imitava il suono che i greci attribuivano a chi parlava lingue incomprensibili o sconnesse rispetto alla loro. Questo uso originariamente descrittivo si trasformò in uno strumento culturale e politico per distinguere tra il “noi” e il “loro”. Parlare greco correttamente, o meglio ancora padroneggiarne le sfumature colte, significava essere parte della civiltà; non farlo equivaleva a essere esclusi da essa.
Questo pregiudizio linguistico era intrinsecamente legato al concetto di cultura e identità, ponendo i greci al centro di un universo ideale. Persino popoli di grande raffinatezza culturale, come i Persiani, venivano inclusi nella categoria dei barbari, nonostante fossero portatori di una tradizione ricca e consolidata. L’idea di barbaro, quindi, non era semplicemente una questione di lingua o di capacità comunicativa, ma uno strumento di categorizzazione culturale che implicava giudizi di valore e gerarchie di civiltà.
Nel mondo greco, il concetto di barbaro era fluido e multifattoriale, adattandosi ai bisogni ideologici e politici del tempo. Da una parte, serviva a consolidare l’identità collettiva dei greci, definendo il loro sistema di valori e il loro modello di convivenza sociale. Dall’altra, rappresentava uno specchio delle loro paure e aspirazioni nei confronti di popoli stranieri. La distinzione fondamentale non era tanto basata su un’oggettiva arretratezza delle altre civiltà, quanto sulla contrapposizione simbolica tra polis greca e il mondo esterno.
La polis, con il suo sistema di partecipazione politica, l’uguaglianza tra cittadini e la centralità delle leggi, incarnava il modello ideale di organizzazione civile. In contrapposizione, le società definite “barbare” venivano spesso descritte come dominate dal dispotismo e caratterizzate dalla subordinazione degli individui a un sovrano assoluto. Questa visione stereotipata non teneva conto della complessità dei sistemi sociali stranieri, ma serviva a giustificare la percezione di superiorità greca.
Tuttavia, è importante sottolineare che questa dicotomia non era immutabile. Nel corso dei secoli, l’interazione con altre culture portò a una maggiore consapevolezza della ricchezza culturale straniera. Le guerre persiane, ad esempio, furono un momento cruciale: pur essendo un confronto violento e ideologicamente polarizzato, permisero ai greci di osservare da vicino la complessità e l’organizzazione dei loro avversari.
In questo panorama dominato da pregiudizi e contrapposizioni, alcune figure emersero come punti di riferimento per un’analisi più equilibrata. Erodoto, considerato il padre della storiografia, è uno degli esempi più emblematici. Nelle sue Storie, non si limitò a descrivere i conflitti tra greci e barbari, ma trattò con curiosità e ammirazione le tradizioni, i costumi e le istituzioni di popoli come Egiziani, Persiani e Lidi.

Pur rimanendo ancorato a una prospettiva greco-centrica, Erodoto riconobbe l’importanza dei contributi culturali e scientifici del Vicino Oriente. Egli osservò, ad esempio, che molte delle conoscenze greche in ambito matematico, astronomico e medico derivassero dall’Egitto e dalla Mesopotamia. Questa visione, sebbene non completamente priva di giudizi di valore, introdusse una sfumatura di apertura e rispetto per l’altro, che contrastava con l’immagine stereotipata del barbaro come rozzo e inferiore.
Se Erodoto cercava un punto di equilibrio tra curiosità e pregiudizio, Aristotele contemplò un approccio diametralmente opposto, consolidando una visione fortemente gerarchica delle relazioni tra greci e barbari. Nel suo trattato Politica, Aristotele sviluppò una teoria che attribuiva una differenza biologica e naturale tra questi due gruppi. I barbari, secondo lui, erano “schiavi per natura” (physei douloi), incapaci di esercitare il controllo sulla propria vita e dunque destinati a essere governati da altri.
Questa concezione non era solo una giustificazione della superiorità greca, ma una base teorica per la legittimazione di rapporti di subordinazione politica, economica e sociale. Aristotele elevava la polis greca a modello ideale, suggerendo che essa rappresentasse l’apice della civiltà e che i popoli barbari, incapaci di creare istituzioni simili, fossero intrinsecamente inferiori. Questa idea trovò terreno fertile nella società greca, contribuendo a radicare stereotipi che avrebbero influenzato il pensiero occidentale per secoli.
L’idea di barbaro non può essere compresa senza analizzare il suo ruolo nel definire l’identità greca. Per i greci, il barbaro rappresentava l’opposto del cittadino: era l’altro, il diverso, colui che metteva in evidenza, per contrasto, i valori e i meriti della cultura greca. Questo dualismo, tuttavia, non era privo di ambiguità. Da un lato, il barbaro era considerato inferiore e minaccioso; dall’altro, il suo stesso esistere stimolava i greci a riflettere su se stessi e sul significato della loro civiltà.
La percezione dei barbari si trasformò ulteriormente con l’espansione dell’Impero macedone e, successivamente, con l’Ellenismo, quando le culture greca e orientale entrarono in una fase di intensa contaminazione reciproca. Durante questo periodo, l’idea di superiorità greca fu parzialmente mitigata dalla consapevolezza della complessità e della ricchezza delle civiltà orientali.
L’evoluzione del concetto di barbaro nel mondo greco ci rivela molto non solo sul rapporto tra i greci e gli altri popoli, ma anche sulla loro stessa visione del mondo e della civiltà. Il barbaro era un simbolo, una costruzione ideologica che rifletteva le ansie, i pregiudizi e le aspirazioni di una cultura in continua ricerca di definizione. Oggi, l’analisi storica di questo concetto ci invita a riflettere su come le categorie di “noi” e “loro” continuino a plasmare il nostro modo di vedere il mondo.

