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L’Isagoge di Porfirio di Tiro

Il detonatore della filosofia medievale

 

 

 

 

 

L’Isagoge (in greco, Εἰσαγωγή, Introduzione) è un’opera fondamentale della tradizione filosofica occidentale. Redatta da Porfirio di Tiro intorno al 270 d.C., fornì le basi logiche per la formazione intellettuale di intere generazioni di pensatori e diventò il punto di partenza per uno dei dibattiti più accesi della filosofia medievale: il problema degli universali. Lontana dall’essere solo un compendio didattico, l’Isagoge è una sintesi di logica, metafisica e pedagogia, un testo essenziale per comprendere come l’eredità aristotelica fu recepita, filtrata e rilanciata nel mondo tardo-antico, bizantino, islamico e latino. Porfirio (ca. 234 – ca. 305 d.C.) fu uno dei principali discepoli di Plotino e contribuì in modo determinante alla sistematizzazione del neoplatonismo. A differenza del maestro, la cui filosofia era più mistica e speculativa, Porfirio mostrò un orientamento più analitico, organizzativo e scolastico.
Nell’Accademia neoplatonica studiare Aristotele era considerato un passaggio propedeutico per avvicinarsi a Platone. La logica aristotelica veniva letta non come fine a sé stessa ma come disciplina preliminare che affinava l’intelletto. L’Isagoge fu sviluppata come strumento introduttivo, una guida per chi si apprestava a leggere le Categorie di Aristotele ma finì per costruire un vocabolario concettuale fondamentale per tutta la filosofia occidentale.
Le Categorie sono un’opera che unisce ontologia e linguaggio. Aristotele si propose di classificare i modi dell’essere e quelli del dire, mostrando come si potesse predicare qualcosa di un soggetto secondo dieci categorie fondamentali: sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, posizione, stato, azione e passione. Al contrario, l’Isagoge non si occupa della classificazione dell’essere ma dei modi di predicazione. Porfirio lavora su un piano più formale e logico, fornendo strumenti utili per la definizione e l’analisi concettuale. Anche l’oggetto dell’analisi è diverso. Aristotele partì da ciò che esiste e lo organizzò in categorie ontologiche e grammaticali. Porfirio, invece, inizia da ciò che si dice di qualcosa, cercando di classificare i concetti piuttosto che le realtà. Questo rende l’Isagoge più astratta ma anche più funzionale come introduzione al pensiero logico. Il metodo seguito dai due autori è altrettanto distinto. Aristotele procedette osservando e classificando direttamente l’esperienza e il linguaggio. Porfirio, invece, adotta una struttura gerarchica e definitoria: introduce concetti generali come il genere, li restringe nella specie, li distingue attraverso la differenza, li caratterizza con il proprio e li arricchisce con l’accidente. La sua visione è più sistematica e analitica. Infine, anche gli esiti filosofici divergono. Le Categorie portarono verso il realismo aristotelico, fondato sull’idea della sostanza individuale come base dell’essere. L’Isagoge, invece, apre a una riflessione metalinguistica sui concetti e sulle definizioni, interpretabile sia in chiave realista (dove gli universali esistono), sia in chiave nominalista (dove gli universali sono solo nomi). L’Isagoge è strutturata come un trattato breve e schematico. Porfirio vi introduce e analizza i cinque predicabili – genere, specie, differenza, proprio e accidente – che rappresentano le modalità attraverso cui si possono predicare gli attributi di un soggetto. Genere (γένος) è il concetto più generale sotto il quale ricadono più specie. Ad esempio, “animale” è genere rispetto a “uomo” e “cavallo”. Il genere raccoglie in sé caratteristiche comuni e si colloca ai vertici della scala classificatoria. Specie (εἶδος) designa l’essenza di un individuo all’interno di un genere. “Uomo” è una specie del genere “animale”. La specie è più determinata del genere ed è il concetto attraverso cui si definisce l’essere proprio di una cosa. Differenza (διαφορά) è ciò che distingue una specie dalle altre all’interno dello stesso genere. Ad esempio, la “razionalità” distingue l’uomo dagli altri animali. La differenza