 

 

 

 

L’amore in Spinoza

La forza che unisce individuo, natura e divino

 

 

 

 

L’amore, secondo Spinoza, è un affetto che si radica profondamente nella nostra capacità di comprendere e interagire con il mondo. Nel suo capolavoro, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico (1677), lo definisce come «gioia concomitante con l’idea di una causa esterna». Spinoza, quindi, colloca l’amore tra gli affetti, quelle modificazioni della mente che aumentano la nostra potenza di agire. L’amore non è un semplice sentimento individuale, ma un’esperienza relazionale che ci rende più vivi, più attivi e più immersi nella realtà. Esso si manifesta come un movimento verso l’alterità, guidato dal desiderio, che il filosofo concepisce come una tensione naturale verso ciò che ci completa e ci arricchisce.
Nell’Etica, Spinoza attribuisce all’amore una dimensione virtuosa, fondata sulla comprensione profonda degli altri e della realtà divina. Egli distingue tra vari tipi di amore, a seconda del livello di comprensione coinvolto. Alla base dell’amore vi è la volontà, intesa non come arbitrio individuale, ma come una forza creativa che esprime la nostra essenza. Nella Parte III dell’Etica, Spinoza spiega che il nostro conatus, lo sforzo intrinseco di ogni essere di perseverare nel proprio essere, genera gli affetti, tra cui l’amore. La volontà, quindi, non è un’entità separata, ma il principio dinamico che ci spinge a costruire relazioni autentiche con gli altri e con il mondo.
La comprensione degli altri è centrale nell’amore spinoziano. Gli esseri umani, essendo parte di un unico ordine naturale, possono comprendere e amare gli altri riconoscendoli come espressioni della stessa sostanza divina. Questo amore, quindi, non è solo un atto di connessione individuale, ma un riconoscimento della nostra interconnessione universale.

Un aspetto fondamentale del pensiero di Spinoza è il legame tra amore e socialità. Nella Parte IV dell’Etica, il filosofo afferma che il bene supremo degli esseri umani risiede nella capacità di vivere in armonia con gli altri. L’amore diventa, quindi, il principio sostanziale per la costruzione di relazioni sociali positive. Spinoza scrive che «il bene supremo degli uomini consiste nel fatto che essi possano vivere in concordia e che uniti formino, per così dire, un’unica mente e un unico corpo».
L’amore, quindi, non è un sentimento egoistico o possessivo, ma una forza che promuove il bene comune, rafforzando i legami tra gli individui. Le relazioni sociali si sviluppano in base agli affetti e l’amore rappresenta l’apice di questa dinamica. È un principio che consente agli esseri umani di esercitare la loro socialità in modo armonico e virtuoso, costruendo una società basata sulla comprensione e sulla collaborazione.
Per Spinoza, non esiste una gerarchia tra le diverse forme di amore. Questo principio si basa sulla sua concezione monistica, secondo cui tutto ciò che esiste è espressione di una sostanza unica, Dio. Ogni forma di amore è una manifestazione di questa sostanza e non può essere valutata in termini di superiorità o inferiorità.
L’amore per un individuo, l’amore per la natura e l’amore per Dio sono tutte espressioni di una stessa forza vitale che permea l’universo. Questa prospettiva elimina la separazione tra amore terreno e amore spirituale, riconoscendo l’unità fondamentale di tutte le cose. Come afferma nella Parte V dell’Etica, la vera beatitudine consiste nella conoscenza e nell’amore di questa unità, che ci libera dalle passioni e ci permette di vivere in armonia con l’ordine eterno della natura.
L’amore, pertanto, non è un ideale astratto o un fine da raggiungere, ma una virtù inalienabile che si realizza nella relazione con gli altri e con il mondo. È una forza che ci spinge a comprendere gli altri, a costruire legami autentici e a riconoscere la nostra appartenenza a una realtà infinita. La forma più alta è l’amor Dei intellectualis (amore intellettuale di Dio), che rappresenta la massima espressione di amore. Questo amore non è una passione mutevole, ma una conoscenza adeguata della sostanza unica, Dio, che Spinoza identifica con la Natura (Deus sive Natura). Amare Dio, quindi, significa riconoscere l’ordine eterno e necessario della realtà e vivere in accordo con esso. Tale amore intellettuale non è un’esperienza mistica o trascendente, ma una forma di comprensione razionale e profonda che ci lega alla natura e agli altri esseri umani. In questa prospettiva, amare Dio equivale a comprendere la perfezione e l’unità della natura, accettando la nostra partecipazione a un ordine universale.
Amare, per Spinoza, significa vivere pienamente la nostra natura, riconoscendo l’unità di tutto ciò che esiste. L’amore è al tempo stesso una forza sociale e un principio conoscitivo, che ci guida verso una libertà autentica, fondata sulla comprensione razionale e sull’armonia con il tutto. Nell’amore si riflette l’essenza stessa dell’etica spinoziana: la ricerca della libertà attraverso la comprensione e l’unità con il mondo.

 

 

 

 

La metamorfosi del reale

Implicazioni etiche e filosofiche sul potere del digitale
e dell’Intelligenza Artificiale
nel rimodellare l’essenza dell’esistenza

 

 

 

 

L’idea che il digitale e l’Intelligenza Artificiale – come ho evidenziato in un articolo precedente (leggi) – stiano trasformando l’essenza stessa della realtà, oltre che la nostra capacità di comprenderla, solleva una serie di questioni etiche e filosofiche di enorme portata. Non si tratta solo dell’uso di nuove tecnologie, ma di una ridefinizione della stessa ontologia del mondo: il modo in cui il reale viene esperito, creato e controllato. Le implicazioni etiche e filosofiche riguardano la nostra comprensione del potere, della responsabilità, della verità e dell’autenticità.
Uno dei primi problemi che emergono riguarda la natura stessa della verità. Se il digitale è in grado di creare mondi e realtà alternative, come possiamo distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è? La proliferazione di deepfake, modelli digitali e simulazioni sofisticate porta a una crisi del concetto di verità. In un mondo in cui l’Intelligenza Artificiale può generare immagini, testi e persino video credibili e difficilmente distinguibili da quelli reali, la linea di demarcazione tra verità e menzogna diventa sempre più sottile.
Questa crisi ha ripercussioni importanti su diverse sfere della nostra vita sociale. Ad esempio, nel contesto politico, la manipolazione della realtà può avere un impatto devastante. Le campagne di disinformazione basate su contenuti digitali falsi, ma convincenti, possono influenzare l’opinione pubblica e destabilizzare le democrazie. Allo stesso tempo, sul piano individuale, la possibilità di vivere in una realtà simulata solleva interrogativi sul significato dell’autenticità e della fiducia nelle nostre percezioni.
Un’altra questione di rilievo è la responsabilità morale degli agenti artificiali. L’AI, soprattutto quando è in grado di prendere decisioni autonomamente, introduce un nuovo soggetto morale nella scena etica. Se un algoritmo compie una scelta che ha conseguenze negative – ad esempio, in ambito sanitario, giudiziario o economico – chi ne è responsabile? Si tratta di una questione complessa, poiché gli algoritmi non sono dotati di coscienza o intenzionalità come gli esseri umani, seppure, allo stesso tempo, le loro decisioni influenzano profondamente la realtà.
Il problema della responsabilità diventa ancora più pressante quando parliamo di sistemi di IA che si auto-apprendono. Questi sistemi non sono limitati a eseguire compiti pre-programmati, ma imparano e modificano il loro comportamento in base ai dati che raccolgono. In tali contesti, non è più facile risalire a un’unica persona o ente responsabile. La responsabilità si diffonde tra chi ha progettato l’algoritmo, chi lo ha addestrato, chi lo ha utilizzato e lo stesso sistema, che opera in modo semi-autonomo.
L’accesso e il controllo delle tecnologie digitali e dell’Intelligenza Artificiale sollevano questioni di giustizia e potere. Chi detiene il potere di plasmare la realtà attraverso questi strumenti? Il controllo delle piattaforme digitali, dei dati e degli algoritmi è oggi nelle mani di poche grandi multinazionali. Questo crea una concentrazione di potere senza precedenti, poiché coloro che controllano la tecnologia hanno anche la capacità di modellare l’esperienza della realtà di miliardi di persone.