è essenziale perché partecipa della definizione dell’essere. Proprio (ἴδιον) è una proprietà che appartiene solo a quella specie ma non la definisce. È una qualità che segue necessariamente dall’essenza, ma non la costituisce. Ad esempio: “ridere” è proprio dell’uomo ma non definisce ciò che l’uomo è. Accidente (συμβεβηκός) è ciò che può appartenere o non appartenere a un soggetto, senza intaccarne l’essenza. È contingente, come “essere calvo”, “essere bianco”, “essere seduto”. Con questi cinque concetti, Porfirio pose le basi per l’intera logica predicativa: ogni affermazione su un soggetto si muove in questo quadro.
La vera miccia filosofica dell’Isagoge si trova nell’introduzione, dove Porfirio afferma: “Non mi occuperò del problema dei generi e delle specie: vale a dire se questi siano sussistenti di per sé o se siano semplici concetti della nostra mente; e, nel caso siano sussistenti, se corporei o incorporei; e, per finire, se siano separati o se si trovino nelle cose sensibili, a queste inerenti”. Con questa dichiarazione, apparentemente cauta, introdusse implicitamente la questione degli universali: i concetti generali come “uomo”, “animale”, “triangolo” esistono indipendentemente dalle cose? Oppure sono solo nomi o astrazioni mentali?
Questa ambiguità fu raccolta dai pensatori medievali. Boezio, nel VI secolo tradusse l’Isagoge in latino e ne scrive due commenti, uno più elementare e uno più tecnico, che furono il punto di riferimento per ogni successivo approccio scolastico. In essi affrontò con grande rigore i cinque predicabili e, soprattutto, si confrontò con il problema degli universali, che Porfirio aveva lasciato in sospeso, ponendo la base per la discussione scolastica.
La questione degli universali si articolò in tre principali scuole: il realismo (Platone, Anselmo, Tommaso), per cui gli universali esistono realmente, prima e indipendentemente dalle cose; il nominalismo (Roscellino, Ockham), per cui gli universali sono solo nomi, parole utili ma prive di esistenza propria; il concettualismo (Abelardo), per cui gli universali esistono solo nella mente, come concetti che rappresentano elementi comuni tra individui. La portata dell’Isagoge, quindi, non è limitata alla logica: penetra la metafisica, la filosofia del linguaggio e perfino la teologia, perché tocca il problema dell’universalità di Dio, della natura delle essenze, dell’identità tra individuo e specie. Nei secoli successivi, l’Isagoge continuò a essere letta e commentata nei monasteri, nelle scuole cattedrali e, poi, nelle università. Non esiste praticamente nessun autore scolastico importante che non vi abbia fatto riferimento: la logica vetus, che comprendeva l’Isagoge, le Categorie e il De Interpretatione (questi ultimi due di Aristotele), era la base dell’educazione filosofica. Il testo di Porfirio era anche oggetto di questiones disputatae, esercizi tipici delle università medievali in cui gli studenti apprendevano come difendere o attaccare una tesi in pubblico. Le distinzioni di Porfirio venivano analizzate alla luce delle definizioni, delle conseguenze e delle relazioni tra i predicabili. Nel XIII secolo, con l’introduzione della logica nova (cioè le restanti opere logiche di Aristotele), l’Isagoge perse il suo ruolo di testo principale ma non il suo valore formativo. Rimase, infatti, parte del programma di studi di base e continuò a essere copiata e poi stampato nei secoli successivi, fino all’età moderna. L’Isagoge resta un esempio straordinario di come un’opera apparentemente introduttiva possa lasciare un’impronta profonda e duratura nella storia del pensiero. Nonostante la sua brevità, ha fornito le basi concettuali per una delle più lunghe e complesse dispute della filosofia occidentale. La sua chiarezza espositiva e la precisione concettuale hanno formato il linguaggio della logica per secoli. Più di ogni altro testo, dimostra che i concetti, se ben costruiti, hanno lunga vita: possono attraversare secoli, culture e religioni, adattarsi a nuovi contesti e continuare a interrogare il pensiero umano. E forse proprio in questo sta il segreto della sua durata: non dà risposte ma forma le domande.