Questa dinamica introduce una disuguaglianza strutturale tra chi possiede i mezzi per influenzare e creare la realtà e chi subisce tale influenza. Non tutti hanno accesso agli strumenti per comprendere o partecipare attivamente alla costruzione della realtà digitale, il che porta a nuove forme di alienazione. Si sta creando una divisione tra chi può “governare” il mondo digitale e chi ne è semplicemente un consumatore passivo.
L’AI e le tecnologie digitali mettono in crisi anche il concetto di identità personale e autenticità. Nella società digitale, la nostra identità non è più solo il risultato di un’esperienza di vita diretta, ma è modellata dalle nostre interazioni virtuali, dai dati che generiamo e dalla rappresentazione di noi stessi che costruiamo online. Se la nostra immagine digitale può essere manipolata, replicata o addirittura migliorata da tecnologie come la realtà aumentata o i deepfake, la domanda diventa: cosa significa essere autentici? La nostra identità rimane la stessa nel mondo digitale o diventa fluida, adattabile e malleabile? Inoltre, l’esistenza di avatar virtuali o repliche digitali di sé potrebbe condurre a una frammentazione dell’identità personale, dove una persona “esiste” simultaneamente in più forme e in più luoghi, in un modo che sfida la comprensione tradizionale dell’essere umano come entità unica e indivisibile.
Un ulteriore rischio legato all’AI la disumanizzazione. Se le tecnologie assumono un ruolo sempre più centrale nella nostra vita, potremmo iniziare a vedere il mondo attraverso una lente algoritmica. Questo non solo riduce la nostra esperienza a un insieme di dati, ma potrebbe portare a un allontanamento dagli aspetti più profondi dell’esperienza umana, come l’empatia, la creatività e la morale. In un mondo dove le decisioni importanti sono affidate a sistemi artificiali c’è il rischio di una progressiva perdita della nostra capacità di giudizio morale e di interazione autentica con gli altri.
Le IA, basate su processi statistici e algoritmici, possono mancare di comprensione delle sfumature etiche o emotive delle decisioni umane. Questo rischia di ridurre la complessità della vita umana a qualcosa di troppo semplificato, con gravi conseguenze per la società. In alcuni contesti, come il lavoro o la giustizia, si potrebbe vedere una riduzione delle persone a meri numeri, valutate non per il loro valore intrinseco, ma per ciò che i dati e gli algoritmi dicono di loro.
Le implicazioni etiche e filosofiche del cambiamento ontologico della realtà, causato dal digitale e dall’AI, sono profondamente complesse. La ridefinizione della realtà attraverso questi mezzi ci pone di fronte a dilemmi che riguardano non solo la verità e la giustizia, ma anche la nostra stessa comprensione dell’essere umano. La tecnologia non è più semplicemente uno strumento che usiamo: è diventata una forza attiva nel determinare cosa sia reale, chi siamo e come interagiamo con il mondo. Di fronte a questa rivoluzione, dobbiamo riflettere su come mantenere una dimensione autenticamente umana e morale all’interno di una realtà sempre più tecnologicamente mediata.